CAP. IV
MARGINALITÀ, DEVIANZA, CRIMINALITÀ
È nota l'importanza della categoria di vicinato presso quasi tutti i filoni della sociologia urbana.
Le prime formulazioni più articolate e convincenti di tale categoria risalgono alla scuola di Chicago, la cosiddetta "scuola ecologica"; Robert E. Park, in particolare, individuava all'interno delle moderne formazioni urbane delle vere e proprie "regioni morali", caratterizzate da un sistema di affinità oggettive e soggettive fra i membri residenti (status sociale, occupazione, livello d'istruzione, gusti, concezione della famiglia, del mondo, etc.) e da un reticolo di relazioni interindividuali e interfamiliari (di mutua assistenza, scambio di servizi, etc.)(1).
Lo studio di tali "regioni morali" da parte delle scienze sociali -sosteneva Park- si sarebbe rivelato assai utile per la comprensione di quei fenomeni -quali la devianza etc.- in cui il "contagio sociale" sembrava giocare un ruolo determinante(2).
Park e la scuola di Chicago non hanno però mai inteso il vicinato come luogo "statico",in cui valori e modalità relazionali cristallizate determinassero asetticamente ed "a priori" la vita sociale del gruppo, rinchiudendolo ed antagonizzandolo come un'insula all'interno della città; anzi hanno fatto della contaminazione tra gruppi e quartieri dei fenomeni di rottura culturale che le stesse condizioni materiali dell'urbanesimo moderno incessantemente producono e riproducono, dell'intensa mobilità che caratterizza le dinamiche metropolitane, uno degli strumenti principali per la misurazione del "polso della comunità"; hanno generalmente attribuito proprio alla disgregazione del tessuto comunitario, alla rottura dei sistemi valoriali, l'insorgenza di fenomeni epidemici di "contagio sociale negativo":
A misura che gli stimoli si accrescono e si intensificano, la mobilità della vita cittadina tende inevitabilmente a confondere e a corrompere l'individuo. lnfatti un elemento essenziale nei costumi e nella morale individuale è la coerenza, o meglio quel tipo di coerenza che è naturale nel controllo sociale del gruppo primario. Dove la mobilità è maggiore e dove di conseguenza i controlli primari vengono meno del tutto -come nella zona di deterioramento della città moderna si sviluppano aree di corruzione, di promiscuità e di vizio(3).
Molto spesso, invece, nella successiva letteratura sociologica sulla città ha prevalso un'interpretazione "statica" della categoria di vicinato.
Le ragioni del privilegiamento di una tale interpretazione sono eminentemente storiche, ma assumono spesso una coloritura ideologica, e talvolta "politica".
Storicamente, infatti, l'impiego della categoria di vicinato nell'analisi del contesto urbano appare mutuato dagli studi sugli ambienti agricoli-tradizionali: era inevitabile che esso portasse con sé una parte del carattere rurale originario di "unità di base in una società chiusa", ma molta sociologia ha finito coll'attribuire una valenza eccessiva, esasperata, a tale carattere rurale, privilegiandone gli aspetti collaborativi dei rapporti faccia a faccia, l'omogeneità sociale, le funzioni di controllo sul comportamento dei membri, di trasmissione dei codici di gruppo, etc.
Tale interpretazione della categoria di vicinato ha via via portato alla costituzione di una vera e propria "teoria del villaggio urbano", in cui i rapporti vicinali, il "buon vivere di un tempo' (essenzial-mente il modo di vita dei primi gruppi rurali inurbati), vengono acriticamente idealizzati e contrapposti sistematicamente ai freddi rapporti urbani, anonimi, distanzianti, verticalizzati e simmeliani.
Viene così a formarsi un vero e proprio impianto ideologico, espressione di ciò che Amendola ha definito un'utopia regressiva(4); un'utopia regressiva di cui, a nostro avviso, non vanno sottovalutate le implicazioni "politiche", e su un duplice fronte: da un lato come riproposizione, in chiave intra-urbana, della contrapposizione campagna-città, tema classico di alcuni filoni del pensiero conservatore; dall'altro per il ruolo oggettivo che un tale impianto ideologico assolve come substrato teorico e meccanismo di legittimazione nelle operazioni di recupero-rivalorizzazione dei Centri Storici che la fame di suoli e di "valori urbani centrali" impone alle città contemporanee.
Questa idea di "comunità", se ha potuto essere applicata con qualche risultato ad alcune realtà urbane determinate, quali ad esempio le comunità chiuse","etniche" sviluppatesi in alcune città statunitensi a partire dai primi decenni di questo secolo in virtù degli intensi flussi migratori, risulta assolutamente improponibile nei moderni contesti urbani:
La situazione è radicalmente mutata nei nuovi contesti urbani a causa del diverso ruolo che il vicinato ha in una società aperta contraddistinta da accentuata mobilità sociale, orizzontale e verticale, e territoriale, dal prevalere dei rapporti sociali distanziati e selettivi su quelli ravvicinati non selettivi, dall'emergere di nuovi centri di socializzazione e controllo, dalla dissociazione dei luoghi di abitazione e di lavoro, dall'aumento dei ruoli che ciascuno individuo può e deve esercitare, ecc.(5).
Un gruppo di individui, stanziati in un momento dato in un'area determinata può sviluppare al proprio interno sostanzialmente due tipi di relazioni: rapporti interpersonali profondi,aventi anche funzioni di controllo sociale e di trasmissione del codice del gruppo; relazioni di scambio di beni e servizi.
La presenza simultanea dei due tipi di relazione si dà storicamente soltanto in comunità fortemente omogenee al proprio interno e chiuse verso l'esterno: è il caso dei quartieri mono-etnici delle grandi città americane, degli insediamenti dei nuovi inurbati provenienti da contesti rurali, di coloro che esercitano una professione in cui la coesione di gruppo è basilare (pescatori, scaricatori di porto, etc.).
La pretesa di rinvenire i caratteri propri di comunità di questo tipo nelle moderne concentrazioni urbane disgregate dà luogo nella letteratura socio-urbanistica alla costruzione di quella categoria che Amendola definisce comunità illusoria(6).
La disgregazione del sistema comunitario è ben visibile proprio nei quartieri marginali delle città meridionali e segnatamente nei loro centri storici; questi, anzi, presentano addirittura degli aspetti di "paradigmaticità" rispetto all'intera questione delle culture e subculture urbane(7).
Il ruolo di area di parcheggio per i nuovi inurbati e per gli immigrati da altre province (o dal Maghreb, etc.) svolto da questi quartieri, il loro alto turn over residenziale, hanno interrotto quel circuito di stabilità e continuità che costituisce uno dei presupposti dei rapporti sociali ravvicinati a base vicinale(8).
Le caratteristiche occupazionali della popolazione marginale (coesistenza simultanea delle più svariate modalità di accesso al reddito e grande mobilità individuale da una modalità all'altra)(9) impediscono poi intrinsecamente lo sviluppo all'interno del vicinato di una subcultura professionale, di una coscienza di sé come gruppo sociale da contrapporre agli altri. A segnare i confini del moderno quartiere marginale urbano non è dunque uno specifico culturale, bensì, e soltanto, uno specifico urbanistico ed economico: un patrimonio abitativo fortemente degradato e deteriorato, l'assenza dei servizi sociali più elementari, la concentrazione in esso (proprio per la sua scarsa "appetibilità" e la conseguente perdita del valore economico) delle fasce marginali della popolazione urbana.
Le relazioni sociali che il quartiere produce, in queste condizioni, non possono essere che di mero scambio:
Segregata nel proprio quartiere da cui non riesce ad allontanarsi per il redidto basso e precario, inchiodata cioè nei settori marginali della città e del mercato del lavoro, la popolazione organizza un tipo di strutture e di relazioni interpersonali adeguato alla propria condizione di povertà e di esclusione. Legata alla propria zona, stringe intensi rapporti con i propri vicini ed intreccia con questi fitte relazioni di scambio aventi come scopo il soddisfacimento di quei bisogni, alcuni dei quali elementari, che le strutture pubbliche o le possibilità strettamente familiari lasciano insoddisfatti(10).
L'oggetto di questo scambio può essere l'assistenza ad anziani rimasti soli, la cura e la custodia dei bambini, l'uso di attrezzature domestiche di tipo raro nel quartiere (per esempio telefono, lavatrice, etc.), la collaborazione nella ricerca di un lavoro spesso a giornata,piccoli aiuti o prestiti per superare momenti di difficoltà finanziarie della famiglia, di disoccupazione etc.
È importante comprendere che le modalità di questo scambio nulla hanno da spartire con i modelli di relazioni solidali dell'antica comunità vicinale: si tratta di uno scambio imposto, dalle condizioni oggettive di povertà e deprivazione, e come tale esso viene vissuto, soggettivamente, dagli abitanti, senza che dia luogo ad alcun vincolo di quartiere di vecchio stampo, ad alcuna identificazione con lo spazio in cui si vive; perché, in tale spazio, "si ha semplicemente la sventura di vivere". Non si dà, dunque, alcuna produzione di un’autonoma "cultura di quartiere", il quartiere stesso viene anzi vissuto con sopportazione e spesso con insofferenza, "insieme alla consapevolezza della propria subalternità, si fa chiara la coscienza del vicinato come gruppo degli esclusi che interagiscono tra loro per sopravvivere", e soltanto per sopravvivere... Non si instaura con i vicini un rapporto di tipo "selettivo", soltanto ed unicamente perché l'emarginazione restringe naturalmente l'area dei rapporti possibili, impedendo qualsiasi legame non episodico con gli abitanti dell'altra-città, della uppertown...(11).
In tal modo,
(...) si accentuano i conflitti rilevabili con un semplice sociogramma di Moreno in quanto i membri pur mantenendo tra di loro attivi e nella forma in cui si è già detto proficui rapporti sono spesso in situazione di tensione ed avvertono la pressione sociale del quartiere e del gruppo intermedio che continua ad esercitare quelle funzioni di controllo su cui manca però il controllo dei membri(12).
Si tratta, in pratica, "di una situazione in cui il legame con lo spazio è labile ed è leggibile più in negativo, come esito di un'esclusione che viene, molto spesso in piena consapevolezza, organizzata culturalmente e socialmente, che come un rapporto di cui venga vissuta la positività"(13).
I marginali vivono i rapporti con i propri pari all'interno del sistema vicinale come condanna alla prossimità tipico delle vecchie strutture comunitarie:
Il vicinato trova una ragione d’essere nell’esigenza di sopravvivenza e nello stesso tempo si differenzia notevolmente da quello tradizionale così caro alla tradizione sociologica del villaggio urbano. Questo tipo nuovo anomico di sopravvivenza non è più mediato culturalmente: il consenso che su di esso si forma tra i membri è limitato allo scambio dei servizi mentre non è accettata la funzione di controllo sociale. Questa è anzi esplicitamente rifiutata: i segni sono la pressione sociale del quartiere avvertita come insostenibile i conflitti tra vicini le reazioni familistiche(14).
Vedremo più oltre l'importanza di questo carattere anomico per la comprensione della moderna marginalità urbana; vale la pena ora soffermarsi invece sul carattere di imposizione che la stessa socialità assume nei centri storici degradati del Mezzogiorno, seguendo ancora una volta lo studio di Amendola sul centro storico di Salerno.
Anche la socialità che nel Centro Storico è mutata dall’ultimo dopoguerra ad oggi va analizzata attentamente sia perché è questo uno dei tanti temi-equivoci più cari ad una progettazione in cerca di facili e taumaturgiche scorciatoie sia perché nei borghi antichi l'apparenza spesso inganna. Non mi riferisco all'ormai logorato luogo comune della felicità solare degli abitanti dei paesi del Mezzogiorno (la logica del Club Méditerranée non trova spazio nei centri storici), bensì al fatto che questi quartieri sembrano più "socializzati" della città moderna dal momento che ormai in questa almeno i tre quarti degli abitanti passano le ore libere a casa davanti al televisore e le strade non costituiscono più un luogo d'incontro. La maggior presenza di abitanti per le vie di un vissuto prevalentemente extraprivato, di un accentuarsi delle relazioni tra vicini e conoscenti, di una quotidianità non alienata(15).
Le oleografie romantiche sulla solarità degli abitanti dei "bassi" napoletani non hanno cessato di riprodursi, a dispetto di una realtà drammatica fatta spesso di deprivazione e marginalità:
La maggiore vivacità delle strade dei centri storici delle nostre città è un dato che non bastano le condizioni meteorologiche e la minore intensità del traffico a spiegare ma che deriva in buona misura anche da altri fattori quali una casa che non offre un minimo di comfort ai suoi abitanti e quindi li spinge all'esterno o la mancanza di attrezzature per il tempo libero (cinema, sale di ritrovo, palestre, ecc.) che trasferisce sulla strada e davanti ai bar le occasioni di ritrovo(16).
In tali condizioni, non è una "cultura di quartiere" a produrre questa forma di "socialità" esteriore, né essa essa stessa produce cultura; sono le condizioni materiali del quartiere a produrre una pseudo-socialità "forzata":
La "socialità" del quartiere non significa comunque, in genere, il rafforzamento del sé e del borgo stesso, in quanto la vita propriamente di quartiere è ridotta progressivamente subendo gli effetti dell'allontanamento della centralità urbana e della progressiva differenziazione interna che ripropone in termini nuovi la questione della omogeneità.
La socialità si rivela di fatto imposta in quanto è l'esito di un processo di segregazione ed autosegregazione che congela gli abitanti nel borgo negando loro la possibilità di attivo accesso alla città dei consumi(17).
È, in altre parole, il quartiere materiale a prevalere sul vicinato culturale; una materialità, quella del quartiere marginale, che si caratterizza per le assenze, piuttosto che per le presenze: assenza di spazi sociali, di strutture abitative decenti, assenza di servizi, assenza di occupazioni stabili e di ruolo sociale...; per la desocializzazione, piuttosto che per i meccanismi classici di socializzazione dei vecchi aggregati di vicinato.
Se poi agli scambi di tipo orizzontale, tra vicini parigrado, si aggiunge – come sempre accade nei quartieri marginali delle città meridionali – la possibilità di scambi di tipo verticale, tra individui marginali e boss di quartiere, ecco che il modello relazionale all'interno del quartiere viene ad assomigliare a quello classico della consorteria, piuttosto che a quella del vicinato.
Non si può non essere tentati, se si analizzano le vocazioni da para-stato delle formazioni camorristiche (prelievo di "risorse finanziarie" e di "manodopera militare", erogazione di "servizi", amministrazione di una forma di "giustizia"...), di cogliere significative analogie con la forma di relazioni consortili, claniche, tipica dell'organizzazione delle città italiane del Tardo Medioevo:
Poteri giudiziari, reclutamento di soldati, responsabilità collettiva di fronte all’imposta, governo mediante magistrati privati, eletti, incaricati di far rispettare un ordine interno: così si contraddistingue molto nettamente la comunità politica dei clan familiari, almeno in certe città d’Italia o di Germania, laddove appare più facile da cogliere, laddove senza dubbio si è anche mantenuta più viva(18).
Si è ben lontani, naturalmente, dal voler stabilire inconsistenti ascendenze storiche per la criminalità organizzata del Sud (non foss'altro per il fatto che le città meridionali ebbero ben scarso modo di sperimentare un'organizzazione consortile nel Medioevo...), anzi si sono ampiamente rifiutate, in altra parte di questo lavoro, le ipotesi "culturaliste" di ascendenze claniche, familistiche della società meridionale per spiegarne l'attuale insorgenza criminale; tuttavia appare evidente che l'organizzazione interna dei quartieri marginali delle città meridionali contemporanee mostra maggiori analogie con il modello "consortile" (fondato sull'aggregazione forzata di interessi) che con quello "vicinale" inteso in senso classico (fondato, cioè, su di una omogeneità culturale).
La città moderna si caratterizza per l'offerta di adeguati standards abitativi e di strutture e servizi a grandi concentrazioni di popolazione e per la localizzazione di un sistema articolato di attività produttive e decisionali.
È proprio in questi due nodi irrisolti, in queste funzioni inevase, che si articola il problema urbano del Mezzogiorno.
Dal punto di vista dell'ampiezza della popolazione urbanizzata, della concentrazione demografica in comuni di grandi dimensioni, non si registrano sostanziali squilibri tra il Sud e il Nord del paese: se, delle quattro città italiane con almeno un milione di abitanti (Roma, Milano, Napoli e Torino), soltanto una appartiene al Mezzogiorno, è pur vero che questa, Napoli, con la sua area metropolitana di oltre 3 milioni e mezzo di abitanti, è seconda soltanto alla grande conurbazione milanese (oltre 5 milioni di abitanti); inoltre, delle sette città italiane con popolazione tra i 300.000 abitanti e il milione, tre (Palermo, Catania e Bari) sono meridionali e, tra le sette città con popolazione compresa tra i 200.000 ed i 300.000 abitanti, figurano Messina,Taranto e Cagliari.
Lo squilibrio, assai grave, riguarda le condizioni insediative nel loro complesso:già al censimento del 1961 a Napoli il 44% della popolazione viveva in abitazioni sovraffollate e questa percentuale scendeva in città più piccole soltanto di poco (42% a Palermo e 37% a Catania); mediamente, la percentuale di sovrappopolazione delle città meridionali poteva calcolarsi nel 38% (nello stesso periodo la percentuale era a Roma, la città più sovraffollata del centro-nord, del 12%, ed a Firenze, quella meno sovraffollata, appena del 3%).
Negli anni successivi queste percentuali non sono complessivamente migliorate, ed in qualche caso appaiono peggiorate: il problema appare assai grave, soprattutto se si tiene conto del fatto che l'indice di sovrappopolamento non esprime soltanto il disagio delle condizioni abitative in sé ma, per il modello di crescita peculiare delle città contemporanee, esso sottende anche un sovracca-rico di domanda sulla già magra offerta di servizi degli insediamenti urbani meridionali. Ma la caratteristica più tipica delle città del Sud è che esse non sono soltanto sovraffollate, ma sovradimensionate demograficamente rispetto alle attività produttive che vi si svolgono:oltre il 30% della popolazione meridionale è attualmente concentrato in aree metropolitane ma, in esse, il tasso di attività extragricole (che nelle città si identifica praticamente col tasso di attività tout court) è mediamente pari al 24,8%. Città sovrappopolate, dunque, ma "vuote" di economia; e "vuote" di funzioni direzionali, peculiari altrove allo sviluppo metropolitano: le attività direzionali sono nel nostro paese concentrate in misura assolutamente prevalente a Roma (per la Pubblica Amministrazione ed i Servizi) e Milano (per l'industria e la finanza); Milano e Roma complessivamente presentano un indice di "direzionalità" superiore di quasi 20 volte a quello di Napoli, ma quest'ultima è superata anche da Genova e Torino e si colloca sullo stesso piano di Firenze, malgrado la popolazione del capoluogo toscano non rappresenti che 1/3 circa di quella napoletana.
Questa configurazione delle città meridionali come agglomerazioni demografiche assai scarsamente dotate di strutture e servizi civili e quasi prive di funzioni economiche e direzionali, fa sì che esse assurgano a paradigma del disagio meridionale, vero luogo simbolico e materiale della concentrazione di tutte le contraddizioni irrisolte e le tensioni sociali di quest'area del paese(19).
Negli ultimi decenni si è assistito nel Nord del paese ad un fenomeno oggettivo e visibile di diffusione urbana, di trasferimento cioé, di funzioni insediative ed economiche dai centri urbani alle aree viciniori; il fenomeno è stato descritto in letteratura ed in politica in termini diversi, come semplice "delocalizzazione", come "decentramento", come vera e propria ondata di "controurbanizzazione": quel che è certo è che nel Mezzogiorno il fenomeno non si è registrato o, quantomeno, ha assunto caratteristiche profondamente diverse.
Scriveva Cafiero:
(...) nel Mezzogiorno si assiste ancora, nella maggior parte dei casi, all'aumento della densità e all espansione marginale della città isolata.
Ed anche quando la presenza di un gran numero di insediamenti in breve spazio, e l’aumento della popolazione, hanno prodotto vaste conurbazioni, come nel caso di Napoli, il complesso metropolitano che si viene costituendo è caratterizzato sempre da alte densità insediative, che raggiungono l’esasperazione nella metropoli centrale(20) .
Nel panorama generale degli insediamenti urbani nel Mezzogiorno Napoli e le aree della Campania ad essa prospicenti costituiscono dunque una significativa controtendenza; ma l'allineamento al trend di contro-urbanizzazione e deurbanizzazione sviluppatosi nelle città settentrionali a partire dalla fine degli anni ‘70 si rivela, ancora una volta, fenomeno assolutamente apparente, esteriore.
Di una esteriorità che è, come sempre, assenza, vuoto: alla strutturazione della città meridionale per quartieri urbanisticamente "chiusi" non fa riscontro un modello di vicinato nelle relazioni sociali e culturali, ma quartieri disgregati e desocializzati; alla forte concentrazione urbana della popolazione meridionale non corrispondono città dotate di valori urbani tipici (abitativi, economici, di servizi, di strutture etc.); analogamente, alla metropolizzazione oggettiva dello spazio campano tra le province di Napoli, Caserta e Salerno, non si accompagnano la nascita e lo sviluppo di quelle relazioni policentriche, di quei servizi e di quei valori tipici delle grandi aree di conurbazione metropolitana e megalopolitana affermatesi altrove (per l'Italia nord-occidentale, si veda il modello "GeMiTo" che designa ormai, nel linguaggio corrente della sociologia urbana, il modello di interrelazione tra le città di Genova, Milano e Torino).
A fronte del massiccio spopolamento delle aree interne(121), la popolazione della Campania è andata progressivamente concentrandosi in poche zone di pianura, lungo la direttrice NapoliAversa, nell'area antistante il Vesuvio tra Napoli e Castellammare di Stabia, nella zona tra Caserta e Santa Maria Capua Vetere, in quella tra Pompei e Salerno e, ma in misura minore, sulla fascia che da Maddaloni si allunga fino a Sarno passando per Nola(22).
Non mancano, per la verità, analisi e studi che, almeno su di un piano strettamente economico, individuano in questo processo di metropolizzazione dello spazio intorno a Napoli, Salerno e Caserta i segni -sia pur timidi e contraddittori- di un possibile sviluppo(23).
In particolare nell'Agro nocerino-sarnese, si è assistito alla formazione di un vero e proprio sottosistema economico, caratterizzato da una notevole vitalità e capace di sottrarre all'area urbana di Salerno tutta una serie di importanti funzioni urbane e produttive.
Tuttavia, in linea di massima, all'irradiazione industriale dalle periferie urbane al territorio circostante, non ha corrisposto né il decentramento delle poche funzioni presenti nelle città capoluogo, né lo sviluppo di un terziario moderno e adeguato e di tutti quei valori urbani e metropolitani assenti nei centri.
Soprattutto, per ciò che ci interessa ora più direttamente, non si è verificato un calo significativo della pressione demografica sui centri urbani (il neo-popolamento rappresenta soprattutto il corrispettivo dello spopolamento delle aree interne)(24), né la diffusione insediativa sul territorio ha prodotto strutture abitative e di servizio più idonee di quelle tradizionalmente presenti all'interno dei vecchi perimetri urbani:
La nascita dei quartieri satellite, il degrado dei centri storici, la crescita sproporzionata di piccoli rioni limitrofi alle città, sono fenomeni che hanno trasformato radicalmente l'ambiente urbano di larga parte delle popolazioni meridionali,e che in particolare dal nostro punto di vista costituiscono il retroterra dei fenomeni di devianza di cui ci stiamo occupando(25).
Sidoti si riferisce ai quartieri-satellite sorti come funghi alla periferia dei centri urbani, ma descrive una situazione che è perfettamente riscontrabile nei centri di neo-urbanizzzazione posti al di là dei confini comunali delle città capoluogo. Di queste città essi non costituiscono, in ultima analisi, che una enorme estensione della periferia.
Esaminiamo il caso di Casoria, Arzano e Casavatore, i tre comuni dell'hinterland napoletano tristemente noti, per fatti di camorra, come il "triangolo della morte":
In primo luogo, dunque, bisogna considerare la forte vicinanza di Casoria, Casavatore e Arzano a Napoli, cosicché essi hanno perduto la propria identità originaria di paese, dimenticando parte delle proprie tradizioni culturali, e vivendo di riflesso. Questa vicinanza, quindi, ha fatto sì che tali cittadine si arricchissero di apporti e contributi di diverse classi sociali, modi di vita, linguaggi, sentimenti e ideali, favoriti nel loro diffondersi soprattutto dal desiderio di rivalsa civile di un ceto, tradizionalmente contadino. Tuttavia, queste innumerevoli trasformazioni, avvenute verso gli anni 50-60 con l'insediamento delle industrie, si sono maturate in un momento in cui queste zone, con connotazioni prettamente agricole, non erano preparate a riceverle, cosicché lo sviluppo industriale, non avvenendo secondo un disegno ben preciso, ha condotto verso nuovi assetti sociali ed economici, con la crescita di una diversa classe politica, che ha sconvolto gli equilibri tradizionali. Il risultato, quindi, è stata la crescita "selvaggia" di servizi inadeguati e insufficienti, rispetto all'emergere di nuovi bisogni, nuove necessità e ad una domanda sociale sempre più elevata, che le classi dominanti non sono riuscite ad appagare(26).
Gli stessi processi di de-localizzazione industriale nei tre comuni si sono rivelati ben presto illusori ed anzi, come mostra la Romano nelle pagine successive, si è potuto recentemente assistere nell'area ad un significativo fenomeno di de-industrializzazione (indici del -9,74% ad Arzano, del -22,34% a Casavatore e addirittura del -43,56% a Casoria)(27).
Rimane e si moltiplica, nel "triangolo della morte", l'economia sommersa, brodo di coltura delle organizzazioni malavitose locali, assieme a quel pò che resta dell'agricoltura tradizionale ed al grande mercato degli stupefacenti.
Rimangono, soprattutto, quei "valori urbani negativi", quelle assenze e quella disgregazione sociale tipici dei quartieri periferici e marginali.
Generazioni di architetti e urbanisti hanno, in questo secolo, affrontato di petto la questione della vivibilità delle città moderne e del degrado dei centri storici, sforzandosi di pervenire, nelle aree periurbane, alla realizzazione di modelli alternativi di insediamento, ispirati ad una valorizzazione dell'uomo e dei suoi interessi e ad una modernizzazione-civilizzazione delle strutture abitative e fondati sull'utilizzo di avanzate tipologie costruttive, sullo studio di reti cinematiche adeguate e di una ottimizzazione della rete distributiva, dei servizi e delle strutture sociali, sulla progettazione di architetture razionali ed al contempo "soft", non alienanti.
A partire dal 1928, questo "modello progressista" in architettura e urbanistica trovò addirittura il suo organo di diffusione nel CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna). Nel 1933 il CIAM, nel corso del suo IV Congresso, a bordo di una nave crociera in rotta verso il Mediterraneo orientale e la Grecia, propose addirittura una formulazione dottrinaria organica per le sue teorie.
Questo corpus dottrinario venne detto "Carta di Atene": si basava sull'analisi dei bisogni umani universali nel quadro di quattro grandi funzioni (abitare, lavorare, circolare, coltivare il corpo e lo spirito) e, nella formulazione finale di Le Corbusier, si proponeva addirittura come vero e proprio codice deontologico, un insieme di regole da cui non si sarebbe potuto prescindere se si voleva pervenire a quello che Gropius definiva il "tipo ideale dell'insediamento umano"(28).
Era un'utopia algida, quella che si proponeva, latrice in se stessa di possibili aberrazioni disumananti:
Questo modello si applicherà nello stesso modo, attraverso uno spazio planetario omogeneo, dove ogni determinazione topografica viene esclusa. L'indipendenza, rispetto all'ambiente, non risulta più soltanto, come nel secolo XlX, dalla certezza di detenere la verità di una bella forma, ma anche da nuove possibilità tecniche: nasce così "I'architettura del bulldozer", che livella le montagne e colma le valli. Purché assolva le sue funzioni e sia efficace, gli urbanisti adotteranno lo steso piano urbano sia in Francia, che in Giappone, negli Stati Uniti e nell'Africa del Nord. Le Corbusier arriverà a proporre praticamente lo stesso schema per Rio e Algeri, e il piano per la ricostruzione di Sain-Dié riproduce, in piccola scala, il piano Voisin di Parigi degli anni ‘20(29).
La distruzione sistematica di ogni specificità culturale attraverso la costruzione di quartieri neo-urbani, nel nome di un astratto modello di umanità e di progresso, ha avuto esiti assai spesso aberranti. La stessa "urbanistica progressista" ha conosciuto i suoi pentiti; in alcune pagine inedite (poi raccolte nella celebre antologia della Choay), il celebre architetto, ingegnere e musicista greco Iannis Xenakis, dedicatosi completamente alla musica dopo essere stato fra l'altro collaboratore di Le Corbisier per un lungo periodo, si chiedeva:"Ma perché decentrare?"(30).
Il processo di decentramento delle città contemporanee prende l'avvio – secondo Xenakis – da due fattori: dall'esigenza reale di decongestionamento dei centri urbani ma anche dall'ideologia della pianificazione e della razionalizzazione urbanistica; così,
Sotto la tirannia di queste due linee di forza, una reale, l'altra mentale, si decentra quindi, in punta di matita, creando città satelliti (=città-tugurio moderno), città dormitori o città specializzate, fornite di un'architettura cubica assurda (scatole per scarpe=tana), standardizzate, con talvolta una civetteria decorativa, grottesca, come per esempio Stoccolma, o prive di civetteria, come per esempio Parigi o Berlino(31).
Ora, se si guarda allo sviluppo dei quartieri satellite delle città meridionali, alle critiche dell'"architettura progressista" riportate fin qui si possono aggiungere due altre osservazioni:
1) nel processo di decentramento delle città meridionali, sulle esigenze reali di decongestionamento e sulle ideologie di pianificazione e razionalizzazione urbanistica, fanno assai più spesso gioco le esigenze, altrettanto reali e materiali, di valorizzazione dei suoli peri-urbani della borghesia fondiaria e di speculazione edilizia (spesso al solo fine di riciclaggio di capitali;
2) a giudicare dalle realizzazioni (è eufemistico parlare di "civetteria grottesca" per quartieri come "Le Vele" di Secondigliano...) le teorie architettoniche "colte" hanno ben poco a che fare con i nuovi insediamenti meridionali, oppure ne rappresentano soltanto una frettolosa e superficiale copertura ideologica.
Secondigliano, dunque, quartiere "Le Vele":
Negli anni '70 questo smarrimento è divenuto parossistico. La 167 di Secondigliano ha saputo infatti fornire persino uno scenario cinematografico all'alienazione urbana che l'urbanistica dei "recinti" sa produrre. Se al Traiano l'equilibrio instabile di una condizione urbana vivibile è garantito da una dimensione condominiale e volumetrica dell'edificato, che si è mantenuta nei canoni della "palazzina", a Secondigliano la vittoria della grande dimensione ha consumato le ultime speranze: i grandi falansteri, spesso imbottitisi peraltro di una umanità emarginata e abituata alle complesse interazioni economiche e sociali del centro storico, sono divenuti l'emblema negativo del disastro urbano(32).
Lo scenario allucinante e allucinato di Secondigliano, magistralmente reso da Salvatore Piscicelli nel film Le occasioni di Rosa, è stato spesso, per grado di violenza ed alienazione sociale, paragonato al Bronx mitico della cinematografia americana "hard- boiled"; non sempre a torto, a giudicare dalle testimonianze:
Le vele di Secondigliano sono palazzi di edilizia popolare costruiti uno accanto all’altro... gli inquilini -in gran parte sfrattati, terremotati, disoccupati- hanno accettato di trasformare gli appartamenti in prigioni, applicando sbarre di ferro e lucchetti alle finestre e alle porte. Così le "vele" sembrano a tutti gli effetti un penitenziario con prigionieri volontari, i quali vivono di fronte a un carcere vero, costruito, con scelta discutibile, proprio davanti alle loro finestre.
L'unica differenza è che, in genere, i penitenziari sono sorvegliati e puliti. Qui invece i carcerati subiscono tutte le ore gli assalti degli "uomini liberi", delinquenti, tossicomani, ladri e sbandati d'ogni risma: i veri cittadini del quartiere, i veri padroni, i quali hanno potere assoluto su tutto: voti di preferenza alle elezioni tanto da rovesciare completamente i rapporti di forza tradizionali, con scarti del 20-30 per cento tra elezioni nazionali e comunali), posti di lavoro, commerci, assegnazioni degli alloggi in barba alle graduatorie, tempo libero, trasporti...(33) .
È frequente raccogliere, dall'opinione pubblica esasperata dall'incremento vertiginoso della microcriminalità urbana (scippi etc.), invocazioni di un inasprimento delle condizioni detentive; eppure l'area sociale della microcriminalità si produce e riproduce all'interno di quartieri come Secondigliano, in condizioni di vita che, del carcere, hanno spesso le caratteristiche più oppressive... L'"asse-dio" che stringe "Le Vele" non è portato da "gangs" esterne, ma nasce dal quartiere stesso, dal disadattamento, dallo spaesamento, dalla marginalizzazione che vi regnano incontrastati: in un celebre saggio sulle grandi città americane Jane Jacobs, analizzando le condizioni dei quartieri-satellite in termini di insicurezza fisica e di devianza, finiva col contrapporre ad essi i vecchi quartieri centrali in cui, pur nel degrado generale, continuavano a sopravvivere legami vicinali e forme di controllo sociale incrociato(34).
Così – scrive Nava – i tossicodipendenti a Secondigliano, si calcolano a migliaia; ma sono ancora le assenze, il vuoto assoluto non solo di strutture e servizi sociali, ma anche di una rete commerciale sia pur minima, a far brillare di una luce tetra "Le Vele":
Ai "carcerati" non è consentito di fare la spesa in normali negozi. Qui, infatti, tra sterpaglie e immondizie, non ne esistono. C'è una baracca per il vino, qualche carretto ambulante, una farmacia, un banchetto di frutta e verdura, una roulotte, che frigge pizze da asportare al giovedì e al Sabato. Ammesso che sia facile ottenere una licenza, pochi hanno voglia di aprire vetrine che sarebbero oggetto di rapine e di estorsione. Così le donne vanno a fare la spesa nella Secondigliano vecchia, camminando per chilometri lungo desolati stradoni. Ma essendo probabile la rapina preferiscono rivolgersi al mercato abusivo(35).
Il modello Secondigliano si replica tristemente in tutte le grandi città meridionali: il Cep e lo Zen di Palermo, Librino a Catania e via di seguito... Il peggio è che nella maggior parte dei casi si tratta di edilizia pubblica, spesso di insediamenti destinanati all’Iacp:
Nel Meridione gli scempi perpetrati dall'edilizia pubblica possono degnamente essere messi a confronto con quelli analoghi perpetrati dall'edilizia privata, che in alcuni casi ha segnato primati del tipo volumetrie di 21 metri cubi per metro quadrato, allineando una fila di palazzoni dopo l'altra, contenitori di marmellata di mattoni, nella mancanza assoluta di attrezzature, di servizi, di verde(36).
Scrive Gasparrini a proposito dell'edilizia pubblica a Napoli:
La storia dell'edilizia pubblica napoletana è in fondo storia di un fallimento, di una incapacità di costruire pezzi di città nel caldo di una tensione abitativa che consentiva qualsiasi droga urbanistica, legale e abusiva. Un fallimento nel fallimento più generale di una classe politica per non aver saputo costruire un’idea urbana complessiva che non fosse semplicemente l'esito fisico di una sommatoria e di un accostamento dei diversi interessi organizzati della città(37).
Poco più avanti, Gasparrini parla giustamente di rinuncia, rinuncia dell'edilizia pubblica a definire regole e priorità d'intervento, a progettare parti urbane compiute con un rapporto di integrazione chiaro ed efficiente tra spazi pubblici e privati.
Rinuncia e impotenza performativa, di fronte alla complessità dei processi che hanno investito la città meridionale negli ultimi decenni: si ha l'impressione che, nelle grandi operazioni di decentramento, la pressione demografica prodotta sulle città dallo spopolamento delle campagne, l'esigenza di fornire una sistemazione decente agli abitanti dei centri urbani ultradegradati, siano stati poco più di un pretesto; una copertura consensuale per legittimare il perseguimento di obiettivi diversi, quali la lievitazione dei prezzi delle aree edificabili, la grande crescita delle plusvalenze fondiarie, etc.; il tutto favorito dal proliferare di leggi e incentivi per l'attività edilizia e dal crearsi di una salda egemonia nelle città di un "partito trasversale" formato dal gruppo sociale degli operatori dell'edilizia e da un ceto politico non progettuale e bisognoso di legittimazione elettorale.
Nascono così le mastodontiche operazioni di spostamento in periferia della popolazione economicamente più debole, proveniente dai vecchi centri urbani; scrive Amendola:
La lotta ai tuguri è tutto sommato un buon affare quando, evacuati gli abitanti, al loro posto arrivano famiglie di classi sociali più elevate che innestano la spinta alla lievitazione della rendita differenziale. Aumentati i costi di trasporto e le distanze dei nuovi insediamenti periferici, investire in operazioni di rinnovo è un buon affare anche perché, in tal modo, si sollecita la richiesta di un'edilizia pubblica per i vecchi abitanti del Centro Storico, in un momento in cui caduta la domanda, per i noti motivi, di abitazioni private a livello medio e medio-superiore, l'unica possibilità di ripresa per le imprese è rappresentata dall'edilizia pubblica residenziale(38).
Risanamento-rivalorizzazione dei centri storici ed edificazione- valorizzazione delle periferie sono operazioni legate a filo doppio, anzi costituiscono due variabili di un medesimo meccanismo, frutto di quell'egemonia urbana che scaturisce dall'accordo di rendita fondiaria, imprenditoria edile e ceto politico: l'accordo più classico della città meridionale.
In questo modo affatto peculiare nascono gli schemi miseri dell'edilizia residenziale pubblica del Mezzogiorno; ma i risultati non sono dissimili da quelli scaturiti, in tutt'altro contesto socio-econo-mico e politico, da altri modelli di edilizia pubblica, quali il modello statunitense:
Insomma, l'edilizia pubblica, anche nella sua forma migliore, è quasi sempre impotente a risolvere il problema dello slum e, soprattutto, della sua psicologia. ln qualche caso i progressi sono minimi, perché sul piatto della bilancia opposto al miglioramento fisico (e al miglioramento delle condizioni di salute che, è sperabile, ne conseguirà) si devono mettere le nuove forme di alienazione e, al limite estremo, di violenza. Ma c'è di peggio: la politica edilizia americana ha perseguito l'integrazione dei poveri,cioè la segregazione dell'Altra America dalla società in generale(39).
Questa separatezza, assai più pesante di quella classica dell'ilot insalubre, è ben visibile nei quartieri-satellite delle città dell'Italia meridionale.
In essi, peraltro, è assai discutibile che sia stato raggiunto lo stesso "miglioramento fisico" delle condizioini abitative auspicato da Harrington: la stessa qualità costruttiva degli interventi realizzati al Sud, proprio perché realizzati col sussidio pubblico, o direttamente dal pubblico, risulta essere compromessa dalla possibilità per le imprese di realizzare profitti maggiori (sterminati) grazie alla speculazione sui materiali etc.; serramenti che cadono a pezzi (ingegnosamente riparati con pezzi di cartone o latta in soluzioni provvisorie che presto diverranno definitive), fognature scoppiate, rifiniture di infima qualità, tranches di lavori non ultimati alla consegna, deficienze e approssimazione progettativa nella ripartizione degli spazi, assieme ai limiti fisici e psicologici imposti come una cappa di ferro e cemento da cervellotiche architetture, costituiscono una triste costante del paesaggio dei nuovi insediamenti meridionali.
Ma se nei nuovi quartieri non si è avuto un miglioramento delle condizioni abitative come contropartita dello snaturamento e della desocializzazione, snaturamento e desocializzazione sono divenuti una costante, accanto al degrado fisico delle abitazioni, anche per i centri urbani.
L'operazione di rivalorizzazione dei centri storici auspicata per il Sud dal "partito del cemento", per tutta una serie di motivi, non si è potuta compiere che in aree limitate.
Scriveva Lewis Mumford:
Oggi, il problema della periferia è di scambiare una parte del suo sovrappiù in spazio biologico (giardini) con uno spazio sociale (luoghi di incontro): quello della città congestionata è, al contrario, di introdurre nei suoi "quartieri sovrapopolati", luce del sole, aria pulita, giardini privati, piazze pubbliche e passeggiate per i pedoni (...)(40).
Ma le periferie meridionali, purtroppo, non hanno "spazio biologico" da scambiare; ed i centri storici del Sud sono ben lungi dal possedere un sovrappiù di "spazio sociale": periferie e centri storici sono, nel Mezzogiorno, accomunati dallo stesso, identico grado di invivibilità e marginalità sociale.
Bellicini(41) individua per le periferie delle città meridionali cinque costanti che le caratterizzerebbero -in negativo, naturalmente- rispetto ad insediamenti analoghi in altre aree del paese:
1) assenza di servizi: assenza non solo di centri sociali e di urbanizzazioni secondarie, ma spesso anche delle urbanizzazioni primarie e, in ogni caso, bassissima qualità dei pochi servizi esistenti;
2) edilizia pubblica ed abusivismo: le inefficienze dell'edilizia pubblica si saldano spesso con il macroscopico fenomeno dell'edilizia abusiva: da un lato i ritardi nella programmazione e/o nella realizzazione dell'edilizia pubblica consentono l'edificazione abusiva nelle aree a questa destinate, dall'altro l'incapacità degli enti locali di utilizzare i fondi per le urbanizzazioni, ritardando la realizzazione dei servizi di base spesso ritarda la consegna di alloggi già ultimati e ingenera un meccanismo a catena per cui le aree vengono abusivamente occupate inibendo definitivamente la "prevista" realizzazione di quei servizi di base;
3) il degrado come cifra comune del centro antico e della periferia: se si eccettua la città portuale di Genova, nelle città centro- settentrionali il centro storico costituisce l'area della massima concentrazione terziario-commerciale, l'area da difendere dall'assalto turistico, l'area dei massimi valori immobiliari: ben diversa la situazione al Sud, con centri storici caratterizzati da forti condizioni di degrado e abbandono che vanno a sommarsi al degrado e all'abbandono delle periferie;
4) la periferia come residenza: malgrado il Centro direzionale (praticamente al limite orientale della città) ed un enorme Centro commerciale (nel comune di Nola) per Napoli, Tecnopolis (nella periferia) ed il Baricentro (nel comune di Casamassima) per Bari, costituiscano delle pur significative eccezioni, la periferia meridionale appare sostanzialmente desertica dal punto di vista delle strutture non abitative, per cui se ne accentuano quelle caratteristiche alienanti di "città-dormitorio"(42);
5) un eterno non finito: l'accavallarsi dei ritardi negli insediamenti a realizzazione pubblica, sommato alle caratteristiche strutturali di precarietà finanziarie ed alle modalità prevalenti di "autoco-struzione" dell'abusivismo, conferiscono alle periferie meridionali un paesaggio da "eterno cantiere".
Se le costanti individuate da Bellicini colgono significative differenze tra le periferie meridionali e centro-settentrionali, esse rimarcano pure un'identità sostanziale in termini di vivibilità tra queste periferie meridionali ed i centri storici delle città di riferimento: la cifra comune del degrado delle condizioni abitative e la moltiplicazione delle assenze (di servizi etc.) circoscrive ancora una volta un solo problema, quello della città meridionale tout court, con i suoi quartieri marginali, siano essi "centrali" o "periferici".
Così, se si guarda all'area metropolitana di Napoli, dove i valori della densità abitanti/vano risultano i più alti in assoluto tra i complessi urbani italiani, non è difficile rilevare che tali valori presentano le proprie punte massime in corrispondenza di due grandi zone: quella dei quartieri più antichi del capoluogo e quella dei comuni della cintura(43).
Lo stesso dicasi per la carenza delle strutture pubbliche, triste denominatore comune di tutte le situazioni di disagio sociale, di tutti i quartieri marginali, siano essi ubicati al centro o in periferia o nei comuni della cintura metropolitana(44).
Osserviamo ancora la situazione della cintura napoletana nel triangolo Arzano-Casavatore-Casoria: nei tre comuni si è riversata, nel ventennio '61-81, una popolazione enorme espulsa "fisiologica- mente" dal perimetro urbano di Napoli; ad essa si sono aggiunti in un secondo momento migliaia di terremotati.
Ne è scaturito un incremento vertiginoso del patrimonio allocativo:+614,2% a Casavatore, +396,8% ad Arzano e +383,5% a Casoria; e a queste percentuali "ufficiali", va aggiunta quella dell'abusivismo, calcolata approssimativamente dagli uffici urbanistici comunali nel 50%.
Immense distese di terra incolta si sono trasformate così, nel volgere di pochi anni, in enormi agglomerati urbani, dove però l'aggettivo urbani non significa "urbanizzati"; infatti, se l'abusivismo si basa per forza di cose sull'autocostruzione o imprese non specializzate, con muratori a cottimo e progettisti improvvisati, e non può garantire né qualità costruttiva né urbanizzazioni primarie o secondarie che esse siano, la situazione non appare molto diversa per ciò che riguarda l'edilizia "regolare" e quella pubblica in specie.
Comune a tutti i cittadini dei tre comuni è la mancanza di strutture e servizi; analizziamo tre settori soltanto: istruzione, sanità e verde pubblico.
Nel campo dell'edilizia scolastica la situazione è veramente disastrosa: nei tre comuni si registra una carenza ormai cronica di edifici e di aule: doppi e tripli turni, aule sovraffollate (una media di 30-35 alunni per classe), allocazione di queste in edifici non idonei e privi dei requisiti igienico-sanitari minimi nonché di palestre, laboratori, etc. (molto spesso le aule ricavate in appartamenti di edifici residenziali); questo per quanto riguarda le scuole dell'obbligo(45). La situazione è naturalmente assai peggiore per gli istituti superiori: nessuno dei tre comuni è dotato di istituti pubblici, soltanto a Casoria esistono quattro istituti privati (se non si vuole scegliere quel tipo di studi o non ci si può permettere il pagamento della retta, ci si può teoricamente indirizzare agli istituti napoletani, ma le ben note disfunzioni dei trasporti e la pericolosità dell'area da attraversare consigliano molto spesso i genitori a non far proseguire gli studi ai figli).
La mancanza di una seria programmazione d'indirizzo sanitario e l'insufficienza delle strutture fanno sì che l'Unità Sanitaria Locale n.26 (con sede a Casoria e comprendente il territorio dei tre comuni) non costituisca altro che una ripartizione teorica, un nome sulla carta; non esiste, infatti, su tutto il territorio un solo presidio ospedaliero, né vi sono poliambulatori o centri sanitari pubblici con branche specialistiche; non è stato istituito un solo pronto-soccorso, non è stato varato alcun servizio di medicina scolastica ed il servizio di medicina del lavoro (in un'area dove la percentuale di incidenti – per la proliferazione di piccoli opifici "sommersi" e di cantieri edili scarsamente controllati – è elevatissima) è ben al di là da venire.
La mancanza di verde pubblico attrezzato costringe i bambini alla strada e gli anziani alla reclusione in casa; a Casoria un megaprogetto di villa comunale non è stato mai realizzato, ma a Casavatore, dove la villa esiste, essa è sporca, senza manutenzione e totalmente trascurata dagli amministratori, si presenta come l'emblema del degrado e il ricettacolo dei tossicodipendenti e degli individui più marginali che la collettività abbandona a se stessi.
In questo degrado ambientale e morale, forti degli interessi economici che si andavano addensando sulla zona a causa dell'edificazione selvaggia, si sono insediate con successo le organizzazioni criminali(46).
Lo stesso degrado ambientale(47) può rilevarsi nei centri storici abbandonati a se stessi delle città meridionali; tra questi, per certi versi paradigmatico appare il caso di Salerno.
Il centro storico di questa città presenta, ad esempio, sul piano della situazione abitativa, standards notevolmente inferiori alla media urbana (già assai bassa rispetto agli indici nazionali) per superficie (76,10% 81,95%), mq. per occupante (19,88/20,36), acquedotto (95,65/99,39%), gabinetto (97,17/98,62%), bagno (64,68%/85,14%), riscaldamento (20,48%/40,00%)(48).
La situazione si ripete tristemente ai Quartieri Spagnoli o alla Vicaria a Napoli, all'Albergheria o alla Kalsa di Palermo.
La sociologia urbana classica individua per i quartieri-ghetto la categoria della segregazione.
Tale categoria rischia di essere spiazzata via dall’evoluzione contemporanea degli assetti urbani se non viene meglio precisata.
Se con essa, infatti, si intende la dislocazione differenziale sul territorio urbano delle diverse classi sociali e la conseguente formazione di quartieri rigidi, omogenei sotto il profilo delle funzioni lavorative assolte dai residenti e dalla cultura che accomuna questi ultimi, la categoria di segregazione rischia di essere ampiamente fuorviante.
Se le classi più elevate continuano a risiedere prevalentemente nei quartieri residenziali di lusso, le trasformazioni più recenti degli assetti urbani sembrano aver eliminato i quartieri della "working class", con la loro cultura di mestiere, i loro modelli relazionali, i valori tipici, etc.
Nel Mezzogiorno d'Italia, poi, in cui la caratteristica principale dell'occupazione è la precarietà (con conseguente "elasticità" di trapasso da un mestiere all'altro) ed in cui non si è mai resa operante una "leva industriale di massa", quartieri operai sul modello dei "suburbs" della letteratura americana, di cui è palese l'influsso nella nostra sociologia urbana, non ce ne sono stati che in aree e periodi limitati (un esempio è dato dai quartieri orientali di Napoli, un tempo "roccaforte del movimento operaio e del PCI", che hanno subito negli ultimi anni un intenso processo di colonizzazione da parte di altri ceti, più marginali, ed un vero snaturamento della loro cultura...). In luogo di "quartieri di classe", dobbiamo perciò parlare di quartieri marginali; in luogo della produzione, all'interno di questi quartieri, di una cultura autonoma e separata (in qualche caso "antagonista"), dobbiamo parlare dell'incapacità-impossibilità dei marginali di esprimere una propria organica cultura all'interno della città.
In questo senso la segregazione opera oggi: come un meccanismo che determina in quali luoghi debba prodursi la cultura della città ed in quali non debba prodursi affatto.
La segregazione continua ad esistere ed è innescata sempre dalle medesime esigenze dell'economia e del mercato: anche l'alloggio è un bene di consumo, sottoposto in quanto tale alle leggi della domanda e dell'offerta, ed è inevitabile che la polarizzazione spaziale dell'offerta di alloggi in base alla loro qualità determini la concentrazione in zone precise della città (le più degradate) di tutti i soggetti che, in quanto percettori di un reddito basso o privi del tutto di reddito, non possono permettersi il lusso della scelta, di "incontrare" altrove, in un punto più alto, la curva dell'offerta.
Il punto è che questi soggetti presentano tra loro un elevato grado di differenziazione culturale; la segregazione dei quartieri marginali rispetto al resto della città diviene allora tanto più drammatica quanto più essa va facendosi unilaterale: non più barriera tra due o più culture, ma la contrapposizione di un universo disgregato al proprio interno all'altra-città che produce assieme all'economia anche una cultura ed impone questa e quella a tutti i propri quartieri, anche a quelli marginali, che penetra ed espropria unilateralmente con i propri stili di vita ed i propri modelli di consumo.
La segregazione è ora soltanto fisica: il resto, la cultura del ghetto, è stato espropriato.
Il quartiere marginale, quanto più la segregazione diviene fisica, più, paradossalmente, si smaterializza, spogliandosi di ogni connotato che lo renda riconoscibile, che gli possa conferire uno statuto autonomo sul piano culturale, che lo configuri come alterità positiva al resto della città: esso finisce così per risaltare soltanto in negativo, per le assenze che vi si inscrivono; diventa amaramente utopia, non-luogo, non-città; esso decade, viene espunto dal discorso della città.
Un non-luogo densamente popolato, in cui i tradizionali soggetti deboli (anziani, handicappati etc.) e le vecchie marginalità (tossico-dipendenti, fuorviati, disadattati, sofferenti psichici, minoranze gitane, slave e nomadi, soggetti "difficili", persone socialmente impedite) si incontrano con i sottoprodotti dello sviluppo mancato: disoccupati, cassintegrati, precari, sottoccupati, lavoratori in nero, etc.; il non-luogo della fusione dei terremotati e dei senza-tetto storici con le giovani coppie cui l'edilizia popolare, il blocco dei fitti e l'equo canone non sono riusciti a dare un risposta, degli immigrati della provincia e della piccolissima borghesia commerciale in declino con la miseria urbana storica; il non-luogo dei "ranghi inferiori" in cui possono precipitare tutti coloro che non riescono più a stare nei processi produttivi se lavoratori dipendenti o nei meccanismi di mercato se lavoratori autonomi; il baratro di miseria e insignificanza che accoglie l'immigrazione del Terzo mondo e si prepara ad aprirsi a quella di provenienza dall'Est.
Isolamento dall'esterno e lontananza da quei processi economici, sociali e culturali dell'altra città, che pure si impongono ad esso e ne determinano i modi di vita, caratterizzano il quartiere marginale; rassegnazione, promiscuità stretta, assenza di servizi sociali, precarietà igienico-sanitaria, mancanza di privacy e di spazio adeguato per i bambini, soprattutto alienazione progressiva e perdita di identità sociale, di senso di appartenenza storica, ne scandiscono i tempi.
Persino il proletariato occupato e a reddito più o meno costante, che aveva spesso adottato un modo di vita caratterizzato da un'organizzazione estremamente precisa e regolare – spesso assai più rigida di quella della stessa borghesia – dei modelli di comportamento (gestione dell'economia, senso della famiglia, educazione dei figli...), strappato ai suoi insediamenti storici per essere riversato nei quartieri periferici o rimasto in quartieri storici snaturati dalle nuove ondate migratorie (e in molti casi decaduto da un'occupazione regolare ad occupazioni instabili, non specializzate e mal retribuite), modifica sensibilmente ideologia e prassi della vita quotidiana, trasforma profondamente la propria visione del mondo e dei rapporti sociali.
Si può dire, assumendo la definizione di Gans nello studio sui gruppi di immigrazione italiana negli Usa(49), che gli "abitudinari" si trasformano in "sregolati".
Perduta la coesione e i vincoli di gruppo del vicinato tradizionale, la famiglia dissolve rapidamente i propri valori di fondo; Oscar Lewis descrive questo meccanismo come l'instauramento della cultura della povertà, categoria sulla quale abbiamo espresso le nostre riserve e tuttavia parecchio utile almeno in termini descrittivi:
A livello della famiglia, le caratteristiche più importanti della cultura della povertà sono l'assenza della fanciullezza come stadio particolarmente protratto e protetto del ciclo della vita, la precoce iniziazione al sesso, le libere unioni o matrimoni consensuali, l'incidenza relativamente alta dell'abbandono di mogli e figli, la tendenza alle famiglie centrate sulla donna o sulla madre e, per conseguenza, la maggiore conoscenza dei parenti materni, una forte predisposizione alI'autoritarismo (...)(50).
Questa uscita dalle regole è frutto di un processo di marginalizzazione complesso, pluridialettico; da un lato i "nuovi valori", gli stili di vita e di consumo imposti dalla colonizzazione culturale dell'altra città sul quartiere marginale non riescono ad esplicare una reale carica di rinnovamento (stante l'impossibilità materiale, economica, dei marginali di adeguarvisi), ma vengono a costituire solo fattori di disintegrazione sociale e non producono nuove forme di integrazione; dall'altro i "vecchi valori" vicinali non sostengono più alcuna solidarietà sociale e sono, essi stessi, fattori di ulteriore disgregazione, in quanto accentuano le spinte particolaristiche già largamente presenti nel quartiere; da un lato i residui del "proletariato urbano", dall'altro il "nuovo sottoproletariato": i primi integrati oggettivamente (in quanto inseriti in processi produttivi non marginali) ed emarginati soggettivamente (per la peculiarità della loro cultura di mestiere); i secondi emarginati oggettivamente (in quanto inseriti in processi produttivi periferici e precari) ed integrati soggettivamente (in quanto investiti in pieno dai processi di modernizzazione culturale). Collocati, dunque, in maniera differenziata rispetto ai processi di subalternizzazione e di marginalizzazione, i diversi gruppi danno ad essi risposte differenziate: le risposte "sottoproletarie", data l'attuale composizione dei quartieri marginali, costituiscono di gran lunga la modalità prevalente, ma sono ulteriormente differenziate e conflittuali al loro interno, a seconda del diverso status soggettivo" (i disoccupati si contrappongono agli occupati precari etc....).
La segregazione del quartiere marginale non si fonda, dunque, sulla staticità della sua struttura, bensì proprio sulla grande dinamicità che ne caratterizza i processi disgregandone cultura e tessuto sociale; scriveva Park:
Nelle nostre indagini sulla città si è rilevato che le aree di mobilità sono anche quelle in cui si trovano la delinquenza minorile, le bande di ragazzi, il delitto, la miseria, l'abbandono della moglie, il divorzio, i fanciulli abbandonati e il vizio(51).
È questa duplice funzione, di area di parcheggio per la nuova marginalità e di gabbia definitiva per quella storica, a caratterizzare gli stili di vita del quartiere marginale, a rendere la marginalità stessa anomica, ad esporla, come vedremo tra poco, al rischio della devianza e della trasformazione in serbatorio di manodopera per il crimine organizzato.
Harrington descriveva in termini simili la trasformazione del classico "slum etnico" negli Stati Uniti d'America:
Ecco, dunque, la forma nuova del vecchio slum, dello slum etnico. Se questo era un mondo chiuso e angusto di una solo religione, di una sola lingua, di una sola tradizione culturale, era però anche un trampolino verso il mondo esterno. Lo slum di nuovo tipo raggruppa i falliti, gli sradicati, i nati nel momento sbagliato, gli appartenenti all'industria sbagliata, le minoranze razziali. ln molti casi è "integra-to", ma in un modo che si fa beffe dell'idea di eguaglianza: i più poveri e i più miserabili sono isolati insieme, a prescindere da considerazioni di razza, di fede o colore. Sono praticamente esclusi da qualunque rapporto effettivo col resto del la società(52).
L'estrema eterogeneità interna fa sì che la popolazione marginale non sia in grado di produrre una cultura propria, ossia un insieme relativamente organico di valori e modelli di comportamento; le "culture" arrivano dunque dall'esterno, nella forma di meri modelli "esteriori", aspirazioni che l'impossibilità di uscire dalla marginalità economica e sociale trasforma in frustrazioni e conflitti interni; è quanto accade, ad esempio, nell'ultradegradato quartiere Borgo di Palermo: "A livello culturale, la popolazione marginale è portatrice di un conflitto di valori e di atteggiamenti, determinato dal rifiuto soggettivo ad adattarsi ad una posizione marginale in seno alla società, e dalla impossibilità oggettiva di identificarsi stabilmente con i modelli culturali prodotti da altri strati o classi sociali"(53). Alla omologazione culturale si oppone infatti una marcata differenzialità materiale: in nessun luogo come nella città contemporanea ideologia del consumo e miseria convivono così strettamente(54).
L'elevato grado di benessere materiale reso possibile dal progresso tecnologico assurge ad ideologia e viene prospettato indifferenziatamente come modello di vita, ciò per cui vale la pena vivere, ciò che conferisce dignità e prestigio sociali: gli abitanti dei quartieri marginali recepiscono il messaggio, ma non possono adeguarvisi.
Il conflitto che ne scaturisce può dar luogo a considerazioni di ordine etico(55), certamente giuste, ma queste non esauriscono il problema.
Emile Durkheim osservava che la povertà in sé non genera anomia, anzi conferisce ai soggetti che ne sono colpiti la coscienza del limite, dell'impossibilità di soddisfare tutti i propri bisogni, e quindi – in qualche modo – li socializza, li rende cioè disponibili ad accettare le regole del vivere sociale(56).
Ma, nella città contemporanea, la povertà in sé non esiste, la sensazione soggettiva di privazione è sempre il prodotto di un confronto comparativo; essa è – come tra i primi aveva intuito Marx(57) – privazione relativa.
I bisogni hanno sempre più una natura sociale, ed è pertanto con la società nel suo complesso (in un luogo ed in un momento storico dati) o con gruppi sociali determinati(58), che ciascuno li confronta.
È proprio per questo che, se la povertà in sé potrebbe essere fattore di ordine sociale, la povertà relativa appare invece potenzialmente destabilizzante(59).
L'anomia durkheimiana deriva in primo luogo dalla discrepanza tra meta sociale proposta e possibilità effettiva di conseguirla. Già Weber aveva intuito nel "guadagno di denaro" il sommum bonum dello spirito capitalistico, l'imperativo sociale dell'arricchimento come misura del proprio successo(60).
Ma con la trasformazione in senso oligopolistico il sistema economico viene specificando un'ulteriore caratteristica, quella della centralità dell'advertising pubblicitario; e tale centralità diviene sempre più vistosa, cosicché l'esigenza di differenziare il messaggio allontana progressivamente questo dal suo contenuto materiale (di informazione circa le caratteristiche del prodotto) per puntare sempre più a contenuti immateriali, alla definizione ideologica di comportamenti e tipi sociali.
L'integrazione sociale viene pertanto definendosi come assolutamente inscritta nel triangolo danaro-successo-consumi; chi non può accedervi non è fuori dall'economia, è fuori dalla società tout court; è un perdente e come tale un colpevole.
Non può rifarsi puntando ad un altro tavolo da gioco, poiché non esistono valori antagonisti," di ghetto": espropriata la cultura della marginalità, ai marginali non resta che integrarsi nella cultura vincente; non potendone raggiungere gli status proposti...
Questi status culturali sono enfatizzati da un'enorme letteratura pubblicitaria, ma anche dalle principali agenzie di socializzazione: famiglie, scuola, mass media, luoghi di lavoro etc.
Il fallimento nel conseguimento degli status proposti viene descritto da tutte queste agenzie come soggettivo, frutto di una incapacità o non volontà di riconoscersi in un valore sociale fondamentale.
Posto in una condizione di asocialità, l'individuo marginale si trova precisamente nel punto da cui, durkheimianamente, diparte l'anomia; Merton fa scaturire la devianza dalla dissociazione tra le mete culturali che una società prescrive ai propri membri ed i mezzi che la stessa società offre per realizzarli: la devianza è precisamente una delle alternative che si spalancano dinanzi a quei settori di popolazione che non possono conseguire attraverso mezzi legali quel successo economico che la società prescrive; altre risposte possono essere trovate soggettivamente nella rinuncia (rassegnazione alla propria condizione), nella ribellione consapevole
al sistema nel suo complesso, etc.(61).
In Italia, la sostituzione della Anspruchsgesellschaft (la società delle pretese) alla vecchia Leistungsgesellschaft (la società dei doveri e delle prestazioni) è avvenuta relativamente tardi rispetto al resto dell'Occidente industrializzato, in un periodo collocabile tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70(62), la sua vera affermazione è invece individuabile negli anni '80.
Il suo effetto è stato estremamente destabilizzante nel Mezzogiorno, afflitto storicamente da una debolezza di legittimità dello Stato e lacerato da una questione economica e sociale irrisolta: l'avvento della società delle pretese ne ha infatti accentuato i caratteri individualistici e le spinte particolaristiche, disintegrando completamente il tessuto già lacero dei vincoli solidali.
Nel riprendere la teoria durkheiminiana dell'anomia, Merton se ne discosta in alcuni punti significativi; in particolare egli sostiene che i desideri umani non sono innati ma sociali(63).
La teoria dell'imposizione sociale dell'"ideologia del successo pecuniario" non vuole però -nelle intenzioni di Merton- spiegare tutti i tipi di devianza, né asserire che tutti gli individui marginali siano deterministicamente votati alla devianza: tra essi non mancano individui che si rifiutano di interiorizzare l'ideologia dominante, né individui che acccettano passivamente la propria condizione o si sforzano di migliorarla attraverso il ricorso a mezzi legali(64).
La teorizzazione strutturalistica di Merton ha svolto un ruolo centrale nello sviluppo di questa branca della sociologia, ciononostante ad essa si sono opposti e si oppongono numerosi altri approcci.
In particolare hanno conosciuto negli ultimi anni sensibile sviluppo le teorie "processuali": ispirate più o meno direttamente all'interazionismo simbolico ed alla fenomenologia microsociologica, esse cercano di fornire una spiegazione della devianza attraverso la ricostruzione di singole carriere devianti. Ora, se le teorie che enfatizzano la sola dimensione strutturale si limitano a porre in evidenza come le persone appartenenti a certi gruppi sociali presentino un più elevato fattore di predisposizione alla devianza, senza spiegare come, materialmentte la devianza si produce, le teorie processuali, pure, non danno conto di alcuni fondamentali quesiti, ad esempio: perché un certo atto è considerato deviante presso una determinata società e non lo è presso un'altra?, quali sono le cause di determinati atti devianti?
Cesareo propone di integrare la teoria strutturalista con il concetto di processo interattivo, analizzando quest'ultimo non in astratto ma nel suo posizionamento storico all'interno di una determinata struttura sociale:
La nostra tesi è che, per conseguire quest'ultimo obiettivo, sia indispensabile integrare l'interpretazione strutturalistica, finora dominante ma di per sé insufficiente, con l’approccio interazionistico, purché questo non si esaurisca in un’analisi esclusivamente microsocioIogica ma si estenda anche, e soprattutto, a livello macrosociologico(65).
Se la prospettiva mertoniana si sviluppa lungo l'asse tensione strutturale-anomia-devianza, altre prospettive -precedenti e succes- sive- hanno privilegiato l'asse Gesellschaft-alienazione-devianza.
Secondo queste ultime teorie, l'irrefrenabile prevalere della Gesellschaft sulla Gemeinschaft (è il corrispettivo dell'affermazione della Anspruchsgesellschaft sulla Leistungsgesellschaft cui si è fatto riferimento sul piano dei valori) comporterebbe l'emersione di nuove condizioni sociali oggettive, tali da creare un senso di alienazione nell'individuo: l'origine di molte forme contemporanee di devianza andrebbe pertanto ricercata proprio in questo senso soggettivo di alienazione, direttamente connesso all'estendersi dell'urbanizzazione, al moltiplicarsi degli slums, all'accentuarsi di forme di disorganizzazione sociale.
Questa teoria è stata sostenuta – come abbiamo mostrato – soprattutto dalla scuola di Chicago(66); successivamente Sutherland la ricomprese in una nuova formulazione, quella delle associazioni differenziali: anche Sutherland rifiuta l'innatismo e ritiene, in accordo all'approccio "ecologico" dei chicagoani, che il comportamento deviante venga appreso attraverso i rapporti interpersonali e costituisca perciò il frutto di una trasmissione culturale; tuttavia lo studioso supera il concetto di mera disorganizzazione sociale attraverso la considerazione che ciascun individuo si imbatte nella realtà quotidiana sia in definizioni favorevoli alla violazione della legge che in definizione ad essa sfavorevoli; l'assunzione di comportamenti devianti dipenderà, caso per caso, individuo per individuo, dal prevalere nell'esperienza quotidiana dell'una o dell'altra definizione, dalla durata, dalla frequenza, dalla forza e dal peso rispettivi(67).
Un tentativo di fusione delle teorie della trasmissione culturale e delle associazioni differenziali con le ipotesi strutturaliste di Merton e con le più recenti formulazioni della scuola "sub-culturale", è stato successivamente elaborato da Cloward: alla struttura di opportunità legittime (l'"ideologia del successo" da cui scaturirebbe la tensione strutturale di Merton),egli affiancava la struttura parallela delle opportunità illegittime capaci egualmente di esercitare un "appeal" individuale (secondo il modello sutherlaniano delle associazioni differenziali); le relazioni intersoggettive "socializzano" alla devianza (il modello della trasmissione culturale di McKay etc.); in pratica, se persone in comunicazione tra loro presentano problemi simili non risolvibili individualmente e secondo le procedure istituzionalizzate e "legali", queste saranno indotte ad aderire, se esistono già, o a dar vita a forme sub-culturali sostitutive, "devianti", appunto, rispetto al modello di relazioni sociali dominante (teoria sub-culturale)(68).
La teoria clowardiana consente, in particolare, di superare un'aporia insita nella formulazione di Merton, l'impossibilità di spiegare reazioni diverse (devianza/non-devianza) da parte di soggetti esposti alla medesima tensione strutturale e dotati di eguali mezzi materiali per fronteggiarla.
Un altro punto in cui la teoria mertoniana mostra la necessità di un superamento è laddove essa concepisce l'atto deviante come una discontinuità piuttosto che come una continuità, ossia come un improvviso passaggio da uno stato di tensione anomica ad uno stato di devianza piuttosto che come un processo complesso e travagliato, il più delle volte di non breve durata e fatto comunque di una serie di eventi succedutisi nel tempo attraverso molteplici rapporti interattivi: un'efficace critica-superamento è stata su questo punto elaborata da Cohen(69).
Accanto a queste teorie ve ne sono naturalmente numerose altre; enumerarle tutte ed esaminarle una per una ci porterebbe assai lontano; ci limitiamo perciò ad elencare i principali gruppi in cui esse possono essere ricomprese: teorie biologiche (tra queste, celeberrima quella che vide protagonisti, alla fine del secolo scorso, Lombroso e la scuola italiana di antropologia positiva; all'innatismo di carattere etnico-antropologico si sono poi sostituite, più recentemente, le teorie psichiatriche e neurologiche sulle disfunsioni endocrine e le deficienze psichiche)(70), psicoanalitiche (Freud individua due modalità di scatenamento della devianza: un super-Io troppo forte che crea sensi di colpa e conseguente ricerca di punizioni e condanne; un Es troppo forte che pone l'Io sotto il dominio delle pulsioni profonde)(71), teorie della reazione ai meccanismi di controllo (fanno tutte capo alla cosiddetta "nuova scuola di Chicago" e individuano proprio nelle istituzioni totali l'origine, per contrasto, della devianza)(72).
Da una critica delle istituzioni totali è partito anche Michel Foucault che però è riuscito brillantemente a riconnettere tale critica a precise caratteristiche della struttura economico-sociale, individuate nei singoli contesti storici(73).
Ad una critica delle istituzioni repressive si sono poi rifatte, in tempi recenti, le cosiddette teorie radicali, prima fra tutte quella di Chapman che rinviene nell'azione della polizia, delle corti di giustizia e, più in generale, degli apparati di controllo sociale, una influenza fondamentale nella formazione della manodopera criminale, sempre reclutata – attraverso un gioco sapiente di "distribuzione differenziale dell'immunità" – nelle classi sociali più deboli(74).
È evidente che i diversi approcci epistemici entrano in gioco sin dal momento della definizione dello stesso termine devianza; oggi le principali posizioni che si fronteggiano possono essere riassunte in due gruppi: da un lato si definisce la devianza come mancata conformità ai ruoli ed alle norme vigenti presso una determinata società(75); dall'altro, come il comportamento che gli altri percepiscono come contrario alla norma(76).
La crescente preferenza accordata alla seconda strategia di analisi "trova peraltro una ben precisa giustificazione teorica nella differenziazione dei gruppi, delle istituzioni e delle sottoculture che caratterizza l'articolata società contemporanea"(77), onde sarebbe impossibile giustificare le diverse reazioni riscontrabili nei vari gruppi sociali ai medesimi atti.
Scrive Berger che "non ci sono criteri universali per ciò che è etichettato come deviante, e ciò che è devianza oggi può essere normalità domani e viceversa"(78); la stessa opinione si ritrovava già in Durkheim:
Dove il reato esiste i sentimenti collettivi hanno la plasmabilità necessaria per assumere una nuova forma; e talvolta esso contribuisce anche a predeterminare la forma che assumeranno. Quante volte, infatti, il reato altro non è che un’anticipazione della morale dell’av-venire, il primo passo verso ciò che sarà (...)(79).
In realtà, soltanto alcuni comportamenti devianti sembrano preludere ad una modificazione del costume sociale: è il caso di alcuni reati sessuali, spesso estinti dall'evoluzione della morale e del comune senso del pudore(80); di alcuni reati economici, di concorrenza industriale, etc., estinti man mano che la rete di controlli statuali sull'economia viene estinguendosi(81); dei reati che scaturiscono da un comportamento non-conformistico (a differenza del comportamento aberrante, che è quello del deviante che viola nascostamente le norme allo scopo di raggiungere un proprio scopo egoistico ma in linea con l'ideologia dominante, il comportamento non-conformistico viola manifestamente le norme perché ne mette esplicitamente in discussione la validità e mira a sostituirle con altre diverse, ritenute migliori: da questa lotta può scaturire la sconfitta del gruppo oppositore o l'abbattimento dell'intero ordine istituzionale precedente, ma, assai più spesso, singole istanze antagoniste verranno assorbite dal sistema ed istituzionalizzate, trasformate da "reati" in "diritti"...)(82).
Il rischio maggiore di queste teorie è comunque nelle loro formulazioni estreme, o meglio negli esiti aberranti cui un'applicazione sistematica e generalizzata di tali formulazioni può condurre; così, partendo dalle affermazioni di Becker secondo cui "i gruppi sociali creano la devianza istituendo le regole la cui infrazione costituisce devianza" ed "il deviante è uno a cui si è riusciti ad applicare questa etichetta"(83), si può giungere a trascurare completamente i problemi delle vittime della devianza(84).
Sulla questione si è sviluppato negli ultimi anni un vivace dibattito che ha attraversato, lacerandoli, gli stessi ambienti "progres-sisti"; è il caso, soprattutto, dei reati di violenza sessuale che ha visto contrapporsi il movimento femminista al giustificazionismo sociologico del comportamento dell'aggressore spesso messo in campo anche da settori culturali della sinistra(85).
Da questo dibattito è sorto un vero e proprio movimento, denominato comunemente "vittimologia", che ha attraversato sia il mondo della politica che quello degli studi sociali(86).
Cohen definisce la devianza come il comportamento che viola aspettative istituzionalizzate, cioè aspettative che sono condivise e riconosciute come legittime entro un sistema sociale(87); tale definizione, pur mantenendo i caratteri di relatività del concetto di devianza, pone l'accento sulla legittimità di fatto che determinate regole assumono comunque in tempi e luoghi determinati, ossia sull'ordine giuridico di fatto operante.
Sidoti integra la definizione con valutazioni di carattere matematico-statistico: "(...) devianza è mancata conformità ai ruoli sociali e alle norme scritte o non scritte che statisticamente sono prevalenti nelle abitudini della maggioranza della popolazione (...)"(88).
Queste ultime definizioni hanno il merito di restituire una "materialità" al concetto di devianza, "materialità" dalla quale non si può prescindere se si vogliono cogliere le funzioni e le modalità di funzionamento che assume la devianza nel Mezzogiorno d'Italia.
Le varie teorie esposte possono essere, opportunamente integrate, tutte utili a cogliere il fenomeno che ci occupa; naturalmente, le stesse ragioni epistemologiche che ispirano questo lavoro -un'indagine sulla criminalità nel suo rapporto col territorio- ci fanno scartare tutte le teorie basate sull'innatismo per accogliere invece quelle a vario titolo connesse con la valorizzazione dei fattori ambientali.
La povertà materiale non sembra – come si è visto precedentemente – generare direttamente devianza; Harrington scrive che:
I disturbi della sfera emotiva sono una delle forme principali del circolo vizioso dell'immiserimento. La struttura della società è ostile ai poveri: essi non hanno l'istruzione adatta o il mestiere richiesto, o forse non hanno addirittura il modo di trovar lavoro. Ne consegue che, in un adattamento realistico a una situazione socialmente perversa, i poveri tendono a divenire pessimisti e depressi; cercano soddisfazioni immediate invece di risparmiare; "si scaricano" nella violenza(89).
In realtà, l'impossibilità di trovare collocazione sul mercato oc-cupazionale non sembra generare direttamente "violenza" e sembra invece connettersi ad altre e specifiche forme di devianza, più vicine alla pratica di attività extra-legali che propriamente criminali; i profili investiti, più che quello del "delinquente", appaiono quelli del posteggiatore abusivo, dell'ambulante non autorizzato, del piccolo rivenditore di articoli di contrabbando etc.(90).
L'adesione alle modalità più "violente" della devianza, quelle più propriamente "criminali", sembra invece doversi riconnettere ad un intreccio più complesso di fattori che affiancano la povertà materiale, quali l'assenza di servizi sociali, la bassa qualità delle istituzioni educative, lo snaturamento dei valori etc.
Decadenza di valori tradizionali e difficoltà a rimpiazzarli, individualismo dilagante, stimolazione al successo e difficoltà a raggiungerlo, marginalità economica che diviene marginalità sociale e psicologica: questi i fattori maggiormente suscettibili di condurre alla devianza i soggetti marginali.
Prevale una cultura che Gans definisce "dell'episodio", una cultura che fa sì che il ritmo della vita appaia dominato unicamente
(...) dall'episodio avventuroso, in cui, attraverso un comportamento emozionante, a volte incontrollato, si arriva ad un'estrema intensità di vita e di sensazioni. Lo scopo è l'imprevisto, un'occasione di brivido, la possibilità di affrontare e vincere una prova. Lo si può ricercare in una partita a carte, in una zuffa, in un'avventura sessuale, in una sbornia, in un rapido scambio di scherni e di ingiurie. Qualunque sia l'episodio, lo si vive con aggressività, e il resto della vita è una specie di vuota attesa di quel momento(91).
In un contesto simile è chiaro che sono i processi preventivi, la socializzazione, a rivestire un ruolo primario; in quest'ottica assume un'importanza fondamentale la cosiddetta questione minorile.
In proposito Cesareo, citando Parsons, afferma che:
Il caso del bambino è il più drammatico poiché ha davanti a sé molta strada da percorrere, è particolarmente critico per l'intera società poiché egli manca sia di maturità biologica sia di qualunque modello di comportamento necessario per interagire con gli altri membri del sociale (la cosiddetta "invasione barbarica" dei nuovi nati), ma soprattutto è il più rilevante in termini di socializzazione perché c'è ragione di ritenere che, tra gli elementi appresi della personalità, i più stabili e durevoli siano i modelli principali di orientamento di valore, ed è largamente provato che questi sono deposti nell'infanzia senza più essere soggetti a drastiche alterazioni su larga scala durante la vita dell'adulto(92).
Il processo di socializzazione del minore si articola in due momenti la cui esplicazione dovrebbe essere il più possibile integrata: la socializzazione primaria, in cui si viene a costruire il primo mondo dell'individuo e, soprattutto, si verifica gradualmente quell'estrazione da ruoli e da atteggiamenti concreti di persone a lui realmente vicine, astrazione denominata "altro generalizzato"; la socializzazione secondaria, in cui vengono interiorizzati i "sotto-mondi" istituzionali e si acquisisce una conoscenza legata ai diversi ruoli, ciascuno dei quali, a sua volta, rispecchia ed assicura la divisione dei ruoli esistente nella società(93).
Per la socializzazione primaria esiste nella nostra società attraversata da rapidi mutamenti valoriali un problema generale di individuazione dei valori da trasmettere, ma la disgregazione presente nei quartieri marginali rende questo problema enormemente più drammatico: la mancanza di stabili modelli di riferimento "positivi" cui rifarsi e la diffusa crisi di valori – quando avvertite – pongono i genitori in uno stato di penosa incertezza relativamente al modo di allevare i figli e, in primo luogo, relativamente ai valori da consegnare loro.
Nella maggior parte dei casi le strategie educative adottate si basano su un rigido isolamento dei figli dal contatto con altri minori del quartiere e dell'inculcamento di valori obsoleti, legati al processo di socializzazione dei genitori stessi: entrambe le strategie danno generalmente risultati controproducenti, per l'impossibilità di praticare un isolamento totale e per l'ovvia destabilizzazione che produce successivamente sui minori il successivo impatto con i valori nuovi cui non si era stati socializzati.
Si tratta, bisogna precisare, della "maggior parte" delle strategie adottate, ma è ben noto che quasi mai, nei quartieri marginali, si adottano strategie di socializzazione, preferendo delegare alle istituzioni secondarie questo compito; e molto spesso, i veri processi di socializzazione secondaria hanno come protagonista la strada e non la scuola...
Emblematica al riguardo appare la ricerca condotta da Sidoti a Bari(94) su un campione di circa trecento minori devianti; ne sintetizziamo i risultati:
1) quasi nel sessanta per cento dei casi considerati, uno o tutti e due i genitori sono fisicamente assenti dal nucleo familiare;
2) il livello culturale dei genitori è assolutamente carente (la metà dei padri e un terzo delle madri sono risultati essere analfabeti);
3) la "qualità morale delle famiglie" esaminate viene considerata da Sidoti decisamente inadeguata in moltissimi casi in base ad indicatori quali relazioni extraconiugali conclamate, uso della violenza nei rapporti del nucleo familiare, alcoolismo etc.(95);
4) una "grave incapacità di educare i figli" viene rilevata dalle conversazioni con i genitori, attraverso indicatori quali marcato disinteresse nei confronti dei ragazzi, fatalismo, delega, etc.;
5) per quanto riguarda la posizione occupata nella stratificazio- ne sociale, il livello occupazionale medio delle famiglie esaminate è decisamente basso e i padri disoccupati rappresentano la componente con valore più alto (35%);
6) nel campione preso in esame vi è un grande numero di famiglie numerose (7 figli la media per famiglia, con punte di 12 e oltre);
7) il bilancio economico familiare risulta nel 44% dei casi inadeguato;
8) per ciò che riguarda le condizioni abitative, esse sono qualitativamente sempre definite in termini che sottolineano una convivenza affollata, promiscua, precaria(96);
9) il rapporto con le istituzioni scolastiche pubbliche non è stato soddisfacente (solo il 9% dei minori esaminati è in possesso di licenzia media);
10) neanche i rappori con i gruppi di coetanei sono soddisfacenti (il 21% delle minori esaminate avevano già concepito almeno un figlio al momento in cui è stato commesso l'atto deviante; soltanto nel 50% dei casi era intervenuto un matrimonio "ripa-ratore", con esiti peraltro quasi sempre fallimentari).
Questi dati descrivono senza bisogno di commento le condizioni in cui operano i proccessi di socializzazione primaria nei quartieri marginali del Mezzogiorno.
Per ciò che riguarda la socializzazione secondaria, essa non può certo esplicarsi nei luoghi di lavoro, viste le condizioni del mercato occupazionale e, quanto alle istituzioni scolastiche, la loro presenza risulta assai limitata sia sotto il profilo qualitativo che sotto quello quantitativo(97).
In Campania, più del 90% dei minori istituzionalizzati nel centro di Nisida non ha la licenza media, più del 50% non è arrivato neanche alla quinta elementare; secondo il Censis a Napoli la frequenza irregolare è stimabile nel 33,33% contro il 10% nazionale ed il quartiere record per l'evasione scolastica è Secondigliano (con una percentuale del 30% circa), quartiere che fornisce anche il maggior numero di ragazzi all'Istituto di Nisida.
Nel 1989 sono stati commessi nella regione 217.772 delitti, in 2.562 casi sono stati ritenuti responsabili minori; degli 8.882 ragazzi entrati in quell'anno negli istituti di rieducazione 745 avevano commesso reati contro il patrimonio, 85 contro la persona, 371 altri reati.
Nei primi due mesi del '91 erano arrivate alla Procura della Repubblica di Napoli sezioni minori ben 745 denunce e gli esperti calcolano in almeno diecimila il numero dei fanciulli coinvolti in azioni delittuose(98).
Con riferimento alle manifestazioni devianti più diffuse nel napoletano, in un indagine sul periodo 1974-1978, M. Di Rienzo(99) ha individuato quattro grandi tipologie di devianza come corrispettivo di quattro grandi aree di relazioni sociali "normali" e, per ciascuna di esse, tre modalità:
1) area economica: lavoro nero, lavoro precario-inventato, condizione non produttiva;
2) area sociale: rifiuto di convenzione, contestazione dei ruoli, rifiuto degli status;
3) area etica: diversa morale sessuale, contestazione dei valori tradizionali, religiosità alternativa;
4) area culturale: cultura del vicolo, cultura della banda, cultura alternativa.
Dall'indagine risultava che, mentre la devianza dalla normalità etica e da quella culturale incontrava – sia pur estrinsecandosi secondo modalità diffferenti – una distribuzione sostanzialmente omogenea dal punto di vista dei quartieri e delle classi sociali, la devianza dalla normalità sociale e soprattutto da quella economica, investivano significativamente i quartieri marginali più deboli.
Una peculiarità dei quartieri marginali metropolitani del Sud è il controllo esercitato su di essi dalle organizzazioni criminali; in tale contesto risulta ben difficile che le manifestazioni di devianza dei singoli non siano più o meno direttamente "organizzate"; così, per le forme di devianza descrittte sopra, a Napoli, è ben difficile che esse -dal lavoro nero alla contestazione dei ruoli, etc.- sfuggano al contatto con la camorra, alla disciplina ed ai processi di "socia-lizzazione" da essi imposti.
Si ha, in questi quartieri, una situazione del tutto opposta a quella descritta da Harrington a proposito di uno slum di St. Louis abitato da contadini dell'Arkansas di recente inurbazione:
L'intero rione viveva troppo sull'orlo del delitto per non farne una minaccia, anzi una possibilità. La gente però era impoverita, e il delitto era quasi sempre violento, banale, meschino. Poteva rovinare una vita e concludersi in condanne al carcere o al riformatorio, mai in un risultato pieno, sia in "bene" che in male. ll mondo della pirateria organizzazta, della delinquenza razionalizzata di stile moderno era lontano, da questi slums di montanari inurbati, quanto il big business(100).
Secondo Cloward e Ohlin(101), in un quartiere marginale possono prevalere modelli di devianza che adottano tipologie del tipo vandalismo e guerre tra bande, oppure modelli organicamente inseriti nella criminalità organizzata.
Il prestigio di cui godono nei quartieri marginali meridionali gli esponenti delle organizzazioni criminali è emblematico del privilegio accordato alla seconda modalità.
È proprio per queste sue connessioni – a volte oggettive, a volte soltanto soggettive, per il fascino esercitato sul piccolo deviante dal modello della grande criminalità – che il fenomeno della devianza non va trascurato; del tutto fuorvianti sembrano, pertanto, osservazioni come quelle espresse da De Rita:
Oggi la devianza che preoccupa non è più quella piccola e individuale, ma è la grande e organizzata. Oggi la criminalità economica è quella della finanza sporca, di dimensione e rete internazionale; è quella della produzione e del commercio della droga, con poteri organizzati spesso da industria sopranazionale; è quella dei grandi affari dove si intrecciano cordate imprenditoriali e cordate politiche; è quella del grande commercio internazionale delle armi (...). ln sintesi è la dimensione organizzata che contraddistingue, in modo praticamente costitutivo, la criminalità che conta, anche quella economica; ed è questa dimensione organizzata, tipica del mondo industriale moderno, che fa crescentemente paura(102).
Eppure, la grande criminalità non può fare a meno di prelevare la propria manodopera "bassa" dai ranghi della piccola devianza. Un’indagine sulla rappresentazione della famiglia nei bambini di un quartiere napoletano in cui il controllo sociale esercitato dalla camorra è particolarmente forte, Forcella, fornisce dati illuminanti e allarmanti.
Dall'indagine, condotta in parallelo anche in un altro quartiere cittadino con caratteristiche del tutto diverse, emerge – fra l'altro – che i bambini di Forcella relativizzano in maniera rilevante le figure genitoriali:
Una possibile spiegazione di ciò va ricercata nel ruolo marginale assunto dalla famiglia nucleare rispetto alla più importante e consistente "famiglia camorristica".
Essa assume per il singolo una funzione simbolica di madre, essa compensa, anche se solo in parte ed immaginificamente, le carenze vissute dai bambini nel ristretto nucleo familiare. La figura genitoriale si profila per questi bambini come una figura estremamente dipendente dall'esterno e ad esso completamente soggiogata, risulta, quindi, facile capire perché è proprio verso questo esterno che vengono orientati i processi di idealizzazione(103).
Si può dire che la camorra riesce a sostituire ad una situazione di disgregazione valoriale, tipica di un quartiere marginale come Forcella, un processo di ultrasocializzazione ai propri valori: "Si può ipotizzare che la camorra assuma, in determinati ambienti sociali svantaggiati, una funzione contenitiva, di punto di riferimento su cui fondare la definizione di una propria identità"(104).
In questo modo:
I bambini di Forcella crescono in un ambiente in cui la devianza è la regola, in cui è possibile apprendere le tecniche per la realizzazione del crimine; in cui l'attività illegale e criminale non è sottoposta a sanzioni, anzi è valorizzata, in breve, in cui solo l'aderenza alla camorra eleva la dignità dell'uomo (...)(105).
Un futuro di devianza -e spesso l'ingresso nella criminalità organizzata vera e propria, magari nei ranghi più bassi- finisce con l'attendere in moltissimi casi i bambini di Forcella.
Le possibilità di un ruolo altamente positivo da parte delle istituzioni educative è dimostrato da un altro lavoro, svolto negli anni scorsi dai docenti di una scuola media di Secondigliano, sotto il coordinamento dello psicologo sociale Cosimo Varriale dell'Università di Napoli(106).
Il lavoro condotto secondo il modello lewiniano della ricerca- azione ("studiare le cose cambiandole")(107) ha condotto a risultati inattesi: il 100% degli alunni considerava la camorra ed i suoi uomini un fenomeno negativo, ne rilevava la violenza intrinseca, ne coglieva gli aspetti di antagonicità allo Stato, ne demistificava gli statuti etici tipici (l'"onore",etc.). È interessante vedere come queste analisi siano presenti nella riflessione della Chiesa napoletana, anche in quella "gerarchica" dei vescovi:
Un errato o delittuosamente interessato progetto di uomo e di società ha provocato prima l'illusorio boom economico degli anni '60 e, poi, la crisi sociale e morale, oltre che economica degli anni più recenti. (...). Mortificata gradualmente ogni umana sensibilità, alimentata la sete per il rapido guadagno, si è perduto il rispetto per la stessa vita umana e giovani socialmente disadattati sono disinvoltamente diventati assassini, agli ordini delle organizzazioni criminali celermente cresciute di numero, di potenza e di ferocia, in grado di colpire quanto e dove vogliono al riparo di una diffusa omertà e persino di coperture politiche(108).
Il documento vescovile non indulge ad oleografiche letture della camorra come "partito della plebe", ma ne articola la capacità di "presa sociale" in fenomenologie ben precise:
Se il procurato dissolvimento di un sistema stabile di valori morali costituisce la causa immediata del fenomeno camorristico, altri motivi ne costituiscono le cause remote o le occasioni favorevoli, oggi come nella storia passata della camorra.
Individuiamo nel permissivismo ad ogni livello, nella debolezza delle strutture sociali, nella insicurezza e nella emarginazione di larghi strati della popolazione, particolarmente della gioventù, gli spazi ingiustamente lasciati liberi dall'organizzazione sociale, in cui trova fertile terreno la camorra e prosperano l'omertà e la rassegnazione. ln particolare riteniamo di dover segnalare:
- la diffidenza e la sfiducia dell'uomo del Sud nei confronti delle istituzioni per la secolare insufficienza di una politica atta a risolvere i pesanti problemi che travagliano il Mezzogiorno (...);
- il sospetto, non sempre infondato, di una complicità con la camorra da parte di uomini politici (...);
- il diffuso senso di insicurezza personale e di rischio permanente derivante dalla insufficiente tutela giuridica della persona e dei beni (...);
- la mancanza di chiarezza nel mercato del lavoro, per cui, non di rado, trovare una occupazione è più una operazione di tipo camorristico-clientelare che il perseguimento di un diritto fondato sulla legge del collocamento;
- la carenza o l'insufficienza anche nell'azione pastorale (...)(109).
È questa situazione di deprivazione profonda, oggettiva e soggettiva, e non un generico mito di "rappresentanza" adottato dal camorrista, ad assicurare la penetrazione ed il prestigio sociale:
Uno dei grandi pilastri su cui si fonda la potenza della camorra è il mito dei capi. La certezza che la forza della propria parola, fondata sulla potenza dei mezzi, sulla prontezza della violenza, sull'immediatezza dell'esecuzione, fa apparire grandi e crea attorno una curiosità che arriva all'ammirazione(110).
Acutamente i vescovi mettono perciò al primo posto, nell'azione di lotta contro il crimine organizzato, la sua smitizzazione, "demitizzare e isolare la camorra", poiché "questa vive soprattutto sulla paura, sull'omertà e sulla rassegnazione, che ne ingigantiscono le proporzioni e la potenza"(111).
Analizziamo ancora il comportamento sociale nel quartiere tipo di Secondigliano:
In particolare il degrado urbano e comportamentale di Secondigliano e la latitanza dello Stato in queste zone hanno ormai scatenato fra i ceti popolari una sorta di assuefazione all’aggressività diffusa, una disaffezione alla partecipazione decisionale nella comunità, una tendenza alla semplificazione cognitiva rispetto alla reale complessità dei problemi (che si esprime anche in una significativa ripresa delle forze politiche di destra) e una spinta ad asservirsi passivamente a chi oggi e in questi luoghi sembra essere l’autorità che punta a governare in prima persona pezzi di società: la delinquenza comune organizzata capace di colpire chiunque quando e come vuole. ln questa chiave ci sembra vada letta la totale chiusura dei negozi del quartiere -vicenda che ha fatto parlare a lungo i giornali e reti televisive locali e nazionali- in segno di lutto per l’assassinio ad opera di camorristi rivali del boss La Monica; così come uguale significato assume la diffusissima pratica di ricorrere ai consigli o di sottomettersi alla protezione a pagamento del capozona malavitoso locale(112).
In questo "rapporto fiduciario" instaurato dalla marginalità urbana con le organizzazioni criminali, si è voluto vedere spesso un modello di "rappresentanza", un costituirsi della criminalità in partito della plebe.
Nelle diverse ipotesi, questo partito sarebbe stato autogenerato dalle plebi meridionali oppresse oppure imposto ad esse da gruppi criminali già costituiti e sorti comunque per la tutela di interessi del tutto opposti (conservazione del latifondo nella Sicilia post-unitaria, protezione di interessi speculativi nella Napoli del dopoguerra, etc.).
La seconda ipotesi è quella di gran lunga prevalente oggi:
Che spezzoni anche larghi delle classi subalterne adottassero per autodifesa quello che poi Alongi, Mosca, Orlando avrebbero definito lo "spirito" della mafia (in quanto distinto dalla organizzazione) non prova affatto I’esistenza di due mafie, una popolare ed una di dominio, prova invece la capacità egemonica a lungo esercitata dal progetto interclassista della mafia stessa, la sua capacità di parlare un linguaggio sociale coerente con quello della maggioranza(113).
Questa ipotesi si rinviene, con qualche variante, anche nelle note sulla "camorra-massa" del gruppo di studiosi riunito intorno all"Osservatorio sulla camorra".
Il punto è però che il rapporto delle organizzazioni malavitose con la marginalità urbana sembra esaurirsi da un lato, sul piano più propriamente "criminale", nel reclutamento della manodopera e nella supervisione delle attività extralegali (contrabbando, etc.), dall'altro, sul piano "civile" o "politico" che dir si voglia, questo rapporto non sembra andare oltre l'offerta di protezione e servisi, in una competizione che investe più le funzioni statuali nel loro complesso che quelle di un partito di rappresentanza degli esclusi.
Nel caso esposto di Secondigliano si vede bene che "Chi assume vere o presunte funzioni di protezione riceve una legittimazione sociale all'uso della violenza, e tale legittimazione contribuisce ad accrescere il suo capitale di onore e di rispetto"(114); si vede bene che ciò che si chiede alla camorra è protezione e non rappresentanza, che ciò che gli si conferisce non è un mandato rappregentativo ma il monopolio della violenza, che non c'è rivendicazione di progresso, aspirazione ad un "ordine nuovo" più equo, bensì richiesta di conservasione del vecchio ordine.
Non appare casuale che lo stesso quartiere di Secondigliano esprima nel voto un'ampia propensione per i partiti della destra; il processo di socializzazione della camorra si inscrive tutto all'interno dei valori dominanti e ne costituisce anzi un'enfatizzazione-rafforzamento: è il mito del successo economico ad attrarre i giovani nelle file dell'organizzazione ed in questo senso il meccanismo del reclutamento appare tutt'altro che desocializzante rispetto ai valori dominanti, nei confronti dei quali costituisce anzi un processo di ultrasocializzazione.
Piuttosto che partito della plebe, la camorra appare partito d’ ordine, con funzioni di contenimento, semmai, delle insorgenze conflittuali antisistemiche.
Non si vuol negare qui che le organizzazioni criminali – in particolare alcune di esse, quali la NC0 cutoliana – abbiamo inserito, tra le modalità di allettamento dei giovani marginali e devianti, istanze pseudo-politiche rozzamente formulate (non si tratta peraltro di fenomeno nuovo: i Borboni prima, i Savoia poi hanno strumentalizzato tale vocazione della camorra, le Truppe Alleate sono riuscite ad incanalare le aspirazioni della mafia ancora durante la guerra di liberazione...), ma non si può giungere ad interpretarle nel senso di una sorta di progetto politico antagonista delle plebi urbane, come sembra fare Sales, accostandole addirittura alla modalità di penetrazione dell'eversione politica nei ceti marginali(115).
Il conferimento di una "identità", del senso di "appartenenza ad un progetto comune" che le organizzazioni del crimine sono in grado di fornire ad un giovane marginale o ad un giovane deviante, afferiscono alla sfera dell'identificazione soggettiva e non di quella oggettiva; si può tutt'al più sentirsi parte, senza esserlo realmente.
Il rapporto con la marginalità e la devianza si esaurisce nel reclutamento, in cui l'attrattiva è esercitata in misura enormemente maggiore dalla possibilità di conseguire proprio quei valori economici del sistema dominante:
(...) lo status che dà il lavoro non qualificato, e il basso reddito che ne deriva, difficilmente possono reggere il confronto, sulla base degli standards di valore stabiliti, con le lusinghe di potere e di alto reddito che vengono dal vizio organizzato, dal racket, dal crimine(116).
All'inizio degli anni '80 il prezzo offerto per una gambizzazione si aggirava attorno alle 500 mila lire, quello per un omicidio da uno a cinque milioni: cifre, certo, ripugnantemente "basse" sul piano del valore etico attribuito alla persona, ma abbastanza "elevate" da tentare i giovani dei quartieri marginali, deprivati di ogni statuto etico e bombardati da un incitamento continuo ai valori del successo pecuniario.
Serra e Coco, richiamandosi anche alle conclusioni di un lavoro della Cammarota(117), scrivono che:
Proletariato marginale, sottoproletariato e via via fasce occupazionali meno qualificate/specializzate accomunate -nei processi di ristrutturazione- dall’accentuarsi della mobilità, della precarietà lavorativa, ed infine dalla sotto-occupazione (oscillante fra il lavoro nero e la istituzionalizzazione, penale o assistenziale, saltuaria) perdono, come bene pone in risalto la Cammarota, la loro classica integrità anche morfologica esprimendo problematiche nuove e complesse(118).
Tra queste "problematiche nuove e complesse" rientrano a pieno titolo quelle connesse alla devianza: nei quartieri marginali del Sud accade, nella maggior parte dei casi, che l'alta presenza di organizzazioni criminali preesistenti riesca ad incanalare tale devianza potenziale nella propria direzione, anziché lasciarla disperdere in un pulviscolo di atti criminali occasionali o individuali (teppismo, vandalismo, etc.), oppure la incanali in settori di piccola delinquenza (scippi, etc.) che sebbene non gestita direttamente dai grandi gruppi imprenditoriali del crimine, pure viene da questi ampiamente controllata. Tale reclutamento avviene generalmente assai precocemente ("al Borgo si compie fondamentalmente nell'età compresa fra i quindici e i vent'anni, nel periodo critico, cioè, in cui il mercato del lavoro cittadino rigetta una quota più o meno elevata della forza lavoro offerta dal quartiere", scrive Guarrasi, nella sua indagine palermitana )(119).
Il rapporto delle grandi organizzazioni criminali con la devianza spicciola è comunque ambiguo; è da ritenersi, infatti, che la prima prelievi altrove, presso altri settori sociali, i propri "quadri", e che per i secondi sussista una sorta di marginalità anche all'interno del circuito delinquenziale organizzato.
Un'indagine condotta dall'"Osservatorio sulla camorra" su una popolazione di 1.670 minori recidivi che avevano più volte fatto ingresso, nel periodo 1974/78, negli istituti di osservazione, mostrava l'esistenza di un rapporto assai significativo sul piano quantitativo tra quartieri ad alto tasso di criminalità minorile (Montecal- vario, Porto, Soccavo, Miano etc. ) e reclutamento camorristico; tuttavia, sul piano del rapporto qualitativo, si notava che:
(...) i giovani che approdano alla camorra dopo una trafila più o meno lunga di reati e incarcerazioni in età minorile, sono generalmente destinati ad occupare i livelli più bassi della gerarchia camorristica. Restano quasi sempre relegati a livello di manovalanza, di semplici esecutori di azioni pensate e governate da altri. l quadri dirigenti della camorra vengono allevati altrove. Crescono evidentemente protetti dalla famiglia e dal clan. Sono i più deboli e i più disperati quelli che finiscono, fin da piccoli, nelle maglie della giustizia. La maggior parte dei piccoli delinquenti di Napoli non farà mai carriera nel crimine. Sono destinati a vivere comunque ai margini anche della società degli emarginati(120).
I meccanismi di una sorta di leva di classe sarebbero dunque operanti anche all’interno delle strutture illegali della società, il che induce ad una notevole cautela nello stabilire semplicistiche relazioni tra crimine organizzato e devianza, un rapporto che esiste ed è quantitativamente considerevole ma non investe tanto i termini di una simbiosi, quanto quelli di una rapporto economico, da imprenditore a manodopera; l'ipotesi appare confermata anche dal citato studio di Guarrasi, il quale conclude:
Cosicché è legittimo affermare che un quartiere come il Borgo produce soltanto la manovalanza del delitto, in quanto, poste le condizioni che abbiamo illustrato, fra il momdo del furto, della ricettazione, del contrabbando, etc., e il mondo della mafia vera e propria esiste una soglia quasi invalicabile per i delinquenti di una determinata estrazione(121).
Il contrabbando, gli scippi, come il lavoro nero, non sono che delle attività su cui il potere delle organizzazioni criminali si esercita, nella forma dell'organizzazione, del controllo e della "fiscalizza-zione" dei proventi: non ne rappresentano gli aspetti costitutivi, il quid, appunto, che separa le carriere dei piccoli devianti da quelle dei grandi criminali.
Può essere utile analizzare questi aspetti, nel quadro di una più organica trattazione e di un propedeutico approfondimento della questione della camorra-partito:
Sotto il patronato della Madonna del Carmine vive nelle Province Napolitane una mala che Consorteria dei Camorristi o Camorra semplicemente si appella. Essa ha organamento, mezzi di azione e scopo determinato e questo scopo è: campare la vita nell'ozio mediante estorsioni e scrocco da praticarsi a scapito dei giuocatori anzi tutto, poi di quanti si guadagnano anche onestamente il pane. (...)(122).
Questa "Memoria di polizia" è tra le prime fonti che lo studioso incontra sul fenomeno della camorra; la vocazione originaria della camorra al taglieggiamento appare confermata anche in altri autori; così Pasquale Villari descriveva una situazione in cui negozianti e venditori di prodotti nei mercati cittadini dovevano pagare una tassa per i loro banchi, mentre si stimava che esistessero almeno dieci differenti gruppi camorristici che controllavano il lavoro dei portuali, dei facchini, degli stivalatori e dei magazzinieri del porto e delle sue banchine(123).
Se questa era la forma che la camorra si era data negli anni che seguirono all'Unificazione italiana, tale forma poteva vantare ascendenze più antiche, risalendo a quelle della "Bella Società Riformata" costituita a Napoli nel 1820.
La Società in questione bandiva dai propri statuti il furto e proponeva ai suoi membri la finalità di percepire tangenti su ogni attività lecita e illecita che fosse esercitata in città.
Tale finalità era ritenuta ancora prioritaria nel "Frieno della Società dell'Umirtà", uno statuto camorristico del 1842, in cui, all'art. 24, si intimava che:
Quelli che sono comandati per esigere le "tangende" le debbono consegnare per intero ai superiori. Delle "tangende" spetta un quarto al "capintesta" ed il resto sarà versato nella cassa sociale allo scopo di dividerlo scrupolosamente fra i compagni "attivi", fra gli infermi e quelli che stanno in punizione per "sfizio" del Governo(124).
L'ambizione della camorra a "farsi Stato" si manifesta dunque assai precocemente. La prima funzione statuale che essa ricalca è ovviamente quella del prelievo fiscale, ma accanto ad essa si pone già l'erogazione di servizi, quasi un Welfare in nuce, per i colpiti dalla "sventura" o dal "Governo legittimo"; alle prime due funzioni, meglio, grazie al prestigio maturato dal loro esercizio, si andò progressivamente affiancando quello dell'esercizio della giustizia, una giurisdizione volontaria e conciliativa nei confronti delle plebi urbane, una vera e propria giustizia penale (con condanne esemplari e talvolta capitali) al proprio interno, nei confronti degli associati.
L'esercizio del taglieggiamento, a differenza del furto, permette il costituirsi ed il consolidarsi di un carattere fondamentale tipico dello Stato moderno: il monopolio della violenza. Ma la camorra, della modernità, non ha soltanto l'aspirazione a "farsi Stato", ha anche quella a a "farsi impresa"; e dell'impresa moderna, in quell'art. 24 del "Frieno", sono già presenti significativi elementi: la coazione al lavoro (i membri sono "comandati" all'esazione delle "tangende"); l'alienazione del lavoro (il frutto del racket deve essere consegnato "per intero" ai superiori, agli "operai del crimine" spetterà poi un salario percentuale); il profitto ("un quarto al capintesta").
Questa vocazione doppia della camorra individua in realtà, in grandi e misure diverse, l'aspetto costitutivo di tutta la delinquenza organizzata nel Meridione che è poi – in uno specchio rovesciato – la rappresentazione nuda e cruda, il "corrispettivo" delle vicende politiche ed economiche del Mezzogiorno d'Italia. Per questi processi esistono due livelli: quello delle "spinte mercatistiche che tutelano le imprenditorialità più 'forti', entro cui rientra, a buon diritto, l'attività economico-imprenditoriale 'legale' di mafia e camorra"; e quello "della rappresentanza politico-simbolica di interessi respinti dai meccanismi dell'inclusione politica e che trovano, dunque, nella mediazione mafiosa-camorristica una forma di organizzazione ed espressione tanto spuria quanto violenta"(125).
Si tratta, peraltro, non della "distorsione" di un modello – quello dello Stato e del capitalismo moderni – quanto, esplicitamente, di una peculiare "variante" meridionale:
Nell'unità delle due funzioni statuali e mercatistiche sta la base fondante della modernità e della complessità deIle forme assunte dai poteri criminali. Reperiamo una sintesi terribile tra Stato e mercato di enorme carica performativa, favorita e resa possibile non da alcuni elementi patologici e/o distorti dello sviluppo capitalistico e della democrazia; bensì proprio dalla fisiologia dei modelli di sviluppo capitalistico e dalla vicenda democratica in Italia, con particolare riferimento a quanto riverberatosi nel Meridione. La fenomenologia del la mafia e della camorra (...) non è che una delle facce in nero della fenomenologia dello sviluppo capitalistico e della democrazia in Italia. Così come la fenomenologia delle guerre civili è stato il risvolto oscuro dell’insediamento e dello sviluppo dello Stato moderno(126).
Assai spesso questa vocasione doppia delle organizzazioni mafiose meridionali ("farsi Stato" e "farsi impresa") è stata ridotta dagli studiosi alle categoprie più generiche di "politico" ed "econo-mico"; laddove con la prima categoria si intendono generalmente funzioni di controllo sociale della plebe urbana su delega del potere statuale, con la seconda una caratteristica assolutamente "contem-poranea" di queste organizzazioni (una caratteristica, in ogni caso, indagata più sotto l'impressione della sua dimensione quantitativa che nel profilo qualitativo).
Della prima categoria si è già fatto cenno nelle pagine precedenti, nei termini di partito della plebe, per la seconda formulazione più originale e rigorosa sembra essere quella di mafia imprenditrice applicata da Pino Arlacchi al caso calabrese(127).
Queste teorie disegnano una linea di frattura abbastanza netta tra passato e presente: carenze di natura essenzialmente subculturale spiegherebbero l'origine e le prime forme storiche di un fenomeno che soltanto recentemente, nei decenni successivi alla trasformazione economica innescata al Sud dal secondo dopoguerra, avrebbe conosciuto una vera e propria dimensione imprenditoriale.
A questa linea interpretativa si oppongono oggi sociologi come Raimondo Catanzaro e Diego Gambetta e storici come Marcella Marmo.
Catanzaro individua, in un serrato confronto con la storia dei fenomeni delinquenziali otto-novecenteschi, una sostanziale continuità nella gestione imprenditoriale del delitto, rinvenendo già nelle origini di queste formazioni criminali quei tratti caratteristici di capacità di innestare su strutture culturali antiche le istanze del moderno, attraverso il sistematico adattamento alle dinamiche politiche, economiche e sociali dei successivi contesti, man mano che questi andavano producendosi(128).
Un approccio storico-continuista è anche quello di Gambetta, il quale rinviene già nella mafia dei primordi i tratti di una società imprenditoriale specializzata nella "fornitura" di protezione ai privati(129).
Per ciò che riguarda più direttamente la camorra, Marmo, invece, in polemica più o meno diretta con il gruppo dell'"Osservatorio"(130), attribuisce alle già citate "Lettere Meridionali" di Villari ed alla letteratura meridionalista a cavallo tra Otto e Novecento in generale, la formazione del topos del guappo, delinquente-gentiluo- mo fortemente radicato nella cultura della plebe urbana, di cui si farebbe in qualche modo portavoce:
Andrebbe riletta invece la voce dissenziente di Pasquale Turiello, che alla diagnosi delle "Lettere Meridionali" in chiave di miseria e responsabilità del potere rispondeva con un discorso meno descrittivo e più ricco di intuizioni utili alla nostra storia successiva, sia pur segnate da notazioni tipiche della cultura positivista: la "scioltezza eccessiva degli individui", una società civile uscita troppo bruscamente dall"antico regime, che riproduce a tutti i livelli un'associazione degli interessi basata sulla forza e sulla clientela, la capacità di manipolazione della legge e dello Stato, sono aspetti che "creano in alto le clientele e in basso le camorre"(131).
Marmo rifiuta dunque recisamente una idealizzazione delle origini che contrapporrebbe la camorra cinicamente imprenditoriale, "economica", dei nostri giorni ad una camorra " sociale": in accordo alle tesi citate di Catanzaro, la studiosa rinviene nell'utilizzo di codici apparentemente tradizionali da parte della camorra un mero strumento per un più proficuo addestramento di individui e gruppi alla competitività della valorizzazione della risorsa violenza (risorsa da riconnettersi a quell' "imprenditorialità della protezione" teorizzata da Gambetta e sopra richiamata).
La camorra storica può pertanto essere letta nei termini seguenti:
Infine, il caso della camorra storica, proprio perché "stracciona", può offrire all’analisi comparativa una nozione del termine politico che vada al di là della corrente di identificazione con luoghi-spazi dei poteri istituzionali, e si riferisca invece alla capacità di gruppi emergenti dal basso di realizzare percorsi abnormi di mobilità, o di semplice arricchimento, attraverso una prassi delinquenziale/normale nelle relazioni di mercato tanto lecite quanto illecite, imperniata sul racket e dunque sull’imitazione di un meccanismo politico-ammini-strativo forte, come quello fiscale(132).
Questi caratteri della camorra storica vengono studiati dalla Marmo in relazione a fatti ed ambienti concreti quali il circuito cavalli-cocchieri (la camorra riuscì addirittura ad organizzare uno sciopero dei vetturini nel 1893, contro la realizzazione delle linee tranviarie che avrebbero minacciato suoi interessi specifici), i rapporti con l'area del furto, il controllo del popolare mercato della "Pietra del Pesce", il patronage camorrista sulla circolazione urbano-rurale(133).
Nell'introduzione al libro di Blok su "La mafia in un villaggio siciliano"(134), Tilly scrive che la "La mafia si adatta alle nostre categorie di illegalità, disordine, complotto o crimine organizzato; essa non è il riflesso del tradizionalismo, dell'imperscrutabilità, della perversità dei singoli siciliani o della Sicilia nel suo insieme", è "il processo di formazione dello Stato" che ha "concorso a crearla" e, alla fine, soltanto questo "potrebbe distruggerla".
Blok descrive una mafia in qualche modo non "anti-Stato" ma "para-statale", fondata sul fatto che lo Stato unitario non riesce ad ottenere il monopolio della violenza legittima in vaste aree del paese ed è quindi obbligato a delegare parte del controllo dell'ordine pubblico ai mafiosi suoi concorrenti, allo stesso modo con cui i governi cinesi dovevano scendere a patto con i "signori della guerra" e quelli latino-americani con i caciques locali.
L'essenza delle organizzazioni criminali del Sud può pertanto rinvenirsi in una concorrenzialità competitiva rispetto allo Stato e all'economia "ufficiali": come aveva sostenuto in tempi lontani Carlo Levi(135), la "questione meridionale" è "questione nazionale", inerente allo Stato ed alle formazioni economiche che operano sul suo territorio; di ciò è traccia evidente nella storia delle organizzazioni criminali, dalla mafia del tempo di V. E. Orlando a quella dello "Sbarco Alleato", dalla camorra di cui si era servito Liborio Romano a quella delle speculazioni post-terremoto.
Note
(1) Cfr. R.E. Park, La città: Indicazioni per lo studio del comportamento umano dell’ambiente urbano, cit., p. 7 ss. (in part. p. 40 ss).
(2) Cfr. ancora Park, ivi e cfr. supra, il § 1.
(3) R.E. Park, Lo sviluppo della città: introduzione ad un progetto di ricerca, in R.E. Park-E. W. Burgess-R.D. McKenzie, La città, cit., pp. 55-56.
(4) G. Amendola, La comunità illusoria: disgregazione e marginalità urbana, Milano, Mazzotta, 1976. Dello stesso A., v. anche La comunità illusoria. Il borgo antico di Bari, Bari, Dedalo, 1976.
(5) G. Amendola, Casa, quartiere, rinnovo urbano: le trasformazioni sociali dello spazio marginale (Salerno, centro storico), cit, p. 137.
(6) V.G. Amendola, opp. citt.
(7) Cfr. G. Amendola, Casa, quartiere, rinnovo urbano..., cit, pp. 145 ss.
(8) "Il frequente avvicendamento degli abitanti rende evidentemente labile il rapporto che si può instaurare tra loro, mentre la coscienza della precarietà della permanenza rende il gruppo familiare meno propenso ad allacciare con i vicini rapporti che non siano meramente formali". Sopravvivenze di antiche modalità comunitarie di rapporto permangono solo "in quelle aree dove minori sono gli indici di mobilità ed in particolare nelle zone interne, le più degradate del quartiere, dove giocano in questa direzione anche altri fattori dal momento che la qualità e l'intensità di tali relazioni sono anche funzione dell'omogeneità del gruppo, del reddito, del livello sociale, dell’ età dei membri". Pertanto, nelle aree di margine, "la situazione è da questo punto di vista fortemenete diversificata dal momento che vivono fianco a fianco rappresentanti della popolazione tradizionale del quartiere ed appartenenti ai ceti medi e superiori provenienti dalla città. In questi casi la vicinanza, più che favorire le relazioni intersoggettive non familiari rende visibili i rapporti di classe" (G.Amendola, Casa, quartiere, rinnovo urbano..., cit., pp. 140-141).
(9) Vedi il precedente § 2.
(10) G. Amendola, op. ult. cit., pp. 138-139.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem, p. 140.
(14) Ibidem, p. 139.
(15) Ibidem, p. 148.
(16) Ibidem, pp. 148-149.
(17) Ibidem, p. 149.
(18) J.Heers, Consorterie familiari alla fine del Medioevo, in G. Chittolini (a cura di), La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello Stato del Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 317. Sempre di Heers, si v. il vol. Il clan familiare nel Medioevo, Napoli, Liguori, 1979 (vi si trovano anche ulteriori indicazioni bibliografiche).
(19) I dati riportati sono tratti in massima parte da: S. Cafiero, Un aspetto del divario Nord-Sud. La questione urbana, "Mondo Economico", n. 48, 15/12/1973, e da E. Mazzetti, L’area metropolitana di Napoli e la Campania nel processo di sviluppo e di diversificazione del Mezzogiorno nell’ultimo trentennio, "Studi marittimi", n. 18, giugno 1983. Per un approfondimento della questione meridionale come "questione urbana" si rinvia agli scritti di F. Adamo, E. Mazzetti, T. D'Aponte, A. Brusca, L. Cuoco, C. De Seta, S. Cafiero, D. Cecchini, R. La Barbera etc. tutti citati nelle note relative ai §§ 1 e 2 del presente lavoro.
(20) S. Cafiero, op. cit., p. 115.
(21) La media montagna ofantina nel 1981 ha il 28% in meno della popolazione che aveva esattamente cento anni prima, la media montagna del Sele ha perso in un secolo il 18,7% della popolazione, la zona del Tammaro, che pure fino al 1951 era riuscita ad aumentare costantemente la propria popolazione, aveva avuto dopo quella data uno spopolamento spaventoso ed era scesa in valori indici a 77,8; lo stesso era accaduto nella zona del Fortore, con una caduta ancora più consistente in un secolo da 100 a 77,2 e la Valle dell'Alto Calore era scesa ancora più giù, da 100 a 60,2 in cento anni (G. Montroni, Popolazione e insediamenti in Campania 1861-1981, in AA. VV., Storia d’Italia Einaudi. Le regioni dall’Italia ad oggi. La Campania, Torino, Einaudi, 1990, pp. 223 ss.) .
(22) Ibidem.
(23) Cfr. in partic. E. Mazzetti, L’area metropolitana di Napoli..., cit.
(24) Con ciò non si vuole individuare un flusso diretto che dalle aree interne in via di spopolamento trasferirebbe masse di cittadini in aree di neo urbanizzazione sorte intorno ai grandi centri; il fenomeno segue un modello assai più complesso, secondo il quale, molto spesso, i nuovi inurbati vanno ad occupare le aree degradate dei vecchi centri urbani, dai quali, a loro volta, partono ondate migratorie verso i quartieri-satellite o i comuni della cintura.
(25) F. Sidoti, op. cit., p. 137.
(26) L. Romano, La camorra nel "triangolo della morte". Analisi sociologica di tre comuni: Arzano-Casavatore-Casoria, "Osservatorio sulla camorra", n. 4, 1985, p. 79.
(27) Cfr. op. ult. cit., pp. 80 ss.
(28) Le Corbusier, Le charte d’Athenes, l’urbanisme des CIAM, Paris, Plon, 1943, di Charles Edouard Jeanneret, detto Le Corbusier, la vera e propria anima del gruppo, il polemista più acuto del ClAM, oltre che un maestro per generazioni intere di architetti, si vedano anche: Vers une architecture, Paris, Crès, 1925 (trad.it.: Urbanistica, Milano, Il Saggiatore, 1967); Maniere de penser l’urbanisme, "Architecture d'aujord'hui", Paris, 1946. Di Walter Gropius, altro grande vecchio dell'architettura progressista, si veda in particolare il volume Internationale architektur, Munchen, Bauhaus Bucher, A, Langen, 1925.
(29) F. Choay, L’urbanistica in discussione, in: La città. Utopia e realtà, Torino, Einaudi, 1973, 2 vol1., 1973, p. 31.
(30) I. Xenakis, La città cosmica, in: F. Choay, op. cit., p. 338 ss.
(31) Ibidem, p. 341 .
(32) C. Gasparrini, Napoli: la scommessa di una nuova periferia pubblica, "Meridiana", n. 5, 1989, p. 121.
(33) Articolo sul "Corriere della sera" del 30/3/1988, a firma Massimo Nava, ripreso in: F. Sidoti, op. cit., pp. 138-139.
(34) V.J. Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, Random House, 1961. La situazione appare per la verità più sfumata in Italia dove, in luogo degli "slums etnici" omogenei e socializzati della tradizione urbana americana, nei centri storici si incontrano più frequentemente -come abbiamo visto nelle pagine precedenti- quartieri desocializzati e disgregati, non capaci quindi, di attuare una vera e propria rete di controllo sociale.
(35) Cfr. supra nota n.133.
(36) F. Sidoti, op. cit., p. 137.
(37) C. Gasparrini, op. cit., pp. 120-121.
(38) G. Amendola, op. ult. cit., p. 20.
(39) M. Harrington, op. cit., p. 239.
(40) L. Mumford, "Landscape and Townscapes" in: Lanscape, 1960. Dello stesso autore si veda anche The Culture of City, New York, Arcourt, Brace and &, 1932.
(41) L. Bellicini, In periferia. Temi, percorssi ed immagini, "Meridiana", n. 5, 1989, pp. 93 ss. Dello stesso autore va consultato anche il più recente La costruzione del territorio meridionale, "Meridiana", n. 10, 1990.
(42) Ben diversa appare la situazione di quella "frangia esterna" delle città settentrionali che Sernini ha descritto così bene per la cinta milanese, quella possibilità di vivere in automobile tra un iper-mercato, un centro direzionale, un centro commerciale, un mega residence attrezzatissimo, una mega-discoteca e "una residenza pseudo-urbana in piccoli paesi, trasformati in suburbio all'italiana" (così M. Sernini ne La città disfatta, Milano, Angeli, 1988, pp. 329 ss.).
(43) E. Mazzetti, L’area metropolitana di Napoli, cit.
(44) Vedi la situazione descritta da Sidoti per Bari, op. cit., pp. 142 ss.
(45) Si vedano gli ormai famosi temi di un gruppo di scolari di Arzano raccolti da M. D'Orta in Io speriamo che me la cavo, Milano, Mondadori, 1990.
(46) I dati su Casavatore, Arzano e Casoria risalgono al 1985 e sono tratti da L. Romano, op.cit.
(47) Tale livello di degrado "ambientale" è raggiunto naturalmente grazie a variabili e meccanismi diversi rispetto a quelli innescati dalle edificazioni periferiche: la fatiscenza degli edifici prende ovviamente il posto delle costruzioni approssimative, ma in entrambe le aree vige lo stesso regime di cronica carenza di qualsivoglia servizio sociale. Anche sul piano del degrado "morale", gli stili di vita presenti nel centro storico, pur differenti da quelli della periferia, conseguono alla fine lo stesso risultato.
(48) I dati sono tratti da G. Amendola, Casa, quartiere, rinnovo urbano..., cit., pp. 99-100. Altri allarmanti dati sull'assenza di servizi del quartiere e analisi generali più organiche stanno in Passaggi urbani. Salerno tra antico e contemporaneo (cap. III), in Arturo Ardia-Luisa Bocciero-Antonio Chiocchi-Agostino Petrillo-Antonio Petrillo, Questioni urbane. Mezzogiorno e Campania dall’antico al contemporaneo, Avellino, Quaderni di "So-cietà e conflitto", n. 5, di prossima pubblicazione.
(49) H.J. Gans, The Urban Villagers. Group and Class in the Life of Italian Americans, New York, The Free Press, 1962.
(50) O. Lewis, op. cit., pp. 99-100.
(51) R.E. Park, Lo sviluppo della città..., cit., p. 56.
(52) M.H. Harrington, op. cit.
(53) V. Guarrasi, op.cit., p. 173.
(54) Cfr. A. Signorelli, Tradizione, innovazione, memoria..., cit e supra il § 1.
(55) Ci si può chiedere, allora, con London "Se la civiltà ha realmente aumentato la potenza produttiva degli individui, perché non ha, contemporaneamente, migliorato le condizioni di tutti?" (J. London, op. cit., p. 210).
(56) V.E. Durkheim, Le suicide. Etude de sociologie, Paris, Alcan, 1897; trad. it.: Il suicidio, Torino, UTET, 1977, cap.V, p. 293 ss.
(57) "Una casa, per quanto sia piccola, fino a tanto che le case che la circondano sono ugualmente piccole, soddisfa a tutto ciò che socialmente si esige da una casa. Ma se, a fianco della piccola casa si erge un palazzo, la casetta si ridurrà ad una capanna (...) per quanto ci si spinga in alto, se il palazzo che le sta vicino si eleva in egual misura ma anche di più, l'abitante della casa relativamente piccola si troverà sempre più oppresso fra le sue quattro mura, (...) I nostri bisogni e i nostri godimenti sorgono quindi sulla base della società, e non li misuriamo sulla base dei mezzi materiali per la loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono di natura relativa" (Karl Marx, Lavoro salariato e capitale (1849), in: K. Marx-F. Engels, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 345).
(58) Ci si riferisce ai "gruppi di riferimento comparativo": v. U.G. Runciman, Ineguaglianza e coscienza sociale, Torino, Einaudi, 1971; e T.G. Gurr, Why Men Rebel, Princeton, Princeton University Press, 1977.
(59) "È diventato un luogo comune, benché a prima vista possa apparire come un paradosso, che la povertà costante rappresenta la migliore garanzia della conservazione: se la gente non ha ragione di aspettarsi o di sperare più di quel che può ottenere, sarà meno scontenta di quel che possiede, o addirittura sarà grata di riuscire a conservarlo. Se però, d'altro canto, è stata indotta a scorgere come méta possibile la relativa prosperità di qualche comunità più fortunata con cui può confrontarsi direttamente, rimarrà scontenta della sua posizione sino a quando non sarà riuscita a migliorarla. È questa la naturale reazione che sta alla base della cosiddetta rivoluzione delle aspettative crescenti" (U.G. Runciman, op .cit., p. 17).
(60) M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), Firenze, Sansoni, 1965.
(61) R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1959.
(62) Cfr. M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopoguerra a oggi, Milano, Garzanti, 1984 (in part. v. pp.66 ss.).
(63) "L’autore di "Teoria e struttura sociale" si pone quindi in aperta e diretta polemica anche nei confronti della posizione freudiana, ritenendo per nulla owio e sperimentalmente acquisito che "l’uomo sia posto contro la società in una guerra incessante fra impulsi biologici e controllo sociale". Anche volendo riconoscere una certa incidenza degli impulsi biologici, Freud non è in grado di chiarire "perché la frequenza del comportamento deviato vari in strutture sociali differenti e come avvenga che le deviazioni abbiano forme e tipi diversi, in diverse strutture sociali"" (V. Cesareo, Socializzazione e controllo sociale, Milano, Angeli, 1983, p. 134).
(64) Altrimenti -dice Merton- sarebbe come credere nell'esistenza di una "una teoria generale della malattia al posto di distinte teorie della tubercolosi o dell'artrite, della sindrome di Mèniere e della sifilide" (op.cit., p. 374).
(65) V. Cesareo, op. cit., p. 137.
(66) V. in part. C.R. Shaw-H.D. McKay, Juvenile Delinquency and Urban Areas, Chicago, University of Chicago Press, 1952, (1969).
(67) V.E.H. Sutherland: The Professional Thief, Chicago, University of Chicago Press, 1937; White Collar Crime, New York, Dryden, 1949; con D.R. Cressey, Principles of Criminology, Chicago, Lippincott, 1960, IV ed.
(68) V.A. Cloward: Illegittimate Means, Anomie and Deviance Behavior, "American Sociological Rewiew", vol. XXlV, 1959, pp. 164-176; con L.E. Ohlin, Delinquency and Opportunity: a Theory of Delinquent Gangs, Glencoe, The Free Press, 1964, V ed. (trad.it. Teoria delle bande delinquenti in America, Bari, Laterza, 1968).
(69) Si tratta, appunto, dell'ipotesi "sub-culturalista": v. A.K. Cohen, The Sociology of the Deviant act: Anomie and Theory and Beyond, "American Sociological Rewiew", vol.XXX, 1965, pp. 8 ss. Più in generale, sulle tematiche "subculturali" della devianza, v. il saggio: Origini ed evoluzioni delle concentrazioni criminali nel Mezzogiorno d'Italia, in questa stessa sezione del fascicolo; v. in partic. il § 3: "Il ruolo delle subculture devianti metropolitane".
(70) Di C. Lombroso v. in partic.: L’uomo delinquente in rapporto all’ antropologia giuridica, Torino, Bocca, 1884, 1897.
(71) Di S. Freud v. in partic.: Il disagio della civiltà ed altri saggi, Torino, Boringhieri, 1971.
(72) V. in partic. E.Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 1968.
(73) Di M. Foucault v. soprattutto Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976. Per una ricognizione tematica "sistematica" su questo e su tutti gli altri aspetti dell’opera di Foucault, v. A. Petrillo, "Critica della verità" e ricerca della vita in Foucault. Questioni di metodo, "Società e conflitto", n. 7/8, 1993.
(74) V. D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Torino, Einaudi, 1971.
(75) È la posizione di Merton, op. cit.
(76) Cfr. S. Wheeler, Deviant Behaviour, in: N.J. Smelser, Sociology: an Introduction, London-New York, Sydney, Wiley&Sons, 1967, p. 607 ss.
(77) V. Cesareo, op. cit., p. 144.
(78) P.L. Berger, Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 387.
(79) E. Durkheim, Les regles de la methode sociologique, Paris, Alcan, 1895; trad. it.: Le regole del metodo sociologico; Roma Newton Compton, 1981, p. 183.
(80) Reati, per altro, assogettati ad un regime assai elastico, per cui frequente è anche il loro ripristino.
(81) Chapman parla in proposito di "distribuzione differenziale della immunità" che renderebbe nella maggior parte dei casi inoperanti le sanzioni per alcuni reati di tipo economico, anche nel momento in cui esse sono formalmente previste, data la protezione di fatto accordata dalle istituzioni repressive ai ceti egemoni.
(82) Il caso più tipico è quello dell'associazionismo sindacale, dello sciopero etc., divenuti nel volger di un secolo da "reato" "diritto" (cfr. su questo punto V. Cesareo, op. cit., p. 212 e ss.).
(83) Cfr. S. Becker, Outsiders, New York, Free Press, 1963, p. 9.
(84) Chapman (op. cit., pp. 167 ss.) si sforza anzi di mostrare il ruolo di provocazione o addirittura di complicità assolto dalle vittime in molti casi di devianza.
(85) Sulla "vittimologia" vedi AA.VV., Dalla parte della vittima, Milano, Giuffrè, 1990.
(86) V.E. Viano, Victimology: the Development of a New Perspective: Victomology, 8 (1-2), pp. 17-30; N.H. Rafter, Left out by the Left: Crime and Crime Control, "Socialist Rewieu", n. 89, sept-oct., 1986.
(87) fr. A.K. Cohen, The Study of Social Disorganization and Deviant Behaviour, in R.K. Merton & Coll. (eds), Sociology Today, New York, Basic Books, 1959, p. 462.
(88) F. Sidoti, op. cit., p. 88.
(89) M.H. Harrington, op. cit., p. 218.
(90) Cfr. E. Morlicchio, Gli imperatori del terzo mondo nel mercato del lavoro campano e A. Lamberti, Vivere ai margini dell’illegalità: il posteggio abusivo, entrambi in "Osservatorio sulla camorra", n. 8, 1990; rispettivamente pp. 69 ss. e 79 ss.
(91) H.J. Gans, op. cit., (brano tratto dalla trad. it. in vol. coll. a cura di L. Balbo, La classe operaia americana, Bari, Laterza, 1967, p. 57).
(92 ) V. Cesareo, op. cit., p. 59.
(93) Ivi, p. 195.
(94) F. Sidoti, op. cit., p. 106 ss.
(95) Tra le minori esaminate, il 17% aveva subito gravi violenze sessuali, il più delle volte (12%) in rapporti incestuosi con il padre o altri parenti.
(96) Le condizioni abitative precarie spingono spesso i minori alla fuga dalla casa (circa il 50% dei casi esaminati).
(97) Si rinvia, per un approfondimento del problema delle strutture scolastiche, a E. D'Arcangelo, Qualche riflessione sul servizio scolastico e sul servizio sanitario nel divario Nord-Sud, in T. D'Aponte (a cura di), Dal Mezzogiorno all’Europa, cit., pp. 147 ss.
(98) I dati sulla Campania sono tratti da "Il Mattino", 20/9/1991. Sull'evasione scolastica cfr. anche L’evasione scolastica a Napoli; dati irrsae-censis, "Osservatorio sulla camorra", n. 4, 1985, pp. 151 ss.
(99) M. Di Rienzo, Il problema della delinquenza giovanile nell’area napoletana nel quinquennio 1974-1979, "Osservatorio sulla camorra", n. 8, 1990, pp. 113 ss.
(100) M. Harrington, op. cit., p. 172.
(101) R.A. Cloward-L.E. Ohlin, Teoria delle bande delinquenti in America, cit.
(102) G. De Rita, La "legittimazione" dell’illecito, in: "Censis, Quindicinale di note e commenti", n. 4, 1985, p. 74.
(103) M.F. Freda, La rappresentazione della famiglia nei bambini di Forcella, "Osservatorio sulla camorra", n. 8, 1990.
(104) Ibidem, p.143.
(105) Ibidem.
(106) Vedi La rappresentazione sociale del camorrista (un percorso di ricerca e formazione in un scuola ai margini della città), "Osservatorio sulla camorra", n. 8, 1990, pp. 119 ss. Per un discorso sulla "rappresentazione sociale" dei codici e dei comportamenti camorristi, v. i due saggi che seguono immediatamente il presente nel fascicolo: a) Il fenomeno criminale in un'area significativa della Campania: Salerno; b) Costruzione e rappresentazione sociale dello spazio/tempo criminale. Contesti urbani e profili culturali.
(107) V.K. Lewin, Resolving Social Conflicts, New York, Harper&Row, 1948, trad. it.: I conflitti sociali, Milano, Angeli,1980.
(108) Per amore del mio popolo non tacerò, documento dei vescovi della Campania, "Adista", 9/10, 11 settembre 1982.
(109) Ivi, p. 15.
(110) A. Riboldi, Per amore del mio popolo non tacerò, in AA. VV., Chiesa, Mafia, Camorra, Roma, Ed. Ave, 1984 (cit. in G. Bechelloni, Lottare contro mafia e camorra significa rifondare una polis all’altezza dei tempi, "Osservatorio sulla camorra", n. 4, 1985, p. 12.
(111) Documento dei vescovi della Campania, cit., p.16.
(112) C. Varriale, Aggressività e "desiderio di autorità" a Secondigliano, "Osservatorio sulla camorra", n. 5, 1987, p. 93.
(113) A. Recupero, Ceti medi e homines novi. Alle origini della mafia, "Polis", n. 2, 1987, p. 323.
(114) R. Catanzaro, Imprenditori della violenza e mediatori sociali. Un ipotesi di interpretazione della mafia, "Polis", n. 2, 1987, p. 261.
(115) Cfr. I. Sales, La camorra-massa: caratteristiche organizzative e codici sociali, "Osservatorio sulla camorra", n. 5, 1987, p. 35 ss.
(116) R.K. Merton, op. cit., vol. II, p. 320.
(117) A. Cammarota, Proletariato marginale, Roma, Savelli, 1976.
(118) N. Coco- C.Serra, Devianza, conflitto, criminalità, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 65-66.
(119) V. Guarrasi, op. cit., p. 76.
(120) A. Lamberti, La questione minorile a Napoli, "Osservatorio sulla camorra", n. 8, 1990, p. 94.
(121) V. Guarrasi, op. cit., p. 79.
(122) Archivio centrale dello Stato, Ministero degli Interni, Atti diversi, 1849-95, b. 3, f. 28, Memorie sulla consorteria dei camorristi esistente nelle province napoletane (probabilmente attribuibile al dicastero di polizia guidato da Silvio Spaventa), cit. in M. Marmo, Tra le carceri e i mercati, spazi e modelli storici del fenomeno camorrista, in AA.VV., Storia d’Ita-lia. Le regioni dall’unità ad oggi. La Campania, cit., p. 691.
(123) P. Villari, Lettere meridionali, Firenze, 1885, cit. in J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano, Angeli, 1969, p. 338.
(124) Cfr. R. Scarpa, Camorra vuol dire tangente, "II Tempo", 27/6/1981.
(125) A. Chiocchi, Tra storia, teoria politica e identità, "Società e conflitto", n. 2/3, 1990-1991, p. 255. Cfr., altresì, il § 2: "La razionalità strumentale dei dispositivi criminali", del citato saggio: Origini ed evoluzioni delle concentrazioni criminali nel Mezzogiorno d’Italia.
(126) Ibidem.
(127) P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1983.
(128) Cfr. R. Catanzaro, Il delitto come impresa. Storia sociale della mafia, Padova, Liviana Editrice, 1988. Cfr., altresì, il più volte citato saggio Origini ed evoluzioni...
(129) D. Gambetta, op. cit. Dello stesso Autore si veda anche Fragments of an Economics Theory of the Mafia, "European Journal of Sociology", 1988, n. XXlX, pp. 127-145; La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, Einaudi, 1992.
(130) Vedi le opp. citt. di I. Sales e A. Lamberti.
(131) M. Marmo, Ordine e disordine: la camorra napoletana nell’Ottocen- to, "Meridiana", n. 7/8, 1990, p. 173. L’opera di Turiello è Governo e governanti in Italia, (a cura di P. Bevilacqua), Torino, 1980.
(132) Ivi, p. 175.
(133) Non possiamo purtroppo diffonderci qui sugli esiti di questa indagine storica; non si può, pertanto, che rinviare a M. Marmo, op. ult. cit.; sulla circolazione urbano-rurale vedi, della stessa Autrice, Tra le carceri e i mercati..., cit.; sullo sciopero dei netturbini, cfr. J.Davis, op. cit., pp.139 ss.
(134) A. Blok, La mafia in un villaggio siciliano 1860-1960, Torino, Einaudi, 1986.
(135) C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Milano, Mondadori, 1966.