CAP. II

I DISCORSI SUL "RETROTERRA SOCIALE" DEL CRIMINE

 

 

 

Esiste veramente qualcosa di simile ad un "retroterra sociale", un'area "tipica" di riproduzione, reclutamento e prelievo per la criminalità organizzata nel Mezzogiorno d'Italia?

Non ci riferiamo qui alle ipotesi "culturaliste" – esaminate in altra parte di questo monografico(1) – secondo cui le culture originarie e proprie del Sud recherebbero in sé i germi antropologici dell'attuale esplosione di criminalità; queste ipotesi – come ogni altra presa singolarmente con la pretesa di costituirla in paradigma universale ed assoluto – hanno infatti ben poco agio nello spiegare la complessità,e soprattutto la "quantità" e "qualità", dell'attuale fenomeno criminale.

Non si vuole disconoscere l'apporto di tali teorie e la loro recente riscoperta anche in ambienti culturali e scientifici tradizionalmente "progressisti" (si veda, ad esempio, il rifiorire del dibattito intorno alle stesse tesi di Banfield sul "familismo amorale", soltanto pochi anni orsono un po’ troppo semplicisticamente liquidate con l'epiteto di "provocatorie"...)(2). Obiettivo della ricerca è piuttosto l'analisi di quelle condizioni "materiali", dall'economia alle agenzie di socializzazione, alla stessa "forma urbis" che caratterizzano, oggi e nel Sud, la realtà urbana; per verificare se, in qualche modo, non costituiscano esse stesse delle "precondizioni" per la funzionalità del crimine organizzato, se le economie del sottosviluppo non postulino specularmente lo sviluppo canceroso ed ipertrofico delle economie illegali, se la crisi delle agenzie di socializzazione nelle città meridionali non spiani la strada a modelli di socializzazione patogena, se il degrado di alcuni quartieri ed aree non susciti in soggettualità extra-statuali la possibilità di costituirsi in erogatori di servizi "sociali" alternativi; se, in altre parole, non esista una qualche forma di rapporto tra povertà, marginalità e degrado urbano da una parte e devianza e grande criminalità dall'altra...

È ovvio che una relazione siffatta, se esiste, non può compiersi senza produrre una sua specifica "cultura", senza appoggiarsi a specifiche matrici sub-culturali già esistenti; ma dall'indagine su questa cultura va – a nostro avviso – espunta ogni ipotesi immanentistica, tesa a circoscrivere un carattere antropologico "dell'uomo del Sud" ("l'innato individualismo del carattere greco", secondo Banfield; le dicotomie ben note "onore" vs. "legge", "famiglia" vs. "Stato", etc.).

Un carattere di questo tipo, per definizione statico e astorico, nulla spiega del diverso rapporto che il crimine organizzato stabilisce con questo o quel quartiere di città meridionale, con questo o quel gruppo sociale, delle evoluzioni che tale rapporto ha subito nel tempo.

Certo, le moderne organizzazioni criminali del Sud-Italia intrattengono complesse trame relazionali sia con le "uppertowns" che con le "downtowns", ma non si può negare che le modalità di tali relazioni assumono connotazioni profondamente differenti se esse si rivolgono al ceto politico di intermediazione od alla propria base di manovalanza...

Insomma, quand'anche volessimo rimanere con Banfield e compagni a categorie che per vero meglio atterrebbero alla sfera dell'ethos che a quella dell'indagine sociale, categorie quali "moralità" ed "amoralità", c'è da dire che ben diverse – ed assolutamente irriducibili l'una all'altra – appaiono l'"amoralità" che spinge il ceto politico meridionale a rapportarsi alle organizzazioni criminali e l'"amoralità" del quotidiano convivere con mafia e camorra di larghi strati del sottoproletariato urbano del Mezzogiorno.

Queste simbiosi oggettive non possono essere liquidate come meri atavismi patologici, materia da etno-antropologia o da antropologia criminale: esse costituiscono modalità di rapporto per ciascuna delle quali è possibile rinvenire precise cause storiche ed economiche, ciascuna delle quali presenta, al limite, maggiori punti di contatto con dimensioni omologhe in altre aree geografiche, piuttosto che con l'altra, nello stesso contesto urbano meridionale. Tali forme culturali vanno dunque studiate con riferimento al loro luogo di produzione materiale, la città meridionale contemporanea.

Come si configura, in altre parole, lo specifico culturale urbano meridionale? Soprattutto, come si produce ed in quali condizioni materiali?

Una ricognizione siffatta è a nostro avviso irrinunciabile per un proficuo disvelamento del rapporto complesso che il crimine organizzato intreccia quotidanamente con le città del Sud.

Purtroppo, nel nostro paese, per una sorta di pregiudizio "ruralcentrico" apparentemente duro a morire, gli studiosi di scienze sociali che si sono ampiamente occupati delle culture del Sud nelle campagne, ne hanno abbondantemente sottovalutato o trascurato gli aspetti urbani (lo stesso testo di Banfield cui si faceva riferimento tratta, come è noto, delle vicende di Montegrano-Chia-romonte, un piccolo comune dell'"osso" meridionale...). Anni fa Lombardi Satriani, nella prefazione ad un libro di Guarrasi, individuava nell'"equiparazione ideologica folklore-elementi arcaici" e nel "concetto, di origine tayloriana e di marca evoluzionistica, di survival" a lungo dominanti nelle scienze sociali, le cause di tale privilegiamento delle indagini sul mondo rurale(3).

Nel dar conto di questo fenomeno prevalentemente italiano(4), in un saggio più recente, Amalia Signorelli rilevava come la forte critica della società capitalistico-consumistica prodotta nel nostro paese a partire dalle intense mobilitazioni sociali della seconda metà degli anni '60, avesse assunto assai spesso

la forma di una critica della città, considerata il luogo per eccellenza non solo dello sfruttamento capitalistico ma anche dell'alienazione consumistica(5).

Una tale demonizzazione della città non poteva ammettere l'esistenza di una cultura autentica e degna di essere analizzata; in questa prospettiva, le culture urbane si fondevano nell'indistinto della "cultura di massa", cultura dei consumi e dell'alienazione individuale(6).

Accanto a tale pregiudizio anti-urbano, tra gli ostacoli ad una piena valorizzazione delle culture della città, Signorelli poneva un "pregiudizio operaista" di cui sarebbero state vittime l'intera sinistra italiana e la sua intellighenzia:

La funzione rivoluzionaria, o almeno pilota, assiomaticamente attribuita al proletariato urbano industriale,ha fatto passare tacitamente due corollari di notevole gravità sul piano antropologico: il primo è quello della coincidenza della cultura operaia urbana con la cultura rivoluzionaria, sicché la concezione del mondo e della vita degli operai sarebbe stata totalmente riplasmata nella forma della coscienza di classe; o, almeno, quanto vi fosse di eterogeneo e contraddittorio in essa rispetto ad un'autentica coscienza di classe doveva essere considerato irrilevante e in via di dissoluzione, di scomparsa; il secondo postulava che gli altri strati o ceti della popolazione urbana, artigiani, commercianti, produttori di servizi, pubblici dipendenti o sottoproletari che fossero, nativi o immigrati, sotto l'egemonia della classe operaia avrebbero acquisito anch'essi coscienza di classe oppure si sarebbero o sarebbero stati confinati in una progressiva e anch'essa sempre meno rilevante condizione di residualità(7).

I due "corollari" si sarebbero, secondo la studiosa, rivelati ampiamente fuorvianti: "la cultura della classe operaia anche di più antica e solida tradizione non è un granitico e limpido monolite classista", la necessità di mediazioni cui la classe operaia non può sottrarsi non risparmia il livello culturale, anzi, individua proprio nella contaminazione il suo terreno elettivo;

d'altra parte, gli altri strati popolari della popolazione urbana non sono identificabili, riassorbibili e neppure disinvoltamente subordinabili al proletariato della grande industria almeno sul piano culturale. La differenza di ruolo produttivo comporta saperi e valori diversi, una diversa auto-percezione(8).

L'accettazione di una funzione-guida della classe operaia da parte di questi ceti, in rapporto ad azioni e rivendicazioni determinate, non comporta automaticamente l'accettazione di un'egemonia culturale della prima da parte di questi ultimi, anzi presuppone un interscambio attivo tra gli uni e gli altri(9).

Sulla stessa lunghezza d'onda, ma muovendosi su di una prospettiva più rigorosamente marxista, sembra attestarsi anche Lombardi Satriani:

Sarebbe oltremodo ingenuo, infatti, ritenere che ad ogni fascia sociale debba corrispondere puntualmente -dato il rapporto di condizionalità esistente tra struttura e sovrastruttura, che, comunque, è di condizionalità reciproca ed estremamente complesso, da ripercorrere problematicamente in tutte le sue modalità, mai di riflesso meccanicistico- un livello culturale che ripeta i suoi contorni da quelli rilevabili attraverso la stratificazione sociale. Nella realtà, dati i fenomeni di vischiosità culturale, della relativa "autonomia" delle trasformazioni culturali (...) le diverse subculture folkloriche, pur rinviando alle condizioni economico-sociali, non ne sono deterministicamente prodotti(10).

Tali subculture andrebbero perciò rilevate "nella loro reale configurazione, nelle loro modalità, nelle loro zone di confine con altri 'territori' culturali" ed interpretate "nelle loro specificità e nei loro elementi comuni con altre subculture"(11).

Le tesi della Signorelli sulle classi e i ceti sociali nella città possono anche essere non condivise, non integralmente, almeno, ma assai interessanti sembrano le conclusioni cui la studiosa perviene:

(...) se ciascuno degli strati popolari della popolazione urbana ha una sua peculiare visione del mondo, non totalmente coincidente con quella degli altri strati, essi però trovano sicuramente una sorta di denominatore comune, un elemento condiviso nel fatto di avere tutti, per così dire, la medesima controparte: di trovarsi tutti di fronte, cioè, la medesima forza di dominio culturale, quella propria alla borghesia urbana in età capitalistico-industriale(12).

Vi sarebbe, in altre parole, un elemento di continuità ed omogeneità che legherebbe tra loro le varie forme di cultura popolare urbana in aree diverse opponendole al complesso delle forme della cultura contadina.

Il discorso varrebbe anche per le città del Sud; se, infatti, in tali città, il dominio materiale è stato tradizionalmente esercitato (e lo è ancora in misura tutt'altro che trascurabile) da una borghesia affatto diversa da quella capitalistico-industriale (borghesia "comprado-ra", "fondiaria", "intellettuale", "burocratica" etc.), è pur vero che i modelli di penetrazione culturale degli strati inferiori si basano largamente su concetti e valori tipici della borghesia industriale (vedi i modelli di consumo diffusi dai media etc.): le città meridionali andrebbero pertanto lette innanzitutto come "città" e poi decodificate e inserite nel contesto culturale, storico, economico proprio dell'area geografica cui appartengono(13).

La città "rimossa", dunque, non riconosciuta come luogo autonomo e specifico di una complessa produzione valoriale, relazionale, segnica...

Eppure, una città sempre più importante nel dispiegarsi delle trame e delle dinamiche sociali del nostro paese, in un crescendo ininterrotto che si spinge, dall'immediato dopoguerra e dalla fase della ricostruzione nazionale,attraverso il periodo del boom economico e demografico, almeno fino alla fine degli anni '70(14); una città "luogo del disagio" ma anche "luogo della coscienza", "luogo della rivendicazione" per centinaia di migliaia di uomini e donne, giovani e disoccupati o "blue collars", pacifisti, ambientalisti e quadri d'impresa, luogo, insomma, della visibilità politica e sociale, vero schermo su cui si proietta, a scala maggiorata, l'intero arco delle pulsioni e delle tensioni, delle "contraddizioni" dell'intero "paese reale", luogo della "parola sociale" e della produzione dei linguaggi della contemporaneità(15).

Una città tanto più importante in quanto oggi la città si pone come luogo storico dell'espressione del disagio dei marginali, dei non garantiti(16).

Infatti, il primo dato che si presenta allo sguardo di chi indaga la città

è che lo spazio urbano non è uguale per tutti. Ricchissimo di risorse materiali e culturali, queste non sono accessibili a tutti nella stessa misura(17).

Anzi, la metropoli è proprio il

luogo dove discriminazione, esclusione, marginalizzazione si presentano nelle forme quantitativamente e qualitativamente più evidenti(18).

La distanza materiale dalle risorse e la loro accessibilità non sembrano coincidere nell'organizzazione dello spazio delle moderne società capitalistiche: le città, luogo paradigmatico del disagio del paese configurantesi come molteplicità di "assenze" (mancanza di spazi qualificati, di strutture, di servizi, di abitazioni, di lavoro...) diventano il luogo principe dell'azione politica e rischiano di assurgere a luogo simbolico del suo fallimento. Lo stesso rapporto, con pregnanza forse ancora più evidente, si instaura tra meridione e città meridionale, laddove la "questione meridionale", se sul piano strettamente economico non può prescindere da una prospettiva di rivalorizzazione delle risorse del territorio rurale,si va sempre più caratterizzando, in termini soprattutto sociali e civili, come "questione urbana"(9). Sul piano degli standards sociali e civili le campagne meridionali presentano infatti oggi condizioni minime di vita che, se non pienamente accettabili in un paese che vanta un'economia avanzata, certo non destano più quell'allarme che avevano suscitato fino ai primi anni '70: da un lato il triste compiersi di quel salveminiano "spopolamento delle aree interne" con il conseguente calo della pressione demografica sulle esigue strutture sociali presenti, dall'altro l'incremento sia pur minimo di tale patrimonio strutturale, il ruolo di supplenza economica esercitato dal piccolo terziario, dai trasferimenti pensionistici e dalle rimesse degli emigrati nei confronti della crisi endemica del settore agricolo e del mancato decollo dei poli industriali di sviluppo, la funzione tradizionale di ammortizzazione sociale conservata dalle istituzioni locali parentali, rendono oggi positivo il saldo tra province interne e concentrazioni urbani meridionali.

Il vero ritardo sociale nel Sud risiede ormai, e da tempo, nelle città.

La rivolta scoppiata nel 1970 a Reggio Calabria segna realmente "uno spartiacque tra due epoche della lotta politica nel Meridione"(20).

All'epoca, il reddito medio per abitante della Calabria era di 386.000 lire: un contrasto stridente, la denuncia di una separatezza abissale rispetto a quello della Lombardia, che era in quegli anni di 1.179.042 lire; ma Reggio Calabria, nella graduatoria del reddito pro-capite riusciva ad essere addirittura la terzultima delle province meridionali, in condizioni di avvilente divario persino rispetto alle altre città calabresi.

In un bel saggio apparso l'anno dopo, Ferraris descriveva come semplicemente "disastrosa" la situazione delle attrezzature urbane di Reggio; parlava di dodicimila persone (circa il 10% della popolazione) senza un'abitazione decente, degna di questo nome (baracche di lamiera, legno e cartone, abituri logori e improvvisati risalenti a più di sessant'anni prima -al terremoto del 1908, vale a dire..., tuguri squallidi e malsani). Scriveva Ferraris:

Questa la situazione: miseria disperazione e tutto ciò (a differenza delle altre situazioni calabresi) è terribilmente concentrato, condensato in una grossa città di 160mila abitanti sulla quale gravitano 300mila abitanti dei comuni circostanti: una grande concentrazione di frustrazione e fame urbane assediate da vicino dalla miseria delle campagne(21).

L'insurrezione e la rivolta, esplose nei rioni miserabili di Santa Caterina e di Sbarra, mossero ben presto all'attacco di quelli che erano i "simboli classici del potere e della distanza tra Stato e popolazioni meridionali": la Prefettura, la Questura, il Palazzo Comunale; ma è nel tentativo di assalto alla sede della Camera del Lavoro, che può leggersi con immediata chiarezza

l’avvenuto distacco delle masse popolari nei confronti delle forze che fino ad allora erano state impegnate nel tentativo di amninistrare la rabbia, lo scontento, le spinte eversive degli strati popolari nelle campagne e nelle città(22).

Quel gesto di elevata valenza simbolica non segnava soltanto la definitiva sconfitta del movimento operaio e del partito comunista nel Sud a tutto vantaggio di altre organizzazioni sociali ben più capaci nello sfruttare, ed incanalare in modelli orientati prevalentemente alla gestione clientelare del consenso elettorale, i crescenti flussi di risorse destinati dal Governo Centrale alle regioni meridionali; quel gesto marcava soprattutto una sconfitta del sistema politico tout court, vanificava ogni sforzo di comporre dialetticamente, in una sintesi "nazionale", le emergenze ed i bisogni del Mezzogiorno, inibiva nel suo complesso la capacità di un governo istituzionale dell'area; era, per dirla con Sidoti,

la fase di passaggio delle popolazioni meridionali dal controllo politico tradizionale a un terra di nessuno sulla quale presto attecchì una delinquenza organizzata di tipo nuovo(23).

Scrive ancora Sidoti:

Sulla base di un complesso itinerario che si compie sotto l’influenza di una molteplicità di fattori (...) nel corso degli anni settanta nuclei consistenti di ceti popolari escono fuori dalla custodia delle forze politiche e delle istituzioni pubbliche. Una parte di questo vuoto istituzionale viene riempito dalle organizzazioni criminali(24) .

È nella città meridionale contemporanea, luogo di concentrazione di una nuova ondata di marginalità che si innesta su quella di più antica formazione, che le organizzazioni criminali riqualificano se stesse adeguandosi al tessuto economico di una moderna economia periferica; così, a Reggio Calabria come a Palermo, come a Napoli, il crimine si salda strettamente a città che non hanno mai conosciuto la dimensione industriale e stentano a trovarne una "terziaria".

Il richiamo non è solo esercitato da queste stente economie, dal traffico degli stupefacenti, dalle pur ingenti possibilità offerte dalla speculazione edilizia connessa all'espansione dei nuovi quartieri; l'"appeal" della città è nel bisogno della città, nella possibilità, per il crimine organizzato, di trovare non solo manodopera a basso costo, ma di candidarsi esso stesso ad "ente sociale", erogatore di servizi e gestore delle risorse della collettività, fino ad entrare in conflitto più o meno aperto con le stesse strutture del "Welfare", uno Stato sociale, del resto, mai realizzato pienamente nel nostro paese, soprattutto al Sud.

Emblematico di un tale modello è il ruolo della camorra nelle grandi conurbazioni della Campania(25); da un lato essa garantisce il prelievo del surplus di risorse finanziarie attraverso un sistema complesso di estorsioni che costituisce ormai una vera e proprio tassazione parallela (peraltro assai più efficiente di quella statale); dall'altro consente ai suoi affiliati e simpatizzanti di fruire di un'articolata rete di "servizi sociali" (pensioni alle vedove, assistenza legale agli accusati, assistenza medica ai feriti etc.).

Dai "servizi" erogati non sono esclusi l'esercizio di una sorta di "giurisdizione domestica", una giustizia conciliativa, paternalistica, direttamente amministrata dai capizona per piccoli reati e violenze, liti familiari e vicinali etc., in aperta alternativa alla giustizia ufficiale, spesso lenta e troppo distante.

Né manca la fornitura di "momenti ludici", dai quali l'organizza- zione trae spesso lucrosi profitti, come le corse clandestine di cavalli sui vialoni di Secondigliano, le radio private ed il classico lotto clandestino; o di prodotti di qualsiasi genere a prezzo sensibilmente ridotto, dall'alimentazione al vestiario, attraverso una ben oliata rete di distribuzione parallella.

Soprattutto, la camorra fornisce a migliaia di marginali urbani l'illusione di un ruolo e di un'identità sociale; è nota, in proposito, la tesi di Sales sulla "camorra-massa", analizzando la NC0 egli scriveva:

Cutolo si è incontrato con la devianza giovanile, l'ha reclutata nei luoghi dove vive collettivamente (periferia urbana e carcere), l'ha compattata e le ha dato una bandiera, le ha dato la convinzione che con la violenza non si è emarginati ma si è qualcuno, non si è un reietto ma un "Camorrista", si ha dignità e prestigio. Così migliaia di giovani hanno vissuto la loro violenza e la loro devianza come qualcosa che ha un valore, come qualcosa che serve(26).

La camorra diventa così fonte di produzione valoriale, saldandosi ai ceti marginali delle città meridionali...

Certo il sottosviluppo del Sud, e quindi la povertà che si registra nelle sue città, vanno in parte spiegati proprio con la forte presenza di organizzazioni criminali(27); ma, se non si vuole trasformare l'analisi nel più classico paradosso sulla primogenitura, occorre rilevare che la criminalità organizzata, pur preesistente alle più recenti e moderne forme di povertà urbana nel Meridione, si è evoluta contestualmente ad esse, e con esse si intreccia oggi un rapporto vitale e irrinunciabile, in esse si riproduce fisicamente, almeno per il prelievo della manodopera di basso livello, così come si riproduce economicamente nel traffico della droga, nel sistema delle estorsioni etc., e si ricicla, riproduce se stessa in un'immagine "presentabile", nelle classiche attività para-legali dell'edilizia, dello smaltimento dei rifiuti etc.

Importanza della città, dunque, e importanza della marginalità, per la comprensione della criminalità organizzata nel Sud. Povertà materiale e marginalità sociale permeano le culture urbane, le sfaldano, le rendono penetrabili ai nuovi "valori" del crimine(28).

Le "teorie ecologiche", elaborate dalla cosiddetta scuola di Chicago, furono le prime a stabilire correlazioni significative tra povertà e devianza su di un piano scientifico.

Influenzata fortemente dal darwinismo sociale che aveva permeato di sé tutta la cultura nordamericana(29), favorita dalla forma particolare dell'urbanizzazione negli Usa, che aveva dislocato spazialmente le varie culture dell'immigrazione in base alla provenienza, in aree fortemente omogenee al loro interno e abbastanza rigidamente separate tra di loro, la scuola di Chicago tentò di analizzare i vari quartieri delle grandi città come vere e proprie "nicchie ecologiche".

Uno dei primi risultati di quelle analisi fu appunto la constatazione che area della distribuzione della devianza e quartieri abitati dalle culture più marginali, e meno inserite nei circuiti della ricchezza e del benessere,venivano sostanzialmente a coincidere.

Scriveva crudamente Park:

Le nostre grandi città rigurgitano di rifiuti, molti dei quali umani, cioè uomini e donne che per un motivo o per l'altro non sono riusciti a stare al passo con il progresso industriale...(30).

Ed ancora:

Il contagio sociale, che tende a stimolare nei tipi devianti le comuni differenze di temperamento e a sopprimere i caratteri che li avvicinano ai tipi normali che li circondano, conferisce una particolare importanza all'isolamento dei poveri, dei depravati, dei criminali e in genere delle persone al di fuori del normale. Questo è un tipico aspetto della vita cittadina. L'associazione con altri individui dello stesso ambiente fornisce non soltanto lo stimolo, ma anche un sostegno morale per quelle caratteristiche che hanno in comune e che non troverebbero in una società meno selezionata. Nelle grandi città i poveri, i depravati e i delinquenti, ammassati in un'intimità contagiosa e malsana, si uniscono tra loro anima e corpo (...)(31).

Indubbiamente la teoria ecologica non era immune da pecche epistemologiche anche gravi e da un certo "semplicismo" di fondo – ed infatti non mancarono critiche che condussero poi ad un suo oggettivo perfezionamento(32) – tuttavia giunse a fornire una base più scientifica,e suffragata da un'ampia documentazione analiticoquantitativa(33), a quell'intuizione sul nesso povertà-devianza già individuato da molti autori classici, liberali come A.Smith, Ricardo, Marshall, insieme a vari rappresentanti della cultura socialista (per l’Italia, Turati, Ferri etc.)(34). È altrettanto certo che povertà e propensione a delinquere non sono fenomeni meccanicisticamente collegabili ed assimilabili(35), ma non si può per questo aderire alle tesi classiche dell'interpretazione conservatrice del fenomeno criminale come variabile assolutamente indipendente dal fattorepovertà.

Tesi siffatte si trovano in autori come Milton Friedman:

Una spiegazione molto diffusa del criminale lo collega alla povertà e alla diseguaglianza... Per quanto plausibile sia questa spiegazione del perché singoli individui commettono dei delitti, essa chiaramente non può spiegare l'aumento della criminalità nei più recenti decenni negli Stati Uniti. Come nazione siamo più ricchi di quanto fossimo cinquanta, sessantacinque o cento anni fa, e la ricchezza è in qualche modo distribuita più equamente. lnoltre, negli Stati Uniti c'è meno povertà e meno ineguaglianza che in molti altri paesi. La povertà è certamente più generale, più degradante, più intollerabile in India che negli Stati Uniti e indubbiamente lo spettacolo del contrasto tra ricchi e poveri è più sfacciato. Eppure c'è meno probabilità di essere malmenati o derubati nelle strade di Bombay o di Calcutta che nelle strade di New York o di Chicago(36).

Le tesi come quelle dei coniugi Friedman, nella loro semplicità, si presentano assai suggestive e plausibili; ma sono, per l’appunto, troppo semplici.

Una modesta passeggiata nelle strade di città come San Paolo o Rio, avrebbe permesso ai coniugi Friedman di sperimentare direttamente come il crescere della criminalità sia invero direttamente proporzionale non al crescere della povertà in termini assoluti ma al crescere della privazione relativa: lo spettacolo della miseria è, in realtà, assai più stridente, più immorale, più "sfacciato", in città dove le favelas e le bidonvilles si affiancano ai ricchi quartieri centrali, piuttosto che in aree di persistente, omogenea e generalizzata povertà economica come quelle indiane; ed ancora più "sfacciato", tale spettacolo si rivela ove dal Brasile ci si sposti al cuore delle metropoli nordamericane.

In nessun luogo, come nella moderna città occidentale, l'accesso alle risorse è tanto differenziato, segmentato per compartimentazioni così rigide.

Scriveva incisivamente Park che la grande città è

un luogo dove, nonostante la vicinanza fisica, le distanze sociali vengono conservate, e dove i rapporti di convivenza tra gli individui che formano le singole comunità possono essere descritti tutt'al più come simbiotici, non come sociali(37).

La minaccia all'ordine sociale non deriva, dunque, dalla povertà tout-court, bensì dalla "privazione relativa", quella condizione, cioè, in cui alla prossimità nelle aspettative circa il tenore di vita non fa riscontro una pari opportunità materiale di fruirne; e tutto questo in ceti sociali ben distinti e differenziati economicamente ma assolutamente contigui nello spazio reale della città, sottoposti allo stesso martellamento pubblicitario circa il modello di consumi da tenere...(38).

Ancora, circa la tesi dei Friedman, corre l'obbligo di precisare che, anche nelle formulazioni più rozze, le teorie del crimine come fattore sociale non stabiliscono una causalità diretta povertà materiale-crimine, ma tendono a sottolineare, secondo uno schema tripartito, le relazioni povertà-marginalità, marginalità-devianza e devianza-marginalità.

La povertà materiale viene, in altri termini, vista come uno dei principali fattori di produzione della marginalità sociale, marginalità che viene in ogni caso inquadrata come frutto anche di altri fattori (culturali, urbanistici etc.); secondo Signorelli:

La mia ipotesi è che i fattori di esclusione siano di natura assai complessa che attinge tanto al livello economico quanto a quello sociale quanto a quello culturale.ln altri termini i fattori di esclusione -è la mia ipotesi- si determinano all'interno dei rapporti di produzione;ma in una forma specificamente assai moderna, dacché il processo di produzione delle informazioni ha assunto caratteristiche di massa; e dunque il controllo sulla produzione delle informazioni consente un controllo di livello mai prima d'ora sperimentato, sulla produzione di valori, conoscenze e, soprattutto, comportamenti(39).

Allo stesso modo tutta una serie di fattori causali vengono presi in considerazione normalmente, accanto alla marginalità, come basi della devianza, né generalmente la devianza stessa viene deterministicamente assunta come luogo sociologico di una automatica transizione al crimine: il dominio culturale e sociale del successo pecunario, la scarsità dei mezzi legali per realizzare tale mèta nella vita quotidiana, la possibilità di realizzare uno straordinario successo pecuniario attraverso organizzazioni illegali dedite al traffico di droga, l'impreparazione delle istituzioni educative e assistenziali, la ridotta capacità dissuasiva degli apparati repressivi, il basso livello di probabilità che all'illegalità siano applicate sanzioni(40), tutti questi fattori, assieme ad altri ancora incidono sui rapporti in oggetto; di essi ci occuperemo più dettagliatamente nel prosieguo del lavoro.

 

 

Note

(1) V. il saggio Origini ed evoluzioni delle concentrazioni criminali nel Mezzogiorno d'Italia; in particolare, il §1 e la relativa bibliografia.

(2) Cfr. F. Pelella, La mediazione clientelare nel Mezzogiorno, "Osservatorio sulla camorra", n. 5, 1987, pp. 54-55.

(3) In V. Guarrasi, La condizione marginale, Palermo, Sellerio, 1978, p. 9. Lombardi Satriani affermava che, "Espulso dall'industrializzazione, il folklore in un certo senso la portava con sé,come limite interno, nel senso che venivano precisati, dialetticamente, oggetti, partizioni, caratterizzazioni e modalità del folklore per un'operazione culturale che non poteva limitarsi a rintracciare nuovi tracciati di espansione, ma che doveva risolvere, nell'ambito della logica tradizionale, la frantumazione storica di una unità culturale e recuperare, pertanto, le contraddizioni sotto dicotomie nuove, fissate e definite in una visione illusoriamente storicistica. Cultura urbana e cultura contadina diventavano moderno e antico, con più o meno esplicite tendenze valutative, in una compresenza che poneva il problema politico-culturale di un presente-antico, della sua concepibilità logica e del suo significato economico-politico. La teoria della sopravvivenza, formulata in questo periodo dalla scienza folklorica nell'ambito del più vasto tracciato dell'evoluzionismo positivistico, risolvendo la compresenza dei due termini in una ricognizione diacronica, consentiva di vedere nell'antico di oggi niente altro che il relitto di un passato che finiva con lo 'storicizzare' in maniera estetizzante, diremmo, i rapporti reali della società italiana. Il presente ricondotto al passato e il passato al presente, in una visione sostanzialmente immobilistica, risultante da due processi reciprocamente neutralizzantesi: il passatismo e la contemporaneizzazione" (ivi, pp. 9-10).

In un saggio scritto con Meligrana (M. Meligrana-L. Lombardi Satriani, Diritto egemone e diritto popolare: la Calabria negli studi di demologia giuridica, Vibo Valentia, Qualecultura, 1975), l'autore aveva già avuto modo di notare che, nella stessa configurazione concettuale del Sud, il rapporto dialettico Nord-Sud si saldava a quelli dell'industria-agricoltura e città-campagna.

La stessa "questione meridionale" è stata a lungo ed integralmente concepita come "questione agraria": cfr. E. Mazzetti, Il problema metropolitano/varietà di paesaggi e differenziazioni socio-economiche, in T. D'Aponte (a cura di), Dal Mezzogiorno all’Europa. Saggi di geografia politica ed economia, Napoli, Loffredo, 1986, pp. 87-121.

(4) La situazione all'estero è abbastanza diversa: a parte una vasta letteratura sociologica e socio-urbanistica sulle realtà urbane e metropolitane, si è andata da tempo costituendo una vera e propria disciplina antropologica, nota negli Usa come urban anthropology (Oscar Lewis e le teorie sulla cd. cultura della povertà...), ma ben presente e ben radicata anche altrove: in Inghilterra come anthropolgy of complex societies; in Francia come branca più o meno autonoma della etnologie francaise; in Messico nella enorme mole di ricerche svolte sul tema dei rapporti cultura popolare-cultura di massa.

(5) A. Signorelli, Tradizione, innovazione, memoria. Note di metodo e di merito per un’analisi antropologica della realtà urbana, "Osservatorio sulla camorra", n. 4, 1985, pp. 21-22.

In verità la critica radicale della città prodotta dai movimenti di contestazione di quegli anni sembra fenomeno assai complesso; in essa si intrecciavano il tentativo di reinterpretare in chiave "umanistica" il marxismo, come "scienza dell'alienazione", elementi di psicanalisi radicale, la teoria critica della scuola di Francoforte, ideologie terzomondiste, gli echi della lotta maoista "campagna contro città", teosofie orientali e filosofie neoruraliste di marca statunitense; ma anche il retaggio forte di una cultura cattolica che da Sant'Agostino ai neo-guelfi si era sempre nutrita di una fiera avversione per la città, "sentina di vizi" e luogo con scarse possibilità di esercitare quel serrato controllo di tipo "comunitario" di cui si è tradizionalmente servita la chiesa.

(6) La demonizzazione della città dava luogo ad un'ennesima e copiosa fioritura di una letteratura che Signorelli definisce "pseudo-demologica", "evasiva e idealizzante", "che identifica spesso disinvoltamente società rurale, cultura contadina, contestazione e la possibilità di una strategia antialienante nel cosiddetto recupero delle radici" (Op .ult. cit., ibid.).

(7) 0p. ult. cit., p. 20.

(8) Ibidem.

(9) Ibidem.

(10) L.M. Satriani, op.cit., pp.10-11. "Già Engels -afferma l'autore- ci ricordava che "riuscirà difficile spiegare in termini economici, senza rendersi ridicoli (...) l'origine del mutamento fonetico delle consonanti (Lautverschiebung) nell'alto tedesco che estese la divisione geografica costituita dalle montagne dei Sudeti fino al Tauno ad una spaccatura vera e propria della Germania"".

(11) Ibidem.

(12) A. Signorelli, op. cit., p. 21.

(13) Piuttosto che ricorrere a modelli interpretativi fondati sulla ricerca di persistenze ataviche "locali", sarebbe, in pratica, più utile e proficuo studiare le forme culturali della città in maniera comparativa; assumendo, cioè, come punto di partenza la forma tipica "urbana" dell'organizzazione dello spazio antropico.

È, notoriamente, la prospettiva d'indagine della scuola di Chicago, o "ecologica", che, assumendo la struttura urbana in sé come variabile indipendente, si è proposta l'analisi della città come comparazione transculturale.

In Italia diversi studi sulla marginalità nelle città meridionali sono stati condotti proprio sfruttando comparativamente la vasta letteratura nordamericana sull'argomento; basandosi sulla classica tesi weberiana (cfr. M. Weber, Scritti politici, Catania, Giannotta, 1970, pp. 252-254) dell’"ameri-canizzazione dell'Europa" ed "europeizzazione dell'America" (per esempio F. Sidoti, Povertà, devianza, criminalità nell’Italia meridionale, Milano, Angeli, 1990), oppure sulle interpretazioni più recenti (cfr. C.Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, Etas Libri, 1977; I. Wallerstein, Il capitalismo storico, Torino, Einaudi, 1985), dei processi di mondializzazione del sistema capitalistico (per esempio, A. Petrillo, Post-sismìa. Nuove forme di potere e nuove soggettualità antagoniste nella polis, Avellino, Editrice Centro Studi Questirpinia, 1988).

(14) Ammesso che gli anni '80 abbiano realmente segnato un'inversione nel trend di urbanizzazione in Italia, che il processo di delocalizzazione funzionale e decentramento delle attività produttive abbia realmente assunto la valenza così marcata che, spesso in base a considerazioni ideologiche non naturali, gli si è voluto attribuire; di fatto -come non mancano di sottolineare gli economisti più avvertiti- soltanto funzioni secondarie, di routine ed assemblaggio, e rami e comparti d'industria a scarso contenuto innovativo sembrano essere stati trasferiti fuori dai luoghi tradizionali delle grandi concentrazioni urbano-industriali; in ogni caso non sono state trasferite "funzioni di comando", le quali, anzi, proprio grazie agli apporti delle nuove tecnologie (telematica etc.) possono più facilmente essere mantenute al centro (cfr. A. Cendali-T. D'Aponte, Fattori innovativi e caratteri di permanenza nella struttura dell’occupazione industriale nell’Europa comunitaria, in A. Segre (a cura di), Regioni in transizione. Aspetti e problemi della nuova geografia urbana e industriale, Milano, Angeli, 1985, pp. 111-155).

(15) Cfr., sul ruolo dell'Italia "urbana", C. Muscarà, Introduzione a J. Gottmann, La città invincibile, Milano, Angeli, 1987 (3), pp. 11-40.

(16) L.M. Lombardi Satriani, op. cit., p. 10.

(17) A.Signorelli, op. cit., p. 10.

(18) Ibidem.

(19) Anche sul piano strettamente economico, del resto, se non sembrano affatto superate e accantonabili le ipotesi di uno sviluppo meridionale che parta dalla creazione di un sistema agroindustriale delle sue aree interne (cfr. M.Rossi Doria, Scritti sul Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1982; M. De Benedictis, L'agricoltura nello sviluppo del Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 1980, etc.) e molti recenti contributi in questo senso si legano all'intervento della Comunità Europea (cfr. S.Monti, Sviluppo agricolo e comunità economica europea, in: Scritti in memoria di Alfonso Tesauro, Napoli, 1983, pp. 245-283; Svimez, Il Mezzogiorno nelle politiche regionali e comunitarie. Contributo della Svimez alla "Giornata del Mezzogiorno", con scritti di P. Baratta, S. Cafiero, G.G. Dell'Angelo, F. Pilloton, P. Saraceno, Milano, Giuffrè, 1982; Strategie di sviluppo per le industrie agro-alimentari nelle regioni mediterranee della Comunità Europea, Lussemburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 1985); pure molti autorevoli studiosi individuano nella città del Sud il nodo centrale da sciogliere per la ripresa dell'intera area: cfr., tra gli altri, F. Compagna, Mezzogiorno in salita. Dal chinino al computer, Napoli, Editoriale Nuova, 1980; A. Busca-L.Cuoco, Rapporto sulla politica delle città del Mezzogiorno, Napoli, Guida, 1980; P. Costa, Crescita urbana e sviluppo del Mezzogiorno, in: Sviluppo e crisi dell’economia italiana, Milano, Etas Libri, 1979; C. De Seta, Città, territorio e Mezzogiorno in Italia, Torino, Einaudi, 1977; Svimez, L’intervento nelle aree metropolitane del Mezzogiorno, scritti di S. Cafiero, D. Cecchini, R. La Barbera, F. Merloni, P. Urbani, Milano, Giuffrè, 1981; T. D'Aponte, Evoluzione delle strutture insediative/insediamenti e divisione internazionale del lavoro, in: Dal Mezzogiorno all’Europa, cit., pp. 193-200; C. Fulci-R. Laganà, Tecnologia e ambiente urbano nella città meridionale, Milano, Gangemi, 1980.

(20) F. Sidoti, op. cit., p. 211.

(21) P. Ferraris, I cento giorni di Reggio Calabria, "Giovane critica", n. 15, 1971, p. 17, passim.

(22) F. Sidoti, op.cit., p. 212, passim.

(23) Op. ult. cit., p. 213. "A Reggio Calabria -continua Sidoti- alla fine degli anni sessanta la 'ndrangheta continuava a svolgere le funzioni di intimidazione e di controllo che aveva storicamente svolto nella società contadina. Esistevano tentativi di penetrazione nelle più moderne strutture sociali e politiche, ma venivano contrastati con una decisione inimmaginabile se confrontata con quanto sarebbe avvenuto alcuni anni dopo. Ancora nel 1969 l'Unione Industriali di Reggio Calabria poteva approvare un perentorio ordine del giorno contro la criminalità organizzata, ma nel giro di pochi anni sarebbero stati capovolti i rapporti di forza tra tutti i centri di potere locale".

(24) Ibidem.

(25) In parte coincidenti, in parte significativamente diversi, appaiono -come avremo modo di vedere più oltre- gli attuali modelli di riferimento di mafia e 'ndrangheta.

(26) I. Sales, La camorra massa: caratteristiche organizzative e radici sociali, "Osservatorio sulla camorra", n. 5, 1987, pp. 42-43.

(27) Cfr., per es., P. Sylos Labini, L’evoluzione del Mezzogiorno negli ultimi trent’anni, "Studi Svimez", n. 1, 1985.

(28) Cfr. il ponderoso volume del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), Mafia, camorra, ‘ndrangheta, delinquenza organizzata. Anzitutto conoscere, Roma, Ediesse, 1984, ed i numerosi saggi in argomento apparsi sull'"Osservatorio sulla camorra", tra cui C. Varriale, Aggressività e "desiderio di autorità" a Secondigliano ("Oss. cam"., n. 5, 1987, pp.79-100), veramente illuminante.

(29) Cfr. R. Hofstader, Social Darwinism in American Thougth 1860-1915, New York, Braziller, 1969.

(30) R.E. Park, L’organizzazione della comunità e la delinquenza minorile, in: R.E. Park-E.W. Burgess-R.D. McKenzie, The City, Chicago, The University of Chicago Press, 1925; trad. it.: La città, Milano, Edizioni di Comunità, 1979, p. 97.

(31) R.E. Park, La città: indicazioni per lo studio del comportamento umano nell’ambiente urbano, in: La città, cit., p. 42.

(32) Cfr. ancora F. Sidoti, op.cit., pp. 29 ss.

(33) Si vedano, ad esempio, i lavori di F. Trasher, The Gang, Chicago, The University of Chicago Press, 1927; L. Wirth, The Ghetto, Chicago, The University of Chicago Press, 1928; H. Zorbaugh, The Goald Cost and the Slum, Chicago, The University of Chicago Press, 1929; C. Shaw-H. McKay, Juvenile Delinquency and Urban Areas, Chicago, The University of Chicago Press, 1942. Ultimamente, il Parlamento Europeo ha dedicato un’attenzione crescente alla microcriminalità negli agglomerati urbani, approvando nella seduta del 16 dicembre 1993 una risoluzione in materia. Cfr. in poposito la Relazione di appoggio alla risoluzione proposta da H. Salisch., vicepresidente della Commissione per le libertà pubbliche e gli affari interni (Le aree urbane europee tra crimine e prevenzione, "narcomafie", n. 2, 1994).

(34) Cfr. F. Turati, Il delitto e la questione sociale. Appunti sulla questione penale, Milano, 1883; e E. Ferri, Sociologia criminale, Torino, Bocca, 1900 (2).

(35) Cfr. ancora Sidoti: "Ovviamente, povertà, devianza, criminalità non sono fenomeni concatenati in maniera meccanicistica e deterministica: si può esser poveri e puri, e sono onesti la stragrande maggioranza di coloro che vivono con un reddito inferiore alla media. Additarli come probabili criminali sarebbe fare loro un altro torto dopo quelli già subiti per una costellazione maligna di fattori causali. È inoltre chiarissimo che esistono sia forme di devianza e di criminalità che sfuggono alle statistiche ufficiali, sia forme di devianza e di criminalità messe in pratica da persone con alti redditi, che non hanno mai conosciuto personalmente la miseria (la cosiddetta criminalità dei colletti bianchi)" (op. cit., p. 10).

(36) M. e R. Friedman, La tirannia dello status quo, cit. in F. Sidoti, op. cit., p. 235.

(37) R.E. Park, Human Comunities, New York, The Free Press of Glencoe, 1952, pp. 13-51; cit. in F. Sidoti, op. cit., p. 30.

(38) Ci occuperemo di "privazione relativa" più avanti.

(39) A. Signorelli, op. cit., p. 30.

(40) Cfr. F. Sidoti, op. cit., p. 272.