CAP. III

POVERI E MARGINALI

 

 

 

 

 

Un tempo la povertà era "generale", costituiva un'esperienza sociale immediatamente visibile e diretta per milioni di uomini e donne occidentali: era la condizione di vita di una enorme maggioranza di individui privi di qualifiche professionali o privilegi di nascita.

Diversamente da quelli d'oggi, i "poveri in maggioranza" di ieri rappresentavano per i leaders politici un motivo immediato, anche se cinico, di sollecitudine, servivano da base ad organizzazioni operaie, potevano costituire una forza nelle contese politiche, non foss'altro che per il peso bruto della loro consistenza numerica; di povertà, di miseria, allora si parlava: i saggi si susseguivano ai saggi, le inchieste giornalistiche si moltiplicavano, il dibattito sull'argomento era ben vivo dentro e fuori i palazzi delle istituzioni, tra i parlamentari e nell'opinione pubblica.

Ma questo silenzio profondo calato oggi sul tema della povertà ne rappresenta veramente l'estinzione? La povertà, la miseria sono davvero finite? Costituiscono per l'Occidente industrializzato un mero ricordo del passato, tristemente sopravvissuto soltanto in aree periferiche del sistema economico mondiale, i cosiddetti "Terzo" e "Quarto" Mondo, le economie disastrate degli ex-paesi del socialismo reale, cui presto dovrebbero estendersi, peraltro, i benefici dell'apertura al mercato? Certo, nei decenni di intensa accumulazione e sviluppo che segnarono le economie occidentali all'indomani del secondo conflitto mondiale, una parte considerevolissima degli ex-poveri raggiunse effettivamente livelli di vita superiori, così come promettevano le mitologie sociali dell'epoca.

D'allora in avanti, nella coscienza collettiva, nel sentire comune della gente, la "povertà", come categoria o problema, non è più sembrata trovar spazio.

Molto pochi sono coloro disposti a credere all'"esistenza" dei poveri; la reazione degli altri verso quei pochi che la rivendicano è assai spesso di stizza, di noia, tutt'al più di condiscendenza verso i soliti, romantici idealisti infatuati di miti e soggetti sociali ineluttabilmente estinti come i dinosauri, incapaci di rendersi conto della realtà mutata e dell'azione salvifica del progresso.

Statisticamente la "moda", la tipologia socio-economica prevalente, si identifica con un ceto a reddito medio-basso, eppure il credo, la Weltanschauung comune, è ancora quella dello yuppie degli anni ‘80.

Forse per la prima volta nella storia – per la prima volta in maniera così vistosa e generalizzata – l'unità di livello di inserimento nella struttura produttiva e sovrastruttura ideologica, percezione-proiezione di sé nel mondo, si è infranta, spezzata da questa "post-modernità".

La piccola borghesia, per anni ossessionata dal pericolo della propria caduta in miseria, dedita ad un consumo sempre piuttosto parco, cambia stile di vita, scopre l'edonismo degli alti redditi e i brividi della speculazione sui capitali. Il corrispettivo, sul piano della mito-poiesi sociale non può essere che la creazione di un'immagine di progresso che attraversa tutti i ceti.

Quasi a rimuovere un senso di colpa collettivo e latente ci si ostina a reperire "miserabili" oggi divenuti "milionari", negando ostentatamente l'esistenza di una miseria invece drammaticamente presente.

I "nuovi poveri" non sono immediatamente legati ai capricci del trend produttivo, come quelli di ieri: la loro povertà è essen-zialmente "marginalità sociale", ossia esclusione totale dal sistema della produzione.

Per essi non c'è spazio ed essi non hanno spazio, perché privi del codice essenziale per penetrarlo: non sono stati educati alle nuove raffinatezze intervenute nella tecnologia del produrre, non conoscono i più recenti linguaggi del consumo o sono addirittura refrattari ad essi, ai loro messaggi; molto spesso, addirittura i loro stessi corpi sfuggono, in questi "nuovi poveri", alla tipologia estetica o funzionale prevista per l'accesso sociale.

La povertà dei marginali ha in se stessa la vocazione a "non essere vista", anzi a "non essere affatto", nei discorsi e nelle rappresentazioni collettive della società vincente e in carriera: l'incapacità, come la bruttezza, va rimossa costituendo lo specchio dell'alterità, il baratro di insignificanza sociale e poverà materiale da cui forse si è venuti, cui in ogni caso si potrebbe tornare...

Vi è dunque, in primo luogo, una opacizzazione "ideologica"; il fenomeno è ben visibile nel nostro paese:i discorsi dei politici, i mezzi d'informazione etc. sembrano unanimamente protesi nello sforzo di delineare un nuovo immaginario collettivo, di proiettare la nazione sullo sfondo dei suoi successi economici, dell'accresciuto peso nell'economia europea e mondiale; le povertà vecchie e nuove, il persistente sottosviluppo delle regioni meridionali vengono lette, in tale ottica, come "residuali".

Le letture più ottimistiche vi intravedono "segni sempre più chiari" di una tendenza al superamento; quelle più pessimistiche costruiscono irritati topoi sulle insanabili diversità culturali, storiche, antropologiche etc. delle popolazioni del Sud: il Mezzogiorno viene letto come "irriducibile" e perciò scorporato dalle analisi sull'economia del paese di cui costituirebbe soltanto un'onerosa palla al piede, un pezzo di alterità terzomondiale legato per un capriccio geopolitico ad una delle più dinamiche potenze industriali.

A determinare l'opacizzaizone della miseria concorrono poi anche altri caratteri: Michael Harrington, in uno studio sulla povertà negli Stati Uniti, ne individuava alcuni che, mutatis mutandis, possono rinvenirsi con tutta evidenza anche nella nostra realtà:

1) marginalità urbanistica: strade impraticabili e fuori dalle rotte quotidiane della popolazione che produce,quartieri ghetto, baraccopoli periferiche, campi-prefabbricati, insediamenti di edilizia popolare separati nettamente dal restante tessuto urbano;

2) frequentazione di spazi rigorosamente separati, sia nel tempo dell'eventuale attività produttiva che in quello "libero": valgano per tutti gli esempi molto tipici dei disoccupati che si ritrovano in un bar di periferia assolutamente chiusi alla frequentazione di qualsiasi altro milieu sociale e delle donne che lavorano in nero, spesso in condizioni di elevatissimo rischio, per le tante "runaway sweatshops" sorte come funghi in zone sottratte a qualsiasi pressione sindacale (in questi luoghi di lavoro difficilmente le donne delle classi sociali più basse avranno occasione di confrontarsi con donne dei ceti superiori come potrebbe accadere in una fabbrica tradizionale tra operaie ed impiegate);

3) il mito della vita semplice, il gusto per l'oleografia: le rare volte che la borghesia imbatte nella miseria, lo fa quasi sempre in veste di turista o attraverso il filtro delle suggestioni letterarie; passando per esempio accanto a quel tipo particolare di miseria che è la povertà delle campagne, delle "aree interne", il "turista" di trent'anni fa non ne comprendeva il dramma, vedeva le colline, i fiumi, il fogliame, la verzura ed in ultimo una misera casetta di montagna e si convinceva che quella gente doveva essere ben fortunata a vivere così rousseauianamente, lontana dalle ansietà e dalle tensioni delle classi medie in ascesa (eppure quella gente, gli strani abitanti dell'Appennino meridionale, dimenticati da tutti e privi di assistenza medica, di scuole e servizi d'ogni genere, stavano a poco a poco venendo espulsi dalle campagne e costretti a vivere nelle città dove sarebbero andati ad incrementare lo zoccolo storico della miseria urbana); allo stesso modo, al "turista" che circoli oggi nel centro storico di una grande città meridionale, della miseria non balzeranno agli occhi che gli aspetti più folkloristici, le strane forme, legali o illegali, in cui può articolarsi l'arte della sopravvivenza...;

4) l'abbigliamento: se l'abito non ha sempre fatto il monaco, a fare i poveri, tradizionalmente, sono sempre stati gli stracci; eppure le società contemporanee mostrano una povertà eccezionalmente ben vestita e dignitosa; per una quantità di ragioni, nel settore dell'abbigliamento, i benefici della produzione di massa rendono disponibile un'enorme quantità di merce a poco prezzo (ed è sintomatico che le classi medio-alte, per "differenziarsi" siano ormai costrette al ricorso continuo alle "griffes"...);

5) l'età: i nuovi poveri hanno sovente l'età meno adatta per essere visti (si pensi agli anziani spesso infermi e bloccati in casa ed ai giovani disperatamente aggrappati al rione da cui escono tutt'al più per salire agli onori della cronaca nera...);

6) invisibilità: fuori da partiti, sindacati, i nuovi poveri non hanno la capacità di costruirsi in gruppi di pressione, non presentano disegni di legge, etc....(1).

Eppure, la povertà esiste; è solo divenuta più complessa, articolata, multiforme, sfuggente.

Un fenomeno dalle molte dimensioni per la cui comprensione occorre tener presente che quello economico è solo un aspetto della miseria, non sempre quello più grave: ad esso si intrecciano sovente condizioni di inferiorità culturale e marginalità sociale, deficit familiari, disagio abitativo, degrado igienico-sanitario.

Un fenomeno che ha subito negli anni una profonda evoluzione; ancora negli anni '50, un'inchiesta della Camera dei Deputati "sulla miseria e sui mezzi per combatterla" denunciava l'esistenza di percentuali elevatissime ed insospettate di cittadini viventi ai margini della società; l’11,8% della popolazione (circa 6.200.000 persone) viveva in condizioni che la Commissione d'inchiesta non esitava a definire "subumane" e quasi altrettante persone vivevano in una condizione di poco più felice, comunque fortemente "disagiata".

Non si trattava di casi sporadici, ma di situazioni endemiche, fortemente radicate nelle regioni meridionali e nelle zone montane, nei suburbi delle grandi città ed ai margini delle zone di sviluppo industriale, ma mentre nell'Italia del Nord le famiglie povere assommavano al 5,8% della popolazione totale, al Sud e nelle isole costituivano rispettivamente il 50,2 ed il 45,4% della popolazione(2).

Ancora agli inizi degli anni '60 analfabetismo, fogne a cielo aperto, elevati tassi di mortalità infantile, diffusione di malattie da insufficienti livelli igienico-sanitari (epatite virale etc.), regime di pronunciato sottoconsumo, costituivano spie quotidiane del profondo malessere del Sud.

Diversi fattori hanno concorso, durante gli anni '60 e '70, a modificare sensibilmente questa realtà: gli insediamenti industriali favoriti da una sia pur non limpida politica degli incentivi; i "poli di sviluppo", per quanto censurabili sotto molteplici aspetti; la diffusione del lavoro nero, per quanto esecrabile; l'occupazione temporanea derivante dalla realizzazione delle grandi opere di infrastrutturazione, pur discusse e discutibili; le rimesse degli emigranti (nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale le ondate migratorie si rivolgono sempre più verso l'Italia settentrionale e l'Europa centrale ed assumono in parecchi casi una connotazione di reversibilità: gli emigrati non perdono i contatti con i comuni d'origine e talora, dopo un certo numero di anni, vi fanno ritorno); gli effetti delle politiche assistenziali e spesso gli abusi di un sistema previdenziale e pensionistico che al Sud allarga spesso le sue maglie in un ruolo che va sempre più configurandosi come "supplenza" complessiva all'inefficienza statuale.

A seguito di questi fenomeni si è voluto spesso ritenere che il Mezzogiorno stesse recuperando terreno, che progressivamente si stessero avviando a soluzione i suoi problemi cruciali. Tuttavia, come osserva Sidoti:

(...) molti fatti inducono a ritenere che questa fase storica non si sia effettivamente chiusa, ma solo trasformata, in maniera che la miseria per così dire storicamente usata e abusata si è mescolata con altri fenomeni precedentemente sconosciuti. Effettivamente, sotto alcuni profili la distanza con il resto del paese si è accorciata, ma prevalentemente per quanto riguarda gli aspetti più discutibili, ad esempio livelli di consumismo che non hanno niente da spartire con la libertà dal bisogno. ln un certo senso, del resto, l'ltalia intera per così dire si è meridionalizzata, e alcuni fenomeni che prima potevano sembrare caratteristici di alcune zone del paese sono invece diventati più diffusi e generalizzati(3).

È accaduto, semplicemente, che i tradizionali indicatori usati per descrivere il malessere del Sud non siano più fruibili: la complessità di tale malessere fa sì che le categorie utili a descrivere la povertà classica si trovino spiazzate e non sappiano più spiegare le ragioni di questo divario pur intuitivamente visibile tra Nord e Sud.

Una via per uscire da quest'impasse teorica è stata tentata da P. Sylos Labini; in un saggio piuttosto recente l'economista ha provato a scindere il divario complessivo in tre aree di differenza: economica, sociale e civile(4).

Così, per l'Autore, se i decenni successivi al secondo dopoguerra hanno visto crescere sensibilmente il divario economico e quello sociale (che, in ogni caso, sono pur sempre rimasti consistenti, come avremo modo di vedere, al di là di troppo facili entusiasmi derivanti spesso da semplicistici assemblaggi di indicatori parziali), un persistente divario civile segna il limite all'integrazione Nord-Sud.

Il divario civile è calcolato in base ad indicatori che attengono a problematiche particolarmente gravi, quali il funzionamento della giustizia e della pubblica amministrazione in generale, la preminenza della criminalità organizzata, le condizioni igienico-sanitarie e l'assetto urbanistico delle città.

Nel 1987 il "Rapporto sullo stato dei poteri locali" promosso dall'SPS coglieva in pieno i termini di tale divario civile; alcuni esempi significativi: a Bologna c'è un posto-parcheggio ogni 11 autovetture circolanti, a Catania uno ogni 253; un cittadino della congestionatissima Milano può fruire di 8 mq. di verde pubblico attrezzato, a Bari un cittadino ha a disposizione non più di 20 cmq. (ma ogni anno il Comune di Bari spende £.11.000 per mq. di verde, contro £. 1.500 spese in media dagli altri comuni della penisola...); nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, la produttività media per addetto è di 3,5 quintali a Torino e di 1,2 a Napoli dove, in aggiunta, assai più alta è l'incidenza della quotasalari sugli oneri complessivi di gestione e molto più basse le entrate a copertura del servizio(5).

Persino per le aree più sviluppate del Meridione bisogna pertanto parlare di un divario persistente: alcuni sociogici hanno coniato il termine "povertà postmaterialista", per indicare una tale situazione "di indigenza in senso esistenziale, che colpisce prevalente-mente il mondo giovanile"(6). Ma in molta parte del Sud questa "nuova povertà" (caratterizzata eminentemente dalla carenza dei servizi e delle strutture civili più elementari), piuttosto che sostituire la "vecchia povertà" (caratterizzata dal basso reddito di una parte cospicua della popolazione), va a sovrapporsi ad essa.

Neppure la base materiale, economica, della povertà può dirsi sconfitta: a ben vedere, gli effetti combinati di quei fattori economici, cui si faceva riferimento in precedenza, non rappresentano che un palliativo e spesso hanno finito con l'innescare meccanismi di autoperpetuazione perversi, peggiori dei mali che avrebbero dovuto debellare.

Analogamente, se a partire dalla fine degli anni '70 si sono potute intravedere aree di relativa vitalità economica -tali da far ipotizzare a qualche economista un modello di sviluppo "a macchia di leopardo"(7). Va detto che si tratta pur sempre di aree caratterizzate da marcate specificità soprattutto "geografiche": non a caso esse sono prevalentemente situate lungo il confine settentrionale della regione meridionale – dove è cioè possibile, per gli imprenditori, godere sia degli incentivi statali per il Sud, sia della vicinanza alle proprie case madri e alle zone più sviluppate – o in Puglia, per effetto della ricaduta lungo la dorsale adriatica del recente dinamismo manifestatosi nella piccola imprenditoria dell'Italia del Centro e del Nord-Est(8), il cui modello appare difficilmente allargabile.

Il reddito pro-capite è sicuramente aumentato nel Sud, eppure, se si guarda alla mera dimensione economica del divario NordSud, si può agevolmente constatare che:

1) la percentuale relativa di famiglie "povere" è sensibilmente aumentata nella popolazione meridionale rispetto agli anni '50; malgrado l'ingente trasferimento di risorse assistenziali;

2) il divario nel tasso di disoccupazione tra Nord e Sud si è approfondito;

3) la maggior parte delle industrie trapiantate al Sud grazie ai sovvenzionamenti pubblici sono entrate in crisi o hanno avuto un'espansione relativamente modesta (e a ciò va aggiunto il definitivo consumarsi della crisi delle occupazioni tradizionali);

4) la forza-lavoro meridionale costituisce una percentuale sempre più alta della manodopera impiegata nelle categorie di occupazione in crisi.

Un utile quadro della dimensione economica della povertà nel Sud può essere fornito dal "Rapporto gulla povertà" della "Commissione Gorrieri" del 1985(9).

Come "misura" della povertà veniva adottata l'International standard of poverty line, secondo cui viene considerata povera una famiglia di due persone il cui reddito è uguale al reddito nazionale pro-capite: la soglia della povertà veniva pertanto individuata, per una famiglia di due persone, in 420.591 lire mensili al 1983.

Rispettivamente al di sotto (40% del reddito nazionale pro-capite) e immediatamente al di sopra (60% del reddito) venivano individuate un'area di "povertà estrema" e di "quasi-pover-tà".

L'indagine (condotta soprattutto sulla base dei dati Istat relativi al consumo, onde scongiurare i rischi di sovraestimazione della povertà legati all'utilizzo di dati sul reddito dichiarato) rivelava l'esistenza di 6.238.000 cittadini in condizioni di vita al di sotto della poverty line; a questi si affiancava una vasta area immediatamente contigua a quella della povertà, quantificabile in circa quattro milioni e mezzo di individui che un qualsiasi evento improvviso (malattia, perdita di lavoro, morte del congiunto occupato o pensionato) poteva risospingere nel baratro della miseria.

In totale, l'indagine mostrava che 10.723.000 di individui (3.541.000 famiglie), un quinto dei cittadini del paese, vivevano in condizioni situabili tra la miseria e il disagio economico grave.

L'elemento di maggiore interesse del Rapporto è laddove esso indicava la complessità di questa "povertà antica", da insufficienza di reddito, nel contesto sociale di un'economia moderna e sviluppata; laddove descrive le dinamiche attuali di entrata e uscita dalla condizione di povertà (vi è una nuova "mobilità" nel fenomeno povertà e nell'area sociale dei poveri), la sua dislocazione sociale e territoriale.

Così si mostrava che il rischio di cadere in condizioni di povertà colpisce prevalentemente tre aree sociali: anziani soli o coppie di anziani con basse pensioni; persone che vivono in famiglie numerose aventi un solo percettore di reddito; persone in età da lavoro (e perfino occupati) che occupano tuttavia una posizione di debolezza estrema nel mercato del lavoro, avendo accesso soltanto a lavori dequalificati, precari, stagionali, sommersi.

Soprattutto, si mostrava che il 60% di questi poveri abitavano al Sud; ed il fenomeno era ancora più vistoso se si andavano a disaggregare i dati in termini di incidenza percentuale dei poveri e delle famiglie povere sul totale della popolazione: il 6,9% degli individui ed il 7,8% delle famiglie nel Centro-Nord a fronte del 18,4% degli individui e del 18,5% delle famiglie nel Sud.

Altri dati mostravano poi la diversa e drammatica incidenza della povertà minorile (oltre il 70% dei minori poveri concentrati nel Mezzogiorno...), la forte correlazione tra povertà materiale e deprivazione complessiva (con riferimento alla sola problematica del livello di istruzione, si poteva notare che il 35,4% dei poveri era analfabeta o comunque privo di qualsivoglia titolo di studio, ma la media nazionale era anche in questo caso il frutto di uno stridente contrasto tra le aree del paese: il 37,6% dei poveri analfabeti al Sud contro il 28,2% del Centro-Nord!). Attraverso quel Rapporto l'Italia scopriva che era ben lontana dall'aver debellato la povertà, foss'anche solo quella "materiale": una massa di anziani, analfabeti, pensionati, invalidi famiglie numerose, senzatetto, emarginati, fanciulli disadattati, giovani in cerca di prima occupazione, disoccupati, occupati in lavori saltuari, precari, sottopagati, saldamente ancorata soprattutto nelle regioni meridionali e intorno alle città, continuava ad offuscare i pur notevoli successi conseguiti da un'economia fortemente cresciuta.

Nella nota introduttiva al Rapporto, Ermanno Gorrieri individuava nell'offerta e nella redistribuzione dell'occupazione il dato prioritario di lotta contro la povertà, obiettivo perseguibile attraversó modelli occupazionali più flessibili e diversificati (riduzione dell'orario di lavoro e del tempo di lavoro nell'arco della vita, superamento delle politiche di tutela rigida ed esclusiva degli occupati, etc.).

Il Rapporto, in definitiva, poneva al paese una fondamentale questione etica e democratica: quale sia il livello di disuguaglianza, anche economica, accettabile per una comunità che voglia dirsi morale.

Quell'interrogativo è rimasto senza risposta; il Rapporto ebbe un esito politico assai infelice e neppure riuscì a suscitare nell'opinione pubblica il dibattito forte che ci si sarebbe attesi(10).

Negli anni successivi, ulteriori indagini hanno poi documentato l'accentuazione delle disuguaglianze economiche e la crescita dei poveri, al ritmo di 150-200.000 all'anno, nel periodo 1984-86, per effetto della restrizione delle politiche sociali e dei forti processi redistributivi che hanno caratterizzato gli anni '80(11).

Sulla base di proiezioni che tengono anche conto delle variabili demografiche pare che ci si debba inoltre attendere un ulteriore espandersi del fenomeno ed un'ulteriore sua concentrazione nel Mezzogiorno d'Italia(12).

La povertà esiste, dunque, ed è una povertà in cui si sommano il bisogno della vecchia miseria materiale, economica, e condizioni più nuove, più "moderne" di inferiorità sociale: una povertà che segna un intreccio complesso e multidimensionale di sofferenza e differenza sociale.

Scrive Sarpellon:

I settori di possibile emarginazione riflettono i bisogni umani fondamentali: lavoro, famiglia, potere, informazioni, salute, casa, ...; vivere in una situazione di sistematica privazione delle possibilità di soddisfare anche uno di questi bisogni provoca normalmente l'inizio di un processo cumulativo per cui tale privazione si allarga anche ad altri bisogni fino a sfociare in una situazione finale di emarginazione che non risulta dalla semplice "somma" dell'emarginazione nei vari settori, ma è qualcosa di più grave e complessivo, totale; per mantenere la terminologia aritmetica, si potrebbe dire che la situazione finale complessiva è la conseguenza del "prodotto" (e non della somma) delle singole componenti(13).

"L'età e la malattia sono, per colui sul quale si abbattono, due terribili e involontari fattori di miseria", scriveva nel 1902 Jack London, nella sua memorabile inchiesta sui poveri dell'East End londinese(14): l'età, le malattie, lo scarso livello d'istruzione, la disoccupazione costituiscono ancora oggi quei fattori che, intrecciandosi variamente tra loro, danno luogo a quella perversa miscela di miseria e subalternità che non è difficile incontrare nei suburbi delle nostre città meridionali. Una qualsiasi di tali sventure, aggiungendosi alle altre, può ancora, nel nostro paese, decretare il passaggio di qualcuno tra i quattro milioni e mezzo di "quasi-pove- ri" alle file della miseria profonda; per essi, le pagine invechiate di London suonano ancora beffardemente realistiche: "Vegetano sul posto, piuttosto che vivere; e, nella vita sociale, non avanzare significa indietreggiare. L’abisso li guata e, se gli sfuggono da vivi, i loro figli o nipoti vi piomberanno dopo"(15).

Una tale condizione di povertà – osserva Sidoti – "apre la porta ad una serie di dimensioni di inferiorità, che cumulandosi possono schiacciare l'individuo e portarlo ad una delle molte forme di devianza: criminalità, vandalismo, alcoolismo, malattia mentale, ecc."(16).

Per dirla ancora con London: "Un lavoro e una vita malsani generano appetiti e desideri malsani. L'uomo non può essere sfruttato peggio di un cavallo, alloggiato e nutrito come un maiale, e avere nello stesso tempo ideali e aspirazioni giusti e chiari"(17). Nel linguaggio meno appassionato delle scienze sociali:

Esiste una serie complessa di fattori che possono accumularsi sulla vita di una persona in maniera schiacciante, mentre ad uno ad uno sarebbero sopportabili. Lo stesso bambino può avere la sfortuna di essere nato in una famiglia povera, ma la sua famiglia può essere rattristata anche da altri fenomeni:la scarsa o nulla istruzione dei genitori, le eventuali cattive condizioni di salute di uno di loro, gli eventuali precedenti penali del padre o della madre, la collocazione dell'abitazione in un quartiere ghetto, la mancanza di altri membri nella più ampia cerchia familiare che possano servire da esempio in positivo...(18).

Povertà e devianza si incontrano, dunque, "lungo un'intricata rete di percorsi causali";in particolare, la povertà "rende molto difficile un accettabile processo di socializzazione, e un inadeguato processo di socializzazione può predisporre alla devianza"(19).

Il citato "Rapporto Gorrieri" individuava, dunque, nelle distorsio-ni del mercato del lavoro (disoccupazione e sottoccupazione) il principale fattore di "produzione" della marginalità economica e sociale nel nostro paese.

Per esplorare utilmente questo fenomeno occorre introdurre gradualmente il concetto di sovrappopolazione relativa nelle economie del cosiddetto "capitalismo maturo".

Una prima, approssimativa indicazione può trovarsi nel Capitale di Marx, laddove si parla di "sovrappopolazione operaia" e di "esercito industriale di riserva".

(...) se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell'accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell'accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico(20).

In Marx la "sovrappopolazione operaia" da evento congiunturale diviene fattore strutturale, esigenza immanente del sistema di produzione capitalistico; si trasforma, appunto, in un "esercito industriale di riserva", luogo dell'incrocio tra domanda e offerta di lavoro cui sono deputate svariate funzioni di compensazione (cal-mierazione dei salari, ammortizzazione delle tensioni politico-sin-dacali etc.).

Le analisi non marxiste delle economie di mercato hanno sempre negato questo carattere di strutturalità all'eccedenza di ma nodopera, definendola di volta in volta come "congiunturale" (dovuta a momenti di crisi-trasformazione di specifici settori produttivi o del mercato nel suo complesso), "volontaria" (prodotto dell'astensione cosciente di una parte della forza-lavoro che, in presenza di condizioni salariali ritenute insoddisfacenti, decide di "non offrirsi" sul mercato dell'occupazione), etc. La prima formulazione marxiana appare in realtà alquanto rozza, se confrontata con il grado di sofisticazione che presentano le moderne articolazioni del mercato del lavoro: non assistiamo più, nella realtà del capitalismo contemporaneo, ad alcuno scontro tra "esercito degli occupati" ed "esercito di riserva"; tuttavia il principio che il sistema capitalistico tenda naturalmente a produrre il pieno impiego della forza-lavoro disponibile appare oggi abbandonato in molta parte degli stessi economisti non marxisti: da Keynes in poi si ritiene generalmente che il livello dell'occupazione sia funzione dell'intreccio complesso di altri fattori, primi fra tutti il livello del reddito e quello degli investimenti(21).

Autori come Sweezy, Baran e Magdoff – in Italia Paci, Salvati ed altri(22) – hanno tentato di costruire, a cavallo tra gli anni '60 e '70, una versione più elaborata e rispondente alle dinamiche contemporanee del mercato del lavoro della dicotomia marxiana occupazione-disoccupazione. Così Sweezy e Magdoff parlano dell'esistenza di una componente "intermedia", quella degli occupati "a tempo parziale" e dei "precari", tra le aree classiche della disoccupazione e dell'occupazione.

Massimo Paci, poi, nel rilevare la perdita della funzione di calmiere un tempo detenuta dalle grandi masse di occupati precari, sottoccupati e disoccupati nel mercato del lavoro centrale, individua nell'assunzione dell'attuale segmentazione del mercato del lavoro il punto cardine da cui partire se si vuole cogliere la funzione esercitata nell'oggi da queste masse.

Alla massa degli operai occupati nel settore "centrale" (la cosiddetta "aristocrazia" operaia, caratterizzata da un elevato livello di istruzione e qualificazione) si contrapporrebbe la massa degli operai – o "pseudo-operai" – occupati nel settore "periferico" dell'economia industriale (lavoratori a domicilio, in nero, lavoratori "irregolari" e lavoratori occupati presso aziende artigianali e semi-artigianali e piccole o piccolissime imprese industriali).

La rigidità della domanda (anzi il calo della domanda, per effetto dell'innovazione tecnologica) ma soprattutto la rigidità dell'offerta (a causa dell'elevato livello di qualificazione richiesto), nonché l'alto grado di politicizzazione-sindacalizzazione raggiunto da questo tipo di manodopera (con conseguente contrattazione di una occupazione stabile e di forti meccanismi di protezione), conferirebbero al settore "centrale" un carattere di rigidità e di chiusura elitaria tale da rendere scarsi o nulli gli effetti della massa dei disoccupati: in questo settore, anzi, ai lavoratori occupati non si contrapporrebbe affatto un "esercito industriale di riserva".

Ben diversa appare la situazione nel settore "periferico", dove fattori come l'intrinseca precarietà dell'occupazione, l'elevatissimo grado di sostituibilità della forza-lavoro non qualificata, il livello bassissimo o nullo, comunque sempre discontinuo, dell'impegno sindacale e politico, renderebbero la manodopera occupata estremamente esposta e sensibile alla competizione di quella inoccupata.

Ciò che noi definiamo come "periferico", non necessariamente è "residuale"; ciò che definiamo marginale esprimendo un giudizio "sociologico" sulle condizioni di vita e di lavoro degli uomini e delle donne in esso inclusi non è affatto marginale sul piano "economico".

Paci calcola in due milioni i lavoratori "irregolari" (senza contratto, a domicilio, in prova etc.) nel nostro paese e in circa un milione e mezzo le persone occupate in imprese piccole e piccolissime; queste ultime costituiscono il 97,5% del totale imprese nel Sud ed il 92,3% nel Nord(23).

È chiaro che tre milioni e mezzo di lavoratori non rappresentano che una esigua percentuale sul totale della manodopera occupata nel nostro paese; in base ad altre fonti, Sylos Labini calcolava nel 3,7% del totale il numero degli occupati precari di agricoltura, industria ed altre attività(24); tuttavia:

1) le indagini su questo tipo di fenomeni tendono a fornire risultati fortemente viziati per difetto, per le ovvie reticenze messe in campo da datori di lavoro che si trovano quasi sempre in una posizione di irregolarità o illegalità;

2) le cifre fornite da Paci e da Sylos Labini si riferiscono ad un periodo in cui ancora molto forti erano gli effetti dell'espansione del settore centrale manifestatasi nel periodo del "boom economico" e molto forte (nel periodo dell'"autunno caldo") la capacità del movimento operaio di vigilare sulle forme di occupazione irregolare e di opporvisi;

3) il decennio '71/81 ha visto un considerevole incremento del numero delle piccole imprese in Italia: secondo i dati censuari si sarebbe registrato nel paese un incremento del 21% delle unità produttive, con un aumento dell'occupazione del 12,6%, ma vi sarebbe stata una flessione vistosa (-9,9%) dell'occupazione presso le unità con 1000 addetti e oltre ed un incremento irrilevante (1,3%) presso le aziende da 500 a 999 occupati complessivamente le imprese medie e grandi – con almeno 500 dipendenti – avrebbero ceduto il 6,3% della propria forza-lavoro: conseguentemente l'incremento dell'occupazione può essere ascritto alle imprese piccole e piccolissime);

4) è vero che l'espansione di questa classe di imprese va per una parte considerevole ascritta alla diffusione del cosiddetto modello NEC(25), ma: a) neppure un tale modello appare immune da condizioni di precarietà occupazionale ed evasione delle norme della contrattazione, gli orari di lavoro etc., b) le imprese NEC sembrano prevalentemente confinate in settori produttivi periferici, non avanzati, c) la consistenza numerica di tale classe di imprese e la sua diffusione pressoché omogenea su tutto il territorio nazionale fa ritenere che accanto ai nuovi modelli imprenditoriali coesistano in numero considerevole forme più classiche della produzione e dell'occupazione marginale e periferica(26).

In sintesi, il processo di concentrazione dei capitali non ha determinato la scomparsa in Italia del piccolo imprenditore autonomo.

La presenza di piccole realtà produttive estremamente dinamiche e "moderne", l'omogeneità (almeno sotto il profilo quantitativo) del fenomeno nel Sud e nel Nord del paese, non consentono ipotesi di tipo evoluzioistico, letture basate sull'"arretratezza" ed il "sotto-sviluppo residuale" del sistema.

Il settore "periferico", capace di far coesistere vecchie e nuove forme di marginalità occupazionale, non può esere liquidato come "residuale" né esaltato come "tendenziale"(27).

La grande impresa industriale moderna spazza via le piccole e medie imprese, che entrano potenzialmente in concorrenza con essa, ma favorisce lo sviluppo di imprese ad esse satelliti o complementari, in cui, in condizioni di forte subalternità, sia possibile decentrare quelle lavorazioni ritenute troppo pericolose dai sindacati o aggirare per mezzo di vari espedienti il costo ufficiale del lavoro, etc.(28).

Secondo Paci il sistema delle piccole unità produttive si riproduce continuamente perché, all'interno del modo di produzione capitalistico, assolve a tre funzioni precise:

1) funzione tecnologico-organizzativa: decentramento di quelle lavorazioni che incorporano una quota relativamente elevata di "lavoro vivo" e che producono beni e servizi la cui domanda fluttua nell'anno;

2) funzione politica: il decentramento divide la classe operaia e indebolisce il movimento sindacale;

3) funzione economica:funzione di "ammortizzatore" che consente alla grande industria di mantenere entro limiti socialmente accettabili, anche nei periodi di crisi, il livello di licenziamento e cassa-integrazione(29).

Alle tre funzioni individuate da Paci potrebbe forse aggiungerse- ne una quarta, di natura ideologica: poiché spesso il discorso economico ascrive al capitalismo "maturo" (o "compiuto") soltanto il modello di produzione e di relazioni industriali espreso dal settore "centrale", descrivendo contemporaneamente il settore "periferico" come un "residuo" di cui la piena affermazione dell'economia di mercato avrà presto ragione, la permanenza dello stesso settore "periferico" alimenta un'ulteriore legittimazione del grande capitalismo, che appare al suo confronto "pulito", caratterizzato da relazioni industriali più "morbide" etc.

La pressione dell'"esercito industriale di riserva" finirebbe dunque con l'esercitarsi solo sugli occupati nel settore "periferico" dell'economia; tuttavia, ad analizzare meglio le cose, non si può non accorgersi che le dinamiche del rapporto disoccupati-occupati nel settore non si esauriscono nell'impiego come massa di manovra e strumento di pressione salariale dei disoccupati ad opera dei piccoli imprenditori del sottobosco "periferico".

Le stesse caratteristiche dell'occupazione in questo settore fanno sì che tra occupati e disoccupati non vi sia alcuna soluzione di continuità ma regni invece una osmosi profonda, una profonda "intercambiabilità": in tempi brevissimi, quasi quotidiani, masse di lavoratori trasmigrano dalla condizione di "occupati nel settore periferico" a quella di "disoccupati", e viceversa. Riprendendo le conclusioni di Sylos Labini sugli "occupati precari"(30), Guarrasi proponeva la categoria di popolazione marginale, inclusiva della categora del "proletariato marginale" e coestensiva del concetto di "occupazione precaria"; una categoria, in altre parole, capace di ricomprendere globalmente quella porzione della popolazione che in varie forme rimane ai margini del sistema produttivo(31).

La chiave della categoria di Guarrasi è in quell'"in varie forme"; passano cioè in secondo piano "le differenze fra i modi di accesso al reddito", mentre "il livello estremamente basso, ma soprattutto il carattere incerto e discontinuo del reddito" divengono le caratteristiche distintive della popolazione marginale nel suo complesso. Nei ranghi di tale popolazione marginale possono perciò essere inclusi sia il "proletariato marginale" (i lavoratori occupati nel settore "periferico" della produzione manifatturiera), sia gli "occupati precari" nell'agricoltura, nell'artigianato, nel terziario commerciale e dei servizi, sia la grande massa di coloro che non dipendono affatto da un "reddito da lavoro" (disoccupati, invalidi, titolari di pensioni minime etc.).

Pur non immune da critiche(32), la categoria di Guarrasi appare dotata di un forte potenziale euristico; permette infatti di superare l'impasse più classica delle categorizzazioni fondate sulla classificazione delle modalità di accesso al reddito: la difficoltà nel dar conto della notevole fluidità del sistema di accesso al reddito.

Lo stesso Guarrasi, nel dimostrare la perfetta compatibilità della sua categoria con quelle basate sulla classificazione delle modalità di accesso al reddito(33), individua all'interno dell'universo marginale tre strati caratterizzati ciascuno da una diversa forma di reddito:

A. Lo strato proletario: in questa categoria rientrano tutti i lavoratori dipendenti con occupazione precaria e discontinua, e cioé tutti coloro che lavorano nelle aziende industriali con più di dieci addetti (o nelle aziende commerciali con più di due addetti), quando l'attività di queste aziende non sia stabile e continuativa o sia in crisi, tutti coloro che lavorano nelle aziende industriali con meno di dieci addetti, tutti coloro che figurano come lavoratori dipendenti nel censimento demografico, ma non in quello industriale, i braccianti assunti a giornata, ecc.

B. Lo strato piccolo-borghese: in questa categoria rientrano tutti i lavoratori indipendenti, che figurano nel censimento demografico, ma non in quello industriale, ed in ogni caso tutti coloro che pur avendo un'attività fissa hanno bassissimi livelli di introito, e cioè artigiani e coadiuvanti del settore tradizionale (concorrente della grande industria), il cui mestiere è in declino, piccoli commercianti, i contadini più poveri, ecc.

C. Lo strato pauperizzato: in questa categoria rientrano tutti coloro che non lavorano, o lavorano occasionalmente per procurarsi un reddito di sussistenza e cioé i piccolissimi artigiani di tipo tradizionale, i gestori di piccolissime botteghe alimentari, i venditori ambulanti, tutti i lavoratori irregolari (pseudoapprendisti, lavoratori a domicilio, manovali, pescatori, garzoni, lavascale, ecc.), coloro che per sopravvivere si adoperano in vari modi, ecc.(34).

Un'esperienza sociale diffusa insegna però che queste categorizzazioni costituiscono degli idealtipi difficilmente riscontrabili nella realtà concreta dell'universo marginale.

La fluidità della condizione marginale sfugge a classificazioni così rigide: in realtà qualsiasi individuo marginale sperimenta, più volte nel corso della sua vita o addirittura simultaneamente, l'appartenenza a più "strati" del tipo di quelli descritti; così, accade frequentemente che un operaio marginale dello strato "A" arrotondi le proprie magre entrate svolgendo nelle ore libere una qualsiasi attività da piccolo artigiano classificata nello strato "C"; oppure che un piccolo artigiano (strato "B"), ridotto in miseria e dopo aver sperimentato una condizione di non-lavoro (strato "C"), venga assorbito nei ranghi di una piccola impresa precaria, passando così allo strato "A"...

Esempi di questo tipo potrebbero continuare all'infinito: le classificazioni in base alle modalità di acceso al reddito non individuano la caratteristica peculiare e generalizzata della marginalità, che è data invece dalla quota di partecipazione al reddito sociale(35), unitamente ad altri indici della qualità della vita (alloggio, livello d'istruzione, accesso a determinati servizi, etc).

È nota la dicotomia marx-engelsiana proletariatosottoproletaria-to; altrettanto nota è la "lectio" lewisiana sulla "cultura della povertà".

In particolare, secondo Lewis, i "portatori della cultura della povertà" si differenzierebbero dal "proletariato" per l'assenza di una specifica "cultura di classe"(36).

Ora, a parte le difficoltà evidenti nell'applicare nozioni come "cultura di classe", "classe per sé", "classe in sé" etc. ad una realtà caratterizzata da un elevato grado di complessità sociale e da una sostanziale interpenetrazione di modelli, di valori e stili di vita e di consumo, appare più convincente l'ipotesi conclusiva di Guarrasi:

L'operaio in fabbrica ed il portatore della cultura della povertà sono due modelli,due tipi ideali.Fra l'uno e l'altro si estende una gamma di posizioni sociali intermedie e forme diverse di coscienza sociale. Per questo motivo noi pensiamo a un universo sociale graduato in una serie di posizioni senza soluzione di continuità fra il proletariato e il sottoproletariato. (...) Quanto diciamo consente di individuare forme e gradi diversi di coscienza e di solidarietà di classe, e di ordinare le forme di coscienza sociale coesistenti all'interno della marginalità culturale secondo un criterio non rigidamente economico. Permette infine di evidenziare la problematicità della realtà sociale e la contraddittorietà dei comportamenti di una serie di strati sociali,che impropriamente vengono di volta in volta assimilati al proletariato industriale o al sottoproletariato vero e proprio(37).

Anche sul piano culturale non si può parlare di una specificità né della cultura marginale rispetto alle altre, né di sottoculture rigide all'interno dell'universo marginale; bensì di un sistema articolato e complesso in cui vigono diversi gradi di contaminazione.

Come è noto, Marx distingue all'interno della sovrappopolazione relativa tre sottoclassi:

1) la sovrappopolazione fluida: composta dagli operai occupati nel settore "centrale", nella misura in cui alternativamente vengono attratti o respinti dall'organizzazione produttiva;

2) la sovrappopolazione latente: composta da lavoratori espulsi dall'agricoltura a causa dell'espansione dell'iniziativa capitalistica in questo settore, i quali, pur essendo in procinto di essere assorbiti nel proletariato e sottoproletariato urbano, mascherano la propria condizione di inoccupati attraverso l'esercizio di un'attività agricola che spesso non copre gli stessi bisogni di sussistenza;

3) la sovrappopolazione stagnante: composta dagli occupati nel settore "periferico" dell'economia(38).

È accertato che le economie di mercato segnano la progressiva tendenziale scomparsa della sovrappopolazione latente; la sovrappopolazione stagnante si espande conseguentemente per sostituire la sovrappopolazione latente nell'importante funzione di occultare quote rilevanti della sovrappopolazione relativa e di mantenere sotto controllo un aumento eccessivo della disoccupazione (tenden-zialmente in aumento per il contemporaneo ampliarsi della sovrappopolazione fluida causato dal progressivo incremento degli investimenti di capitale nelle nuove tecnologie): di qui la centralità del-l'"economia periferica" nello sviluppo capitalistico(39).

Le dicotomie sviluppo/sottosviluppo e settore "centrale"/settore "periferico" dipendono dunque dalle esigenze di valorizzazione proprie del capitale:

Il meccanismo del sistema economico complessivo funziona nel senso di mantenere certe aree del territorio nazionale in condizioni di "sottosviluppo" o determinati settori dell’economia in condizioni di "arretratezza". L’arretratezza dell’agricoltura o il sottosviluppo del Meridione in Italia dipendono dunque organicamente dalle esigenze di valorizzazione del capitale nazionale e internazionale tanto è vero che laddove lo sviluppo ha spazzato via antiche e superate forme di produzione a queste non sono subentrati tecnologie e impianti moderni ma impianti a bassa tecnologia che consentissero di dare lavoro a una quota relativamente elevata di manodopera in modo da sostituire alla sovrappopolazione latente una quota equivalente di sovrappopolazione stagnante(40).

Un dato appare sintomatico: se -come abbiamo visto- la distribuzione delle piccole industrie è sostanzialmente omogenea sul territorio nazionale all’inizio degli anni '70 può rilevarsi la concentrazione nel Sud del 70% dell'occupazione precaria(41); se nel Nord del paese si concentrano piccole industrie di tipo moderno e spesso "dinamiche" nel Mezzogiorno si stende la vasta area dell'occupazione marginale e periferica.

Scriveva Balandier:

(...) il sorgere del capitalismo differisce dalla genesi delle formazioni precedenti essenzialmente per il fatto che si sviluppa "spontanea-mente" in un solo punto del globo terrestre (...) il sorgere del capitalsimo in altri paesi feudali è dovuto alla pressione dei mercati capitalistici creati altrove e molto spesso per influenza di un’ideologia copiata e coordinata (...)(42).

La tesi di Balandier nel suo semplicismo e nella sua radicalità è stata oggetto di numerose critiche; al di là delle intenzioni dell'Autore essa si adatta a meglio cogliere fenomeni determinati del "capitalismo indotto" come quelli dell'America Latina; tuttavia non è priva di suggestioni per spiegare la transizione al capitalismo del nostro Mezzogiorno feudale.

La realtà del sottosviluppo meridionale, ad ogni modo, può essere agevolmente colta anche da una semplice riflessione su dati empirici.

In un lungo studio sull'economia siciliana Sylos Labini parte dall'esame dei fattori quali l'emigrazione, la disoccupazione, l'occupazione precaria etc; in particolare, per ciò che riguarda l'occupazione precaria e la disoccupazione e sottoccupazione in tutte le sue forme l'economista rilevava che, a fronte di una popolazione attiva attestata sul 31% del totale regionale, 40 lavoratori su 100 appartenevano al mare magnum dell'occupazione precaria e marginale(43).

Il vero dramma del Sud – si evince anche in quello studio – è costituito dalle città:

La precarietà più drammatica si trova nella situazione del sottoproletariato cittadino: Palermo ne è l'esempio più rappresentativo. Si tratta di piccolissimi artigiani di tipo tradizionale, che spesso sono sull'orlo della frana e magari dentro la frana; e si tratta di persone che esercitano piccoli mestieri eterogenei e mutevoli: in sostanza più che vere occupazioni si tratta di espedienti escogitati per campare. È chiaro che in queste condizioni lo sviluppo civile è fortemente condizionato (...)(44).

Si può dunque affermare con Guarrasi che "nel tempo è mutata la distribuzione territoriale della popolazione marginale: alla diminuizione progressiva dei lavoratori precari nelle campagne ha corrisposto l'aumento delle occupazioni precarie in città; conseguen-temente "la popolazione marginale che si concentra nei quartieri poveri della città aumenta di numero e vede così diminuire le proprie possibilità di partecipare pienamente alla vita urbana"(45).

Analoghe le conclusioni di una celebre inchiesta di Amendola sul centro storico di Salerno:

Immigrazione e destrutturazione delle attività tradizionali, quali artigianato ed industria tessile, immettono pertanto sul mercato una massa di forza lavoro che solo in piccola parte può essere assorbita nei settori forti mentre in gran parte è emarginata. Le caratteristiche dello sviluppo urbano non permettono di attendersi che essa possa rifluire, nella prospettiva di vero esercito di riserva, in attività centrali. ln massima parte essa è destinata invece alla stagnazione ed al depauperamento sia pure con modalità diverse. Alcune quote riescono ad occuparsi in posizioni di precarietà e di sottoretribuzione nell'edilizia e nel terziario commerciale mentre altre sono proiettate nella realtà delle piccole e varie occupazioni urbane part-time all'interno della quale attendono di essere definitivamente espulse per l'età dal mercato del lavoro(46).

La massa dei marginali, in quanto massa di manovra a basso costo e per di più dotata di un grado di docilità e fungibilità, era servita inizialmente ad alimentare la crescita edilizia e l’impresa marginale a mercato locale.

In un secondo momento, con la crisi dell'attività edilizia (il terremoto del 1980 è ancora di là da venire), la chiusura per perdita di mercato delle piccole industrie locali (la concorrenza della grande industria diviene massiccia, soprattutto alimentare), la ripresa di forza del sindacato (dopo il ciclo di lotte degli anni '60) etc., diminuiscono sensibilemnte le possibilità di utilizzo economico di massa di tale forza-lavoro: "in questa situazione le caratteristiche di sempre più larghe quote di questa popolazione espulsa dai processi produttivi si sono chiarite sempre più come quelle di sovrappopolazione relativa stagnante"(47).

Se Engels aveva individuato nell'insanabile "antitesi fra città e campagna" uno dei punti di maggiore contraddizione all'interno dello sviluppo capitalistico(48), è proprio nel Mezzogiorno d'Italia che possiamo assistere, a partire dal momento dell'unificazione nazionale, ad uno degli inveramenti storici più spettacolari di tale contraddizione(49).

Progressivamente, tale contraddizione si è andata spogliando delle sue caratteristiche rurali, incarnandosi direttamente nello spa-zio urbano, andando a costituire, all'interno di questo, quell'area della sovrappopolazione stagnante di cui si è tentata un'analisi nelle pagine precedenti.

Nel punto 3. che segue si cercherà di esaminare le caratteristiche che questa popolazione marginale è andata progressivamente sviluppando, cercando di cogliere le relazioni che essa instaura con gli altri gruppi sociali,con il blocco urbano dominante e con il ceto politico, di indagare il rapporto che quest'area può stabilire con la devianza e con il crimine organizzato.

Si è potuto lungamente parlare della "questione meridionale" in termini di crisi da "industrializzazione senza urbanizzazione"(50), riferendosi soprattutto alla politica dei "poli di sviluppo" ed alla contemporanea assenza di "valori urbani" (servizi alle imprese, terziario adeguato etc.), cionondimeno esiste nel Sud un fortissimo problema di "urbanizzazione senza industrializzazione"(51).

Urbanizzazione senza industrializzazione, urbanizzazione senza modernizzazione: i nodi di una crisi "da assenze", la struttura vischiosa di città burocratiche, mercantili e semindustriali, il dramma di uno sviluppo delle città meridionali bloccato in un impianto policentrico,incapace di dar vita ad un autentico sistema urbano.

All'interno di questa crisi, il "caso" Napoli appare davvero paradigmatico, la sintesi più feroce ed icastica del dramma delle città meridionali:

In realtà, il solo nome di Napoli evoca oggi una sequenza di problemi: la deindustrializzazione che procede senza innescare alcun meccanismo virtuoso di crescita del terziario privato; il pullulare di attività le più disparate in antichi quartieri che non trovano altri modi di sopravvivenza; la camorra dilaniata da lotte intestine la cui virulenza è solo un segnale dell'importanza dei traffici contesi; le reiterate richieste di fondi statali per operazioni immobiliari o per il potenziamento dell'attrezzatura; un'amministrazione comunale impotente e largamente espropriata dai poteri centrali. Ecco: la sovrapposizione di questi vari dati è l'immagine che la città dà di se stessa in questa fase. Un'immagine ambigua, talvolta disperata, comunque difficile da decodificare(52).

È vero che negli anni passati un intero filone di analisi ha forse posto – soprattutto per il caso napoletano – un'enfasi eccessiva, a tratti scadente nella descrizione folkloristica, sulla cosiddetta "eco-nomia del vicolo", relativizzando il ruolo svolto nel tessuto sociale napoletano da altri gruppi, primo fra tutti la classe operaia, per quanto debole ed esigua; così Allum:

La precarietà dell'impiego è caratteristica assai diffusa e un posto di fabbrica non dà garanzia a un lavoro sicuro per tutta la vita. C'è sempre l'incubo di essere licenziati o messi da parte in periodi di recessione, ciò che significherebbe il ritorno a vecchi espedienti per tirare avanti alla meglio. ln questa situazione è il caso di domandarsi fino a che punto gli operai napoletani rappresentino, nella loro maggioranza, un proletariato anziché un lumpenproletariat, cioè in che senso essi differiscono dal più noto e folclorico gruppo sociale napoletano, quello dei sottoproletari urbani (i cosiddetti lazzari)(53).

In realtà si è visto che settore "centrale" e "periferico" dell'economia presentano compartimentazioni estremamente rigide e ben difficile appare il passaggio di manodopera dall'uno all'altro; dello stesso avviso Cotugno, Pugliese e Rebeggiani:

(...) Ia disoccupazione industriale in generale -e quindi anche i cassintegrati- ha difficoltà a entrare in quella quota di economia irregolare di mercato che va sotto il nome di "sommerso": sono richieste in genere differenti qualificazioni, la domanda non cresce considerevolmente e l'offerta è già da tempo formata e, come abbiamo visto attraverso altre ricerche, si riproduce attraverso canali interni ai singoli settori. Nella quota di informale che opera nei servizi la qualificazione professionale acquisita in fabbrica risulta inutile e al contempo inadeguata. ln generale nell'economia irregolare è poi controproducente il fatto che questa quota dell'offerta sia stata socializzata alla fabbrica, a una regolarizzazione formale dei rapporti nel lavoro(54).

Addirittura una sorta di "qualificazione di segno inverso", in negativo, discriminerebbe l'eccesso della manodopera espulsa dal settore "centrale" nei ranghi dell'economia "periferica"... Ciò non significa naturalmente, per i tre autori, che il ruolo del "sommerso" debba essere sottovalutato: se l'"economia del vicolo" intesa come "economia urbana di sussistenza e in parte di autoconsumo" può definirisi estinta dopo gli anni ‘50 per l'effetto combinato di una parziale industrializzazione e del diffondersi sia pur limitato di forme embrionali di politiche sociali, cionondimeno ad essa si sostituisce una nuova economia marginale(55).

Le stesse, pur celebrate, forme di "invenzione del lavoro", sulle quali è stato posto l'accento dagli studiosi dell'economia informale degli anni '80(56) presentano con la vecchia "economia del vicolo" diverse componenti in comune; tra queste c'è sicuramente "lo scarso riflesso sui tassi di occupazione (e, per un certo periodo, anche di disoccupazione) ufficiali" (si tratta insomma di attività "sommerse" a tutti gli effetti, invisibili alle statistiche e ai controlli...); inoltre, "esse hanno ancora in comune il fatto di sfuggire alla regolamentazione statale o a quella del sistema di relazioni industriali prevalente"(57).

Nel Sud, poi, come si è visto, il precariato prevalente non deriva certo dall'espansione del modello NEC, quanto dalle "forme più attuali e moderne di lavoro nero nel settore manifatturiero": a Napoli, ormai, "il lavoro nero prevalente è quello delle lavoranti a domicilio, o delle piccole fabbriche del settore delle calzature e della lavorazione della pelle", un'economia tutt'altro che chiusa e di autoconsumo...(58).

In definitiva:

Nell'area napoletana le condizioni di lavoro per ampie quote dell'occupazione rimangono del tutto al difuori delle norme e delle garanzie contrattuali. L'occupazione sottopagata nella piccola fabbrica e nell'artigianato, quella irregolare e non garantita nelle piccole aziende edili, il lavoro minorile, lo stesso lavoro artigianale precario degli adulti, senza considerare forme di commercio ambulante povero che ancora persistono, caratterizzano larga parte dell'attività dei quartieri centrali di Napoli. Attribuire a tutta quest'area occupazionale il carattere di economia informale può essere legittimo, data la onnicomprensività del termine. Ma bisogna ribadire che una parte di essa risulta nelle statistiche sull'occupazione, un'altra parte, ancorché caratterizzata da violazioni di normative relative alla regolamentazione dei rapporti e delle condizioni di lavoro, è economia ufficiale a tutti gli effetti(59).

E ciò in quanto:

(...) I'esperienza nota e documentata di economia informale è appunto in sostanza quella del lavoro nero, a carattere più o meno tradizionale, nel commercio, nei servizi e nel settore manifatturiero. Cioè come condizione imposta in mancanza di alternative, in particolare nell'impossibilità di entrare nell'occupazione centrale. Non si tratta solo della tradizionale arte dell'arrangiarsi, quanto anche di pesanti forme di lavoro a basso reddito, bassa retribuzione e generalmente a bassa produttività(60).

Altro, insomma, dal folklore degli "sciuscià"; ed a questa pesantezza di condizioni lavorative ed esistenziali, si aggiunge il complesso dell’economia parallela della criminalità organizzata...

 

 

Note

(1) Tra i primi a porre il problema dell'invisibilità della miseria nelle economie evolute fu l'economista nordamericano J.K. Galbraith (The Affluent Society, New York, 1958; trad. it.: La società opulenta, Milano, Etas Kompass, 1968). Assai interessante sul piano dell'indagine empirica è il lavoro di M. Harrington sulla povertà negli Stati Uniti [(The Other America (Poverty in the United States,, Chicago, 1962, 1969; trad. it.: La povertà negli Stati Uniti, Milano, ll Saggiatore, 1963, 1971; il libro è utile anche per la bibliografia che può ricavarsene]. Sulla reticenza dei media ad affrontare il tema della povertà v. R. Cirino, Don’t blame the People, 1971; trad. it.: Menzogna e reticenza nel giornalismo americano, Milano, Bompiani, 1974 (in partic. il primo capitolo "Il problema della fame: interessa a qualcuno?", pp. 13 ss.). Per l'applicazione della teoria dell'invisibilità della miseria al Mezzogiorno d'ltalia, cfr. inoltre il cap. "La "povertà invisibile"", in A. Petrillo, Post-sismìa. Nuove forme di potere e nuove soggettualità antagoniste nella polis, cit., pp. 32 s., dal quale è praticamente tratto il brano che precede. Sulle "povertà immateriali" ha recentemente insistito C. Calvaruso, Povertà materiali ed immateriali in Europa, "Tutela", n. 2/3, 1993. Per una ricognizione aggiornata, a livello internazionale, sui contesti sociali della povertà, si rimanda al fascicolo appena citato di "Tutela" che dedica il "Dossier" al tema: "Povertà ed esclusione sociale. Le cifre, le politiche". Per una rassegna critica degli studi sulla povertà effettuati in Italia, infine, cfr. P. Guidicini (a cura di), Gli studi sulla povertà in Italia, Milano, Angeli, 1991.

(2) I dati della Commissione parlamentare d'inchiesta sono tratti da P. Braghin (a cura di), Inchiesta sulla miseria in Italia, Torino, Einaudi, 1978, pp. XIII-XVI.

(3) F. Sidoti, op. cit., p. 130.

(4) P. Sylos Labini, L’evoluzione del Mezzogiorno negli ultimi trent’anni, cit.

(5) I dati del Rapporto sono tratti da Sidoti, op. cit., p. 131.

(6) Cfr. Ibidem.

(7) Il termine è di M. D'Antonio e caratterizza tutta una fase della sua ricerca; in partic. v. U. Leone (a cura di), L’industrializzazione del Mezzogiorno, in Vecchie e nuovi termini della questione meridionale, "Scritti in ricordo di F. Compagna", Napoli, CCIAA, 1984.

(8) Ci si riferisce al cosiddetto modello NEC, affermatosi nel corso degli anni '70 principalmente nell'Italia Nord-Est-Centrale, incentrato sullo sviluppo di piccole e medie imprese caratterizzate da autonomia aziendale (connessa con la capacità di diversificare gli acquirenti) e organizzazione in sistemi di unità produttive interdipendenti e complementari: "Le singole fasi dei processi di lavorazione sono localizzate in impianti separati, facenti capo ad imprese autonome di piccola e media dimensione. Esse si specializzano in poche tranches del processo produttivo di molti beni: pertanto, possiedono impianti aventi i requisiti della flessibilità, della versatilità e dell'adattabilità, raggiunti attraverso le nuove tecnologie, il vasto impiego di lavoro qualificato, l'uso flessibile del lavoro meno qualificato e, in definitiva, una elevata capacità di innovazione (in termini di nuovi prodotti, di soluzioni personalizzate, di continui aggiustamenti nei processi di lavorazione); ed ancora: la limitazione della concorrenza di prezzo fra le imprese che producono lo stesso bene; la ripartizione delle commesse tra imprese che producono beni diversi; la cooperazione nell'utilizzo di servizi amministrativi, finanziari, di marketing, di software, ecc.. Tale modello, già nel corso degli anni Settanta, si è combinato col processo di ristrutturazione e di ridimensionamento occupazionale della grande impresa che si è manifestato nelle forme più vistose all'inizio degli anni Ottanta" (C. Quintano, Un’in-terpretazione della dimensionalità industriale della Campania, "Rassegna Economica", n. 2, 1988). Assenza di flessibilità, scarsissimo o nullo impiego di nuove tecnologie e di lavoro qualificato, assieme ad altri elementi, fanno propendere lo stesso Quintano per una sostanziale impossibilità di rinvenire nel tessuto della piccola manifattura meridionale gli elementi tipici del modello NEC. Per un'analisi approfondita del modello NEC si vedano, ad ogni modo, G. Fuà-C. Zacchia, Industrializzazione senza fratture, Bologna, Il Mulino, 1983 (in particolare il saggio di G. Fuà, L’industrializzazio-ne nel Nord-Est e nel Centro); l'articolo di V. Balloni-G. Vaciago-P. Pettenati, La via adriatica allo sviluppo, "Mondo Economico", n. 4, 1979; e numerosi saggi "regionali", tra cui: G. Beccattini (a cura di), Lo sviluppo economico della Toscana, Firenze, Irpet, Guaraldi, 1975; B. Bracalente, Il sistema industriale dell’Umbria, Bologna, Il Mulino, 1986; G. Tassinari, Il sistema industriale dell’Emilia Romagna, Bologna, Il Mulino, 1986; e, dello stesso Ouintano, Il sistema industriale del Molise, Bologna, Il Mulino, 1986.

(9) AA.VV., La povertà in Italia. Rapporto conclusivo alla commissione di studio istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, lstituto Poligrafico dello Stato, 1985. In linea di massima, queste tendenze sono uscite confermate, se non aggravate, dal Secondo Rapporto sulla povertà in Italia, (Commissione di indagine sulla povertà e l’emarginazione presieduta da G. Sarpellon), Milano, Angeli, 1992. Ciò che va via via emergendo è la stretta interrelazione tra i "quadri politico-sociali" della diseguaglianza e dell’emarginazione e i "quadri ambientali" della povertà: al progressivo acurisi delle diseguaglianza politiche e sociali corrisponde in linea diretta l’"estremizzazione" delle condizioni della povertà, con l’ esclusione crescente dall’area dei diritti e delle garanzie. Sotto quest’ultimo riguardo, illuminante è il recente Rapporto sulle povertà estreme in Italia, pubblicato dalla Commissione di Indagine sulla povertà e l’emarginazione della Presidenza del Consiglio (a cura di C. Calvaruso-G. Pasini-S. Cacciola), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1993. Per una lettura strutturale del nesso povertà/diseguaglianza nello specifico della situazione italiana e aggiornata al 1991, cfr. G. B. Sgritta-G. Innocenzi, La povertà, in M. Paci (a cura di), Dimensioni della diseguaglianza. Primo rapporto della Fondazione Cespe sulla diseguaglianza sociale in Italia, Bologna, Il Mulino, 1993. Estremamente utile, sull’argomento, è anche il "Percorso monografico: Nuove povertà" proposto dal n. 22, 1993 di "Marginalità e Società", con scritti di A. Giasanti, E. Mingione-F. Zajczyk, Caritas Ambrosiana, Y. Kazepov-S. Laffi, E. Ruspini, E. Morlicchio.

(10) Molti ed interessanti contributi sull'argomento, ad opera di studiosi quali R. Artoni, C. Saraceno, F. Cavazzutti, S. Cassese, M. Salvati, L. Elia ed altri, possono trovarsi nel volume collettivo Povertà e Stato, Roma, Fondazione A. Olivetti, 1987. Se si eccettuano questo libro e qualche editoriale giornalistico, l'impressione è che il paese abbia preferito ignorare il Rapporto: di quest'opinione C. Saraceno (Politica contro la povertà."Rap-porto sulla povertà": note a margine, un anno dopo, "Queste Istituzioni", n. 7, estate-autunno 1986) e L. Guerzoni (I poveri vanno anche contati, "il manifesto", 29/1/1988).

(11) Cfr. L. Guerzoni, articolo cit.

(12) Cfr. F. Sidoti, op. cit., p. 135.

(13) G. Sarpellon, Emarginazione e dinamiche sociali, "Animazione sociale", n. 1, gennaio 1988, p. 14. Dello stesso A. si veda anche il volume: La povertà in Italia, Milano, Angeli, 1983. Il Sarpellon, nel periodo a cui risale il saggio, ha l'incarico di Presidente della Commissione sulla povertà e l’emarginazione istituita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, i cui lavori culminano nel Secondo Rapporto... che abbiamo innanzi citato nella nota n. 9.

(14) J. London, Il popolo dell’abisso, Milano, Sonzogno, 1974, p. 70.

(15) Ibidem, p. 38.

(16) F. Sidoti, op. cit., p. 129.

(17) J. London, op. cit., p. 202.

(18) F. Sidoti, op. cit., p. 129.

(19) Ibidem, p. 104.

(20) K.Marx, Das Kapital. Kritik der politischen oekonomie, Band l, Leipzig, 1872; trad.it.: Il Capitale. Libro primo, Roma, Editori Riuniti, 1970 (VIII ed.), cap. 23, p. 692.

(21) Cfr. J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), trad. A. Campolongo, Torino, Utet, 1947 (II ed. 1971).

(22) Cfr., di P. Baran-P.M. Sweezy: Il capitale monopolistico, Torino, Einaudi, 1968; di P.M. Sweezy-H. Magdoff: Capitalismo e disoccupazione, "Monthly Rewiew", ediz. it., anno Vlll, n. 7, luglio 1975, pp. 1 ss.; di M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1973; di M. Salvati: Analisi di un decennio in AA.VV., La congiuntura più lunga, materiali per un’analisi della politica italiana, 1972/74, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 33-170.

(23) M. Paci, op. cit., p. 281.

(24) P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Bari, Laterza, 1974, p. 179.

(25) Cfr. supra, nota n. 8 del cap. I.

(26) Lo stesso studio di Quintano sembra confermare questa realtà, come si è potuto vedere (cfr. ancora supra, nota n. 8 del cap. I).

(27) Le tante agiografie del "piccolo è bello!" degli anni '80 si sono scontrate assai spesso con una realtà assai più dura ed assai meno esaltante...

(28) È noto, altresì, il fenomeno dei "padroncini" che la grande impresa preleva direttamente fra i propri capi-reparto ed incentiva a "mettersi in proprio", assicurandosi -in condizioni di subalternità e a costo ridotto- quelle lavorazioni o quei servizi (trasporti etc.) che non risulta conveniente gestire direttamente.

(29) M. Paci, op. cit., p. 289.

(30) Cfr. P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, Bari, Laterza, 1972; e Saggio sulle classi sociali, cit.

(31) Cfr. V. Guarrasi, op. cit., pp. 19 ss.

(32) Lo stesso Guarrasi rileva i limiti della propria categoria, ribadendone però la validità per settori limitati di popolazione: "Nel costruire una categoria come quella di "popolazione marginale" siamo ben consapevoli di andare incontro a delle obiezioni sostanziali. Si potrebbe infatti osservare che è assurdo subordinare il criterio basato sul modo di accesso al reddito ad un altro basto sul livello e la continuità del reddito stesso. Indubbiamente il primo è più rilevante del secondo per chi voglia determinare l’appartenenza di una certa categoria di individui ad una classe sociale. È chiaro che l’estensione del criterio, da noi adottato, alla società complessiva, comporterebbe una grave distorsione della realtà sociale. Limitatamente al settore della popolazione, che prendiamo in esame, il criterio fondato sul modo di accesso al reddito avrebbe tuttavia scavato un solco troppo profondo fra i lavoratori dipendenti e tutti coloro che esercitano in proprio soltanto perché non trovano sul mercato del lavoro una occupazione stabile e remunerativa" (op. cit., p. 20).

(33) Cfr. ancora Guarrasi, op. cit., pp. 19-20: la categoria di popolazione marginale segnerebbe un limite esterno, permettendo di distinguere l’uni-verso marginale dal resto della popolazione; le categorie basate sulle modalità di accesso al reddito permetterebbero invece una sua classificazione interna.

(34) Ibidem.

(35) Cfr. anche S. Ossowski, Struttura di classe e coscienza sociale, Torino, Einaudi, 1966, pp. 62 ss .

(36) Cfr. O. Lewis, La cultura della povertà e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1973.

(37) V. Guarrasi, op. cit., p. 24.

(38) K. Marx, Il Capitale, cit., pp. 701-703, passim.

(39) Cfr. P.Baran-P.M.Sheezy, op. cit.; e M. Paci, op. cit.

(40) V. Guarrasi, op. cit. Cfr. anche G. Mottura-E. Pugliese, Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1975.

(41) P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, cit., p. 175.

(42) G. Balandier, Le società comunicanti, Bari, De Donato, 1973, p. 135, passim.

(43) Cfr. P. Sylos Labini, Tendenze in atto dell’economia siciliana, in A. Rigoli (a cura di), Problemi del sottosviluppo in Sicilia, Palermo, Sellerio, 1975.

(44) Ibidem, p. 173.

(45 ) V. Guarrasi, op. cit., p. 35, passim.

(46) G. Amendola, Casa, quartiere, rinnovo urbano: le trasformazioni sociali dello sviluppo marginale (Salerno, centro storico), Bari, Laterza, 1977, p. 39.

(47) Ibidem, pp. 39-40, passim.

(48) F. Engels, Zur Wohnungsfrage, Leipzig, 1887; trad.it.: La questione delle abitazioni, Ed. Rinascita, Roma, 1950.

(49) Cfr. F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia Einaudi, Annali 1, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978.

(50) Cfr. S. Conti, Un territorio senza geografia, Milano, Angeli, 1982.

(51) Cfr. F. Adamo, Crisi e urbanizzazione in Italia, in A. Segre (a cura di), Regioni in transizione. Aspetti e problemi della nuova geografia urbana e industriale, Milano, Angeli, 1985. Afferma tra l'altro Adamo: "D'altra parte la maggiore ripartizione geografica della crescita demografica e di quella dell'occupazione terziaria, rispetto a quella dell'occupazione industriale, sottolinea che nel Mezzogiorno, ove le divergenze geografiche tra tali incrementi sono più evidenti, è continuata, anzi s'è intensificata, l'urbanizzazione senza industrializzzazione" (p. 53).

(52) A. Becchi, Napoli contro Napoli. Città come economia e città come potere, "Meridiana", n. 5, gennaio 1990, pp. 143-144.

(53) P. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1973, p. 53.

(54) P. Cotugno-E. Pugliese-E. Rebeggiani, Mercato del lavoro e occupazione nel secondo dopoguerra, in P. Macry-P. Villani (a cura di), Storia d’Italia Einaudi. Le regioni dall’unità ad oggi. La Campania, Torino, Einaudi, 1990, pp. 1174-1175.

(55) Ibidem, pp. 1155-1156.

(56) Cfr. I. Sachs, La crisi, il progresso tecnico e l’economia sommersa, "Inchiesta", nn. 63-64, 1984.

(57) Cotugno etc., op. cit., pp. 1155-1156.

(58) Ibidem, pp. 1156-1157.

(59) Ibidem, p. 1156.

(60) Ibidem, p. 1159.