Estratti di "Società e conflitto"

n. 2, 1999

 

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Estratti di "Società e conflitto"

 

LA DISSOCIAZIONE

VALENZE STORICHE E SPAZIO APORETICO

 

 

1ª edizione aprile 1999

 

 

 

NOTA EDITORIALE

LA DISSOCIAZIONE: VALENZE STORICHE E SPAZIO APORETICO

1. Le posizioni principali

2. Una rimessa in discussione

3. Dissociazione e crisi della rappresentanza

 

 

 

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NOTA EDITORIALE

Il testo che si presenta non è estratto da "Società e conflitto", bensì dal n. 1 dei Quaderni di "Società e conflitto" (Antonio Chiocchi, Note sulla democrazia italiana, 1989), di cui costituisce il capitolo VII. Qui, per facilitarne la lettura, lo si ripropone, titolandone i paragrafi.

I paragrafi che costituiscono l’estratto sono stati redatti secondo questa serie temporale:

Con questo numero degli Estratti di "Società e conflitto", in un certo senso, si porta a compimento l’operazione editoriale di testimonianza sulla "dissociazione politica dalla lotta armata", iniziata con i numeri 6, 7 e 8 dei Quaderni di "Società e conflitto" e con il numero precedente degli Estratti.

 

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LA DISSOCIAZIONE: VALENZE STORICHE E SPAZIO APORETICO

 di Antonio Chiocchi

 

1. Le posizioni principali

Tre sono le principali posizioni al momento emerse all'interno del pianeta della dissociazione :

  1. quella che continua e attualizza il discorso politico iniziato dai detenuti del "processo 7 aprile" con il " manifesto dei 51" dell'agosto del 1982 e che coniuga soluzione politica con dissociazione;
  2. quella di un'area di detenute e detenuti politici, sempre in Roma Rebibbia, che collega soluzione politica e recessione dalla lotta armata;
  3. quella proposta da Prima Linea, la prima organizzazione combattente ad affrontare adeguatamente il problema, che collega la soluzione politica alla "mediazione conflittuale" e alla "reversibilità della pena".

Ripercorriamo dall'interno queste tre posizioni.

Lanfranco Caminiti, Franco Tommei e Paolo Virno propongono quello che sembra il più lucido intervento in tema di soluzione politica (1).

Vediamolo.

V'è un primo collegamento storico-politico col "manifesto dei 51", il cui merito — si sostiene — oltre " aver promosso una generale ripresa di politica fra i detenuti per fatti di eversione" è quello di aver posto delle discriminanti non in relazione al passato, ma al presente: con riguardo "non ai capi di imputazione", ma relativo "a un patto di percorso per superare il terrorismo, uscire dall'emergenza, criticare in radice penalità e carcere, costruire liberazione". Il problema della soluzione politica — viene ribadito — era posto fin dall'inizio non in termini di " abiure o in qualunque forma di proclamato lealismo nei confronti dello Stato". Quali le condizioni resesi possibili per l'abbrivio di un siffatto discorso? Sono gli stessi estensori dell'articolo a rammentarcelo: " a) un giudizio irrevocabile sulla fine della lotta armata; b) la critica politica delle sue radici e della sua parabola, mettendo in chiaro ciò che, nel rapporto istituzioni/movimenti, era stato causa della sua produzione allargata; c) la costruzione di una cultura avversa al pentitismo di massa; d) la rottura secca con le residue frange 'combattenti"'. Da ciò viene inferita la seguente conclusione: "Sulla base di queste premesse, proponemmo un graduale processo di depenalizzazione, che riguardasse progressivamente tutti i reati politici, anche i più gravi. Ci schierammo per una soluzione politica articolata e complessa, e però completa. Anzi completa, proprio e solo perché articolata e complessa".

Spostandoci dalle premesse agli obiettivi, il campo aperto dei problemi viene così tratteggiato:

  1. "introdurre consistenti elementi di cambiamento nel funzionamento delle istituzioni, nella cultura politica, nel senso comune";
  2. il carcere è divenuto il "punto nevralgico attorno cui si giocano l'equilibrio fra le corporazioni statali, la redistribuzione dei poteri, l'intero statuto delle libertà";
  3. "ogni soluzione 'semplice’ e 'univoca' è una truffa" .

Univoca appare, dentro questa logica stringente, la proposta di amnistia: "è un atto unico e ultimo, inizio e fine. Pertanto, le fasce di reato escluse, sono escluse definitivamente, non più legittimate a sperare. No, grazie, una simile beffa non serve a nessuno. L'amnistia è per chi ha ucciso o non è. E per giungervi v'è un percorso sia politico che legislativo fatto di ottenimenti parziali, di mille singole battaglie di merito". Il giudizio su questa proposta è sferzante: "ipergarantismo ideologico nella purezza dei principi; inconcludente nei passi pratici".

La linea semplificatrice che sta dietro l'amnistia non riesce a darsi conto, sostengono gli autori, che i 5 anni di emergenza hanno apportato una " trasformazione profonda dell'intero sistema politico-istituzionale". Mutate sono uscite, si precisa, forma del governo, regole della politica e procedure della decisione. Per cui "paragonare l'emergenza a un blocco, al trionfo del sempre uguale, a una sorta di immobilismo digrignante, vuol dire essere ciechi... Per dirla in modo provocatorio: l'emergenza ha avuto la forza di un new deal per la società politica italiana". Fuorviante diventa, allora, agitare il falso obiettivo del ritorno a una "normalità pregressa". Anzi: "il punto è trasformare una trasformazione soda intanto avvenuta, il che non può essere che un'operazione complessa e laboriosa".

Sull'apparato fornito da queste argomentazioni comincia a prendere corpo uno dei punti forti dell'articolo. "L'emergenza è divenuta irreversibilmente forma di governo. Cosicché, a essere molto sintetici, la soluzione alla questione della detenzione politica è ipotizzabile solo come ‘nuova eccezionalità', di segno opposto a quella trascorsa". Ed ecco la qualificazione della "nuova eccezionalità": "emergenza di libertà, ma stavolta depenalizzanti, miranti a rendere precario proprio ciò che ha reso precario la vita di tanti: il carcere".

Fermiamoci solo un attimo per cogliere il nesso qui postulato tra potere e forma di governo sulla linea della "nuova eccezionalità": ''Che il potere coincida sempre più con un’"emergenza'', con emergenze successive non è detto sia un male: rilevante è, e sarà, sempre di più trattare con tutti gli apparati istituzionali sul contenuto dell'emergenza, sui suoi confini, sulle garanzie di autonomia di ciò che invece è ‘fisiologico' ".

Ciò non può non portare a riconsiderare il nesso movimenti/istituzioni, proprio a partire dai momenti alti sanciti dal movimento del '77. "Quel che il movimento del '77 aveva alluso, senza mai però concretare, era esattamente un rapporto forte tra separatezza dei movimenti e trattativa con le istituzioni. O anche: fra fisiologia della autodeterminazione, della trasformazione molecolare, e pattuizione di quella 'emergenza' che sempre più il governo, come tale, è".

Ancora un altro nesso: quello tra soluzione politica e processi, analisi politica degli anni '70/aula giudiziaria: "La ricostruzione storica e l'analisi politica degli anni '70, come pure la messa in risalto delle differenze profonde dei percorsi organizzativi, vanno portate dentro le aule giudiziarie. Si è cominciato a farlo, bisogna insistere. Solo se su un'intera serie di vicende e nessi associativi, e lotte e anche illegalità, ci si saprà battere sulla linea del 'fatto non costituisce reato', cioè del ridimensionamento e della contestualizzazione, sarà poi anche possibile preparare soluzioni per le derive, per gli impazzimenti, gli orrori che pure vi sono stati". Ciò perché — sul presupposto "quasi unanime del distacco obiettivo, politico, e quindi solido, dalla lotta armata" — tutto questo "costituisce il risultato di una battaglia politica, la nuova base materiale e culturale per attaccare l'emergenza. Anche in Assise".

Ultimo problema organicamente sollevato: il "pentimento di massa". Si osserva: "Con ogni probabilità, il sentimento diffuso è una forma estrema e perversa di 'critica della politica’, ossia di quello che era stato un tema forte dei movimenti. Solo, il rattrappimento della politica richiedeva e richiede, come contrappeso, l'affermazione di istanze etiche comunitarie entro una pratica di trasformazione di lunga lena. Altrimenti può anche, paradossalmente, finire, come dono insperato, nelle mani dei giudici di guerra" - E allora? "Allora superare il ‘pentitismo’ può significare solo costruzione di una nuova identità etico-politica, nel carcere anzitutto, dove tutto l'orrore è divenuto esperienza. Non si esce dall'emergenza di questi anni senza avere compreso e riassorbito la formazione progressiva di una nuova soggettività in grado di chiudere i conti con gli anni '70 ... Questa nuova soggettività in progress deve costituirsi, crescere e poi anche trattare il proprio riconoscimento da patte delle istituzioni".

Passiamo alla seconda posizione (2).

Si sostiene esplicitamente che l"'innesto del terrorismo" avrebbe caratterizzato una "lunga fase della vita istituzionale". Ma su cosa il terrorismo si sarebbe innestato? Sulla "presistente emergenza politico-sociale". Risultato: "il prevalere assoluto della tattica dell'efficacia sulla strategia di aumento della razionalità politico-amministrativa". Riconferire efficacia alla seconda vuole dire porre fine allo "stato di eccezionalità che ha investito il diritto, la legalità, la convivenza civile". Ma, ora: "Contestualmente a questa esigenza si pone quella più problematica di una soluzione per i detenuti politici". Il nesso qui sollevato — e che investe in prima persona i detenuti politici — è il seguente: stabilire una "connessione produttiva tra soluzione per i detenuti politici, fine dello stato di eccezionalità e trasformazione dei conflitti".

Posto questo nesso, consegue il seguente e stringente corollario: "l'immediata liberazione di quella patte di detenuti politici protagonista dell'illegalità di massa (e vittima di quell'emergenza che ne ha inchiodato l'attività sovversiva al reato di banda armata) non è conclusione, bensì premessa della soluzione politica". È la criminalizzazione dei protagonisti di questi movimenti che "impedisce una libera ricostruzione del quadro di fondo di bisogni in cui si è sviluppata la lotta armata — come espressione assoluta, precipitato radicale di illegalità e sovversione".

Se la sovversione è stata dall'emergenza ricondotta e ridotta al reato di banda armata, la "soluzione politica non può che andare di pari passo con una generale riconsiderazione del 'delitto politico’". Col che la soluzione politica deborda il pur necessario campo garantista della "restituzione dei diritti del singolo". L'intervento sul mero terreno del diritto non pare qui bastevole a "bloccare l'uso sistematico, abnorme del concorso 'associativo' o 'morale"'.

Come base di ancoraggio dell"'uso massivo" del concorso morale viene individuato "il prevalere della liquidatoria logica politica amico/nemico". È in questa logica, non tanto nell"'adeguamento del diritto al diffondersi dei reati associativi", che risiede, si sostiene, la linea da smontare.

Non soltanto i reati associativi, insomma, debbono essere caratterizzati e previsti giuridicamente come reati politici. Pertanto, la " depenalizzazione dei reati associativi" non può bastare. Tanto più che la grandissima maggioranza dei detenuti politici è "imputata a titolo di partecipazione o di concorso di fatti gravissimi. Ed è di queste imputazioni che bisogna aver il coraggio di parlare se non ci si vuole nascondere dietro il dito di lievi reati".

La ricategorizzazione della fattispecie " delitto politico" è, però, solo un corno del dilemma. Al polo opposto troviamo la "recessione dalla lotta armata". "l'abbandono critico ed irreversibile delle proprie passate scelte politiche". Recessione dalla lotta armata è "superamento della lotta armata, restituzione di ogni spinta radicale al cambiamento nell’ambito complesso della trasformazione sociale". Questo "percorso" prende corpo con "l'avvio del processo di soluzione politica". Recessione è qui anche congedo da una "cultura che ci ha portato ad ignorare i tempi complessi della trasformazione, ha rovesciato irreparabilmente il vincolo etico tra i valori che si dovevano affermare e i modi della loro affermazione ... che ha finito col favorire la cultura della restaurazione, anziché quella del cambiamento". Da questa cultura e da questa violenza, si afferma, occorre recedere. Come collettiva è la recessione, così collettiva e graduale deve qui essere la soluzione politica.

Il discorso si completa ulteriormente con l'appello alle "forze politiche", affinché si assumino "l’onere del processo generale di superamento dell'eccezionalità e porre termine all'improprio compito di supplenza affidato alla magistratura". Del resto, affermano i firmatari del documento, questo approccio è già contenuto nella premessa della legge di riduzione delle pene per i reati politici recentemente presentata al Senato.

Un'ultima cosa non poteva mancare: l’appello ai movimenti. Il processo di superamento e recessione è rapporto coi movimenti dentro il generale processo di "trasformazione della società". Con l'ulteriore esplicazione: "Tale processo coincide per noi con l’impegno per la decarcerizzazione, per la trasparenza del buco nero carcere. Per la restituzione di questa porzione di società ad un rapporto diretto, di cooperazione, col territorio sociale che attui quel decentramento decisionale e partecipativo che solo può garantire un processo di risocializzazione e decarcerizzazione".

Approssimiamoci alla terza posizione, esemplificata da un articolo di alcuni componenti del quadro di direzione di Prima Linea, Chicco Galmozzi, Roberto Rosso, Sergio Segio e Nicola Solimano (3).

L'articolo in questione assume come suo punto di riferimento principale il contributo di Caminiti, Tommei e Virno prima esaminato. Anche se non ne replica l’impianto, le posizioni e le prospettive: la "nuova eccezionalità" dei primi diviene nei secondi "contro-emergenza". In questo passaggio, si determina una nuova semantica e un nuovo contesto politico. Ciò che rimane è solo una tenue parentela linguistica di superficie. Per la verità, un confronto esiste anche in direzione del documento della recessione politica dalla lotta armata, che abbiamo appena finito di esplorare. Ma, anche in questo caso, non si assiste alla riproposizione fedele della posizione altrui, ma un discorso definito in proprio. Questo tipo di oscillazione è anche determinato dal fatto che è chiaro il tentativo che traspare dall'articolo di cercare di definire una posizione e una strategia nuove e inedite all'interno del panorama in prima istanza prodotto dalla dissociazione. E una posizione strategica che, differentemente dalle precedenti, tenta di far collimare il discorso dissociativo con lo specifico delle organizzazioni combattenti che la lotta armata l'hanno praticata su vasta scala e per un relativamente lungo periodo di anni. Fino a questo tornante storico, fondamentalmente, la dissociazione, più che promanare dall'area della lotta armata, è germinata nell'area della sovversione sociale e dell'illegalità di massa. È con la scelta dissociativa di Prima Linea che la dissociazione fa il suo ingresso nel mondo delle organizzazioni combattenti, in maniera strutturale. Da qui un'accentazione diversa all'intera problematica, dalle analisi di fondo alle proposte conclusive. L'articolo in questione è il momento più alto, all'interno di Prima Linea, in cui questo passaggio viene vissuto ed elaborato.

Vediamolo da vicino.

La riflessione autocritica sui percorsi e gli esiti della lotta armata deve riconnettersi alle "esperienze attuali di trasformazione e liberazione sociale". Deve significare "interloquire" e "partecipare" con quel movimento complesso, non unitario "sicuramente egualmente attraversato dalla tensione a mettere in moto una contro-emergenza, riaprire spazi e dinamiche sociali capaci anche di aggredire il terreno delle trasformazioni istituzionali".

Contrapposta a questa definizione del dialogo e degli interlocutori dentro e tra i movimenti sta "un bisogno urgente, oggettivo del sistema dei poteri che formano lo Stato, di stabilire nuove regole del gioco". L'esigenza avvertita è quella di mettere in comunicazione queste due esigenze contrapposte: creare nuove regole del gioco, in fondo, vuole dire gettare un ponte comunicativo e trasformativo tra questi interessi pure all'origine divergenti. Questa "congiuntura" appare, coerentemente, agli occhi dei firmatari dell'articolo, quella in cui "si può realizzare una mediazione conflittuale tra la spinta alla eliminazione delle leggi e della cultura dell'emergenza e alla liberazione dei prigionieri politici e le necessità dei poteri dello Stato".

Quello della mediazione conflittuale resta uno schema binario che si basa su riconoscimenti incrociati e reciproci. Riconoscimenti non solo di identità, ma anche di volontà. Cosicché conseguente appare il seguente riconoscimento: "Le forme di governo, ma più in generale tutto lo schieramento politico rappresentato dentro le istituzioni, esprimono l'esigenza e l'idea che sia necessario controbilanciare — con tendenze di segno opposto — processi di riorganizzazione sociale il cui andamento è spesso catastrofico e foriero di enormi realtà di emarginazione sociale".

Stesa la rete materiale dei riconoscimenti incrociati, fiorisce il terreno degli obiettivi comuni (agli schieramenti interessati e percorsi dalla mediazione conflittuale):

  1. "trasformazione necessaria delle procedure, delle norme e dei criteri fondamentali della prassi penale da rendere più aderenti e rispondenti alla nuova materia sociale cui si riferiscono";
  2. "produrre nuove forme di integrazione sociale (a ciò va ferreamente finalizzato tutto il dibattito sulla " pacificazione").

La mediazione conflittuale acquisisce qui il senso di un metavalore simbolico: "In questo senso si sovraccarica di valore simbolico e di significato politico la soluzione della contraddizione rappresentata da migliaia di prigionieri e di persone che vivono in uno stato precario di libertà vigilata. Assistiamo così al proliferare di proposte di riforma parziale del codice di procedura penale mentre si sviluppano dibattito e proposte su varie ipotesi di soluzione politica, più o meno mascherate da amnistia".

Rompere questo sovraccarico, liberarsi di questa zavorra, significa (anche) modificare il quadro entro cui la magistratura è costretta ad operare: "Se i mezzi ordinari attualmente in possesso della magistratura e dello Stato si rivelano inadatti, veramente solo una 'nuova eccezionalità', ma di segno opposto, può affrontare e risolvere il problema, e non vi è dubbio che si tratta di una porta stretta o meglio di un sistema di passaggi spesso disagevoli che anche per noi è giocoforza attraversare".

In moneta sonante, l'esigenza primaria avvertita è quella di formare uno "schieramento vasto, dalle forme diversificate di riattraversamento, di superamento dei e separazione dai percorsi della lotta armata". Necessita, perciò, "aprire" il gioco "allo sviluppo di conflitti sociali", per mandare a soluzione il problema della "separatezza con le dinamiche societarie". Una volta di più: occorrono nuove regole. Riferimento comune per tutti "è quello a forme di mediazione dei conflitti e della trasformazione che si oppongono alla logica catastrofica di degenerazione della possibilità e della qualità della vita di individui e collettività". Con la presente congiuntura di mediazione conflittuale si aprirebbe, quindi, la questione "di una categoria nuova di diritti e quindi di spazi per conflitti a fronte di esigenze di stabilità degli istituti di governo in una situazione di turbolenza sociale". Dunque: soluzione politica finalizzata alla "determinazione di più generali processi di diffusione della libertà"; sottrazione di individui e collettivi allo "strapotere statalista" e loro restituzione alle "mediazioni conflittuali".

Ricostruito che abbiamo il campo delle posizioni principali presenti all'interno della dissociazione, possiamo concludere questo "rendiconto" del fenomeno, tentando di individuarne le componenti storico-filosofiche più profonde e meglio qualificate. Componenti che, spesso, nelle formulazioni politiche e nella definizione dei vari assetti e delle differenti proposte politiche, si perdono per strada, indebitamente mortificate in seconda fila o addirittura rimosse dalla scena dell’azione e della comunicazione.

V’è una rappresentazione a sfondo destinale nella scelta e nell’esperienza della dissociazione: oltrepassare la soglia del destino dell’ex. Ex combattente, in questo caso. Il punto è trasformare l’impossibilità del ritorno indietro (alle vecchie scelte) nell’andata in avanti. Si tratta di cono collocarsi e di non lasciarsi più collocare in una catastrofica terra di nessuno, in cui risulta disagevole tanto proseguire il cammino, quanto retrocedere. Il punto cruciale non sta semplicemente nella negazione o nel superamento della lotta armata. Quasi che si trattasse di far ritorno, adattandovisi e conformandovisi, ai valori della società che si era prima combattuta. Cruciali sono le forme del ritorno, gli esiti e le prospettive entro cui il ritorno va inserendosi.

Non esiste una casa paterna bella e pronta che sta aspettando un figliuol prodigo già bello e fatto. Il ritorno è un punto di ricerca più avanzato; e la ricerca è apertura alla vasta gamma delle possibilità che si danno nella vita sociale, nelle opzioni politiche, nella sfera delle relazioni intersoggettive e nell’ambito delle disposizioni emotive. La ricerca non porta a casa, ma cerca una casa. La casa di tutti, in questi tempi di grandi crisi e smarrimenti, è tutta da costruire e ricostruire e non si sa bene ancora cosa sia e dove sia. Né il mero ribaltamento dissociativo, alla stregua di qualsivoglia atteggiamento univoco, contribuisce a costituire i contorni forti di un "soggetto pieno", autodefinitosi a mezzo di errori e di scelte approssimate per selezione progressiva. Ciò che non poteva riuscire al combattente comunista — e in generale al Soggetto — tanto più non può riuscire al dissociato, volendo schematizzare, fino a rasentare la brutalità, i termini della questione. Si tratta semplicemente e intensamente, di riscoprire di avere un destino. E scoprendo di non avere perduto definitivamente il proprio destino, si possono iniziare a trovare risposte utili all'angosciosa domanda: in quale luogo andare e tornare, se si viene da nessun luogo?

Sia consentita una fuggevole divagazione letteraria. Ecco come Canetti tratteggia la figura del professore Peter Kien, protagonista di Auto da fè: "Era come se si fosse barricato dentro la terra; come se si fosse costruito, contro ogni realtà esclusivamente meteorologica, una cabina, un'enorme cabina, tanto grande da poter contenere quel poco che sulla terra è più che terra, più che la polvere in cui alla fine la vita si dissolve: e poi l'avesse serrata ermeticamente e riempita di quel poco". A questa cabina occorre risalire, per aprirla al tanto, al troppo, al poco, al tutto che la terra e la vita contengono. Solo così si può fare a meno delle "cabine".

Lungo questi sentieri è possibile porre fine alla condizione di esuli nel proprio tempo e nella propria terra, ritrovando radici antiche, ritenute perdute e che nemmeno la lotta armata aveva potuto estirpare del tutto. Da qui in avanti diventa possibile l'innesto di altre e nuove radici. Anche per questo, per liberarsi del tragico destino dell'ex, occorre scandagliare a ritroso i fondali nascosti del passato. Quanto più ci si risospinge indietro, tanto più si riconquistano solide superfici. Ma lo stridore della riproduzione speculare del passato lo si vince decisivamente sul terreno della proposizione e riorganizzazione del proprio presente.

Su questa molteplicità di territori la dissociazione ha cercato di costruire positivamente, affinché non solo si ripristinassero normalità e fisiologia del conflitto politico, ma anche regole di vita che col rispetto dei destini individuali sapessero esaltare forme di civiltà, di convivenza e di comunità sottratte al gioco degenerato delle contrapposizioni e delle disposizioni coercitive.

La dissociazione è stata un cammino verso la società e la storia, ripristino e tessitura di dialoghi interrotti, sbocco dei processi che l'emergenza e la lotta armata avevano occluso, tensione verso una geografia riarticolata dei diritti e delle relazioni sociali. Tuttavia, ciò non è ancora condizione sufficiente, pur essendo presupposto necessario. Occorre agganciare un piano di convergenze che renda sempre più remoto e improponibile non solo il passato della lotta armata, ma anche e soprattutto il contesto sociale e politico lacerato in cui è maturata. Sanare le ferite del presente vuole dire riprendere tra le mani le ferite del passato, assumendosene la responsabilità, ognuno per la parte che gli compete.

È necessario scandagliare e riscandagliare la zona d'ombra tra passato e presente. Ritornare alle origini ha anche il senso di ritrovare la complicatezza delle cose che la lotta armata ha negato. Guardare da vicino, dunque, e non solo da lontano. Ciò che è guardato da lontano ha una sua semplice chiarezza, osservato da vicino torna a complicarsi. Da una condizione di esternità si accede a una di internità al mondo. È possibile tornare alle origini solo partendo da lontano. Si può andare lontano solo partendo dalle origini. Seguire il mondo diventa, così, seguire anche sé stessi. Ricollocare sé stessi nel mondo è concorrere con altri alla esplorazione dei mille rivoli dell'esistenza e della vita sociale. Anche per questo la dissociazione è un fenomeno che riveste una particolare importanza.

Una la domanda a cui trovare con urgenza le risposte: come è potuto accadere che in una società altamente complessa si sia prodotta la scelta armata? Diversi osservatori, non solo la dissociazione, si vanno ultimamente interrogando sul filo di questa domanda. Un groviglio di nodi di natura politica, istituzionale, etica, giuridica e sociale qui emerge. Qui resta da dipanare. Trovare soluzioni eque alla massa enorme di questi problemi, non lesive dei diritti dei singoli e della collettività, è impegno comune e concreto nella direzione di una chiusura senza reticenza con un'epoca storica che, ormai, ha esaurito irrimediabilmente il suo ciclo, predisponendo nuove occasioni di libertà per tutti.

Non è facile pensare e allestire risposte congrue a domande così inquietanti. Ma niente è mai facile per nessuno. Come non è stato facile prima scegliere la lotta armata e come è stato ancora più difficile dopo prenderne commiato. Le forme della lotta armata e della vita sociale negli anni Settanta e in questo inizio degli anni Ottanta hanno sperimentato su sé stesse catastrofi sovente intrecciate. Ciò che si richiede è che i titolari di questo incrocio, ognuno per la parte che gli compete, si trasformino, partendo da sé stessi, per reincontrarsi in un punto più avanzato, in cui l'intero paesaggio risulti ridisegnato da sedimentazioni successive. Chi se ne sottrae, si assume la responsabilità di perpetuare blocchi e divieti antichi che non hanno, se mai l'hanno avuta, ragione d'essere. Di questo porta e porterà la responsabilità di fronte alla società e alla storia. V a gettato un ponte tra il "nonsenso" del passato e il senso del presente in tutte le sue dimensioni. Protensione verso il futuro non può non essere solidificazione di presente, di attimi pieni e durate vive.

Attingere a questi valori è possibile in ogni punto dell'esistenza e della storia- In ogni punto agisce e patisce una pluralità di forze. È per questo che c'è costantemente sempre qualcosa che non giunge a completa maturazione. Ed è qui che il semplice scavo nelle profondità del tempo, del tempo della politica e dell'esistenza, non basta più. Diventa necessario scavare, con altri, ai margini, sul limite, per far posto a un'altra realtà.

2. Una rimessa in discussione

È tempo di proporre, seppure in maniera stringata, una rimessa in discussione dell'esperienza fin qui condotta dalla dissociazione e dalle varie Aree Omogenee nel loro impattare i rompicapo della: a) rielaborazione dell'azione e della comunicazione politica; b) della "questione carcere".

La dissociazione è nel pieno di una situazione di impasse che dura dalla fine del 1984, se non prima. La fitta rete delle transizioni in corso, dentro e fuori del carcere, reclama, per parte sua, una rielaborazione della riflessione e una riconversione delle pratiche. La questione non è data dalla presunta necessità di estrapolare prospezioni strategiche. La stessa strategia, del resto, non ha più davanti a sé lo spazio dei campi lunghi e la temporalità dei lunghi periodi. Ciò che si può e si deve fare è individuare parziali prospettive di marcia, tentando di aprire un angolo di discussione feconda tra la prospettiva culturale e quella politica.

È proprio il campo di tensione del rapporto tra cultura e politica quello in cui si sono avvertiti i più grandi limiti della dissociazione; al punto che i punti nodali accumulatisi e non sciolti hanno finito con lo stringerla e soffocarla, come un cappio alla gola.

Cerchiamo di seguire questo itinerario critico.

La dissociazione politica dalla lotta annata ha, ben presto, finito col travalicare la contingenza politica che l'ha partorita. Da dato politicamente attinente alla soluzione del conflitto senza mediazioni introdotto dalla scelta dello scontro armato, ha finito con l'investire:

  1. alcune delle condizioni cardine su cui si regge il modello custodialistico del penitenziario moderno;
  2. l'intreccio di retribuzionismo e positivismo su cui si impernia la cultura della sanzione penale vigente.

Tale passaggio si è, grosso modo, accompagnato alla formalizzazione estesa a più di un istituto penitenziario dell'esperienza delle Aree Omogenee, tra il 1984 e il 1985.All'altezza di questo passaggio, va colto un significativo spostamento di baricentro: dalla residualità della soluzione politica (la dissociazione in sé e per sé) all'attualità della trasformazione della pena, dello spazio e delle forme di esistenza del carcere.

L'intreccio di residualità e di attualità, ovviamente, non è stato così lineare come lo si sta descrivendo. Spesso, è stato l'elemento residuale a occupare per intero la scena; altre volte, tra i due elementi non è stato mantenuto il necessario bilanciamento. Quello che è certo è che la dissociazione, da dentro l’istituzione chiusa carcere, si è trovata costretta a porre in essere una seria e articolata pressione in direzione:

  1. della valicazione della barriera custodialistica;
  2. del superamento del carcere e, dunque, in vista dell’allargamento della sfera delle libertà collettive e dei diritti soggettivi.

La dissociazione, per essere, ha dovuto formulare una serie di domande di libertà e agibilità sociale. Lo stesso discorso politico è andato modificandosi e innovandosi nei fatti. Significativamente, dalle radici dei conflitti degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, esso si è spostato alle radici di quel meccanismo socio-istituzionale che produce e legittima carcere.

La riformulazione del discorso politico, però, è rimasta invischiata nelle aporie entro cui il fenomeno era nato. Una delle principali aporie pare la seguente: il passaggio (meglio: il ritorno) dalla strategia dello scontro armato alla politica del conflitto e della mediazione si è attestato su un orizzonte indigente. Politica e scambio politico sono venuti vicendevolmente danneggiandosi, elidendosi o surrogandosi l’una con l’altro.

Delineiamo meglio quelli che sembrano i punti limiti che fungono quali poli opposti dell’aporia.

Le oscillazioni politiche si sono date tra due sponde:

  1. ad un lato, un uso estensivo della politica nelle sue classiche strutture di mediazione e articolazione;
  2. al lato opposto, un uso azzerante della politica, presuntivamente celebrata come defunta.

Insomma: mentre ad un polo si canta l’autoesaltazione della politica, all’altro se ne ratifica la morte definitiva. In ambedue i casi, eluso appare un nodo fondamentale: la crisi del ‘politico’ e della politica, così come viene emergendo nell’attuale contingenza storica. Siffatta elusione se ne porta con sé un'altra, ben più cospicua: la non puntuale valutazione di quel vasto fenomeno di mutamento e trasformazione sociale che attraversa tutte le società avanzate e, in particolare, la società italiana nell'attuale tornante storico. Dati, questi, che come non tollerano procedure e pratiche che estinguono lo spazio politico, così mal sopportano un approccio politico neoclassico, sia esso progressista e riformatore che conservatore e stabilizzante.

I fotogrammi dell'oscillazione richiamata consentono di meglio approssimare il nucleo in cui va formandosi e addensandosi lo spazio aporetico: rimasta senza cultura della rivoluzione e della sovversione, la dissociazione non trova bell'e pronta una cultura della trasformazione e del mutamento all'altezza dei tempi; tantomeno riesce a produrne in proprio primi elementi. Da qui un cortocircuito tra il pesante tributo pagato alle vecchie ascendenze cultural-rivoluzionarie e il riciclaggio pratico nel riformismo politico, sociale e sindacale, affermatosi in Italia dal dopoguerra in avanti; riformismo esso stesso avviato sul viale del tramonto, sia sul piano storico che su quello più specificamente culturale.

La semplice rilevazione di questo affermato dato di fatto riveste un rilievo particolare. Permette di affrontare e collocare i limiti della dissociazione, a cui in vario modo lo stesso scrivente ha contribuito, all'interno del più generale panorama sociale, politico e culturale italiano di questi anni; in particolare, all'interno dei limiti della Sinistra, le cui attenzioni verso la dissociazione sono state intrise di critica superficiale e anacronistica. Se la rilevazione è esatta, l'intera problematica va congruamente spostata oltre lo schema: "Riforma o Rivoluzione?"; ma anche oltre le pastoie del riformismo della tradizione.

È, ormai, acclarato che tra movimenti della riforma e movimenti delle istituzioni non sussiste un legame di coincidenza; e ciò in epoca moderna perlomeno dal nucleo razional-ideologico che permea l'Encyclopédie e nonostante i vincoli moralistici che ancora la impregnano. La concezione e le pratiche della trasformazione attraverso il mezzo delle riforme, fatta eccezione per il nazionalsocialismo e il fascismo, sono andate reggendosi su di un modello di società e di sistemi politici fondati sulla manipolazione del consenso. Il punto, oggi, è proprio questo: società e sistemi politici fondati sulla manipolazione del consenso appaiono irrimediabilmente in crisi. Pertanto, l'alternativa riformatrice classica naufraga con essi.

Questa osservazione storicistica, se si vuole banale, giova a mettere a fuoco un'evidenza incontrovertibile: il sistema politico non è più in grado di assorbire il "movimento delle riforme". Ormai, la rete riformatrice della società e nella società deborda il centro di imputazione della politica e del sistema politico. Ed è qui che va reinquadrata la funzione riformatrice che ancora va assegnata allo Stato e al sistema politico-istituzionale. Il che sottolinea tanto l'autonomia dello Stato rispetto al sistema politico, quanto dei movimenti e delle istanze della trasformazione nei confronti di Stato e sistema politico. Riformismo dall'alto e riformismo dal basso sono strade egualmente, e per diverse ragioni, impercorribili. La titolarità della proposta politica della riforma può essere di tutti; però, è in tutti insufficiente. Lo stesso Stato può operare una proposta di riforma. Ma, in questo caso, trattasi al fondo di una riforma dello Stato a mezzo dello Stato che aderisce, a suo modo, ai processi della trasformazione sociale, reinterpretando se stesso e ricalibrando le sue proprie funzioni.

E, allora, se ancora di riforme si vuole e si deve parlare, occorre tener conto della fluidità del nuovo contesto storico, in cui il tempo della riforma pare smarrire il suo spazio. Su questo versante, sembra di capire, va ripensato e reindagato il nesso riforme/democrazia e letto con congruità il rapporto di causalità e di interferenza che si dà, soprattutto nell'Italia repubblicana, tra crisi delle riforme e crisi della democrazia. Il cittadino, espropriato dal sistema democratico-parlamentare dei mezzi di produzione della politica, ha qui il problema di ricategorizzare lo statuto della cittadinanza politica, riformulando e riconoscendo la propria identità in crisi. Quesito assillante per il cittadino e per i movimenti collettivi diviene: quale politica e per quale identità? E non si tratta di ricostruire una identità politica e basta. E non si tratta di autocentramento politico. Si tratta di accedere a un'ulteriore problematica: quali istituzioni e per quale società e per quali trasformazioni sociali.

Tirando parzialmente le somme, l'urgenza che affiora è quella di portare nella macchina politico-istituzionale le istanze di cambiamento che pervadono i movimenti, le realtà e i processi della trasformazione sociale. Senza che questo significhi sussunzione sotto ed entro lo Stato. Qui il discrimine più netto col vecchio riformismo. Qui il distacco irreversibile dallo schema ottocentesco della "volontà di potenza" che lo animava e che gli faceva fare del potere un feticcio e della politica la leva scardinante e riorganizzatrice più possente, se non unica.

Non solo i movimenti, le realtà e i processi della trasformazione si sono emancipati dalla politica; ma la medesima politica è andata emancipandosi dall'ambito della cultura e dalle sfere della produzione intellettuale, a partire dal New Deal. Il programma politico si è separato dalle concezioni del mondo, fino a diventare pianificazione amministrata del mondo. Le sue prospettive sono divenute strettoie. E non è, certo, in queste strettoie che possono inverarsi reali mutamenti di forme. Il New Deal è stato il più grande processo di riforma che il paradigma ottocentesco della "volontà di potenza" ha prodotto; e anche l'ultimo possibile. I modelli della crescita e dello sviluppo, dagli anni Cinquanta al cominciare dei Settanta, sono stati già altra cosa. Senza che tutto ciò abbia liberato forze a sinistra, vitali sul medio-lungo termine. Senza che ciò abbia emancipato le forze della Sinistra. In mezzo e prima di tutti questi passaggi v'è stato il Sessantotto. Qualunque sia il giudizio ideologico-politico che del biennio 1968-69 si voglia dare, non si può disconoscere che esso abbia segnato definitivamente il crollo del primato della società politica sulla società civile. La crisi del ‘politico' e del sistema politico-istituzionale, la crisi della Sinistra è a questo tornante che registra uno storico punto di caduta. Movimenti, sovversione sociale e lotta armata, per conto proprio e sperimentando ognuno itinerari non omologabili (anche laddove presentano elementi di contiguità), reagiscono a tale crisi. A loro modo, scommettono contro quella situazione bloccata. Ognuno a suo modo, tentò uno sbocco, una via d'uscita effettiva e duratura.

Quello sblocco è mancato. Non perché non vi sia stato; ma proprio perché si è di fronte al contrario. Lo sblocco vi è stato, ma ha mancato storicamente e politicamente i suoi obiettivi. E oggi, di poco superata la soglia dei primi metà anni Ottanta, si è di nuovo tutti fermi, irretiti in un'ennesima situazione bloccata. Bloccata come già era bloccata quella della seconda metà degli anni Settanta. Ma il blocco di ora e la situazione di ora sono diversi. Diverso deve essere lo sblocco a cui oggi lavorare, diverse le vie d'uscita. È nell'attualità e nel suo sviluppo che si dà la risoluzione dei nodi ieri irrisolti. Nella soluzione dei problemi di oggi trovano accoglimento i problemi di ieri.

Per quanto attiene allo specifico dell'identità politica della dissociazione si tratta di lasciarsela alle spalle, partendo dai suoi temi forti e ancorandoli alle domande forti inoltrate dai "nuovi movimenti", intorno cui ogni sistema politico e sociale contemporaneo deve, in un senso o nell'altro, misurarsi. Si tratta di passare oltre. Chi passa oltre è soggetto e oggetto di trasformazione. Nel senso che trasforma, si autotrasforma ed è trasformato. Passare oltre la dissociazione acquista qui il senso precipuo di collocarsi più pienamente nel proprio tempo storico, a confronto con le sue problematiche difficili, le sue aspettative a volte eccessivamente sovraccaricate e altre troppo crudamente deluse, le sue minacce e le sue chiusure tra l'angoscia esistenziale e la rarefazione dei luoghi della libertà collettiva e di quella interiore.

Nell'intrico di queste zone si consuma il fallimento dell'omologazione statalista di movimenti e dinamiche sociali alle logiche di pura sopravvivenza del potere. Su questo terreno si fa più aperto, libero e conflittuale il confronto dei movimenti con lo Stato e di ognuno con l'altro dentro e fuori i movimenti. Su queste zone l'intera Sinistra è chiamata a riflettere e a rinnovarsi.

È il non affrontamento di questi nodi che fa incancrenire, se non precipitare, la situazione. Un discorso sulle responsabilità politiche e storiche del passato è inseparabile da quello sulle responsabilità del presente. È nel presente che autocritica e critica si legittimano e affinano, anche quando partono e debbono partire dal passato. È solo nel presente, difatti, che possono verificarsi, nel bene e nel male. Chiamare un'intera classe politica, un intero sistema politico alle loro proprie responsabilità passate ha poco senso e poco produce, se non si prolunga la chiamata alle loro responsabilità presenti, se non li si investe di questa ulteriorità di carico. Questo ragionamento vale, tanto più, per sé stessi: dal presente occorre sempre partire e ripartire. Dal presente si può tendere indietro, fino al passato più remoto; si può protendere in avanti, verso il futuro più impensato.

Ogni soggetto, ogni attore singolo o collettivo passando oltre le linee di vischiosità e di stabilità indigente della propria identità, può incontrare altro e gli altri. Non è, certo, l'effetto combinato negazione della lotta armata/superamento della dissociazione la panacea universale, oppure la terapia a tutti prescrivibile. Piuttosto, questo è un nodo che la dissociazione e i dissociati debbono sciogliere in maniera flessibile, ma anche conseguente. Ci sono, però, crocevia in cui, sia pure per un attimo fuggitivo e fuggevole, le biforcazioni si incrociano. Non foss'altro per innervare lì un nuovo e più cogente processo di diversificazione. Intrecciando l'humus migliore della dissociazione con i temi forti della nuova domanda collettiva, ci si dispone innanzi a un nuovo spettro di domande. La griglia stessa della critica si amplifica, approfondisce e attualizza.

Sinteticamente: paiono in crisi alcuni criteri classici della teoria politica del Novecento e alcuni paradigmi culturali della Sinistra (non solo e non tanto della "sinistra rivoluzionaria" e della "sinistra armata"). A farla breve, si può così schematizzare. Ad apparire incanutiti sembrano:

  1. il principio weberiano secondo cui lo Stato è il detentore del "monopolio della violenza legittima", a fronte dell'evidenza sempre più precisa della profonda delegittimazione dell'uso politico della violenza;
  2. il principio schmittiano secondo cui il criterio del 'politico' poggia sull'individuazione del "raggruppamento amico/nemico", a fronte del proliferare degli interessi e dei conflitti di interesse;
  3. il principio del riformismo della Sinistra italiana, secondo cui ciò che varia è sempre e solo il programma politico e mai, invece, il progetto della trasformazione, a fronte del rapido mutarsi degli orizzonti e delle prospettive temporali delle società avanzate.

Lo scambio di remota ascendenza hobbesiana di "violenza legittima" contro "sicurezza sociale", sparito quel particolare scenario sociale e conflittuale su cui nel Seicento europeo si è definitivamente consolidato lo Stato moderno, non pare avere più una base sociale. La teoria politica della decisione, esclusivamente imperniata sulla polarità amico/nemico, non appare in grado di dare ragione politicamente della "complessità sociale" e del policentrismo dei poteri politici, economici, culturali e sociali. Continuando: teoria e prassi della riforma non possono, con tutta evidenza, fare asse sulla dicotomia socialismo/capitalismo, ormai antinomia saltata nei processi di mondializzazione dei poteri e della loro comunicazione. Infine, sia le teorie della sovversione sociale che della presa violenta del potere non potevano e non possono assolutamente trovare i loro motivi ispiratori nella presunta e secca contrarietà tra Riforma e Rivoluzione: sia perché, perlomeno a partire dalla Rivoluzione francese del 1789, Riforma e Rivoluzione costituiscono un intreccio indissolubile; sia perché isolatamente considerate, enfatizzate e praticate hanno sempre conosciuto uno scacco irrimediabile.

La costruzione dello spazio della libertà e della pace stessa implica, dunque, un diverso paradigma politico e altri moduli culturali. Le ragioni della politica debbono riscoprire i luoghi del reincontro vitale con i motivi dell'etica. Senza che tra politica ed etica si pervenga a una fusione di sapore fondamentalista. Ciò dopo che tra etica e politica, a partire dalla formazione dell'epoca moderna, si erano inserite una secolarizzazione e una frattura profondissime. Ma, forse, nei fondatori del pensiero politico moderno la divaricazione tra politica ed etica non ha mai raggiunto il livello della disgiunzione completa e della contrapposizione reciproca, se perfino Spinoza ha celebrato la "virtù" di Machiavelli. È in epoca più vicina a noi che ciò è avvenuto. Probabilmente, propriamente in questo sta il silenzio di Auschwitz e, su un piano già diverso, di Hiroshima. Propriamente in questo, forse, sta il silenzio della politica dopo Auschwitz e Hiroshima e oggi di fronte alle possibilità della catastrofe della specie e del vivente.

Le guerre civili sono state, indubbiamente, il lato oscuro della storia dello Stato moderno; lato oscuro e diabolico. Lo scontro armato nella sua teoria e prassi metropolitana ha queste e altre remote ascendenze, anche se ne ha costituito una variante e un tipo tutti affatto particolari e contemporanei. Anche per effetto di questa circostanza, ripensare oggi la politica, l'etica, la guerra e la pace implica ripensare l'idea stessa di libertà. AI pari di numerose altre categorie, la pace stessa a sinistra ha sempre trovato con difficoltà diritto di cittadinanza. Nella generalità dei casi, al centro e a destra come a sinistra, è stata sempre coniugata con esaltazione e difesa dello status quo. E ciò a partire dalle teorie dell'assolutismo del Seicento europeo. Senonché il concetto stesso di pace ha, da allora in avanti, percorso un immane tragitto di secolarizzazione. Oggi una vera e deideologizzata cultura della pace osa pensare e affrontare la guerra fino in fondo: pensa se stessa in maniera radicale, ma non teologica o normalizzante, poiché abita le zone più calde del conflitto e della tensione tra differenti. Non si appiattisce al dato o all'ordine; trascende dato e ordine. Ripensare la pace, come ripensare l'utopia, il progetto, la trasformazione ed altri temi chiave, vuoI dire ripensare la società e gli uomini della loro strutture profonde e dal loro ritmo esistenziale più vitale.

La risposta alla crisi del 'politico', della Sinistra e dei movimenti degli anni Settanta, passa anche attraverso l'approntamento di una più adeguata teoria delle istituzioni, del conflitto, della rappresentanza e della cittadinanza nelle società complesse. Anche su questo il sistema politico va chiamato in causa.

Lo stesso passare oltre la dissociazione ha davanti a sé questo percorso obbligato, in cui tutti i problemi cercano le loro soluzioni possibili e varie. Passare oltre la dissociazione indica, molto semplicemente, che essa è stata ed è passaggio, non una meta ultimativa. Un passaggio che ha ricostruito l'interezza del quadro dei riferimenti e del campo tematico e problematico. Ed è precisamente laddove e quando questa interezza è stata approssimata e ricostruita che la dissociazione ha dato e dà il meglio di sé e, nel contempo, viene meno. Pervenuti a questa soglia, non è più questione di negare/superare la lotta armata. Una volta giunti a questo punto limite, che è insieme transito emancipante, il nodo residualità/attualità della dissociazione viene sciolto e, con esso, si dissolve Io spazio aporetico.

Arrivati qui — e solo qui — niente è più residuale: tutto ritorna a essere ed è attualità. È il destino del 'politico' assieme al destino delle donne e degli uomini e della società che è in ballo. Organizzare un posto migliore per le donne e gli uomini e una società di donne e uomini sempre più liberi: questa, come sempre, la vera posta in gioco.

3. Dissociazione e crisi della rappresentanza

Al pari di altri fenomeni politici, in questi ultimi anni, anche la dissociazione politica dalla lotta armata si è incagliata nelle secche del mito e della crisi della rappresentanza politica. Ragione, questa, che impone di ritornare a questo bivio.

Del complesso itinerario del fenomeno e della varietà di prospettive che l'hanno caratterizzato si è tentato di dare sinteticamente conto nei paragrafi precedenti. Qui focalizziamo l’attenzione su quella che si ritiene la posizione meglio argomentata e motivata sul piano politico di ciò che è rimasto della nebulosa dissociazione.

In un recente e interessante documento, gli anni Settanta italiani sono stati interpretati come "epoca di estremismo semantico oltre che politico" (4). C'è del vero in tutto ciò. Ma in un senso abbastanza divergente dalla ricostruzione delineata dal testo qui in esame.

Proviamo a chiarire.

Più che patrimonio dei movimenti collettivi, la semantica estremistica è stata caratteristica delle organizzazioni e semi-organizzazioni che, pur interne ai movimenti, hanno in vario modo tentato di tradurre in teoria dell'organizzazione la potenzialità della mobilitazione collettiva. Con la teoria-prassi della guerriglia la semantica dell'estremismo ha compiuto un ulteriore passo in avanti, sublimandosi.

L'estremismo non è generalizzabile tout court alla mobilitazione collettiva degli anni Settanta che, al contrario, ha in generale inoltrato domande sensate al sistema politico. L'etichetta estremismo, pertanto, mal si attaglia ai movimenti degli anni Settanta, rappresentando un'involontaria giustificazione a posteriori delle rigidità del sistema politico-sociale. Il limite dei movimenti, piuttosto, è stato un vizio di legittimazione simbolico-evocativa del loro proprio arcano significazionale e delle loro aspettative che ha fatto sì che delegittimassero l'autorità politica, senza destrutturarne i vizi capitali.

Non si è trattato dello scontro cupo tra due contrarie forme di estremismo, in una sorta di simmetria paralizzante e polarizzante: da una parte, i movimenti e la lotta armata; dall'altra, lo Stato. L'interpretazione sul filo del gioco tra simmetrie, tutt'al più, può rivelarsi fondata nella delucidazione del rapporto tra Stato e lotta armata; non pare convincente, laddove coinvolge i movimenti. Pare di poter individuare, con sufficiente cognizione di causa, che una interpretazione di questo tipo si regga su una tesi politica precostituita. Questa: nel punto di intersezione tra riformismo e movimenti si dà la possibilità effettiva della trasformazione. Ciò crea dei vincoli in capo rispettivamente al sistema politico e ai movimenti: il progetto riformatore e le pratiche riformatrici.

Fattualmente, la crisi del progetto rivoluzionario e l’impraticabilità nella società complessa delle conseguenti teorie-prassi della rivoluzione, in questa posizione politica, darebbero empiricamente risalto al primato (non rispettato) della riforma politica sullo sviluppo del capitale. Da questo lato, con la sconfitta della sovversione sociale e della armata si sarebbe fatto ingresso in una fase storica definibile come quella della "post-rivoluzione", in cui il comando e la rettifica dello sviluppo del capitale starebbero unicamente nell'uso degli strumenti principali della società politica borghese: democrazia più riforme. Che è un modo per dire che la democrazia è riforma; diversamente è crisi implosiva. L'ermeneutica post-rivoluzionaria diventa, pertanto, critica riformistica del sistema politico e dei movimenti, ritenuti egualmente viziati, ognuno a suo modo, da un basso tasso di riformismo. Quello che era un presupposto della critica diviene la finalità del paradigma politico proposto. Anzi: proprio nell'incastro mancato tra dinamica delle riforme e movimenti verrebbe alla luce il "rimosso politico" degli anni Settanta.

Perfettamente coerente pare, da questa angolazione, definire la dissociazione nel modo che segue: "Un punto di vista 'riformista' sugli anni '70 e sugli esiti 'lottarmatisti' capace di riprendere analisi e spunti di dibattito degli anni '70 per valorizzarli collocandoli in altri contesti, in altri scenari, in altre ipotesi progettuali" (5).

Ora, sembra proprio che non possa darsi nessuna identificazione tra dissociazione e riformismo, se non come enfatizzazione del riformismo e della democrazia, ambedue ricondotti a idealtipi che poco rendono conto del profondo processo di crisi che li ha afferrati in quest'ultimo venticinquennio. È proprio questo genere di identificazione e di accostamento al problema ad apparire indebito, costituendo il punto di crisi originario di questa posizione. Un declinare crescente, a far data dalla fine del 1984, ha condotto, più in generale, la dissociazione a un grado zero di proposta politica, sociale e culturale, (colpe da cui non è esente chi scrive).

Il "Progetto Arles" costituisce il più serio tentativo di uscita da tale crisi. Esso rappresenta, inoltre, il crinale critico a cui, attraverso una discontinuità di passaggi, è pervenuto il polmone politico della dissociazione, il quale ha sempre unito ad un impianto teorico neo-operaista (in senso lato) una prospettiva politica riformistica. A tale riguardo, emerge una costante che, provvisoriamente, è sintetizzabile nei termini di un'ermeneutica sociologica assai attenta a interpretazione e critica dei "movimenti del capitale" e poco incline alla disamina delle dinamiche del sistema politico, della struttura della decisione politica e dell'azione collettiva. Dei "movimenti del capitale" si segue l'onda lunga delle trasformazioni più influenti; della metamorfosi del sistema politico e delle mutazioni di senso intervenute nell'azione collettiva manca un’analisi significativa e rilevante. Altrimenti detto: l’ermeneutica sociologica stenta a divenire semantica politica, arrestandosi sulla soglia della critica del capitale e mancando di prolungarsi in confutazione adeguata delle forme politiche contemporanee della società borghese. Si suppone, con ciò, una discontinuità assiomatica tra democrazia e riforme (da un lato) e capitalismo (dall'altro). Ma anche: a misura in cui l'ermeneutica si attarda attorno alla dimensione sociologica, viene perduto di vista il carattere, per dir così, poietico dei movimenti nelle società complesse, la cui materialità di senso appare, sul punto, superare la dialettica semplificata della "liberazione dei bisogni", tipica della mobilitazione collettiva nelle società industriali.

Motivi neokeynesiani vengono a innestarsi sul solco del solido paradigma riformista di Giorgio Ruffolo, in una prospettiva a metà strada tra il socialismo liberale di Ruffolo e il "riformismo post-moderno" di cui, nella prima metà degli anni Settanta, la rivista Rosso e le aree dell’Autonomia Organizzata che ad essa facevano riferimento avevano contraddittoriamente tentato una prima sommaria e parziale sistematizzazione. E difatti. Per un verso, la "rifondazione dei modelli lavorativi" e la "nuova cultura dello sviluppo", rivendicate dal "Progetto Arles", si inseriscono in un'ottica liberal-socialista, nell'accezione forte del termine. Per l'altro, l'assiologia disegnata attorno alla "ecologia dell'elemento comunitario" e alla "nuova comunità dei bisogni" recupera una concezione dell'emancipazione incentrata sulla liberazione del "valore d'uso". Sotto quest'ultimo aspetto, permane un legame con la cultura della sovversione della sinistra rivoluzionaria italiana e che affonda le sue radici nella storia del marxismo critico europeo: dal Lukàcs di "Storia e coscienza di classe" e dal Korsch di "Marxismo e filosofia" alla Heller de "La teoria dei bisogni in Marx"; dal Tronti di "Operai e capitale" al Negri de "Il dominio e il sabotaggio". Il tutto ricombinato con innesti di contemporaneità che spaziano dalle teorie di Habermas e Apel su "comunità" e "comunicazione" alle implicanze delle epistemologie della complessità riferite ai temi di " scienza e coscienza", "informazione", etc. Non senza aver recuperato e ricombinato le "psicologie relazionali" intorno all'ecologia dei sistemi sociali, in vista di una loro progressiva umanizzazione.

Se per Keynes e Ruffolo si tratta di democratizzare il capitalismo, per il "Progetto Arles" si tratta di riformare il capitalismo democraticizzato, con l'innesto dell'ecologia comunitaria dei "valori d'uso". L'enfasi dell'analisi sociologica corrisponde, in questo come in altri casi, a un estremo dimagrimento del 'politico'. Ciò è salutare a confronto di quelle posizioni evocanti il primato della politica, nelle quali la stessa "soluzione politica" diviene iperpoliticizzazione residuale di un conflitto che, così, viene mandato in cancrena. Ma appare grandemente improduttivo sul piano della ritematizzazione del "progetto politico" a sinistra e della sinistra.

Erronea sembra quella considerazione empirica che fa del 'politico' un sottosistema del 'social?. Quasi che gli strumenti politici della trasformazione fossero già dati: democrazia più riformismo. Non rimarrebbe che approntare quelli sociali e comunicativi. La messa in ombra della ricerca sul 'politico' appare come il più vistoso neo del "Progetto Arles"; così come la ricerca sul 'sociale’ si mostra come il pregio qualificante e connotante.

Il riformismo qui messo in contesto è rappresentabile come democrazia ecologica e la razionalità sociale richiamata è categorizzabile come ecologia comunitaria. La crisi della rappresentanza viene affrontata, aumentando di peso specifico gli spazi e l'agibilità della società civile, contraendo i luoghi e i poteri dello Stato. Questo riformismo accetta la sfida del neo-liberismo e gioca la sua partita sul terreno del "meno Stato e più società", leit-motiv della critica e della demolizione neo-liberista del Welfare State. Con la variante strategica che il "meno Stato" di questo paradigma riformista conserva e riconiuga il Welfare e fa subire al sistema dei partiti l'allargamento e il potenziamento della società civile, in una sorta di teoria dello Stato minimo compresente alla prassi della democrazia massima, a mezzo della leva riforma. Più che gli assunti dell'analisi di Kahn, esplicitamente richiamati nel testo, si registra l'influenza sotterranea delle tesi di Nozick sullo "Stato minimo", in cui la critica liberal-anarchica dello Stato viene recuperata al nucleo puro del funzionamento democratico delle istituzioni elettive. Per l'appunto in questa "apologia della democrazia" si insinua il punto di rottura vero a confronto delle teorie-prassi della sovversione sociale che costituivano l'habitat culturale originario: la democrazia, da bersaglio, si muta in costante, invariante finalistica del progetto politico. La dissociazione del modulo culturale di origine si sostanzia nella divaricazione analitica tra Stato e democrazia, in un quadro concettuale e storico in cui la seconda viene pensata e agita di contro al primo. L'approdo, grosso modo, è il seguente: più democrazia e meno Stato. L'antistatalismo del modello sovversivo permane; scompare l'antidemocraticismo.

Ora, ciò presenta un indubbio vantaggio: una più attenta distinzione nel delimitare il campo di vigenza del 'politico' e quello dello statuale, non più indebitamente confusi, come ancora avveniva nel modello originario. Il che rende potenzialmente possibile una feconda rivincita del 'politico' avverso lo statuale. Ma la rivincita rimane qui inespressa. Permane un'aporia che non fa leggere nella democrazia politica contemporanea uno dei supporti forti della statualità e dello stesso sviluppo del capitalismo. In un cono d'ombra resta un'ulteriore evidenza: la democrazia politica costituisce una delle forme specifiche della crisi del 'politico' nella contemporaneità, fino al punto da visibilizzarsi come crisi della rappresentanza politica. Ciò tanto con riguardo ai " gruppi di interesse" ricercanti nel pluralismo e nel corporatismo la via d'uscita dalla crisi; quanto con riferimento al potenziale di senso espresso dai movimenti, i quali subiscono la "rappresentanza degli interessi" come una camicia troppo stretta: è questo, particolarmente, il caso di movimenti femminili e delle domande che salgono dall'universo chiuso carcere.

Gli interrogativi radicali intorno a "quale sistema produttivo", "quale sviluppo" e "quale consenso", non coronandosi in domande radicali sulle forme della politica e sulle reti di senso dell'azione collettiva, pur puntuali e ineludibili, restano bloccati a metà del tragitto, rischiando di veder vanificato il loro potenziale critico e utopico. C'è una domanda inquietante che continuamente serpeggia e che, nondimeno, non viene mai formalizzata: "quale rivoluzione" oggi? Da dove cominciare a riprendere tra le mani il concetto e la prassi di rivoluzione e trasformazione nelle società complesse?

Esplicitare questi interrogativi richiede un punto di avvio che non può limitarsi alla presa d'atto del fallimento speculare delle ipotesi della sovversione sociale, della lotta armata e del neo-liberismo. Occorre una riproblematizzazione fondativa della critica delle fondamenta delle società capitalistiche nell'attuale tornante storico e nelle loro attuali forme di espressione. Occorre ripartire, ripensando il progetto politico della trasformazione. Occorre scandagliare con uno strumentario nuovo le profondità delle interrogazioni di senso inoltrate in quest'ultimo ventennio dalla mobilitazione collettiva. Insufficiente si rivela l'insistenza sulla pianificazione politica che ripensa e corregge Io sviluppo in un ambito comunitario ed ecologico. Adeguare sviluppo a "qualità sociale" è, sì, necessario e improcrastinabile; ma appare altamente improbabile, laddove la soggettività critica del progetto non fuoriesce dal precipizio in cui l'ha cacciata la crisi di quest'ultimo ventennio.

Tutto questo apparirà tremendamente "inattuale". E lo è: per eccesso o difetto di futuro, a seconda dei punti di vista. Ma questa è la zona limite da valicare, se non si vuole finire, in un modo o nell'altro, fagocitati nel mulinello dell'ingegneria funzional-sistemica che si fa propaganda nelle "riforme istituzionali". Ingegneria che da questo luogo avanzato è disposta a tornare indietro, riaprire e richiudere il gioco sospeso con l'eredità dei cicli di trasformazione apertisi con la mobilitazione del Sessantotto e i mutamenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Qui davvero il caso esemplare di una semantica estremistica che curva ai suoi significanti e al suo significato la "soluzione politica" del potenziale utopico e di trasformazione di questi ultimi vent’anni. Qui la grammatica dell'ordine smangia continuamente il mutamento, nutrendosi di esso. Proprio qui è ancora più "inattuale" ripensare radicalità e radici della trasformazione. Ma esattamente questo è il punto.

 

Note

(1) "il manifesto", 20 dicembre 1983.

(2) "il manifesto", 5 gennaio 1984.

(3) "il manifesto", 17 gennaio 1984.

(4) Ci si riferisce alla proposta e al progetto della cooperativa Sintax E. e, più precisamente, al "Progetto Arles" (proveniente dall'Area Omogenea del carcere romano di Rebibbia).Per la documentazione relativa a tale progetto, cfr. "il manifesto", 29 ottobre 1987 e "Com-nuovi tempi", n. 20, 8 novembre 1987.

(5) "Progetto Arles", cit. L'attenzione ai temi e alle problematiche del riformismo ha nell'esperienza dell'Area Omogenea di Rebibbia precedenti importanti, culminati in due Seminari tenuti all'interno del carcere. Il primo si è tenuto nel novembre del 1985 e ha visto la partecipazione di Carol Beebe Tarantelli, Gino Giugni, Pierre Carniti, Antonio Lettieri ed Enzo Mattina; la trascrizione degli interventi trova in Riformisti a Rebibbia, "Antigone", n. 7, 1986, pp.3-7. Il secondo Seminario si è svolto nell'aprile-giugno 1986, con la partecipazione di Gino Giugni, Giuliano Amato, Norberto Bobbio, Carol Beebe Tarantelli; il resoconto stenografico del Seminario è reperibile in Dal terrorismo al riformismo, "MicroMega", n. l, 1987, pp.83-114.

 

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