Estratti di "Società e conflitto"

n. 1, 1997, 1998

 

Torna a

Estratti di "Società e conflitto"

 

EMERGENZA, DETENUTI DELLA LOTTA ARMATA,

SOLUZIONE POLITICA

 

 

1ª edizione gennaio 1997

2ª edizione allargata febbraio 1998

 

 

 

NOTA EDITORIALE

SOMMARIO

 

 

NOTA EDITORIALE

 

Raccogliamo articoli e interventi pubblicati su "Società e conflitto" sul tema dell’emergenza e della "soluzione politica" per i detenuti della lotta armata.

Si tratta di materiale che, in parte, risale alla prima metà degli anni ’80, allorché fu posta la questione della "soluzione politica" da quell’articolato movimento che, in vario modo, si richiamò alla "dissociazione politica dalla lotta armata".

Per il resto, rendiamo disponibili interventi elaborati a cavallo degli anni ’80 e ’90 e oltre; l’ultimo di essi è dell’agosto 1997.

Per avere una più precisa testimonianza dei percorsi e degli esiti politici e culturali di alcuni dei filoni del movimento della "dissociazione politica dalla lotta armata" e per condurre un’indagine più ravvicinata dello stringente nesso esistente tra autocritica della lotta armata e critica dei "modelli" e delle "pratiche" della democrazia italiana, questo numero degli Estratti di "Società e conflitto" va letto congiuntamente:

— al successivo numero 2;

— ai numeri 6, 7 e 8 dei Quaderni di "Società e conflitto"

 

 

SOMMARIO

 

SOLUZIONE POLITICA SIGNIFICA LIBERTÀ

di A. Chiocchi-G. Mattachini-C. Toffolo

 

EMERGENZA E SOLUZIONE POLITICA. ATTUALITÀ DI UNA VECCHIA QUESTIONE

di A. Chiocchi-G. Mattachini-C. Toffolo

 

LA LOTTA ARMATA

di Antonio Chiocchi

 

IL GIUDIZIO INGIUDICABILE: DEL PROGETTARE ACCUSATORIO

(In margine all'impianto istruttorio del processo "per insurrezione" contro le Br)

di A. Chiocchi-C. Toffolo

GLI ANNI '60 E '70 E I DETENUTI DELLA LOTTA ARMATA

di Antonio Chiocchi

 

ANCORA SU EMERGENZA E DINTORNI

di Antonio Chiocchi

 

SU INDULTO, LOTTA ARMATA E "PUNTI OSCURI"

di Antonio Chiocchi

 

 

 

^^^^^^^^^^^^^^^^^

SOLUZIONE POLITICA SIGNIFICA LIBERTÀ (1)

di A.Chiocchi-G.Mattachini-C.Toffolo

 

  La tesi che intendiamo discutere, da angolazioni e prospettive tra di loro articolate, è la seguente: non si dà fuoriuscita dall'emergenza, se non dando contemporaneamente soluzione politica al problema della "detenzione politica"; se non attraverso il recupero contestuale di una generazione incarcerata alla trama delle relazioni sociali e alle ragioni complesse della trasformazione.

Siamo nel bel mezzo di una radicale svolta storica, nel punto di passaggio da una forma di società ad un'altra: per esemplificare, da una società di produzione ad una di informazione e comunicazione, altamente differenziata, complessa ed evoluta. A fronte di ciò, ingiustificati e delegittimati ci paiono non solo i presupposti e i moduli di "rivolgimento sociale" a cui nel passato abbiamo lavorato, ma le stesse strategie e procedure di governo dei conflitti approntate da parte istituzionale in questo ultimo quindicennio e passa. In questo scenario, particolarmente stridenti ci paiono i modelli di governo della conflittualità sociale elaborati e dislocati dall'emergenza.

La mole di queste problematiche richiede a tutti i soggetti e le forze sociali, a tutti gli attori istituzionali e politici, a tutti i movimenti della trasformazione sociale e culturale una vera e propria "rivoluzione copernicana". Un intero modello di società, con i suoi schieramenti, i suoi quadri relazionali, le sue culture e i suoi conflitti, va deperendo, stretto nella morsa di un inarrestabile processo di dissoluzione. Stiamo assistendo all'incubazione di una nuova forma di società. Tanto più forte ci pare, allora, la necessità di rompere con l'armamentario della cultura e delle dinamiche emergenziali.

In questo contesto, restituire piena libertà a dinamiche politiche e culturali bloccate è un passaggio obbligato. Pena l'ipertrofizzarsi di una società in crisi e delle sue forme di governo in un involucro sclerotizzato, risucchiato all'indietro in un oscurantismo duro a morire. L'uscita da questa ipertrofia procede in parallelo con la profonda revisione dell'assetto giuridico-costituzionale. Restituire alla società dinamiche aperte e una generazione che si vuole tombare a mezzo del codice penale: ci pare, questo, un impegno non solo nostro, ma di tutti coloro che hanno a cuore uno sviluppo progressivo dell'evoluzione sociale. Da qui esce, ancora una volta, confermata l'indifferibilità della soluzione politica della detenzione politica.

Tutte le forze e le istituzioni che operano nel "sociale" non possono non fare i conti con la maturità di questa svolta. È nel passaggio dall'emergenza alle libertà che la stessa generazione incarcerata della lotta armata diviene agente di libertà. Soluzione politica contro l'emergenza e per il superamento dell'emergenza: per il ripristino delle libertà e dell'ulteriorità dei loro sentieri, dunque. Come parte essenziale di un più complesso ed ampio processo di mutamento sociale:

a) contro l'illusione, tipica delle forze retrive, della soluzione penalistica dei nuovi problemi e conflitti sociali;

b) contro la cancellazione e la ritrascrizione inquisitoria e demonizzante di un'intera epoca storica..

Abbiamo ben chiaro che soluzione politica è, al tempo stesso, intervento legislativo sanzionatorio che regola, disciplina e risolve la complessa materia della dissociazione politica dalla lotta armata. Ma siamo anche del parere che l'intervento legislativo di per sé non assicura la risoluzione adeguata del problema. Decisiva ci pare la funzione giocata dalla cultura politica e giuridica a cui l'intervento si ispira. Una cultura capace di riformulare tanto il codice politico, quanto di ridisegnare in prima approssimazione la mappa dei diritti, anche a mezzo di una prima e parziale riscrittura del sistema penale.

Per far uso di una categoria gramsciana, esiste un "blocco sociale" emergenziale che si configura come una sorta di nuovo "blocco d'ordine" che attraversa l'intero e composito ventaglio delle forze politiche e istituzionali e, in misura non minore, quelle sociali e culturali. È, questo, un vero e proprio "fronte della fermezza" che all'emergenza vuol far seguire ... l'emergenza; alla legislazione speciale ... la legislazione speciale; al pentitismo ... la dissociazione in versione pentitistica.

Anche in tema di soluzione politica si va consumando una sorda "lotta di potere". Non "prendendo partito" rispetto ad essa, non resterebbe altro che raccogliere il risultato dello scambio politico in via di maturazione tra le varie forze politiche ed istituzionali. Se scambio politico ha da essere — come deve esservi —, al suo interno deve raccogliere pure altri soggetti, altri temi, altre ragioni ed altre esigenze di libertà.

Necessita che sul terreno della dinamica dello scambio politico si collochi un terzo attore: i soggetti della trasformazione e tutto l'insieme delle forze non istituzionali e non politiche. L'entrata in scena di questo "ospite inatteso" garantisce la fluidificazione del sistema politico istituzionale, del sistema penale/carcere con ambienti e movimenti sociali.

Lo sbocco legislativo della soluzione politica deve contemplare come suo cardine la non punibilità dell'essersi associato in banda armata, a prescindere dalla collocazione e dai ruoli organizzativi. Diversamente legiferando, lo sbocco sarebbe non soltanto un controsenso logico, ma anche una mostruosità giuridica. In costanza di gravi reati, inoltre, deve valere la specifica previsione di un forte contenimento delle pene che renda praticabile a breve il riacquisto della libertà.

Il disegno complessivo deve prevedere ed "organizzare" una crescita vigorosa degli spazi di libertà.

 

Pensiamo a spazi locali di libertà (dentro e fuori il carcere; per la trasformazione e il superamento del carcere) che non abbiano un rapporto di estraneità con processi trasformativi globali, ma con essi stabiliscano una forte connessione di senso. Tanto più grava su tutti l'esigenza della "rivoluzione copernicana" di cui prima parlavamo.

Per quello che ci riguarda direttamente, non è possibile differire una critica radicale e un superamento positivo dei presupposti della "cultura della rivoluzione": dell'"essere" e del "fare" della rivoluzione, sotto tutte le latitudini e costellazioni teoriche fin qui date. Sino al punto da ritematizzare integralmente la "rivoluzione" come categoria ed esperienza storica, nelle attuali condizioni della complessità sociale.

È, parimenti, necessario riarticolare il rapporto mezzi/fini, oltre una dilemmatica semplificatrice bloccata intorno alla rideterminazione dei mezzi nell'invarianza dei fini. Dell'impresa rivoluzionaria vanno rivisitati esiti e contenuti della "razionalità rispetto allo scopo" e della "razionalità rispetto al valore".

Ciò deborda le nostre attuali capacità soggettive e non rientra nell'economia essenziale del nostro intervento.

Nondimeno, pur vincolati da questo doppio limite, prime cose dobbiamo cominciare a dire anche su questo terreno. Di ciò che non si sa ancora compiutamente parlare è doveroso cominciare a scrivere. Anzi: è bene scrivere. Problema, ricerca e soluzione, dall'inizio alla fine, coabitano nel medesimo "universo di partecipazione".

 

Riorganizzare gli eventi e le realtà vissute: ecco il punto. Conferire alla realtà e all'universo quel senso storico ed etico di libertà altrimenti inattingibile. E con questo partecipare al mondo. Dove partecipazione significa non solo differenziarsi dal mondo, ma introdurvi differenze. Il senso di ciò che sopraggiunge non è mai predeterminato o predeterminabile da questa o quella legge immutabile. Le differenze non vengono dopo, "a cose fatte" e dalle cose fatte; sussistono già prima.

La società comunista sgorgante e sboccante dalla lotta di classe è un mito, un universale che trasforma la storia in uno scontro tra belligeranti abbacinati da fedi contrarie.

Un universale è, del pari, l'ordine statuale che con la legislazione speciale si è fatto normalità emergenziale, normalità dell'emergenza che trasforma l'opposizione sociale nel nemico da estirpare dalla società con i mezzi e gli strumenti della guerra, talvolta aperta e sovente latente.

È tempo che ognuno fuoriesca e vada oltre il circolo dei propri universali.

A noi la nostra parte. Agli altri la loro.

Le immagini che della lotta di classe abbiamo ereditato, in un contesto metropolitano risultano sbiadite e parziali: delegittimate sul piano politico e su quello simbolico-culturale.

Egualmente delegittimata risulta l'impermeabilità delle istituzioni politiche ai temi e ai problemi che ambienti, sistemi e movimenti sociali autoriproducono.

Si tratta di superare e lasciarsi alle spalle tanto la teoria classica della rivoluzione che l'altrettanto classica separatezza delle istituzioni politiche dalla società.

Proprio a fronte della "crisi di legittimità" delle istituzioni prende corpo un singolare paradosso storico: a dimensione in cui si accresce la loro estraneità dal mutamento sociale e culturale, le istituzioni diventano sempre più invadenti, ostili, impermeabili, violente. Quanto meno sono recepite dalla società, tanto più la occupano con una logica di potere fine a se stessa.

Prigioniero di questo circolo chiuso, il funzionamento istituzionale diventa il massimo fattore di negazione della moltiplicazione di maggiori spazi di libertà in tutto il tessuto sociale. Il codice politico si fa presupposto e veicolo di un eccesso di potere e di autorità, a fronte di un deficit di libertà, autonomia ed autodeterminazione.

Qui la storia si impiglia in un territorio inerziale, in una situazione di sopravvivenza a se stessa e di recessione spinta dai nessi di socialità, umanità e civiltà. Tale scenario di decadenza con l'emergenza pare definitivamente e irreversibilmente polarizzato. Ma così non è per intero. Sono le forme di governo dell'emergenza, il suo codice politico e le sue culture a toccare il punto morto dell'autoreferenza.

Occorre penetrare l'interiorità di queste scissioni e le loro ramificazioni.

In uno spazio/tempo in cui la morte nucleare incombe su tutti e il calcolo strategico la giustifica come dato possibile, se non certo e ineluttabile, la vita riaccomuna tutti e le culture della libertà e della pace diventano il senso possibile, necessario e irrinunciabile di una umanità che non conosce più confini. Non per il fatto che, all'improvviso, tutti gli uomini diventino simili. Al contrario, proprio qui tutti si scoprono differenti, irrimediabilmente e felicemente diversi. Solo che qui differenza non è più sinonimo di ostilità assoluta, nemicità, odio.

La libertà non è più soltanto libertà di scelte politiche; né è riduttivamente inclusione del cittadino nelle prestazioni selettive fornite dal sistema politico. Più propriamente, è libertà di identificazioni singole e collettive aperte, entro cui si massimizzzano il grado della autonomia e la gamma delle scelte e delle alternative possibili.

Nemmeno ci pare lecito continuare ad equiparare la libertà ad un bene, "inclusivo" o "esclusivo" che sia. Tantomeno essa è puro strumento, rappresentando una multiversità di valori concretamente esperibili.

La condizione tardomoderna non fa più della libertà e della pace il mitico e idealistico "dover essere", deprivato di concretezza e fondamento di presenzialità, su cui, da sempre, razionalismo e pragmatismo hanno avuto buon gioco nell'esercitare una critica beffarda. Tanto più che l'assunto principale della polemologia occidentale della guerra come puro strumento della politica non trova più modo di vigere.

La guerra si è irrimediabilmente scissa dalla politica: la confuta e non ne rispetta la pianificazione strategica. La rifondazione dello spazio politico, allora, diventa uno dei luoghi di fondazione della libertà e della pace, della comunanza e della differenza dei valori.

La rifondazione del codice politico vulnera il codice della guerra. Solo il paradigma marx-leniniano e l'arsenale emergenziale, su piani simmetrici, continuano a porre la guerra come necessità della politica e la distruzione come necessità della crisi. Nella realtà, oggi più che mai, guerra e distruzioni, da necessarie, diventano problematiche, incerte, incapaci di garantire la soluzione dei problemi su cui intervengono.

La guerra diventa problema, dunque. La libertà e la pace, allora, divengono necessità.

Al pari di molti altri, non vogliamo che libertà e pace coincidano con la fine dei combattimenti per la sopravvenuta mancanza dei combattenti.

La pace non è il cimitero o l'inferno per i "vinti" e il "paradiso in terra" per i "vincitori". Non passa per l'eliminazione del nemico, "interno" o "esterno" che sia.

 

Le culture della libertà e della pace approssimano e designano un codice interno in cui è possibile e necessaria la coesistenza di più differenti, in cui il differente non si "immerge" e scioglie nel differente, ma vi dialoga e convive: "Il pensiero e la libertà ci vengono dalla separazione e dalla considerazione d'altri" (E. Levinas, TOTALITÀ E INFINITO). Pace non è eliminazione violenta e surrogatoria delle differenze. Vive le situazioni di alterità, dove vige la fraternità che rinuncia al possesso e alle sue dinamiche esclusive.

Una situazione di alterità e fraternità reale è, pertanto, un universo polare radicalmente altro e oltre la "pacificazione". "Pacificazione" non si dà tra fratelli veri; ma tra "vincitore" e "vinto", tra il "peccatore" e il suo "confessore".

Queste figure patologiche non si parlano, non dialogano, non convivono; bensì si immergono l'una nell'altra, scambiandosi le loro prestazioni selettive: Il "peccatore" immette nel mercato il pentimento; il "confessore", il perdono. L'uno si immerge totalmente nell'altro, ma è il secondo che cancella e fagocita il primo, assorbendolo e omologandolo ai propri valori universali. In luogo di un universo partecipato di pluralismi, autonomie e alterità, si costituisce la terra bruciata del dopoguerra, in cui a parlare resta solo la "neolingua" del "vincitore".

Il "vinto" che si pente è il ricalco negativo del "vincitore", una delle sue molteplici facce: quella tra il teologico e il bellico. È così che la libertà del "vincitore", le sue scelte, i suoi valori etici e sociali si riproducono sempiterni, come se ci avessero il millenarismo in corpo, impermeabili al cambiamento e insensibili alla trasformazione, di cui sono l'avversario acerrimo.

Ma il "vinto" che si pente — soprattutto quando il fenomeno assume, come ha assunto, dimensioni di massa — è anche l'espressione sacrale e teleologica degli elementi di infondatezza e insensatezza presenti nelle ragioni della sua guerra, dell'indigenza delle sue scelte e dei suoi ideali, della fragilità delle motivazioni poste a sostegno della guerra.

È tanto concrezione della sciagura catastrofica di destini individuali, quanto sintomo del malessere, della ristrettezza e della povertà delle tensioni etiche e politiche tanto dell'intera generazione che ha combattuto e lottato quanto dei suoi fieri avversari. L'ideologia scambiale, confessionale e premiale del pentimento e del perdono rimuove e trancia proprio questi sintomi, stendendo un velo pietoso sulle responsabilità storica di un'intera epoca sociale e dei suoi attori conflittuali.

 

Per tutti questi motivi, giustizia non può essere pentimento; pace non può essere pacificazione; libertà non può essere diritto del più forte.

Altro deve essere il profilo etico e politico delle libertà nelle società complesse.

Tutto ruota attorno all'interazione conflittuale tra i valori di libertà, di cui ambienti e movimenti sociali si fanno portatori, e il modo d'essere e di funzionare delle istituzioni.

Occorre scongiurare che la massa di domande, di esperienze e di comportamenti che diparte dai movimenti si aggrovigli su se stessa come "valore in sé", perduto alla società e mai acquistato e verificato da essa. Occorre che le dinamiche del mutamento culturale e sociale penetrino nella macchina istituzionale, condizionandone il funzionamento e ridislocando le fonti del diritto. Se si tratta di difendere — come va difesa — la non omologazione tra movimenti e istituzioni, si tratta anche di non riprodurne la separatezza.

Nota

(1) Si riproduce, depurato di elementi contingenti, un contributo al dibattito sulla "soluzione politica" tenuto nella prima metà degli anni ’80; il contributo in questione è stato elaborato nel carcere di Novara nell’agosto del 1984 nel carcere speciale di Novara.

[Estratto da "Società e conflitto", n. 7/8, 1993]

 

^^^^^^^^^^^^^^^^

EMERGENZA E SOLUZIONE POLITICA. ATTUALITÀ DI UNA VECCHIA QUESTIONE (2)

 

   Gentile Agazzi Maffii,

ci permettiamo di entrare, con una veloce escursione, nel merito di alcuni nodi sollevati in materia di emergenza nell’ultimo numero di "Azimut" (n. 14/1984). Vogliamo precisamente riferirci alle considerazioni di Pier Giorgio Tiboni, premesse ad una lettera critica di Rossana Rossanda, e alle puntualizzazioni del dott. Santosuosso in risposta sempre alla sopraccitata lettera.

A nostra volta, facciamo precedere una schematica premessa. Siamo stati sollecitati ad intervenire non tanto e non solo per amore della polemica (intesa nella sua accezione più nobile) verso posizioni che non condividiamo, quanto per il fatto che reputiamo pure noi di fondamentale importanza aprire intorno alla delicata area problematica dell’emergenza un dibattito articolato, rispettoso della pluralità di posizioni che sull’argomento vanno definendosi. L’interesse di "Azimut, ribadito da Tiboni (3) è anche il nostro interesse. Ciò al di là delle posizioni distinte di cui sull’argomento siamo portatori. Ad un dibattito e ad un confronto su questi temi siamo anche noi disponibili. Ed è indubbio che di emergenza e carcere ci stiamo "occupando" anche noi. Un confronto franco, per quanto difficile, dovrebbe risultare, pertanto, di agevole attuazione. Se le parole hanno un senso e gli impegni sbocchi concreti.

Ciò precisato, veniamo al nocciolo.

1) Ci pare quanto meno strano qualificare — come fa Tiboni — quello per l’amnistia impegno per un cambiamento di "segno politico" e quello per la dissociazione "soluzione delegata" alla magistratura. Ma, per correttezza, citiamo per esteso: "Riteniamo inutile ripetere le ragioni per le quali il nostro impegno è e sarà per una amnistia politica, vale a dire per un segno di cambiamento politico e non per una soluzione delegata alla giurisprudenza nei confronti dei detenuti …".

Dicevamo: strano e fuorviante. E aggiungiamo: anche senza riscontro concreto; senza "pezze d’appoggio", si sarebbe detto un tempo. Come è possibile ignorare o tralasciare di riferire in sede di "cronaca" o "ricostruzione" delle posizioni altrui che le proposte della dissociazione sono inestricabilmente congiunte al nodo forte della soluzione politica? Soluzione politica, dunque. Come uno dei numerosi, necessari e necessitati canali di scorrimento dell’uscita dall’emergenza. Quest’ultima intesa storicamente come modulo di governo dei conflitti degli anni ’70 e di questi primi ’80. Uscita dall’emergenza è, perciò, per il "movimento" che si ispira alla soluzione politica/dissociazione dalla lotta armata: a) superamento positivo di quel modulo di governo arcaico; b) riequilibratura delle forme della convivenza sociale e del conflitto; c) concorso all’attivazione di forme di democrazia politica e mutamento istituzionale meglio recettive e rappresentative delle domande di cambiamento e trasformazione che salgono dal tessuto sociale e da tutti i suoi attori.

Non v’è qui un segno (politico) del cambiamento (politico)? E quale segno! Quale cambiamento! Altro che delega alla giurisprudenza!

Il punto veramente spinoso ci pare sia un altro. Sta nel passaggio, non certo lineare, certo discontinuo: a) dalle processualità e decisioni corrispettive intrinseche al mutamento politico; b) al sanzionamento formale, alla trascrizione giuridico-normativa. Vale a dire: c) l’accoglimento e la cristallizzazione da parte politica, istituzionale e statuale del cambiamento sociale. Questo il passaggio aggiuntivo che manca nell’orizzonte tematico, problematico e propositivo di Tiboni. Così, almeno, ci pare. Il succo polposo della divergenza sta qui. La diatriba dialettico-politica che, in premessa alla lettera della Rossanda, Tiboni fugacissimamente istituisce intorno alla coppia polare amnistia/dissociazione appare, più che altro, una polemica "depistante"; a copertura degli effettivi nodi di fondo che — peraltro, legittimamente — differenziano le posizioni in argomento.

Rimane, però, in ultimo il senso di una spiacevole e amara sorpresa. La sottovalutazione tutta nostra — intendiamo: tutta combattente, brigatista e rivoluzionaria — della dimensione costituzionale del conflitto e dell’innovazione costituzione operata dal conflitto non è sorpresa. È uno dei tanti tragici errori che stiamo scontando. Sconcerta rilevare che questa sottovalutazione oggi promana dall’interno del movimento operaio e sindacale. Quando lo stesso — per fare stretto riferimento al "conflitto di lavoro" — ha considerato, perlomeno dallo Statuto dei lavoratori in avanti, valido "sostegno" delle battaglie di libertà, giustizia e democrazia la trama legislativa più progressiva. Quella già data e quella in "costituzione" o da "costituire" (appunto). Certo, elemento a "sostegno"; non già "a supplenza".

E che cosa è l’intervento legislativo in materia di dissociazione politica dalla lotta armata, al di là di ogni differenziazione di reati, se non elemento ineliminabile "a sostegno" di una politica di cambiamento e affinamento delle regole del gioco democratico?

2) Se questo è l’approccio da cui, come a noi pare, parte la proposta di amnistia politica presa in esame, non meraviglia che la critica ad altri indirizzata — quella di sublimare nello spazio giuridico, introducendo nuovi "meccanismi premiali", le questioni politiche — si ritorce contro i suoi titolari. E infatti. Restano essi i soli ad azionare effettivamente in esclusiva leve giuridico-normative.

È, questo, il caso concretato dal dott. Santosuosso, con esemplarità e acutezza di argomentazioni. Del resto, il dott. Santosuosso non è nuovo a questo genere di chiarificazioni. Ne fanno fede i suoi numerosi e coerenti interventi su "Alfabeta", "Critica del diritto" e sullo stesso "Azimut".

La "decriminalizzazione per fatti politici", per il dott. Santosuosso, ha due articolazioni costitutive: a) l’amnistia ("che, inevitabilmente, almeno in un primo momento non potrebbe che ricomprendere la fascia più "bassa" di reati"); b) un "congruo indulto" per le "pene più pesanti" che "nel caso dell’ergastolo, dovrebbero assumere la forma della commutazione in una pena determinata nel tempo (trent’anni o meno)". La linea-guida di siffatta proposizione è quella dell’"attenuazione del carico di penalità" che così — viene precisato — "avverrebbe in modo non solo oggettivo ma anche passabilmente uniforme". Bersaglio ulteriore di questa linea di "penalizzazione alternativa" dovrebbero essere le cause del carico di penalità in tema di delitto politico. E, cioè a dire: "abrogazione delle più manifestamente "speciali" tra quelle norme che lo hanno prodotto (per es. l’aggravante della finalità di terrorismo, l’associazione e l’attentato per finalità di terrorismo, ecc.). Solo così infatti alla elisione degli effetti si accompagnerebbe un avvio di eliminazione delle cause".

Questa la polpa del ragionamento del dott. Santosuosso che vorrà perdonarci sicuramente, se intuibili esigenze di economia di spazio ci hanno obbligato a comprimere oltremodo. Crediamo, comunque, di averne rispettato ratio e lettera. In caso contrario, siamo disposti fin da ora a fare ammenda.

Ora, a nostro avviso, le tesi che abbiamo appena ricostruito configurano una palese fattispecie di "supplenza" operata dal momento giuridico a tutto danno del momento politico. Siamo in presenza, per dir così, di una sorta di "oggettivazione giuridica". In costanza della rimozione dei nodi politici vengono approssimate proposte che spostano tutto sul piano tecnico-normativo dell’amnistia, dell’indulto e dell’attenuazione del carico di penalità. Quasi che la soluzione stia nella manipolazione pura e semplice di tecniche giuridiche e procedure più o meno bell’e pronte.

Emblematica è soprattutto una circostanza. La ricerca delle cause e l’elisione degli effetti vengono circoscritte al puro e semplice fenomeno perverso delle aggravanti, pesantemente introdotte dalla legislazione dell’emergenza. Non si capisce bene come e perché limitare l’intervento alla abrogazione dei meccanismi più vistosamente degradati della legislazione dell’emergenza e non, invece, investirne il "nucleo duro", l’humus politico-culturale, l’espressione storico-sociale. Non si capisce bene come e perché quello sì e questo no. Come se un intervento di siffatta portata, calibrato interamente sulle conseguenze ultime, potesse mai efficacemente ed utilmente dispiegarsi.

A noi sembra che i punti di partenza siano altri, anche su questa ristretta campionatura di problemi. Non di "attenuazione dei carichi di penalità" per noi si tratta. Bensì di rilegalizzazione dell’autore del reato politico. Ed è per questo che non può essere sottaciuto — pena fraintendimenti e mistificazioni che, certo, non giovano al confronto — che la dissociazione è anche un’ipotesi di risocializzazione. Un ipotesi di "recupero sociale" non conformizzante che parte — da cui necessariamente ogni politica di recupero effettivo deve ripartire — dalla specificità del reato di cui l’autore è stato titolare negativo; dal grado e dalla rottura della solidarietà e convivenza sociale che l’autore attraverso le sue pratiche devianti ha introdotto; dal processo di discostamento operato in positivo dall’autore a confronto delle vecchie condotte di cui era portatore.

Dove stanno qui i "meccanismi premiali". Il "reinserimento sociale" del detenuto non è costituzionalmente previsto e garantito? Non sono la ratio e la norma della riforma penitenziaria del 1975 a recitare che il "recupero" deve avvenire per il tramite della "partecipazione attiva" del detenuto? E allora?

L’ipotesi di "risocializzazione" predicata dalla dissociazione è rispristino del dettato costituzionale e della riforma carceraria del ’75, per una prosecuzione di quel cammino di civiltà giuridica e politica. Altro che "premialità" e "discriminazione" da tutto il resto dei "reati comuni"!

Il fatto è che la dissociazione è anche un primo percorso di trasformazione del carcere e della cultura della pena, di rapporto trasparente tra carcere e società, carcere e spazio urbano, carcere e soggetti sociali. È questa politicità forte che è assente nella proposta tecnica del dott. Santosuosso. Il cui principale mito tecnico-illuministico ci pare sia costituito da un astratto criterio di eguaglianza formale che si oggettiva nello spazio della norma, a fronte di soggetti e condotte estremamente diseguali.

A noi preme privilegiare un principio concreto di eguaglianza: quello che costruisce diritti e spazi di libertà per tutti, facendosi carico della diversità estrema che non rende omologabile all’altro nessun soggetto sociale, nessun fenomeno deviante e, dunque, nessun recupero risocializzante.

Certo, questa è un’operazione più difficile. Se si vuole, anche più scomoda. Ma ogni altra ipotesi ci sembra — quella sì — più stretta, più riduttiva e semplificatrice. Soprattutto non apportatrice di una vera e distesa azione di rigenerazione politica, sociale, giuridica e costituzionale.

Spiace soltanto rilevare che anche il dott. Santosuosso non sfugga a quella sorta di "pentito-dipendenza" che va stingendo in un vicolo cieco il dibattito su dissociazione ed emergenza; che anche il dott. Santosuosso consideri, tra le righe, il dissociato un "pentito mascherato".

 

Torino, Carcere "Le Nuove", 26 febbraio 1985

Antonio Chiocchi

Gianfranco Mattachini

Claudio Toffolo

 

Note 

(2) Si riproduce il testo di una lettera (febbraio 1985, "Area omogenea" del carcere "Le Nuove" di Torino") inviata (e mai pubblicata) ad "Azimut", nell’ambito del dibattito aperto dalla rivista su "emergenza e soluzione politica". Riproponiamo la lettera sia per contribuire alla ricostruzione storiografica di alcune delle linee della discussione sulla "soluzione politica" sviluppatasi nella prima metà degli anni ’80, sia per segnalare i nodi irrisolti della, ormai, annosa questione dei detenuti della lotta armata.

(3) "… vogliamo ribadire il nostro interesse e la nostra disponibilità ad un confronto, ad un dibattito, ad una collaborazione con tutti coloro che dei temi dell’"emergenza" e del carcere si stanno occupando"

 

[Estratto da "Società e conflitto", n. 15/16, 1997]

 

^^^^^^^^^^^^^^^^

LA LOTTA ARMATA (4)

di Antonio Chiocchi

 

  1. Che il rapporto tra etica e politica sia uno dei nodi decisivi della riflessione contemporanea sul ‘politico’ trova ulteriore ed ennesima conferma in molte delle vicissitudini che sta conoscendo l’attuale dibattito sulla lotta armata e sul posto da essa occupato nei conflitti degli anni Settanta e dei primi Ottanta.

A ben guardare, la discussione in corso sul rapporto tra lotta armata e conflitti sociali, fatte poche e rigorose eccezioni, appare viziata da alcuni limiti di fondo, i quali reticolano uno sdoppiamento di posizioni, per dir così, "fondamentaliste". Da una parte: la più o meno teorizzata impossibilità, a fronte della crisi del ‘politico’, di addivenire a un politicamente fondato giudizio critico sulla lotta armata, per cui lo scandaglio di fondo e fondamentale non potrebbe essere che di tipo etico. Dall’altro: la sottolineatura della portata strettamente politica del fenomeno, altrettanto più o meno teorizzata, la quale sospenderebbe o relegherebbe in secondo piano il "giudizio etico" e le sue dimensioni.

Questo sdoppiamento di conclusioni non pare convincente e non regge all’approfondimento storico, politico ed etico.

Presupposto fondativo della lotta armata è stata una finalizzazione etica, è stato un sistema di identità e di valori: la fissazione ideale ed ideologica, prima ancora che storica, di un orizzonte di "società giusta", la società comunista; ossia, la perfezione utopico-ideale tradotta e organizzata in società attraverso il ‘politico’. Alla radice della lotta armata v’è, dunque, un logos progettuale in cui è reperibile una strettissima interconnessione tra etica e politica.

Fine e valore della politica, come in una lezione che risale ai Sofisti, a Socrate, Platone e Aristotele, restano il "giusto", la "vita buona". L’elemento utopico e programmatico presente nel nucleo della riflessione politica ed ermeneutica dei grandi pensatori greci, che da Machiavelli e Hobbes arriva fino a Locke, Rousseau e Marx e da Lenin fino a Mao, viene ritradotto comunisticamente. Su questa "base comunista" l’uso, che non consegue assiomaticamente e necessariamente da questa, della "forza fisica" e della lotta armata come mezzo di coercizione e di "risoluzione strategica" delle contraddizioni sociali trova la sua scaturigine motivazionale.

Ma, in questa architettura etico-politica, etica e politica non si fondono (come nel pensiero politico greco), né si dissociano (come nel pensiero politico moderno), né si escludono (come in gran parte del pensiero politico contemporaneo). Piuttosto, si supportano a vicenda: dove non arriva la politica, là subentra l’etica; e viceversa. Parafrasando un celebre enunciato strategico: l’etica "continua" la politica, ma con i mezzi dell’etica; la politica "continua" l’etica, ma con i mezzi della politica. In questo modello teorico e questa struttura genealogica, etica e politica si erodono l’un l’altra, l’un l’altra divorandosi. Si fondono, si dissociano ed escludono in un unico composto esplosivo, a volte indivisibile e non disaggregabile e altre schizofrenicamente lacerato e irricomponibile.

Il sistema dei fini etico-politici che costituisce la rete di senso e, insieme, la mappa fondativa dello sviluppo della lotta armata rivela qui un’abissale eccentricità rispetto ai flussi più profondi dell’accadimento storico. Esso non metabolizza le immani trasformazioni di cultura, del ‘politico’ e del ‘sociale’ che hanno segnato il trapasso dalla società moderna a quella contemporanea (in una parola: la "secolarizzazione"), restando in posizione di estraneità al suo cospetto. È questa indigenza abissale, del profondo dell’ethos e del ‘politico’, che, a fortiori, non può far "vedere" e "ascoltare" la società complessa, la cui nascita in Italia segue l’intensissima fase di "accumulazione originaria" che va dalla "ricostruzione" al "miracolo economico". Piazza Statuto e il biennio 1968-1969 parlano già di una "complicazione sociale" dei conflitti e del loro rapporto con le istituzioni politiche, sociali e culturali; stanno già oltre lo schema e la struttura dell’industrialismo celebrato nelle analisi della lotta armata. Esemplificando: estremamente più ricca e pregnante è la lettura che Panzieri e i nascenti Quaderni Rossi danno di Piazza Statuto, del "neocapitalismo" e delle "lotte operaie nello sviluppo capitalistico" di quella che le Brigate Rosse danno del ’68 e dell’autunno caldo (prima) e dei movimenti in tutto il corso degli anni Settanta e al principiare degli Ottanta (dopo).

La lotta armata pur nascendo dentro un’insorgenza sociale di conflitti ne dà un’interpretazione regressiva, non condividendone né il senso, né il destino. La sua internità regressiva alla conflittualità sociale la porta ad avere, contemporaneamente, una base relativamente di massa e uno sviluppo sempre più divaricato dalla dinamica di processo descritta dai momenti dell’azione collettiva. Questa contraddizione originaria è una delle ragioni primarie del suo fallimento e della sua sconfitta. Essa fallisce nell’atto stesso di insediarsi, poiché gli sbocchi delle trasformazioni sociali e della mobilitazione collettiva la trascendono tanto sul piano politico quanto su quello del senso. È sconfitta, allorché la divaricazione originaria perviene al punto estremo di rottura, a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. In ambedue i casi, i movimenti le sopravvivono: lavorano ad altre esperienze di cambiamento, di socialità e di socializzazione. Il declino dei movimenti parla di un’altra crisi; non di quella della lotta armata. Come la crisi della lotta armata non parla della crisi dei movimenti. Soltanto in un grande processo di estensione storica, la "lunga durata", crisi della lotta armata e crisi dei movimenti possono essere legittimamente inscritte in un contesto unitario.

 

2. Se così stan le cose, è agevole demistificare un diffuso quanto inconsistente luogo comune. Quello secondo cui la lotta armata non avrebbe fatto altro che portare epigonalmente alle estreme conseguenze il teorema maledetto della politica: "il fine giustifica i mezzi". Che sarebbe come dire: il fine politico della lotta armata ha soppiantato il fine dell’etica. Oppure, ancora più pervasivamente: i mezzi della politica (della lotta armata) nel perseguimento del fine (politico) sono negatori dei fini etici e perciò stesso affossatori dei mezzi dell’etica. Il punto, invece, è un altro: è proprio un sistema di fini di natura etico-politica che fonda la scelta della lotta armata. Il nodo irrisolto non sta nell’intreccio di "mezzo" e "fine", anche se pure di questo si tratta; ma in un non sufficientemente problematizzato rapporto tra etica e politica, in cui i fini etici e i fini politici si sospendono, alternativamente e a rotazione. La questione è esattamente questa: nella grammatica della teoria e prassi della lotta armata convivono un’etica fondamentalista e un politica fondamentalista, egualmente universalistiche e totalizzanti. Il fondamentalismo politico come non aveva letto la "secolarizzazione" così non legge la "complessità sociale". Il fondamentalismo etico si sostituisce alla politica nella presa delle decisioni estreme, giustificando la terribilità e la tragicità delle scelte e degli eventi limite, facendoli rientrare in un duro e tremendo destino di necessità storica in movimento verso l’emancipazione integrale della comunità umana. È sempre una cattiva infinità politica che sospende l’etica; è sempre un intransigente integralismo etico che sospende la politica. Dalla cattiva infinità politica discendono i più tragici guasti per l’etica; dall’integralismo etico conseguono le maggiori perversioni della politica.

 

3. Dunque: sin dall’inizio, la lotta armata ha contenuto un errore strategico e di prospettive tanto sul piano politico che su quello etico. Detto questo, rimane da analizzare meglio.

La lotta armata non poteva essere, così come andava disegnando nell’immagine di sé che costruiva, la soluzione dell’acutizzarsi dei conflitti sociali. Ma rimane indubbio che acuti conflitti sociali siano stati in campo. Di questa acutizzazione la lotta armata non è stata la migliore interprete, sul piano politico e sociale. Anzi, il suo rapporto con i movimenti della mobilitazione collettiva è andato sempre più rarefacendosi, fino al punto da risultare essa — la lotta armata — una delle complicazioni più duramente strutturate di contro alla crescita dei movimenti e delle ipotesi della trasformazione sociale. All’opposto, il suo rapporto con lo Stato è andato sempre più contrapponendo machina artificiale a machina artificiale, in una vertigine che cancellava la "società civile" nell’equivalenza tra diritto e guerra e tra quest’ultima e la trasformazione.

Si tratta di riflettere sia sui limiti e sugli errori di fondazione, di prassi e strategia della lotta armata, come sugli elementi di labilità presenti nella struttura dell’azione collettiva. Il "muro" che la lotta armata ha eretto di contro ai movimenti non assolve questi dai loro limiti. Come su un versante tutt’affatto diverso, gli effetti di stabilizzazione in senso autoritativo-conservatore che la lotta armata ha innegabilmente scaricato sul quadro politico-istituzionale non assolvono sistema politico e opposizioni dalle loro responsabilità: in questi ultimi venti anni, in Italia, è stato costruito un ordigno extra-normativo di eccezionalità a catena, non unicamente imputabili alla "emergenza terroristica".

A ciascuno il suo: è tempo che questo elementare principio di responsabilità politica venga ripristinato e valorizzato estesamente. Di responsabilità si tratta; non di assoluzioni incrociate o cancellatorie. Ricostruire un quadro completo e aperto di discussione, senza compiacenze e senza veli: questa pare una delle esigenze che più premono.

Che questa urgenza sia particolarmente impellente per la Sinistra appare fin troppo evidente.

Le ragioni del cambiamento e della trasformazione, la necessità di lavorare a un "ordine sociale" più equo, giusto ed emancipante, che la lotta armata non ha saputo interpretare e organizzare, rimangono. Per chi è stato interno all’esperienza della lotta armata, ripensare il senso politico del proprio percorso vuole dire ritrovare le ragioni e la problematica posta a base della sua propria scelta. Ritrovare il nucleo originario e denso di quei problemi significa mettersi in cammino alla ricerca di altre soluzioni politiche e sociali possibili. La lotta armata non è stata la fine, il seppellimento definitivo e autodissolutivo delle politiche della trasformazione e del cambiamento: una sorta di "ultima spiaggia" della rivoluzione e della trasformazione. Al contrario: ha costituito l’acme della crisi di emancipazione che vivono i nostri tempi, in una delle sue forme più dure e radicali.

Ma se quelle ragioni restano, rimangono da pensare nuovi modelli di azione politica, nuovi percorsi di trasformazione, nuovi moduli teorici, sulla base di una presa di congedo che emancipa da una esperienza fallimentare e fallita, ma non per questo esorcizzabile e demonizzabile.

È questa una responsabilità che incombe in capo soltanto a chi porta addosso il segno drammatico di questo fallimento? Oppure è terreno di "responsabilità collettiva", su cui più di una forza politica, più di un attore sociale, più di un soggetto istituzionale — se non tutti — è chiamato a cercare e trovare risposte adeguate?

In realtà, il campo dei rapporti tra responsabilità, etica, politica e conflitto, particolarmente nel tornante che sta attraversando la società italiana, sembra essere il "terreno minato" su cui la democrazia politica ha sempre pericolosamente danzato. Su di esso tutti debbono procedere con la perizia di un artificiere, pena la deflagrazione.

Una danza diversa è pensabile e costruibile?

Dai "limiti" e dai "paradossi" della democrazia, con tutta probabilità, si esce soltanto pensando la democrazia a un più alto livello di problematicità politica e destinalità storica. Conservando dei modelli democratici le insuperabili conquiste e le irrinunciabili lezioni. Cercando nuovi e più emancipativi "centri" di unità politica. Disegnando sistemi più congrui ed elastici di soddisfacimento delle aspettative sociali. Ricostruendo i meccanismi della rappresentanza, schiodandoli dal reticolo stretto degli interessi. Ridisegnando il rapporto tra sovranità e cittadinanza politica.

Il pericolo che incombe è veramente grande: le democrazie arrivano all’autodistruzione proprio a causa del "difetto di democrazia", processo perverso connaturato alla loro evoluzione storica. Il "programma della trasformazione" salva la democrazia, eccedendola. Al di sopra della soglia democratica c’è l’emancipazione e il suo cammino; al di sotto, l’incancrenirsi di conflittualità mai risolte e ricomposte e i colpi di fendente tra contrapposte oligarchie.

Nota

(4) Pubblichiamo un articolo originariamente comparso in "Alfabeta", n. s., n. 112, 1988

 

[Estratto da "Società e conflitto", n. 15/16, 1997] 

 

^^^^^^^^^^^^^^^^^

IL GIUDIZIO INGIUDICABILE: OVVERO DEL PROGETTARE ACCUSATORIO (5)

(In margine all'impianto istruttorio del processo "per insurrezione" contro le Br)

di Antonio Chiocchi-Claudio Toffolo

 

  1. Il fondo della scena

Non è la nostra un'epoca di sottigliezze semantiche. Esagerato pare, pertanto, mantenere distinti termini-concetto e prassi così diversi tra di loro come insurrezione e guerra civile per il comunismo, terrorismo e lotta armata, lotta armata e rivoluzione. Che le Br abbiano agito in conformità a un piano di guerra civile per il comunismo e non a uno per l'insurrezione; che siano state un’organizzazione combattente e non già una setta cospirativa; che, infine, la lotta armata non sia assimilabile alla rivoluzione non sembra fare molta differenza. L'una cosa viene sovrapposta all'altra, in un isomorfismo concettuale e pratico-concreto a dir poco impressionante. Isomorfismo, francamente, poco sostenibile già sul piano dell'ermeneutica.

Assistiamo a un vero e proprio fiorire di studi ermeneutici; ma questa antica e gloriosa disciplina, per quanto attiene allo specifico giuridico e politico, viene gettata nell'esilio. Soprattutto nei processi per "fatti di terrorismo", si irrigidisce nel separare la soggettualità dal fatto, l'idea dall'azione. Ne discende un doppio e pernicioso esito: laddove manca il fatto, si persegue e condanna la soggettività; laddove manca l'azione, si persegue l'idea.

Più che il fatto, più che l'azione nel mirino dell'ordigno e del dispositivo giuridico, nella fattispecie, sono le soggettualità e le idee.

Se questo è l'oggetto del discutere, possiamo pure noi fare a meno, per un momento, delle distinzioni semantiche e del pluralismo interpretativo. Da siffatta sospensione non dovrebbero conseguire effetti devianti. Per un assai semplice motivo: l'insurrezione non v'è stata. Come non v'è stata la guerra civile per il comunismo. Come non v'è stata la rivoluzione. Ma pure qualcuno tutto questo l'ha pensato e progettato. Ecco il punto: tale pensiero, tale progetto vanno perseguiti, in quanto suprema minaccia all'integrità e alla personalità dello Stato.

Il processo, dunque, non tratta (e non poteva trattare) di fatti, di azioni. Azioni e fatti sono già stati considerati altrove e altrove sono state irrogate sentenze di condanna esemplari. A tal punto esemplari da aver richiesto il varo di una legislazione unanimemente definita "speciale". Questo processo pare dirci: "No, non erano quei fatti, quelle azioni l'attentato più grande subito dal convivere sociale e dalla forma costituzionale dello Stato". No, l'attentato più grande era e resta la minaccia, non importa quanto tradottasi in fattispecie coerenti, adeguate e materiali, tendenti al sovvertimento armato della personalità dello Stato.

Eccolo il reato più grave: una minaccia, non già una catena di eventi terribili; un'idea, non già un lutto; un progetto fallito, non già una sequenza tragica.

Si dovrà pur spiegare come sia potuto intervenire questo arretramento rispetto ai moduli su cui il diritto borghese si è costituito e ha successivamente preso forma lo Stato di diritto. Ci dovrà pur essere una ragione, o un complesso di ragioni, se il modello giuridico proposto dal giusnaturalismo hobbesiano appare più avanzato di quello codificato in una società altamente sviluppata; e il modello del vituperato Hobbes del Leviatano!

Non un reato qui si contesta e persegue; bensì una ipotesi di reato mai inveratasi. Se con la legislazione premiale saltava la proporzione reato/pena, qui addirittura si ipotizza la pena in assenza di reato. È sufficiente all'uopo evocare il reato minacciato. Qui l'enorme decodificazione ingenerata dalla legislazione e giurisprudenza dell'emergenza si dilata al punto da introdurre figure di reato non previste nemmeno dal codice Rocco. Modernizzazione del diritto e posítivizzazione della norma?

Nulla poena sine culpa, diceva Hobbes. Qui, invece, la pena scaturisce dall'aver semplicemente pensato la colpa: la volontà di volere delle Br viene censurata e sottoposta a sanzione dalla volontà di potenza dello Stato. V'è la necessità di una punizione preventiva che si calibri e dispieghi contro l'intenzionalità della teoria-prassi delle Br, ci confessa candidamente lo sviluppo della trama istruttoria.

Nasce, così, il reato punibile ex ante, poiché il suo essere pura intenzionalità non lo tende perseguibile ex post. A cose fatte, l'insurrezione non è giudicabile, in quanto muta la forma del potere e si fa veicolo di una messa in mora della personalità dello Stato e del suo relativo ordinamento giuridico. Come non è giudicabile l'insurrezione come fatto materiale affermatosi e risultante vincente, così il giudizio intorno al reato intenzionale è giudizio ingiudicabile. Si sottrae a tutte le verifiche di normatività e costituzionalità. Qui il progetto accusatorio conserva solo un precipitato fantasmatico della giustizia e della prassi costituzionale.

Come dire, ritraducendo il tutto brutalmente ma in termini esplicativi: "Chi è sconfitto merita di essere punito, semplicemente perché ha ... perso". E basta. Non rileva l'entità reale del fatto criminoso, la sua effettualità e la necessità della produzione delle prove. Qui la pena riposa proprio sull'antefatto della sconfitta dell'insurrezione intenzionale assunta come bersaglio. La colpevolezza, dunque, sta precisamente nel … non aver saputo portare a termine l'insurrezione. Qui le Br sono interamente colpevoli (colpevolizzabili e sanzionabili) unicamente poiché … hanno fallito. Ecco il perverso punto di arrivo. Il sistema giuridico, in questa escrescenza normativa, indossa la toga della Storia. Il giudizio si sublima ed equipara a una sentenza inappellabile del Tribunale della Storia. C'è di che far impallidire i tribunali dei regimi totalitari.

Non sono le condotte di uomini, le loro azioni causa di lutto e di dolore a essere censurate. Fatti e azioni vengono risospinti in secondo ordine. Per converso, le idee, il progetto, il pensiero vengono personificati e chiamati in giudizio. È un pensiero, nella cornice così disegnata, che arriva a giudicare un altro pensiero; una ideologia confligge con un'altra ideologia. Lo spazio giurisdizionale si eclissa; la certezza e l'equità del diritto divengono un fantasma. L'impianto accusatorio, sospendendo il momento specificamente e genuinamente giuridico, si identifica tout court con la Storia, in un impeto di assolutizzazione.

Realizzato questo processo di transfert, l'orpello giurisdizionale così partorito si lancia nella più dura e assoluta delle condanne storiche, etiche e politiche avverso il progetto della lotta armata. Ma non solo, poiché da qui dipartono cerchie simboliche che intendono scaricare la loro azione inceneritrice rispetto a tutto il mosso e l'agitato in termini di mutamento dell'esistente.

Ma era proprio necessario tutto questo lavorìo, con le sue patologie e le sue deviazioni flagranti dal corretto esercizio della giurisdizione?

Evidentemente, sì.

Ma urgente, per raggiungere quali scopi?

Come in ogni processo di transfert e sospensione del principio di realtà che si rispetti, la molla segreta che fa qui scattare e orienta le opzioni e le azioni è la ricerca del capro espiatorio. L'inappellabile e draconiana condanna etica, storica e politica del pensiero e del progetto della lotta armata si configura qui come una parimenti illimitata assoluzione del proprio pensiero e del proprio progetto.

Quando, invece, qui non si tratta né di condannare e né di assolvere sul piano etico, storico e politico; bensì si richiama la necessità di un analisi obiettiva dei fatti sul piano giuridico, da cui derivare un'equa e legittima decisione giurisprudenziale. Non può lo spazio giuridico sovrapporsi o surrogare quello etico, storico e politico, pena un imbarbarimento dell'amministrazione della giustizia. Non perché la lotta armata, il suo pensiero, il suo progetto e la sua concezione dell'etica non siano esenti da censure; tutt'altro.

La critica serrata e stringente, sul piano etico, storico e politico della lotta armata deborda il momento della decisione giurisprudenziale e attiene ad altre sfere dell'essere e del fare dell'uomo. Essenziale è mantenere una relativa autonomia tra lo spazio giuridico, da un canto, e l'etica, la storia e la politica, dall'altro. Altrimenti si finisce nelle pastoie dello "Stato etico", oppure nelle spirali di un integralismo politico mascherato.

Se la decisione giurisprudenziale si sostituisce alla Storia, è come se si dicesse: "O Noi o Voi". Qui la scelta del Noi si fonda sulla negazione del Voi; cosi come quella dell'Io, sulla negazione del Tu. Il messaggio testuale, è grosso modo questo: "Tu e Voi siete la causa di tutti i mali: lo e Noi, invece, siamo integri e salvi". Anzi: "Possiamo conservarci integri, solo se ci salviamo da Voi".

Si radica qui un pensiero dicotomico che ragiona e opera solo procedendo per dualismi. Chi ne finisce preda, si sente sempre in guerra, come se questa fosse la sua missione salvifica. Il suo diviene un impegno parossistico fatto di imperativi ideologici che gli impongono un programma terapeutico fatto di ansie di redenzione. Ritiene di potersi salvare, solo se rende il mondo simile a se stesso; reputa di poter salvare il mondo, solo se si rende simile al mondo dei suoi simili. Sotto un portamento guerresco e un atteggiamento mentale guerriero cova e arde qui la vocazione di santificare il mondo, purgandolo del male e dei demoni.

Che questo modo di procedere, queste pulsioni recondite e queste dinamiche comportamentali abbiano a lungo e tragicamente caratterizzato e marchiato la lotta armata, fino a investire le radici stesse del suo pensiero e il farsi delle opzioni etiche, appare perfino troppo scontato. Ed è proprio da qui che ha preso cominciamento il lento e inarrestabile processo di consunzione di questo fenomeno; proprio qui si è trincerato il grumo più profondo della crisi che ha, poi, investito le soggettività che l'hanno incarnato. Quello che entra meno congruamente nel conto è che un intero apparato categoriale, un sistema e sottosistemi culturali, un universo simbolico e politico, un dispositivo giudiziario forgiati nell'intensa e terribile ibridazione di norma e eccezione che ha caratterizzato il decennio scorso rimangano ancora in piedi e operanti. E oggi operanti, pur a fronte dell'estinzione dell’esperienza storica delle Br, per esplicita assunzione di quasi la totalità dei suoi militanti.

2. I luoghi del problema

Se questo è lo scenario di fondo, proviamo a percorrerne alcuni punti-problema.

Si sa che una delle peculiarità del totalitarismo è una concezione panteistica dello Stato, entro cui è contemplata la piena sudditanza dei singoli agli interessi statuali. In siffatta visione, la società nel suo moto deve confermare la primazia e l'intangibilità dello Stato.

Nel passaggio dal totalitarismo fascista alla democrazia costituzionale è rimasto un residuo di statolatria panteistica. Non per niente il codice Rocco, pur stemperato da numerose pronunce della Corte Costituzionale, è rimasto lungamente vigente. È convincimento largamente e autorevolmente accreditato che, sul punto, il Legislatore democratico abbia omesso di procedere a una funzionale e integrale riforma in senso costituzionale del diritto penale. In particolar modo, per ciò che pertiene alla certezza del diritto e alla determinazione oggettiva della legge. È sempre rimasto aperto uno spiraglio di indeterminatezza, attraverso cui hanno fatto ingresso, senza soluzione di continuità, deroghe e sistemi di deroghe, misure e decisioni eccezionali e urgenti.

Da ciò la precarietà della norma e della situazione normativa. Anzi: la struttura normativa veniva conformandosi a colpi di interventi speciali che, di volta in volta, ordinavano e ritessevano la trama del disegno complessivo. La perdita di cogenza della norma e il suo puntuale venir meno testimonia una duplice evidenza: (i) l'onnipotenza della decisione; (ii) la debolezza della norma. Da qui quel manto di sacralità, perentorietà e ineluttabilità che ha sempre accompagnato ogni forma di legislazione speciale. Negli anni '70 questi modelli teorici e queste procedure sono stati intensamente in azione.

Nell'impianto istruttorio li rinveniamo in una tipica formalizzazione di sinistra, volendo per un istante indulgere a una terminologia invalsa nella discussione politica.

L'interpretazione del diritto si risolve in interpretazione del diritto scritto dalla legislazione e giurisprudenza dell'emergenza degli anni '70. Il metodo giudiziale scade a una particolare forma di politica del diritto. Lo spirito del dettato costituzionale si volatilizza: il metodo giudiziale è qui "innovativo" rispetto alla Costituzione, nel senso che configura un caso di creatività negativa e regressiva. La struttura aperta del diritto, anziché essere momento di più precipua colleganza e interpretazione della realtà in trasformazione, diviene la perversa base di ancoraggio dell'assoluta discrezionalità della magistratura nell'interpretazione del dettato costituzionale e della legge. Discrezionalità che, più esattamente, è interpretazione di secondo grado. Nel senso che, piuttosto che far aderire il metodo giudiziale e la norma positiva al sistema contemplato dalla Costituzione, si torce e subordina la Costituzione alle ritmiche e alle esigenze di protezione installate dall'intervento speciale.

L'esito più rischioso di siffatto analizzare e procedere pare il seguente: ritualizzare la decisione giurisdizionale a danno della norma codificata. Da qui un assai pericoloso slittamento operazionale: il diritto non consisterebbe nella norma codificata, da interpretare in relazione alla legge fondamentale; bensì starebbe direttamente e tutto incarnato nella decisione giurisdizionale. È noto come questo mito procedurale del dissolvimento della norma sia stato profondamente e felicemente confutato da L. A. Hart, già nel corso degli anni '60.

Il supporto forte dell'impianto istruttorio non è l'appello alla norma codificata e alla legge fondamentale. Piuttosto, l'impianto si costituisce cumulativamente e linearmente, aderendo alle decisioni giurisdizionali di ispirazione speciale, con esse facendo massa: dottrina e prassi, orientamento e decisione, referente e procedura vengono costretti in una soluzione unica e onnilaterale. La norma come decisione e il diritto come fatto: si potrebbe dire, ammiccando a una famosa querelle degli anni '20 e ‘30 (tra Schmitt e Kelsen) e ad alcuni orientamenti emersi negli anni '60 in area scandinava (per opera di Olivecrona e Hágerstrom).

Pervenuti a questa soglia di ragionamento, è possibile cogliere la strumentalità dell'impianto istruttorio. Esso si vale, difatti, di smagliature presenti nel sistema penale e della discrasia tra legge fondamentale e diritto positivo, per ripristinare la primarietà dell'interesse dello Stato sui singoli, ridotti a una collettività da proteggere; niente di meno e niente di più. Decisione, norma e fatto convergono in questa sorta di punto focale.

È chiaro che di questa strumentalità l'impianto accusatorio dell'istruttoria è inconsapevole: per così dire, è in buona fede. Ciò ne designa il procedere, come dire, implacabile e sicuro di sé: come un automa che fedelmente esegue il programma buono e ottimale. Tutto è funzione del perseguimento dell'obiettivo messo in piano: accusa e condanna si equivalgono e coappartengono. Nessuna distanza temporale le separa, nessun sistema articolato di passaggi le media: formulando l'accusa, è come se si irrogasse ipso facto la condanna. Avvio e arrivo si confondono: l'obbiettivo teleologico fa da premessa fondante; e reciprocamente.

Processo, dibattimento e giudizio, secondo questa impostazione, non possono avere un'autonomia; tantomeno, ricercare le prove. Piuttosto, essi costituiscono la prova col loro semplice esserci; col loro dover replicare e duplicare il percorso già fatto dall'istruttoria. La prova, in questo modello indiziario neo-inquisitoriale (impaludato di progressismo), è precisamente la ripetizione dei motivi, delle ipotesi e dei passaggi dell’istruttoria; i quali, ripetuti, troverebbero convalida e conferma non più dubitabili.

Questa filosofia indiziaria intende consegnare dibattimento e giudizio a un circolo chiuso: niente di nuovo vi sarebbe da dedurre e controdedurre e tutto sarebbe soltanto da replicare. E — si insinua — ciò che è replicato, è perciò stesso provato nella sua veridicità e attendibilità. Quale grossolana e spuria manifestazione di razionalismo empirico verificazionista! La prova proposta da questo modello accusatorio non è niente altro che la coazione a ripetere. La costante della ripetizione non prova altro che il ripetere. E se l'ipotesi di partenza è errata, l’iterazione replica e prova l'errore; non già la verità.

La messa in chiave e in chiaro della verità non può che partire dalla confutazione dell'errore, qui disvelato nel "cuore segreto" dell'istruttoria. Provare l'errore, provare a cercare la verità nell'azione e nel fatto obiettivo non possono che risolversi nella messa in "stato di accusa" delle presunte verità dell'istruttoria. Verità ideologicamente plasmate e messe in moto da un (malinteso) senso dello Stato che, in realtà, integra le circostanze di una tipica versione di statalismo giurisdizionale.

Proviamo a entrare ancora più nel vivo del ragionamento su cui si incardina l'impianto istruttorio. Cerchiamo di concettualizzare meglio la figura di reato che lì si inaugurava: il reato minacciato.

Appare palese che il reato minacciato è riconducibile alla categoria dell'offesa e che all'offesa corrisponde immediatamente la situazione dell'antigiuridicità. Nella fattispecie, il bene giuridico offendibile è la personalità dello Stato. Il progressismo statalista che impregna gli assunti dell'istruttoria perviene alla delimitazione di un teorema così formalizzabile: "L’interesse dello Stato non può sopportare nemmeno quell'offesa che rimane allo stadio di intenzionalità". Del cui teorema il corollario recita: "Perseguibili sono le pure e semplici minacce simboliche".

Secondo questi asserti (non esplicitati con chiarezza e, purtuttavia, operanti con l’implacabilità di una "macchina di guerra"), nel campo della comunicazione simbolica non debbono mai fare ingresso messaggi di alterità. È il puro e semplice messaggio che qui viene, per dir così, criminalizzato, qualora non coincida con i postulati della protezione speciale. Il fatto tipico che concreta qui la situazione di antigiuridicità è un fatto simbolico. In quanto tale, certamente, assoggettabile alle categorie della critica; ma non, certo, ai rigori e ai clamori della sanzione penale.

Come è da anni acclarato non solo nella migliore dottrina, ma persino nel senso comune, la minaccia e il pericolo sono indivisibili dal reato. Vale a dire che si dispiegano solo quali effetti contestuali e succedanei al reato; non già anteriormente. Sino a che l'ipotesi del reato non si concreta, non può, a rigore, parlarsi di minaccia e di pericolo sul piano della rilevanza penale. Col che, una volta di più, ci troviamo fuori dalla previsione normativa dell'art. 284 c. p. e appare ulteriormente e definitivamente caducato il discorso congegnato nell'istruttoria. Vogliamo, sul punto, concludere, riportando una illuminante affermazione di G. Marconi: "la concezione tradizionale del reato di pericolo funge da strumento dommatico scientemente asservito ad una logica di stampo apertamente repressivo" (I reati contro la personalità dello Stato, Milano, 1984, p. 226).

3. La "luna nuova" del vincitore.

Quanto articolato nei punti precedenti ci consente di lumeggiare un rovesciamento paradossale.

Il perseguimento della minaccia simbolica, fino a farle assumere rilevanza penale, installa l'istruttoria medesima e la filosofia che la sorregge come minaccia simbolica. Per meglio dire: il contraddittorio si sposta dalle azioni e dai soggetti titolari di azioni e si cristallizza metacomunicativamente tra due messaggi di segno contrario. Alla minaccia simbolica pregressa e sconfitta, l'impianto istruttorio risponde con una minaccia simbolica attuale e vincente. Attuale, perché si incarna nella celebrazione del giudizio penale. Vincente, poiché sanzione penale e reclusione sono il suo coronamento organico e finalistico.

L'osservanza della legalità e del diritto, a questo stadio, si vaporizza totalmente. Tutto evapora totalmente: si sublima in un finalismo di sapore etico applicato alla legalità a al diritto, in una iperfunzionalizzazione della procedura alle predeteminanti teleologiche.

Eppure, è proprio in questa estrema rarefazione che si coglie con più nettezza la condensazione del contesto dell'istruttoria.

Non è, questa, un'istruttoria che fa delle dichiarazioni dei pentiti il baricentro della sua azione. È già qualcosa di più e di diverso, non strutturandosi in conformità alla chiamata di correità. L’istruttoria, con tutta evidenza, cerca di tratteggiare un percorso di "post-emergenza", ancora più letale dell’emergenza medesima.

Nell'emergenza le dichiarazioni dei pentiti assurgono al rango di prova (o, addirittura, fonte della prova); qui la prova è semplicemente data e direttamente fornita dall'enuclearsi dell'istruttoria. Quest'ultima fa a meno della chiamata di correità e, in questo senso, supera l'emergenza. Ma il superamento in questione non appare, sicuramente, positivo e condivisibile; all'inverso, ingenera patologie e perversioni ancora più vistose.

Ciò che è bellamente superato è il problema non solo della conferma della prova, ma addirittura della sua esibizione. È sin troppo noto che questo, sin dalla più remota antichità, costituisce il vero e proprio rompicapo dei processi indiziari.

Non era questo il problema dell'accusa, già a principiare dal "Processo delle Erme" nell'Atene del 415 a. C.?

Proviamo, con Plutarco, a evocare il contesto di quelle circostanze: "I delatori non diedero nessuna prova valida della colpevolezza di Alcibiade. Ad uno fu chiesto come avesse fatto a riconoscere il volto di coloro che avevano mutilato le erme. Rispose: "Al lume della luna". Ciò fece crollare tutta la delazione, giacché la notte in cui era stato commesso il misfatto era luna nuova" (Vita di Alcibiade, 20).

Il "lume della luna" della prova dell'insurrezione, così, si dissolve, sotto la luce vera e diversa della realtà. Nondimeno, la "luna nuova" del vincitore non desiste dal tentativo di cambiar faccia alla realtà. Non facendosi ricorso all'incerto lume della delazione, a occupare interamente la scena è la "luna" dell'accusa. Non abbisognano più i lumi e le luci delle prove; tantomeno, quelle attorno alla chiamata di correità.

Cerchiamo di vederne i motivi.

La minaccia simbolica attuale e vincente dell'istruttoria scioglie un intricato quesito: "Chi deve scrivere la storia"?. Dopo che ne aveva, preliminarmente, sciolto un altro: "Chi deve giudicare la storia?".

In ambedue i quesiti, la risposta è univoca: "I vincitori". Risuonano qui le terribili parole di Brenno: "Guai ai vinti!". Ma la differenza, nel frattempo, insediatasi nel passaggio da Brenno al presente è abissale.

È tipico della teologia annientare chi è concettualizzato come nemico. Altrettanto deve dirsi per la teologia simbolica che anima l'impianto istruttorio. Per il momento della coercizione ci avevano già pensato le aggravanti introdotte dalla legislazione di emergenza; qui l"'annientamento" è più sottilmente simbolico.

Secondo la teologia simbolica dell'istruttoria, allo status di vinto deve far seguito quello del silenzio. Vale a dire: la sconfitta non abilita a scrivere la storia. Solo la vittoria qui legittima il dire sulla storia e l'agire nella storia. Allo status di vincitore deve intensamente coesistere quello di esistenza; a quello di vinto deve corrispondere lo status dell'inesistenza. Tutto ciò non soltanto sul piano politico; ma più densamente: dall'essere al rappresentare, dal dire al comunicare, dal pensare all'esperire.

Già Tommaso ricordava che il numero binario è infame (binarius numerus infamis).E, difatti, il concetto binario è scaturigine di un conflitto invaso, precedente per reciproci annientamenti. E invasamento è quella codificazione dicotomica che recita la necessità dell'annientamento, giustificandola con l'evidenza dell’"annientamento degli annientatori". In realtà, nessuna battaglia e nessuna lotta si conclude semplificatoriamente con l'annientamento del nemico, l'hostis della differenza assoluta e irriconciliabile. Nella coppia amico/nemico, l'annientamento dell'Altro è ineliminabilmente auto-annientamento dell'Io. Riposa qui una ambivalente nemesi della storia: (i) contro i vincitori assetati di vendetta; (ii) contro quelle aggregazioni che cercavano la palingenesi sociale nello scontro assoluto.

Nella vittoria che inclina verso la vendetta dimora, dunque, una irreparabile e radicale sconfitta. Come nella ricerca della vittoria basata sulla assoluta inimicizia già alberga il tarlo corrosivo di una sconfitta bruciante.

Giammai bisogna consegnare all'oblio del tempo una verità primigenia: della vittoria va curata la sua nobiltà, poiché nella sconfitta risiede un'inestirpabile dignità. Se i vincitori smarriscono questo profondo legame con le zone sorgive dell'essere, non rimane che aggrapparsi alla dignità dei vinti, la quale ancora ci parla del dolore del tempo, delle sofferenze dell'esistenza e delle ingiustizie che sovente solcano il destino delle donne e degli uomini.

Le costellazioni dell'essere si impiantano tanto sul conflitto quanto sulla solidarietà. E questo non vale soltanto per le donne e gli uomini; ma unisce donne e uomini in una relazione di solidarietà cosmica con l'ambiente e il vivente non umano.

 

Nota

(5) Memoria difensiva presentata alla II Corte Di Assise di Roma, innanzi alla quale, dall’1 marzo 1989, si celebrò il processo a carico di 254 imputati, accusati, quali appartenenti alle Brigate rosse, di aver organizzato un tentativo di "insurrezione armata" contro i poteri dello Stato. Il processo si concluse, dopo un dibattimento durato più di un anno, con l’assoluzione di tutti gli imputati per "insussistenza del fatto". La memoria difensiva che qui si riproduce è stata elaborata e depositata nel febbraio 1989, attraverso una comunicazione epistolare tra il carcere di Bellizzi Irpino (AV) e Torino, città ove uno dei due estensori aveva intanto riacquistato la libertà.

[Estratto da "Società e conflitto", n. 00, 1989]

 

^^^^^^^^^^^^^^^^^

GLI ANNI '60 E '70 E I DETENUTI DELLA LOTTA ARMATA

di Antonio Chiocchi

 

  Una riapertura seria del dibattito sugli anni '60 e '70 è quanto mai necessaria. Finora tutti i tentativi, pur frequenti, di ricondurre la discussione a questo nodo cruciale della storia italiana recente sono stati, più o meno, elusi sul nascere. La classe politica, l'apparato culturale e il sistema dei media, nella grande generalità dei casi, hanno sempre osteggiato un riesame sereno e senza compiacenze intorno alle responsabilità politiche di quegli anni, opponendo periodiche "campagne" di demonizzazione e allarme sociale.

La proposta di indulto, avanzata da parlamentari di diverse forze politiche agli inizi del 1993, poteva essere un'occasione che, accanto allo scopo primario di restituire una prospettiva certa di libertà a detenuti politici sepolti sotto valanghe di anni di carcere duro, perseguisse il non inessenziale obiettivo di rilanciare la discussione sugli anni '60 e '70.

Ancora una volta, così non è stato.

La libertà ai detenuti della lotta armata e la discussione sui nodi degli anni '60 e '70 sono collegate più di quanto possa sembrare e più di quanto l'opinione generale sia disposta a concedere: sono facce dello stesso problema. Quanto più sarà differita un'obiettiva e risolutiva discussione sugli anni '60 e '70, tanto più si congeleranno in carcere i detenuti della lotta armata. Quanto più si custodiranno dietro le sbarre i detenuti della lotta armata, tanto più si rimuoveranno dalla discussione pubblica e dall'immaginario politico-sociale alcune delle questioni irrisolte della democrazia italiana.

Se le cose stanno così, tra i due momenti non esiste una scala gerarchica. Non è questione prima di liberare i detenuti della lotta armata e dopo parlare degli anni '60 e '70. Tantomeno vale l'ordine prioritario inverso: prima la discussione e dopo la liberazione. Si tratta, fin da adesso, di discutere per liberare e di liberare per discutere.

 

In gioco è il rapporto tra movimenti e sistema politico, tra istanze di cambiamento e volontà di conservazione, così come è venuto storicamente dipanandosi dallo spartiacque degli anni '60 e del '68 in avanti.

È, certamente, vero che pesanti e terribili sono state le responsabilità della lotta armata nel vanificare un reale processo di trasformazione politica ed emancipazione culturale della democrazia e della società italiana.

Altrettanto vero è che il campo delle responsabilità politiche è più ampio ed investe il modo d'essere del sistema politico-istuzionale, nelle sue differenziate componenti.

Come è vero che non irrilevanti sono state le responsabilità della sinistra in tutte le sue espressioni (parlamentari ed extraparlamentari, riformiste e rivoluzionarie).

Ovviamente, non tutti portano pari responsabilità. E anche questo si tratta di accertare con obiettività storica. Tuttavia, risulta difficile l'attribuzione delle specifiche responsabilità politiche, se non si procede simultaneamente ad una "ricostruzione" che approssimi, per passaggi successivi, il quadro sociale, politico e culturale che a quegli anni ha fatto da contesto. Altrimenti, il filo della memoria storica e delle identità collettive viene appiattito e ridotto, spesso strumentalmente, a storiografia dei "complotti" e delle "follie estremistiche" che avrebbero preso d'assalto la democrazia italiana. Si deve, purtroppo, registrare che proprio tale è risultato essere l'approccio largamente affermatosi, all'interno di forze non trascurabili della stessa sinistra.

Così, il passato è diventato una gabbia per tutti. Da questa gabbia occorre oggi liberarsi, ognuno per le proprie responsabilità e per la propria storia.

Il modo corrente di fare storia e storiografia politica è assolutorio per la classe politica, sia quella di governo che quella di opposizione. Il silenzio che pertinacemente circonda le premesse e le dinamiche politiche che sono alla base della "crisi di sistema" scoperchiata da "tangentopoli" ne è l'ultima riconferma in ordine di tempo (6).

Per l'orientamento storiografico-politologico prevalente, la democrazia è da presupporre come un'invariante invalicabile; tutt'al più, suscettibile di "alternanza interna" e depurabile da "vizi di moralità". La critica ai limiti della democrazia, in questa maniera, viene destituita di ogni diritto di cittadinanza teorica e politica: chi è stato portatore di critica era ed è, per questo fatto stesso, da stigmatizzare e collocare ai margini della società.

La classe politica di opposizione, per parte sua, abbracciando la sostanza letale di queste posizioni, ha teso sempre più a racchiudere entro la propria progettualità le tensioni del cambiamento, tentando di esercitare quel monopolio della critica che l'ha portata a disconoscere e ad osteggiare il patrimonio politico e culturale dei movimenti sociali degli anni '70.

La classe politica, in tutte le sue varie sfaccettature, si è mossa (e si muove) contro un'idea e una prassi di democrazia partecipata, al di là dei meccanismi tradizionali della delega e della rappresentanza; contro quei movimenti di massa emersi con i cicli di lotta sociale degli anni '60 e '70.

Le sue scelte e i suoi comportamenti sono stati di natura spoliatoria: interdetto ai movimenti sociali e all'individuo è risultato l'accesso alla politica. Anziché accogliere quell'immenso fenomeno di socializzazione della politica e della democrazia veicolato dai movimenti di massa, ha preferito serrare ulteriormente le cerchie della colonizzazione politica della società. Gli anni '70, stretti nelle pulsioni tremende dell'emergenza permanente e della solidarietà nazionale, hanno rappresentato lo spazio/tempo in cui ossessioni statocentriche e rimozione coercitiva del conflitto sociale e culturale hanno raggiunto l'acme. Democrazia senza conflitto: ecco il teorema politico sotteso a queste tendenze. Un potenziale immenso di trasformazione è andato, così, represso e depauperato. Anche da qui partono le cause che hanno condotto alla presente deriva politico-istituzionale.

Queste responsabilità sono agevolmente imputabili alla classe politica di governo e di opposizione.

Ma dalle pulsioni dell'elitismo non sono immuni la classe politica rivoluzionaria e quella combattente.

L'élite armata si è posta come superamento dei movimenti di massa, con la presunzione tragica di far coincidere guerra, rivoluzione e liberazione nella pratica della lotta armata, cercando di inverare coattivamente un ordine senza conflitto e senza democrazia.

L'élite rivoluzionaria ha avocato a sé la titolarità del progetto antagonista, relegando i movimenti di massa al ruolo di "riserva" del proprio campo di organizzazione, declinando verso una posizione che si può rappresentare come conflitto senza ordine e senza democrazia.

Classe politica di governo, classe politica di opposizione, classe politica rivoluzionaria e classe politica combattente sono state affette, ognuna a suo modo, dalla sindrome elitista. Tradizionalismo culturale, conservatorismo politico e paura delle masse sono stati il contrassegno che, loro malgrado e lungo sentieri diversificati, le ha avvinte agli stessi ceppi.

I movimenti di massa, per parte loro, devono annoverare tra i loro torti la sottovalutazione della "questione delle istituzioni", non essendosi posti, in generale, il compito di riversare e stabilizzare il mutamento culturale nella macchina istituzionale. La mobilitazione collettiva tanto più è sconfitta, quanto più non riesce a produrre una classe politica democratica, diretta espressione delle migliori istanze di democrazia e libertà che l'attraversano e in grado, per questo, di forzare la resistenza gelatinosa di poteri intolleranti e conservatori.

Un provvedimento legislativo di soluzione politica della questione dei detenuti della lotta armata sarebbe un primo e concreto atto, per collocarsi finalmente al di là dei limiti del passato, acquisendone in toto le responsabilità, per la parte che a ciascuno compete. Senza, per questo, dimenticare; anzi. La memoria storica, individuale e collettiva, conserva vitalità di senso solo se il ricordo è fattore di mutamento: se ricordare il passato significa trasformare il presente.

 

Nota

(6) Si rinvia, sul punto, all’Editoriale di questo numero della rivista

[Estratto da "Società e conflitto", n. 7/8, 1993]

 

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

ANCORA SU EMERGENZA E DINTORNI

di Antonio Chiocchi

 

1) In Italia, è in auge un sistema sanzionatorio-punitivo che ha introiettato irreversibilmente i cromosomi dell'eccezionalità nell'architettura della norma, destrutturandone l'humus e rimodellandone profili e interventi. Alla base del fenomeno va colta l'azione di un complesso meccanismo di causazione culturale e storica che attiene: 1) alle forme politiche che lo Stato italiano si è dato e che è andato via via ridefinendo e ristrutturando dall'epoca post-unitaria in avanti; 2) alle modalità della crisi che la forma-Stato e la democrazia hanno assunto specificamente in Italia, a far inizio dal '68. Il tutto ha, a sua volta, attecchito sulla crisi della forme giuridiche, nella varie coniugazioni che, dall'originario paradigma pattizio del giusnaturalismo hobbesiano, hanno accompagnato e segnato la storia dell'incivilimento occidentale, partorendo difformi modelli di regolazione della conflittualità sociale e dislocando una rete ampia e differenziata di "archetipi" e "tipi" di controllo sociale. Proprio il combinarsi, sul piano storico-sociale, della crisi delle forme giuridiche con quella delle forme politiche è stata la base materiale dell'innesco dell'emergenza, facendone la fortuna. Si è soliti dipingere l'emergenza e la sua parabola come supplenza, nello "stato di eccezione", della politica (in crisi); come invadenza del 'giuridico' nel campo del 'politico' (in crisi), così surrogato. Così non appare. O perlomeno, dette così, le cose appaiono fortemente distorte e offuscate. In forza di questa distorsione, si è pensato in tempi recenti, anche a sinistra, di combattere i fenomeni della corruzione politica con la mera leva giudiziaria e, parallelamente, di ipotizzare il "ricambio di sistema" come pura e semplice opera di moralizzazione pubblica, finendo, in tutti e due i casi, succubi delle sottoculture e delle prassi dell'emergenza. Il fatto è che l'emergenza, con il suo semplice affiorare, non è il mero indicatore della crisi del 'politico' e della politica; ma, ancora prima e più strutturalmente, segna l'esplicitarsi della crisi del diritto eguale, delle forme giuridiche borghesi, incapaci di fare i conti con il mutamento sociale e culturale con gli strumenti della normalità. E dunque, occorre agire e intervenire sul triplo livello del diritto, della politica e dello Stato.

Con l'emergenza, norma e decisone, norma ed eccezione rompono l'equilibrio dialettico che aveva caratterizzato (nonostante le pretese normative pure di Kelsen e quelle altrettanto pure in senso decisionista di Schmitt) la loro relazione, fin dal farsi costitutivo della modernità (da Machiavelli e Hobbes fino alla "ragion di Stato"). L'emergenza smangia e divora tanto la norma che la decisione ed eleva sé medesima a norma eccezionale e decisione normale, stabilizzando illimitatamente nel tempo e nello spazio i propri codici normativi ed autoritativi. Ancora di più: nel "caso italiano", l'emergenza ha prodotto e territorializzato diffusivamente codificazioni culturali e simboliche all'insegna della più completa destrutturazione non solo e non tanto delle garanzie apprestate dal dettato costituzionale e dall'ordigno penalistico, bensì dei diritti di cittadinanza sociale, civile e politica che dalla Rivoluzione Americana e dalla Rivoluzione Francese fino al Welfare State hanno segnato lo "specifico alto" della parabola emancipatoria della storia occidentale di questi ultimi due secoli. In proposito, l'emergenza italiana può essere assunta come forma embrionale di quella de-evoluzione dei diritti che, dal finire degli anni '80, sta incupendo i paesaggi della mondializzazione e della globalizzazione, generando genocidi, fascismi etnici, fame e povertà su scale di massa persino nelle cittadelle fortificate del nuovo "ordine mondiale". Nel bel mezzo dell’epoca del "villaggio globale", stiamo assistendo alla riscrittura delle "tavole delle leggi" su base etnico-territoriale. L’accesso/esercizio dei diritti e i meccanismi di inclusione/esclusione perdono il loro carattere astratto-impersonale, per declinare tipologie giuridiche imperniate sui "tipi di cittadino", sulla "collocazione territoriale" e sulla "estrazione etnica". La de-evoluzione dei diritti passa al servizio di un processo di reinsediamento semantico del diritto, specificamente modellato sulle esigenze profondamente antidemocratiche dei poteri complessi della contemporaneità e della globalizzazione. Quanto l'emergenza italiana sia pienamente organica a questi processi è testimoniato dalla sua pervicace persistenza e dalla sua riproduzione allargata.

 

2) La riscrittura dei profili normativi e identificativi della soggettività critica e/o antagonistica, delle figure dell'"alterità" e della devianza in chiave di "estraneità" e "nemicità", operata dal pensiero, dalla prassi e dalla mitopoietica dell'emergenza, affonda le sue radici in questo sommovimento profondo, tuttora operante. Soltanto allo straniero, al deviante e all'assoluto "altro da sé" è, difatti, "legittimo" non riconoscere alcun diritto politico e sociale; soltanto al nemico possono essere sospesi tutti i diritti, senza infrangere le "regole" della "convivenza civile" interna alla polis. Ci si può, così, riallacciare, dopo averne mistificato le premesse e gli esiti, ad una tradizione del pensiero politico antico che assimila lo "straniero" al "nemico". Lo scenario del conflitto, della devianza, dell'alterità e dell'antagonismo diventa inevitabilmente teatro della belligeranza. Uno dei limiti più profondi dell'opzione armata e delle organizzazioni combattenti che, in vario modo, l'hanno alimentata è stato non semplicemente quello di aver cooperato all'allestimento di questo teatro bellico, ma soprattutto quello di averne subliminalmente introiettato, senza riserve e fin dall'origine, il virus e il furore. Assurta a dominus della "scena bellica", l'emergenza si è conquistata extratemporalità ed extraspazialità. Immaginario collettivo, socievolezza e vivere associato vengono evocati e regolati con periodiche scariche di belligeranza. Gli inputs e gli outputs della politica e del diritto non fanno altro che marciare, danzando al suono funereo dei codici dell'emergenza. Perciò, la politica e il diritto non fuoriescono dalla crisi; perciò, il diritto e la politica in crisi esprimono forme di governo e di regolazione dispotiche e autoritarie, sempre più indisponibili al conflitto culturale e politico.

Uscire dall'emergenza significa affrontare e risolvere le ragioni della crisi delle forme giuridiche e delle forme politiche: pensare ad un'altra forma della politica ed approntare nuove procedure di approccio al conflitto sociale e culturale. Che è come dire: uscire dall'emergenza da sinistra, ripensando i modelli e le prassi della trasformazione sociale, della libertà e della democrazia. Non basta ripristinare la situazione ante, visto che proprio essa è stata la premessa storico-sociale dell'emergenza. Certo, si tratta di un processo di una complessità senza precedenti. Eppure altre strade non paiono percorribili con successo. Ultima riprova, in ordine di tempo, è la palude politicista in cui si trovano oggi incagliate le forze della sinistra. Mediazioni, passaggi intermedi, opzioni strategiche e scelte tattiche debbono avere l'umiltà di lavorare all'apertura di questo varco.

La discussione politica sull'uscita dagli "anni di piombo" (così come sono stati infelicemente e imprecisamente definiti) e sulla soluzione legislativa meglio conforme alla bisogna, almeno per le forze di sinistra, deve metabolizzare queste ragioni critiche e questi passaggi. Cioè, per rimanere vicini al nostro orizzonte di esperienza, deve riportare attenzioni e interessi adeguati sul non-detto e sull'oscuro della democrazia italiana. È stata la refrattarietà della società politica italiana al carico di domande inoltrate dal '68 e dal ciclo di lotte sociali che ne è conseguito ad aver forgiato i modelli culturali e i moduli operativi dell'emergenza. Le leggi sulle armi e sul fermo di polizia introdotte nella prima metà degli anni '70 (cui si fa abitualmente risalire la nascita della legislazione d'emergenza) e la legislazione speciale degli anni '70 e '80 sono le figlie dirette di quelle culture politiche e istituzionali che avevano duramente osteggiato le lotte operaie e sociali degli anni '60 (e dopo nei '70). Figlie non degeneri di quella prassi di intervento politico che come contromossa della conflittualità sociale e politica non si era peritata di passare dalla "strategia della tensione" al "modello stragista". La delimitazione e sovralimentazione del teatro bellico, da parte delle culture politiche e istituzionali della democrazia italiana, nasce esattamente all'incrocio in cui tutti gli attori del sistema politico hanno trovato un punto di convergenza nel disconoscere e delegittimare le domande di democrazia e di libertà del '68. Le stesse strategie delle organizzazioni combattenti si sono collocate su un crinale di ostilità verso i contenuti e i messaggi di libertà e di democrazia del '68.

E allora, se è vero che una soluzione politica per i detenuti della lotta armata si impone, perché quell'epoca e quel ciclo sono definitivamente tramontati, altrettanto vero è che non per questo semplice motivo l'emergenza appare superata ed è superabile. Anzi, la soluzione politica si impone non soltanto come presa di congedo dall'emergenza di ieri, ma anche e soprattutto come valicamento costruttivo dell'emergenza di oggi. E dunque, trattasi non soltanto di ripristinare le vulnerate "regole minime" di equità, uniformità, universalità e impersonalità della sanzione penale; bensì anche e soprattutto di: 1) rivisitare le lotte sociali degli anni '60 e '70, recuperandone criticamente ragioni e speranze e dismettendone limiti e aporie; 2) allargare l'orizzonte della riflessione critica dal passato al presente (e al futuro) della debole democrazia italiana.

 ottobre 1996

[Estratto da "Società e conflitto", n. 13/14/1996]

 

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

SU INDULTO, LOTTA ARMATA E "PUNTI OSCURI"

di Antonio Chiocchi

  

Nell’intervento comparso su "il manifesto" del 19 agosto scorso, il dott. G. Colombo, sollecitato da un precedente articolo del 12 agosto di Rossana Rossanda, subordina, in linea di principio e di fatto, la concessione dell'’indulto alla messa in chiaro dei ""punti oscuri" del "caso Moro" e del "caso Cirillo". Come "fonte probatoria", il dott. Colombo assume i "documenti", sul punto, prodotti da vari "uffici giudiziari" e le Relazioni della "Commissione Stragi", i cui lavori hanno, in gran parte, fatto leva su materiale di origine o derivazione giudiziaria.

La fonte assunta come prova ha, quindi, con tutta chiarezza, carattere giudiziario. Con stretto riferimento al "caso Cirillo", il dott. Colombo osserva che i dubbi riguardano "il contenuto dell’accordo che ha permesso la sua liberazione, le contropartite e pochi altri dettagli".

Si vuole qui articolare un punto di vista a contrario. Chi scrive è stato componente della direzione della colonna napoletana che ha programmato e gestito l’"operazione Cirillo" al cui contesto deve evidentemente attenersi.

Innanzitutto, un dubbio. È lecito, in sede di giudizio storico-politico, innalzare a unico elemento di indagine, di prova e di valutazione il materiale documentario di origine e/o derivazione giudiziaria? Insomma, chi scrive e riscrive la storia: il giudice o lo storico?

E poi: può lo storico (e il giudice) omettere di cercare di fissare, per approssimazioni successive, gli elementi soggettivi e oggettivi che concorrono a fare e disfare testo, contesto e processo di un evento o di un fenomeno storico? Diversamente operando, come lo storico potrebbe risalire alle responsabilità dei vari attori politici e soggetti sociali; e come il giudice distinguere la responsabilità penale dalla responsabilità politica, senza consentire che l’una slitti e si confondi nell’altra?

E infine: diversamente come storico e giudice potrebbero sottrarsi agli incantesimi affabulatori delle "teorie cospirative" e delle loro variegate subespressioni?

 

Molti dicono che compito del giudice è quello di "amministrare la giustizia" e non già sanzionare, secondo finalità politiche, fenomenologie o patologie sociali. D’accordo. Tuttavia, va fatto osservare che proprio la pretesa di far coincidere la "verità giuridica" con la "verità storica", soprattutto in tema di "delitto politico", cancella la storia come evento e la riscrive come una concatenazione di catastrofi da fronteggiare unicamente con gli strumenti coattivi approntati dalla legge, ingigantendo la presenza del diritto penale nel "sociale" e restringendo, in un movimento senza ritorno, gli spazi di democrazia e di libertà.

Sembrerebbero, queste, questioni di lana caprina; oppure esercitazioni bizantine fini a se stesse. Così non è.

 

Tornando al "caso Cirillo", si cercherà di mostrarlo in concreto.

Che Cirillo sia stato liberato dalla colonna napoletana delle Brigate rosse è a tutti noto. Pochi hanno cercato, però, di investigare intorno alle ragioni politiche di siffatta liberazione, preferendo imbastire intorno alla materia improbabili storie di fantapolitica. La colonna napoletana delle Brigate rosse, sequestrando Cirillo, si era prefissata di raggiungere alcuni risultati politici; ritenendo di averli raggiunti, liberò il prigioniero.

Ora, dove sta lo "scandalo" vero della questione? Nella trattativa che la colonna delle Brigate rosse (e solo la colonna napoletana delle Brigate rosse) ha condotto con la famiglia di Cirillo e il suo partito; oppure in un fantomatico "patto a tre" fra brigatisti, camorristi e servizi? L’analisi politico-giornalistica e le inchieste giudiziarie (in primis: le istruttorie e le sentenze-ordinanze del giudice Alemi) hanno preferito privilegiare la seconda pista: essa era dotata di indubbio appeal e consentiva di liquidare e demonizzare, con effetto immediato, un fenomeno che, invece, aveva un’indubbia, per quanto distorta e perversa, matrice politica.

Occorre, dunque, ritornare alla realtà storica e politica.

Gli obiettivi che la colonna napoletana intendeva conseguire con il rapimento e il sequestro di Cirillo erano i seguenti: (i) requisizione delle case sfitte nel centro storico e nella città di Napoli; (ii) corresponsione straordinaria di un salario ai disoccupati di Napoli; (iii) chiusura della roulottopoli della Mostra d’Oltremare; (iv) pubblicazione sugli organi di informazione del proprio materiale politico-ideologico e degli "atti" dell’"interrogatorio Cirillo". Ebbene, questi obiettivi furono tutti raggiunti. Sulla base di ciò, la colonna decise per la liberazione di Cirillo. L’obiettivo riscatto fu attuato dopo il conseguimento materiale delle risultanze politiche di cui sopra.

 

La verità è, dunque, questa: la colonna avrebbe liberato Cirillo, anche senza il pagamento di alcun riscatto. Ciò è noto allo stesso giudice Alemi (alla cui sentenza-ordinanza si riferisce esplicitamente il dott. Colombo) che, però, ha omesso di tenerne debitamente conto.

In linea di massima, nella ricostruzione dell’attività della colonna napoletana delle Brigate rosse, l’ermeneutica giudiziaria (e, dietro lei, i media e la politologia) è stata protagonista di una paradossale inversione di paradigmi: ha approcciato il fenomeno camorristico con una chiave di lettura politica e quello brigatista con una chiave di lettura criminogena. Conseguenzialmente, la camorra cutoliana è stata trasformata nel "mandante" e i brigatisti negli "esecutori materiali".

Due sono state le dimensioni dell’operazione Cirillo che, nella cronaca politica e giudiziaria, sono state costantemente messe in ombra: (i) la natura politica degli obiettivi dichiarati e praticati dalla colonna napoletana delle Brigate rosse; (ii) il fatto storico e politico che il pagamento del riscatto non ha mai fatto da condizione per la liberazione del prigioniero. La nebbia calata intorno a queste evidenze è, del resto, stata resa funzionale all’accreditamento del famoso "patto scellerato" tra brigatisti, camorristi e servizi. Mentre, invece, le trattative sono state sempre due, distinte e separate. Quella tra la colonna napoletana delle Brigate rosse e la famiglia di Cirillo e il suo partito, da una parte; quella tra sottosistemi politico-istituzionali e camorra cutoliana, dall’altra. La colonna napoletana delle Brigate rosse, prima, nel corso e dopo l’operazione, non si è mai sottratta alle sue responsabilità. Anzi, con il comunicato finale di rivendicazione ha pubblicamente dato conto (anche) di aver "espropriato" Cirillo, la sua famiglia e il suo partito di 1.450.000.000; altri, in quella circostanza e dopo, negarono trattativa e pagamento del riscatto.

E, allora, sono queste "altre" responsabilità politiche e storiche che vanno chiarite; non già quelle della colonna napoletana delle Brigate rosse. Le quali responsabilità, senz’ombra di dubbio, restano gravi e terribili. E tuttavia, non possono essere surrettiziamente ricostruite.

Come di "altri", e non già delle Br, sono le responsabilità del perché per Moro non si trattò, mentre invece per D’Urso e Cirillo sì. I "misteri d’Italia" si annidano in questa "linea d’ombra", la cui origine lontana si colloca in quello spartiacque che vede il passaggio dalla "strategia della tensione" alle "pratiche stragiste".

 

Le responsabilità della lotta armata sono pesanti e, nondimeno, chiare e circoscritte. Ma su di esse non si può speculare (nel senso neutro del termine), per difetto di metodologia di ricerca, insufficienza di analisi ed eccesso di strumentalizzazione politica. Meno che mai possono essere agite come clausola ostativa di un provvedimento legislativo di chiusura di una drammatica fase storica; provvedimento che, anzi, appare fin troppo tardivo.

Viene, infine, fatto di osservare: è un caso che le forze e gli attori che più si oppongono alla "soluzione politica" del problema rappresentato dai detenuti della lotta armata, oggi come ieri, sono coloro che più si oppongono ad una serena discussione sugli anni Sessanta e Settanta, per l’accertamento e l’autoattribuzione delle responsabilità politiche e storiche di tutti gli attori e i soggetti in campo, secondo il grado che ad ognuno compete? Non è, questo, uno smaccato tentativo di consolidare e riprodurre all’infinito la propria irresponsabilità politica, dilatando, universalizzando e rendendo oltremodo afflittiva la responsabilità politica altrui? Non è anche questo un grande problema di democrazia e di libertà?

( agosto 1997)

[Estratto da "Società e conflitto", n. 17/18, 1997]

 

Ù

Vai sopra

Ù