CAP. I

ORIGINI ED EVOLUZIONI DELLE CONCENTRAZIONI

CRIMINALI NEL MEZZOGIORNO D'ITALIA

 

  

 

1.

Le origini dell’insediamento della mafia e della camorra: matrici culturali, contesti sociali e strategie politiche

Volendo provare a isolare gli archetipi e gli stereotipi del fenomeno criminale nel Mezzogiorno d'Italia nel XIX e nel XX secolo, ci si imbatte in un primo e non lieve problema. Quello della partizione originaria tra: (i) gli stilemi e i moduli classificatori con cui il fenomeno è stato indagato e (ii) le forme reali e i modelli differenziali che esso ha storicamente, socialmente e culturalmente assunto. Non sempre le classificazioni simbolico-culturali prevalenti e/o ricorrenti hanno dato ragione della sua corposità, della sua sfaccettatura e della sua effettiva trama. Più spesso, si sono dovute registrare rappresentazioni ideologiche che lo hanno progressivamente svuotato di senso materiale, fino a sospingerlo nel circolo della mass-mediazione e della spettacolarizzazione. Una volta immesso in tale circuito, è stato per intero ridotto a minaccia, a questione di allarme sociale, a grave fattore di turbativa della sicurezza e dell'ordine politico-sociale.

Non che esso non rappresenti un grave attentato alla sicurezza, alle regole del gioco democratico e del civile convivere; anzi. Ma è anche qualche cosa di profondamente diverso, più complesso e intimamente radicato nella storia civile e sociale del Mezzogiorno. Nello stesso tempo, è qualcosa di più e di ancora più pericoloso; non foss'altro perché non è separabile dalla storia d'Italia e d'Europa di questi ultimi cinquecento anni. Ridurlo a elemento di diffusione del panico sociale, introduce nell'inconscio individuale e collettivo, nell'immaginario pubblico e privato delle gravi fratture. Si ledono, così, le capacità di una sua comprensione analitica e articolata, alimentando pericolosi processi di semplificazione storico-politica e socio-culturale che finiscono inevitabilmente col generare fenomeni di demonizzazione simbolico-culturale e forme di razzismo.

Non si tratta di problema che attiene soltanto alla risposta istituzionale ai processi di dilatazione e diffusione del crimine; ancora di più, è questione che pertiene ai comportamenti sociali, alle culture e alle modalità con cui la comunità affronta razionalmente il problema. Cercare di sezionare tracciati di analisi che tentino di avvicinarsi agli archetipi e stereotipi che hanno, in un qualche modo, presieduto alla lettura dell'evoluzione e della trasformazione delle forme di espressione del crimine nel Mezzogiorno è, perciò, questione assai vitale.

Le chiavi con cui, in generale, la criminalità del Mezzogiorno è stata in questi ultimi venti-trent'anni scandagliata e classificata, grosso modo, si sono articolate secondo tre approcci generali:

a) la lettura culturalista, per la quale l'insorgenza e l'esplosione del crimine sarebbero, nel Mezzogiorno, un fatto antropologico collegato alle culture d'origine locali;

b) la lettura imprenditorialista, per la quale il salto di qualità del crimine, nel Mezzogiorno d'Italia, starebbe tutto nel passaggio alla "grande impresa" criminale, allocata sul mercato finanziario come "legittimo" soggetto economico;

c) la lettura politicista, per la quale il grande crimine organizzato meridionale sarebbe una sorta di "Stato nello Stato" e di "Stato contro lo Stato", in un singolare rapporto di simbiosi e conflitto con le istituzioni detentrici della risorsa autorità.

Ognuno di questi approcci ha dato luogo a una copiosa e, ormai, affermata letteratura; proponendo, altresì, interessanti elementi di indagine e di riflessione, a cui non mancheremo di fare riferimento nella prosecuzione del nostro discorso. Sul piano dell'analisi rigorosa delle strutture generali e particolari del problema, non si può, però, dire che tali approcci abbiano prodotto una delineazione corretta ed esauriente del campo delle questioni. Al contrario, spesso, hanno contribuito ad alimentare ulteriormente le zone della confusione, fornendo, ognuno a suo modo, letture troppo riduttive, per eccesso di empiricità o per eccesso di astrattezza. Un difetto di teoreticità si è accompagnato con un difetto di storicizzazione e di scientificità dell'analisi. Le linee d'ombra sono state accentuate dalla circostanza che i tre approcci prima descritti, non di rado, hanno trovato dei punti di convergenza sul piano delle "terapie", pur essendo e rimanendo nettamente divisi sul piano delle "diagnosi". Ciò perché rimangono ancorati, nonostante le diversità, a comuni e inadeguati stereotipi e archetipi culturali (appunto); sia per quanto concerne la figura del criminale (meridionale) che per quel che riguarda il fenomeno storico-sociale della criminalità (meridionale), a lato della loro valenza politico-sociale.

Soprattutto di fronte a risultanze non sempre soddisfacenti e congrue sul piano storico e scientifico, campeggia più che mai l'esigenza di uno scandaglio critico intorno agli archetipi e agli stereotipi di approccio. Il presupposto ermeneutico-metodologico da cui partire è stato, alcuni anni fa, precisato da D. Chapman: "... gran parte del lavoro dei sociologi nel campo della criminologia è inutilizzabile proprio perché essi partono da definizioni – gli stereotipi, appunto – che pregiudicano fin dall'inizio il corso e i risultati dell'indagine".

Questo non significa che nelle ricognizioni storico-ermeneutiche dobbiamo rinunciare all'uso funzionale e flessibile di archetipi e di figure/condizioni tipiche; più esattamente, dobbiamo ricavarli dalla realtà, anziché calarli su di essa dall'esterno. E non significa nemmeno la ricaduta nell'empiria volgare, in un malinteso primato della prassi; più propriamente, sottolinea l'esigenza ineludibile di un raccordo costante tra le categorie analitico-interpretative e le realtà oggetto di indagine, senza stabilire tra di loro nessi gerarchici.

Cominciamo con l'aggredire l'idealtipo del mafioso.

Come è sin troppo noto, esiste una rappresentazione simbolica del "mafioso buono" che ha, in un certo senso, costruito la tradizione e l'ideologia interpretativa della subcultura mafiosa come cultura dell' "onorata società" e/o dell'"onore". Si è, così, andati procedendo all'invenzione di una tradizione, la quale ha, a sua volta, prodotto una memoria. I codici dell'onore, ideologicamente ricavati e ideologicamente contestualizzati, hanno costituito i mezzi di diffusione e di comunicazione generalizzata di una tradizione e di una memoria non conformi ai processi reali. Attraverso queste condotte e queste chiavi di lettura, si è prodotta una rottura nell'effettiva memoria storica e nell'effettiva tradizione, ricoperte da strati semantici fuorvianti di seconda natura: le vie d'accesso ai luoghi dell'origine e ai punti di svolta delle trasformazioni sono progressivamente risultati offuscati e interdetti. L'inibizione ai luoghi dell'origine è stata assicurata, in determinazione ulteriore, dallo schema binario che ne è conseguito, consistente nella rappresentazione mitopoietica spuria della supposta contrapposizione "mafia buona"/"mafia cattiva". Questo rattrappimento ossificante degli strumenti ermeneutici si è, a sua volta, agganciato ai modelli interpretativi macrosociologici di derivazione positivista e neopositivista, imperniati sulle dicotomie Sì/No, buono/cattivo, semplice/complesso, rurale/urbano, statico/dinamico, locale/globale, comunitario/statuale, pubblico/privato, sviluppo/sottosviluppo e via discorrendo. Accanto e contro una mafia "buona" si è ricostruita mistificatoriamente una mafia 'cattiva"; accanto e contro una mafia "statica", una "dinamica"; accanto e contro una mafia "rurale", una "urbana"; e così via. Si è smarrito completamente il carattere sincronico/diacronico della genesi, dello sviluppo e delle trasformazioni del fenomeno, privilegiando unilateralmente ora gli aspetti e gli elementi di "rottura" (l'approccio imprenditorialista); ora quelli di "continuità" (l'approccio culturalista); ora quelli di "commistione sciagurata" e più o meno organica con le istituzioni (l'approccio politicista).

In realtà, fin dall'inizio, comportamento e paradigma mafiosi sono stati profondamente imbevuti di violenza. Anzi, le forme di espressione del fenomeno mafioso risultano inspiegabili, se non vengono lette anche come particolare dislocazione e diffusione dei codici della violenza. Ricomposizione culturale e declinazione territoriale dei codici dell'"onore" e dei codici della violenza costituiscono uno dei tratti distintivi dell'esperienza insediativa della mafia e del paradigma mafioso. "Onore" senza violenza e violenza senza "onore" sono quanto di più lontano è dato immaginare dalle realtà materiali, dalle codificazioni simboliche e dalle culture diffuse della mafia, della camorra e della 'ndrangheta, per quanto ognuno di questi tre fenomeni conservi una sua propria specificità e un proprio processo storico di formazione e trasformazione. È proprio la miscela di "onore" e di violenza, nelle sue determinazioni e rideterminazioni storiche, nelle sue rielaborazioni socio-culturali e nelle sue mutevoli traduzioni organizzative, che costituisce il sistema generatore e rimodellatore del rapporto che mafia, 'ndrangheta e camorra intrattengono con i circuiti e le élites della politica, sin dalla loro nascita e con modalità mai identiche.

Il sostrato ideologico, simbolico e culturale della riproduzione politica della mafia, della ‘ndrangheta' e della camorra sta nella declinazione mutevole del nesso "onore"/violenza. È questo nesso l'anima sovrana della politica e delle strategie politiche delle grandi organizzazioni criminali. Le categorie politiche, per così dire, della mafia si radicano a questo livello di profondità; e di questo livello rappresentano la ricategorizzazione e la storicizzazione. In ragione di questa decisiva circostanza, la storia politica della mafia non può essere scissa dalla storia politica e sociale dell'Italia e del Mezzogiorno. Alle costellazioni "mafia e storia","mafia e società", "mafia e cultura" si deve affiancare la costellazione mafia e 'politico', non come precipitato ultimo; bensì come una delle connessioni causali originarie. Le strategie politiche della mafia sono una sottoespressione e, allo stesso tempo, una perversione estrema dei codici politici, in relazione ai quali stanno in un rapporto di simmetria e di complementarità. Le debolezze del 'politico' diventano la forza delle strategie mafiose; la forza del 'politico' è la debolezza delle strategie mafiose.

Il 'politico' ha per sua configurazione e natura una struttura dilemmatica, a partire dal fatto atomico elementare che tanto può fungere quale sistema dei mezzi/fini della libertà, quanto può essere depravato e strumentalizzato al servizio delle peggiori tirannidi. L'ancoraggio del 'politico' sugli interessi costituisce il circuito politico su cui, nelle democrazie pluraliste e corporate, i gruppi di interesse mafiosi innestano i processi della loro modernizzazione; per contro, la coniugazione del 'politico' in termini di libertà, democrazia e partecipazione delinea il più alto livello della critica positiva alla mafia, ai suoi codici e ai suoi paradigmi. La circostanza massimamente negativa è che in Italia, soprattutto con riferimento al Mezzogiorno: (i) particolarmente intensi sono stati i processi della produzione dei gruppi di interesse e delle élites politiche; (ii) assai contraddittori e parziali i processi di allargamento e socializzazione della democrazia. La grande criminalità organizzata ha, conseguenzialmente, potuto mettere a frutto il repertorio di tutte le debolezze del 'politico', senza, peraltro, rimanere corrosa adeguatamente e adeguatamente neutralizzata dai suoi potenziali poietici e sociali costruttivi. Ciò è risultato particolarmente evidente nella fase della "democrazia di massa", in cui essa ha potuto far uso di tutti gli strumenti della democrazia politica ed economica ai fini delle sue strategie di potere. La struttura delle trasformazioni politiche ha avuto un ruolo determinante nella mutazione delle strutture del fenomeno criminale, non meno della struttura delle trasformazioni culturali e socio-economiche. Il punto è proprio questo: una sufficientemente adeguata chiave di lettura dei processi di mutamento del Mezzogiorno d'Italia nel XX secolo, soprattutto dal secondo dopoguerra in avanti, deve necessariamente essere multidimensionale, accogliendo e rielaborando al suo interno tanto categorie e codici interpretativi antropologico-culturali che politici e socio-economici; tanto più deve necessariamente essere multidimensionale la lettura del fenomeno della criminalità nel Mezzogiorno d'Italia.

L'innalzamento dell'"onore" a baricentro dei sistemi culturali della mafia ha una storia antica e risale alle elaborazioni di G. Pitré, peraltro su altri punti di estremo interesse, il quale verso la fine dell'Ottocento centra il "comportamento mafioso" sull'accumulazione dell' "onore" a mezzo dell'esercizio della violenza individuale. I sistemi dell'"onore" creerebbero i "sistemi degli uomini d'onore"; come dire: l'élite mafiosa è élite di "uomini d'onore". L'esercizio della violenza finalizzato all'accumulo dell'"onore" ha, in questa posizione, una conseguenze politica assai importante: l"onore" istituzionalizza la violenza mafiosa come potere. Si apre qui un doppio circuito di reciprocità funzionali: (i) legittimazione del potere attraverso l'"onore"; (ii) consolidamento dell'"onore" attraverso il potere. Su questo doppio circuito viene eretto il processo della rappresentanza mafiosa, incrocio funzionale di violenza, "onore" e potere. I meccanismi di tale processo, sempre secondo questa posizione, sarebbero stati attivati e lubrificati dalla formazione dello Stato unitario, a partire dalla quale più drammatica si sarebbe fatta la cesura tra "modernità" mercatistica e statalistica e "arcaicità" dei contesti e dei paradigmi della "Sicilianità"; fino ad arrivare alla delega, da parte dello Stato unitario, del monopolio della violenza legittima alle élites (mafiose) locali.

Questa ricostruzione storico-politica presenta più di una smagliatura.

Innanzitutto, la formazione del fenomeno mafioso risale a un'epoca antecendente al 1860, le cui prime manifestazioni possiamo rinvenire nella setta settecentesca dei "Beati Paoli", vero e proprio archetipo dell'"onorata società"; setta dedita alla pratica della violenza e dell'omicidio per fini di "giustizia" e di "onore" secondo l'ideologia della difesa dei "deboli" contro i "forti''. Similmente avviene per la camorra, la cui prima formazione possiamo far risalire al Cinquecento e Seicento nelle carceri napoletane e che perviene ad una diffusione su scala territoriale, come organizzazione delinquenziale, già nell'età della Restaurazione. È proprio al Cinque-Seicento che va fatta risalire la gestazione di quelle tradizioni, successivamente incorporate nei codici culturali della camorra, sul carattere "immunitario" dei poteri popolari; tradizioni che, nel corso della "rivolta antispagnola" del 1647-48, trovano nella figura storica di Masaniello (successivamente nel suo mito) e nel "culto della Madonna del Carmine" i canali di espressione più duraturi e significativi.

Verso la fine del XIII secolo, continuando nella nostra ricostruzione, possiamo ben dire di trovarci di fronte all'incubazione del fenomeno della protomafia, consistente nella diffusione della pratica da parte dei nobili locali di assoldare al loro servizio, per esigenze di difesa e di potere, bande di ladri, malfattori e assassini. Ancora più avanti, tra il 1870 e il 1880, rinveniamo un ancora più organico archetipo di organizzazione mafiosa: si tratta dell'associazione segreta "La Fratellanza", dedita all'uso della violenza, a rapine, estorsioni e omicidi. Ci troviamo, dunque, di fronte a un secolare processo di "accumulazione originaria" della mafia; processo che funge da base storica e politica per la sua istituzionalizzazione armata che avviene da parte dello Stato unitario, il quale, per fini di pubblica sicurezza, si avvale della collaborazione di "compagnie d'armi" formate da banditi. Anche sotto questo riguardo sorprendenti sono le analogie che registriamo con la camorra. È ben nota, difatti, la cooptazione, operata nel 1860 dal prefetto di polizia Liborio Romano, di banditi nella "guardia cittadina": "aspettando Garibaldi" e i plebisciti; altrettanto nota è la repressione successiva, in applicazione delle leggi eccezionali contro il brigantaggio. Il potere mafioso e quello camorristico, allora si costruiscono in parallelo col processo di formazione dello Stato unitario: ne sono, ovviamente, condizionati; ma non ne costituiscono assolutamente il ricalco perverso, né il sottoprodotto causale.

Questo è particolarmente evidente nel caso della mafia: essa, ancora prima che sul processo di costituzione dell'unità nazionale, si innesta sull'esperienza delle lotte rivoluzionarie avvenute in Sicilia negli anni '20, '40, '50 e '60 dell'Ottocento. L'intreccio tra "violenza rivoluzionaria" e "delinquenza organizzata" è reperibile già nei moti palermitani degli anni '20, che molti non hanno esitato a definire "guerre" e/o "guerriglie di popolo"; da taluno classificate come espressione di conservazione politica e sociale, "reazione feudale" al liberalismo; da altri – e più correttamente – come precipitato assolutamente moderno delle contraddizioni del contesto socio-economico dell'isola. Secondo l'interpretazione di Giarrizzo, che allo stato delle ricerche pare la più condivisibile, il "banditismo politico" della Sicilia interna, dal '20 al '60, va inclinando più verso il "codice mafioso" che verso il "banditismo politico". Sicché esatta pare la conclusione di P. Pezzino: "Subito dopo la dissoluzione del potere feudale la Sicilia sembra quindi sperimentare, sul terreno specifico dell'utilizzazione della violenza, un processo di modernizzazione, nel senso di un'autonomia di ceti e classi rispetto a consolidate gerarchie e subalternità verso gli aristocratici". Il che conduce – hobbesianamente – alla privatizzazione dell'esercizio della violenza tra gruppi tra di loro contrapposti: l'alzo di violenza da parte dei gruppi privati organizzati testimonia la soglia pubblica del loro potere e, nello stesso tempo, configura materialmente la lotta per il potere come competizione violenta. La circostanza, già nel 1875, è acutamente colta da Franchetti: "La violenza privata non trova contro di sé che altre violenze private, e non incontra nella società alcuna forza collettiva diretta a combatterla... In generale il diritto ha per unico criterio la forza, invece di quelli che lo determinano nelle società moderne. E così, l'uso della violenza è libero in chi ha i mezzi di valersene, il patrimonio pubblico e l'opera e l'autorità pubblica sono volti a profitto di pochi". Su questo retroterra storico e su questo humus culturale la mafia, come ancora Franchetti coglie felicemente, si costituisce come industria della violenza che persegue interessi suoi propri; smettendo di essere puro e semplice strumento al servizio delle forze sociali e politiche locali egemoni. È da questo livello di costituzione e di sviluppo della sua relativa autonomia che la mafia si incontra con lo Stato unitario; ed è con un soggetto relativamente autonomo che si imbatte il giovane Stato unitario italiano. La mafia è figlia della crisi dei rapporti feudali e, nel contempo, delle particolari forme di liberalismo sperimentate prima dai Borboni e poi dallo Stato unitario nel Mezzogiorno e, particolarmente, in Sicilia: è il prodotto delle cause e degli effetti di una crisi sociale che rimane senza adeguata risposta pubblica. A fronte di tale crisi sociale si libera una miscela terribile di "violenza privata" e "violenza politica", la quale diventa via via più esplosiva, a misura in cui lo Stato liberale tarda od omette di proporre concrete ed efficaci "ipotesi di sviluppo". Il quadro hobbesiano, predisposto negli anni precedenti e dentro cui abbiamo visto territorializzarsi una moderna lotta per il potere, si prolunga e modifica in contestualizzazioni ancora più drammatiche: la lotta ha ora per posta il controllo della nuova organizzazione statale. E proprio sul terreno del controllo dell'organizzazione ordinamentale e istituzionale dello Stato unitario si incontrano le élites politiche nazionali e le élites politiche dell'isola. L'inserimento delle classi dirigenti locali nella struttura politico-amministrativa del nuovo Stato porta in esso la presenza di quei gruppi organizzati locali che sull'esercizio e accumulo di violenza sono andati costruendo il loro potere. Come osserva Pezzino, l'"incontro con la politica" fa da apripista per la cooptazione delle classi dirigenti siciliane nel nuovo Stato e, nello stesso tempo, apre lo scontro tra Stato ed élites regionali.

Particolarmente lucida e chiara è la ricostruzione storico-politica che dell'origine della mafia fornisce Gabriele Colonna Romano, duca di Cesarò e Fiumedinisi, nonché deputato d'Aragona, nella deposizione resa l'1/12/1875 per l'Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876). Ecco, in sintesi, le sue puntualizzazioni:

a) la mafia è un'"eredità del liberalismo Siciliano", nella fase della "crisi del feudalesimo", la quale ha dato inizio ad una "lotta implacabile" tra le élites siciliane e i Borboni;

b) nel corso di questa lotta si realizza una "stretta unità" fra le varie classi sociali dell'isola; unità che dopo il 1860 comincia a conoscere vistosi segnali di affievolimento, venendo meno il "lievito della comune opposizione";

c) in tutta la fase che va dal 1814 al 1848, le aristocrazie locali non hanno mai riconosciuto pienamente la legittimità del potere dei governanti, tanto da "organizzare una forza che stava attorno a loro"; forza della quale si sono sempre serviti per "farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo" e "ogni qualvolta si è dato il segnale della rivoluzione";

d) classe proprietaria, classe nobile e classe colta, nel contrasto dell'egemonia dei Borboni, divengono una cosa sola, nel senso che gli attributi dell'una sono anche attributi delle altre;

e) con il raggiungimento dell'unità dello Stato si crea un nuovo ordine politico e sociale, dentro il quale l'elite locale trova, in un qualche modo, appagate le sue "aspirazioni politiche e quindi non ha creduto più di aver bisogno di tenersi stretta a questa classe di facinorosi";

f) la nuova classe di "facinorosi" non trovando, come immaginava e sperava, uno sbocco o un appagamento nel "trionfo della rivoluzione", finisce preda della più crudele "disillusione", ritirandosi in attesa di un "compenso" che non arriverà mai;

g) si forma, così, il ceto dei mafiosi: "precisamente quelli che erano il braccio più efficace nel 1860, quelli che erano i più fedeli ed i più devoti alla parte intelligente. Questi appunto sono il nucleo principale della mafia a Palermo".

Se la genealogia della mafia che si è tratteggiata in queste pagine ha fondamento, se ne deduce che, sin dall'inizio, la ricaduta diretta dei "circuiti mafiosi" sui "circuiti politici" è meno condizionante di quello che a tutta prima può sembrare. Nel senso che la mafia ( e, in generale, i grandi poteri criminali) non hanno come loro programma l’abbattimento o il rovesciamento del sistema di potere dato; piuttosto, tendono a convivervi e a stabilire con esso una relazione di pattegiamento e di competizione, attraverso i codici della mediazione violenta; come avremo modo di vedere meglio nello sviluppo della discussione. Codice e potere mafiosi hanno una formazione e uno sviluppo autonomi e paralleli in confronto alla formazione e allo sviluppo dello Stato unitario. Quest'ultimo, fin dal principio, si trova costretto a confrontarsi con una soggettualità criminale autonoma, portatrice di un'istanza di potere e di organizzazione territoriale niente affatto coincidente o subordinata alle strategie politiche espresse dalle istituzioni pubbliche unitarie. A mano a mano che le élites politiche e culturali regionali vengono integrate nel corpo del nuovo Stato e delle sue istituzioni decentrate, la relazione tra élites politiche ed élites mafiose subisce una rilevante cesura interna. Da un lato, il "cristallo mafioso" viene posto in una relazione di esternalità rispetto ai luoghi centrali dei circuiti politici; dall'altro, le élites politiche regionali portano nelle articolazioni degli ordinamenti e delle strutture statuali periferiche il tasso di "violenza privata" e di "violenza politica" accumulato in tutto l'Ottocento, nella contrapposizione generale al potere dei Borboni. L'esercizio del monopolio della violenza legittima da parte dello Stato unitario si avvale dell'integrazione delle élites politiche locali. L'integrazione, a sua volta, procede emarginando le élites mafiose, le quali non hanno altra scelta, per sopravvivere, che quella di consolidare la loro propia autonomia, in un rapporto di confliggenza tanto rispetto al nuovo Stato unitario che nei confronti delle élites locali, di cui fino, ad allora, sono state espressione organica. Il dispositivo hobbesiano di accumulo e dispiegamento di "violenza privata" e "violenza politica", che abbiamo visto in scena con virulenza in tutta la fase pre-unitaria, si contestualizza secondo più linee di azione.

Il processo dell'integrazione politica nelle strutture del nuovo Stato si enuclea a tutto svantaggio dei processi dell'integrazione sociale: i processi dell'inclusione e della rappresentanza politica si divaricano dai processi della inclusione e della rappresentanza sociale. La "cittadinanza politica" si risolve nella cooptazione delle élites del potere e nell'esclusione della "cittadinanza sociale", la cui rappresentanza viene, di fatto, lasciata nelle mani dei processi di autonomizzazione delle formazioni mafiose. Oggettivamente le formazioni mafiose vanno a occupare i terreni della mobilità sociale lasciati completamente scoperti dall'accordo di potere tra Stato unitario ed élites politiche locali. Da questa posizione di relativa autonomia politica e congruenza sociale, essa può conflittualmente dialogare sia con lo Stato unitario e le élites politiche locali, sia con i livelli dell'azione popolare che trovano espressione nel tessuto e nel contesto storico della Sicilia. Messa ai margini dello spazio politico, la mafia si trova ad occupare una posizione di centro nello spazio sociale. Ed è con la sua centralità sociale che Stato ed élites politiche devono fare i conti: vi fanno ricorso solo e sempre per questioni di regolazione sociale; non certo per delegarvi il monopolio della violenza legittima. Attraverso le condotte della regolazione sociale per "via mafiosa", Stato unitario ed élites politiche pongono in essere una sorta di integrazione laterale. Occluso il canale dell'integrazione politica, rimane aperto quello della cointeressenza al mantenimento dei quadri di controllo sociale dell'ordine dato. Separatisi sul terreno della politica alta, Stato, élites politiche e formazioni mafiose si reincontrano su quello delle politiche sociali di controllo del territorio, in funzione antimobilitazione e antipartecipazione. Ma, su questo piano, sono ora poteri completamente autonomi e, non di rado, ostili. Quella della mafia "padrona dello Stato" e quella dello Stato "gran burrattinaio" della mafia sono letteralmente due invenzioni tra di loro speculari che non trovano assoluto riscontro nella realtà storica: su di esse i "paradigmi politicisti" hanno basato la loro fortuna e la loro tenuta, mandando in cortocircuito le pur positive acquisizioni a cui pervengono. Il rapporto Stato, élites politiche e formazioni mafiose è assai complesso e articolato; soprattutto, si caratterizza per la mutevolezza storica delle sue modalità di espressione. Queste ultime vanno analizzate, calandole e misurandole nella contingenza storico-politica in cui, di volta in volta, trovano attuazione. Niente di più fuorviante che pensare di ridurle a schemi di classificazione universali, dati una volta per tutte. Ciò che figura come costante è soltanto quella realtà storica, ripetutamente e regolarmente sperimentata, che ci testimonia come i "punti di intesa" tra Stato, élites politiche e formazioni mafiose non eliminano le reciproche divergenze conflittuali di fondo; come i conflitti irredimibili non interdiscono, per ciò stesso, la possibilità di pervenire ad accordi limitati intorno ad interessi convergenti. Gli ambiti delle divergenze e delle convergenze vanno, dunque, situazione per situazione analizzati e circoscritti, secondo le forme storico-politiche entro cui si manifestano. Questa regolarità a movenze alternate la possiamo riscontrare dalla cooptazione dei mafiosi in funzione di "ordine pubblico" alla applicazione delle leggi eccezionali contro il brigantaggio fino alla legislazione antimafia dei giorni nostri; da Portella della Ginestra fino agli omicidi Mattarella/Chinnici/La Torre/Dalla Chiesa/Falcone/Borsellino, per fare degli esempi che si allungano fino all'attualità. È sul terreno della creazione e gestione della "clientela" che Stato ed élites politiche, da un lato, e formazioni mafiose, dall'altro, entrano in asperrima competizione; sempre sul terreno del controllo delle "clientele" subentrano non lievi contraddizioni e ragioni di conflitto tra Stato ed élites politiche locali. Strettamente correlati ai processi di formazione delle "clientele politiche" sono i fenomeni della mobilitazione popolare nell'isola. Tra le altre cose, il ciclo di lotte sociali e socialiste rappresentato dai "fasci Siciliani" (1892-94) impone a tutti i "gruppi clientelari", a tutte le élites politiche locali e a tutte le formazioni mafiose una completa ridefinizione della loro "politica di massa", nella ricerca di un rapporto più stretto e organico con gli strati sociali popolari, per poter rilanciare, consolidare e massificare le loro presenze e quote di potere. Si coaugula qui quel "fronte interclassista" della mobilitazione politica e sociale entro cui Stato, élites politiche e formazioni mafiose cercano conferme e crescite di legittimità e di potere, secondo strategie politiche assolutamente non omogenee tra di loro; "fronte" che insiste su tutto l'arco del sistema rurale-urbano locale. Viene smentita, proprio a fronte di queste evidenze storiche, la presunta origine rural-latifondista della mafia, quale mitica emanazione della figura del "gabellotto". Il sistema territoriale Siciliano, già nella fase pre-unitaria, ha una struttura di insediamenti urbani diffusi, in un rapporto di forte interconnessione con i nuclei rurali; del resto, è l'intero paesaggio meridionale ad avere una connotazione rurale-urbana. Il sistema territoriale rurale-urbano dell'isola, con i suoi contesti socio-economici e storico-culturali, è investito dai processi di insediamento, di autonomizzazione e diffusione delle formazioni mafiose. La commistione di "violenza privata" e "violenza politica", accumulata in tutto il primo cinquantennio dell'Ottocento, nella fase post-unitaria esplode anche come estrema privatizzazione e polverizzazione dei conflitti, quanto più i fenomeni della mobilità sociale e della rappresentanza politico-sociale sono risospinti dallo Stato unitario entro cerchie estremamente selettive, se non asfittiche. L'insediamento mafioso prolifera proprio a lato della privatizzazione e polverizzazione dei conflitti: come estesi a tutto il tessuto socio-territoriale dell'isola sono i fenomeni della privatizzazione e polverizzazione violenta dei conflitti, così esteso a tutto il tessuto socio-territoriale dell'isola è l'insediamento mafioso. Il "rapporto sinallagmatico" che qualifica i flussi relazionali delle clientele, conferendo loro un pronunciato carattere di "reticolo interclassista'', trova particolare recezione e particolare coniugazione da parte delle formazioni mafiose.

La sostanza dell'essere mafioso è, secondo Block, quella di svolgere la funzione di "mediatore di potere". Precisa Pizzorno, sulla base di questo assunto: la mediazione di potere mette in campo e in codice un idealtipo secondo cui i "ruoli professionali" mafiosi si estrinsecano come uso della violenza; il che consente al "mediatore violento" di fornire servizi per "collegare" la "realtà locale" con le "realtà esterne", rappresentate dallo Stato, dalla città, dal mercato o da altre "realtà locali". La frattura tra "realtà locale" e "realtà esterna" è una delle condizioni base della proliferazione della formazione mafiosa e del suo, per così dire, "mandato di legittimità", a misura in cui essa assicura la ricomposizione della cesura, secondo le sue strategie e le sue finalità/necessità. La mediazione di potere mafiosa attraverso la violenza assicura i "collegamenti" nello scomposto e frammentato tessuto socio-territoriale locale e oltre i suoi confini. Una volta di più, l'élite mafiosa si colloca in una posizione di centro del contesto sociale regionale. È la verticalità della modernizzazione dei poteri, così come decentrati dallo Stato unitario nel Mezzogiorno, che consente all'élite mafiosa di occupare tale posizione strategica: "ll potere autonomo della mediazione mafiosa si innesta sui processi di modernizzazione in corso: sulla loro verticalità. Processi che soprattutto nel Sud vanno sempre più caratterizzandosi con un alto tasso di dirigismo e di verticismo politico-istituzionale. L'attività economica stessa, al Sud, soggiace in misura cospicua a direttive, vincoli, compatibilità, agevolazioni, concessioni, ecc. formulate dall'alto dall'amministrazione pubblica. Ne consegue che il rapporto tra "centro" e "periferia" rimane impigliato, in parte cospicua, nella rete dell'assistenza e della protezione sussidiata, facendo venir meno organiche interrelazioni fatte di "economie scalari", di sistemi e di sottosistemi di trasmissione e articolazione comunicativa. Alla base, larghe fette di cittadinanza rimangono non solo e non tanto prive di effettiva rappresentanza politica, quanto spossessate di una mediazione attivante i loro diritti e garante dei loro interessi. Questa la base storico-sociale che consente all'agglomerato mafioso di porsi come mediatore di violenza in vista dell'esercizio di una perversa forma di potere pubblico altrimenti inattingibile".

La questione del verticismo e dell'eccesso di centralismo delle istituzioni politiche unitarie è rilevata per tempo da un acuto commentatore dell'epoca: "L'estrema centralizzazione che pesa sulla vita della nazione fa della maggior parte degl'italiani dei clienti dello Stato ed è il deputato che serve da intermediario fra loro". Siffatta situazione asseconda oltremodo la germinazione di sistemi clientelari, sulla vigenza dei quali si sviluppano reti di relazioni gruppuscolari tenute in piedi unicamente dall'interesse di ceto, di professione, di parentela, di carriera e promozione sociale, di benessere economico, di voto, etc. In linea generale, il sinallagma clientelare è una particolare forma di espressione di scambio politico, con modalità di manifestazione diverse; a seconda che si concretizzi in aree di forte integrazione politica e sviluppo economico, oppure in territori dove l'accesso alla politica è limitato e il livello di sviluppo economico è arretrato. Nel Mezzogiorno rivestono sembianze particolari tanto il sinallagma clientelare che il sinallagma mafioso. ll sinallagma clientelare dà origine a quella forma specifica di clientelismo e di classe politica trasformista tipicamente meridionale, intorno cui più avanti ci soffermeremo. Il sinallagma mafioso, per conto suo, proprio in ragione dell'esercizio della mediazione violenta di potere, è permeato da rapporti che uniscono a un elevato grado di coesione, di solidarietà e di mobilità un elevato livello di gerarchizzazione, poiché "finalizzati non ad un sistema di valori/fini condivisi, ma direttamente all'uso della violenza, in vista dell'esercizio della mediazione di potere". Sta qui, fin dal principio, tutta la tremenda forza della mafia; è anche qui, fin dal principio, tutta la sua grande debolezza, solo che le si tagli sotto i piedi la base su cui costruisce e accumula la sua posizione di elemento di centro del tessuto sociale. Non procedendo al "prosciugamento" delle condizioni e dei fattori sociali su cui la mafia si è innestata e perdurando la crisi delle istituzioni pubbliche, dell'amministrazione e dei partiti, la dinamica di crescita e di autoregolazione delle formazioni mafiose è andata procedendo, sulla "lunga durata", attraverso un catastrofico processo di esplosione/implosione. Si sono andati allargando a dismisura il raggio del controllo territoriale della mafia e il volume dei suoi affari; nello stesso tempo, l'alzo della violenza esterna (contro le istituzioni) ha proceduto in uno con l'alzo della violenza interna (contro i concorrenti, per la conquista dell'"egemonia mafiosa", ai livelli macro, medio e micro della scala territoriale e affaristica). Ciò, fin dalle origini, è scritto nel codice genetico della mafia. Per sua natura stessa, la mediazione di potere mafiosa prevede un uso su scala crescente della violenza esterna e della violenza interna. Nel caso della violenza esterna: si tratta, per la mafia, di consolidare la posizione di centralità nello scacchiere sociale, per poter assurgere al rango di potere capace di contrattare da pari a pari con tutte le altre forme di potere, a cominciare dallo Stato e a finire ai poteri economici. Sul versante della violenza interna, occorre tener conto che la mediazione di potere mafiosa: "apre all'interno dell'associazione professionale mafiosa un potenziale di virulenti conflitti, poiché la collisione degli interessi tende a porsi spontaneamente nei termini di una contrapposizione di potere... l'architettura delle gerarchie interne ha il bisogno fisiologico di proiettarsi in una "mediazione sociale" che affermi l'esistenza della professione mafiosa come potere. I poteri interni entrano, pertanto, in collisione per l'accaparramento degli spazi e dei canali di questa mediazione sociale che unica conferisce legittimità storica e giustificazione sociale all'associazione mafiosa come professione per il potere". Volendo trarre una conclusione, possiamo dire: la mafia è una forma mista di contrattualismo corporato armato (sia verso l'interno che verso l'esterno), fondato sull'innovazione perpetua dei "sistemi di clientela", sui quali essa si impernia e interviene e sui quali basa la circolazione e il ricambio delle èlites che la governano. Non per questo essa è meno pericolosa; al contrario, proprio per questo è sommamente pericolosa.

Il verticismo istituzionale e il centralismo amministrativo segnano in un altro decisivo punto il modello dello Stato unitario, con ripercussioni assai significative nel Mezzogiorno d'Italia. La forma Stato assume una configurazione bifronte: (i) debole sul piano del controllo del territorio; (ii) forte e autoritario sul piano della regolazione giuridica e normativa. Ciò induce fenomeni di modernizzazione del controllo e del patronage politico affatto particolari: i sistemi delle clientele politiche. Ora: "È proprio la clientela che ha creato e crea le potenzialità sociali, economiche, politiche e istituzionali all'interno delle quali il comportamento mafioso ha trovato e trova alimento e modalità di riproduzione, trasformazione e stratificazione". In particolare nel Mezzogiorno, entro il contesto delle politiche di controllo del territorio si esprime una crisi di patronage dello Stato; viceversa, il patronage statuale si rivela particolarmente intenso nelle condotte della decisione politica e della procedura amministrativa, al punto che la prima si va procedimentalizzando sempre più e la seconda viene oltremisura politicizzata, se non partiticizzata. L'ipertrofia del patronage statuale sul piano del controllo delle procedure amministrative e delle decisioni politiche si prolunga in funzionali e razionali reti clientelari; l'atrofia del patronage statuale sul piano del controllo del territorio fa sì che su quest'ambito si dispieghi diffusivamente il patronage mafioso. Cosicché i sistemi clientelari politico-istituzionali si sviluppano accanto e contro i sistemi clientelari mafiosi, con i quali sono costretti a scendere a patti in una contrattazione permanente, la cui posta in gioco è continuamente ridefinita. Le reti dei sistemi clientelari politico-istituzionali e le reti del patronage mafioso dipartono da una matrice comune. Come coglie pertinentemente R. Catanzaro: "il rapporto clientelare ha una serie di elementi in comune con le relazioni di tipo mafioso". In virtù di queste correlazioni, si stabiliscono rapporti di simmetria e di trasmissione tra "appartenenze clientelari" e "appartenenze mafiose". Al surplus di patronage dello Stato a livello politico-amministrativo fa eco il surplus di patronage della mafia a livello socio-territoriale. Sicuramente, coevo (se non addirittura, preliminare) al surplus di patronage della mafia è il metodo con cui essa si ramifica e controlla il territorio, con cui si contrappone alle istituzioni pubbliche. Ma, prima ancora che metodo, la mafia è presenza sociale; codici e strutture di comportamento; forma materiale di mobilità sociale; cultura e status della scalata a mezzo dell'impiego indiscriminato e di scala della violenza. Prima ancora che metodo, essa è modalità di esistenza storico- materiale conforme a strategia; mezzo conforme a scopo; cultura conforme a organizzazione; relazione associativa conforme a codificazioni comunicative. Il metodo ramifica, ratifica e rielabora codici, strutture, culture, strategie e finalità che gli preesistono, senza di cui non potrebbe nemmeno prendere luogo il surplus di patronage mafioso.

La complessa fenomenologia dello scarto patronage statuale/patronage mafioso, con le relative e differenziate reti clientelari, non sarebbe coerentemente lumeggiabile, se non si insistesse su un punto di transito di essenziale importanza nella storia sociale e politica dell'Italia e del Mezzogiorno: il ciclo politico trasformista (1876-1891), caratterizzato dall'accesso della sinistra al governo. Ha osservato correttamente V. Mura: "... il trasformismo è un fenomeno che imprime un segno intangibile ad un'intera epoca storica". Ma c'è di più: esso ha finito con il travalicare gli orizzonti dell'epoca, fino a divenire una delle "regolarità" che, nella fase post-liberale e in quella democratica, hanno caratterizzato il funzionamento del sistema politico e le modalità delle "forme di governo". Il passaggio dai "partiti di notabili" ai "partiti di massa" non ha attenuato il fenomeno del trasformismo politico; all'inverso, lo ha accentuato sul piano delle quantità e rimodellato sul piano delle qualità. I partiti della "rappresentanza individuale" e i partiti di "integrazione sociale" hanno dovuto fare i conti, specie dal secondo dopoguerra in avanti, con l'irrompere della "democrazia di massa": infardellati dai modelli trasformisti della tradizione, hanno dovuto riadattarli alle nuove condizioni storiche, sociali e politiche. Per es., il modello del "partito pigliatutto", elaborato da 0. Kirchheimer e variamente applicato agli scenari diversificati dei sistemi politici avanzati, con tutta evidenza, assorbe e riconiuga nelle sue procedure modelli politici trasformisti. E tutto questo accade pur all'interno della "grande discontinuità" rappresentata dalla formazione dei sistemi di partiti insediatisi col secondo dopoguerra.

La creazione e riproduzione allargata, nell'Italia giolittiana e nell'Italia repubblicana, dei sistemi clientelari è intimamente saldata con la riproduzione e la metamorfosi dei codici del trasformismo politico; lo stesso modello di democrazia consociativa, partorito dalla costituzione repubblicana, non si sottrae alla loro presa. Su queste basi, si può legittimamente sostenere che il "bipartitismo imperfetto" è una particolare modalità di espressione di trasformismo: nel mentre interdice l'alternanza e l'alternativa tra destra e sinistra (la cd. "conventio ad excludentum"), riconduce ad unitarietà di funzioni e di sintesi i ruoli diversificati di destra e sinistra, in un inedito modello di governo costituzionale (la "democrazia consociativa", appunto).

Le regolarità che permeano i codici trasformisti, nella loro evoluzione e trasformazione, si ripropongono, in particolare, come modalità e strategie di integrazione e comunicazione tra forze e soggettualità situate in posizione di grande distanza reciproca. I codici trasformisti consentono il recupero di tale distanza e delineano un modello di integrazione trasversale che salta e interiorizza le differenze etniche, politiche, sociali e culturali, decostruendole e destrutturandole, fino ad assimilarle come tecniche e strategie di governo. Attraverso il codice trasformista, prende luogo un processo di mobilitazione della risorsa politica e di valorizzazione della procedura di governo, nelle forme della verticalizzazione della decisione politica e della burocratizzazione della procedura amministrativa. In tale processo le forze dell'opposizione sono coinvolte come supporto: dalla sua gestione diretta sono rigorosamente escluse. Si affinano qui le tecniche di acquisizione del consenso politico e, nello stesso tempo, della smobilitazione politica dell'avversario, le cui reti di consenso vengono progressivamente disattivate. È a questo punto che, intorno all'area degli interessi, i codici trasformisti si coniugano col patronage politico. Patrono e cliente, all'interno del dispiegamento delle strategie di acquisizione del consenso, finiscono col compattarsi sugli interessi che promanano dal sistema politico; non più quelli espressi dalla comunità e dai sistemi culturali-parentali tradizionali. Nascono intorno a questa fenomenologia i moderni sistemi clientelari. Ora, nel periodo che va dal "sistema giolittiano" alle politiche dell'"intervento straordinario", il Mezzogiorno d'Italia può essere assunto come idealtipo di una nuova forma di clientelismo, di cui le nuove costanti in emersione sono fondamentalmente tre:

a) la funzione di fluidificazione dei partiti, per l'accesso alle risorse pubbliche e la loro contestuale redistribuzione all'interno dei sistemi clientelari;

b) la creazione di reti clientelari diffuse territorialmente e a spettro socio-politico assai largo e differenziato;

c) l'avvolgimento, se non l'assorbimento, della società civile nelle reti dei sistemi clientelari.

Se il surplus del patronage politico ruota attorno al controllo e alla redistribuzione clientelare funzionale delle risorse pubbliche, diventa inevitabile che sul medio-lungo termine il surplus del patronage mafioso arrivi a collidere, contrattare e colludere con le istituzioni proprio sul terreno dell'assegnazione e della redistribuzione della spesa pubblica. Nei circuiti politici fanno la loro comparsa il mediatore e l'imprenditore politico; nei circuiti mafiosi, il mediatore e l'imprenditore della violenza. I sistemi clientelari politici e i sistemi clientelari mafiosi entrano in rotta di collisione: ognuno di loro vuole conquistare il monopolio delle risorse pubbliche. A volte, patteggiano; ma soltanto per le esigenze collegate alle politiche redistributive del controllo del territorio: al controllo del territorio lo Stato non può rinunciare; dentro il territorio, per contro, la mafia è ben più radicata di lui.

Attraverso l'allocazione delle risorse pubbliche entro i "territori" delle reti clientelari, le istituzioni e i partiti hanno cercato, in una prima lunga fase che va dal secondo dopoguerra agli anni '70, di destabilizzare il network mafioso, cercando di trasferire a sé stessi i sistemi di clientela per l'innanzi sotto l’egemonia mafiosa. Questa tendenza in tanto ha potuto essere attivata, in quanto si è declinato un nuovo e specifico idealtipo di clientelismo: il clientelismo meridionale. Il clientelismo meridionale si è inserito nei processi unitari e post-unitari che abbiamo in precedenza esaminato e in una lunga e collaudata tradizione: quella del "partito-macchina". Quest'ultimo compare negli Usa nell'ultimo scorcio dell'Ottocento e basa la sua esistenza e la sua forza sulla costruzione di una "macchina elettorale", in funzione della redistribuzione del reddito, virtualmente estesa a tutte le fasce sociali. A differenza del caso americano, però, nel Mezzogiorno la macchina distributiva del reddito è direttamente collegata alle istituzioni pubbliche imputate della spesa pubblica; l'accesso alle quali è pilotato dai partiti. Le funzioni di patronage sono ora direttamente depositate nei partiti, i quali, allocando e redistribuendo sul territorio la spesa pubblica, veicolano un processo di "statalizzazione" della società civile meridionale. Ben presto, questa si rivela un'arma a doppio taglio: nel breve e medio periodo, essa vale a contrastare la crescita del patronage mafioso; nel lungo termine, però, siffatto processo apre falle ancora più grandi. Tutti gli strati sociali, le fasce di cittadinanza, i ceti professionali-produttivi esclusi dalla protezione statale vengono pericolosamente e poderosamente attratti nelle orbite del patronage mafioso, il quale costituisce oggettivamente per loro l'unico sistema di garanzia, di tutela e di mobilità sociale. Il fenomeno diventa addirittura esplosivo, a fronte della "crisi fiscale", della crisi di "disavanzo pubblico" e della "crisi di risorse" che, praticamente senza soluzione di continuità e con l'aggiunta dei contraccolpi di due shocks petroliferi, dall'inizio degli anni '70 colpiscono per un lungo decennio tutti i paesi avanzati; e l'Italia più degli altri. Non è un caso che, proprio a partire dagli anni '70, la pressione della mafia sul sistema pubblico di redistribuzione del reddito comincia a farsi particolarmente aggressiva. Da allora in avanti, le smagliature, le incongruenze e gli anacronismi presenti nel sistema amministrativo italiano diventano delle vere e proprie voragini che danno la stura a episodi di grave compromissione delle istituzioni centrali e periferiche con la domanda di partecipazione mafiosa alla fruizione e all'allocazione delle risorse pubbliche. Da un lato, alcuni sistemi e sottosistemi partitici, per mantenere il controllo della loro rete clientelare, hanno fatto ricorso a compromessi con le organizzazioni criminali; risolvendo, per questa via, anche la loro "crisi di liquidità". Dall'altro, le reti di patronage mafioso hanno cinto d'assedio i sistemi di formazione e distribuzione della spesa pubblica, attraverso l'eliminazione violenta della concorrenza e il patteggiamento contrattato con apparati di partito e di amministrazione corrotti.

Ci avviamo, così, a tappe forzate verso una situazione in cui la mafia va sempre più attaccando il monopolio del consenso, dell'autorità e del potere concentrato nelle mani dello Stato; non tanto per rovesciarlo o impossessarsene in toto, quanto per redistribuirlo a proprio favore, cercando di imporre con pratiche di violenza e di corruzione la "legittimità" delle proprie rivendicazioni di potere. Nello steso tempo, procede la marcia mafiosa di penetrazione e controllo dei dispositivi e degli ambiti di funzionamento del mercato. Non sono lo Stato e il mercato che devono rassegnarsi a "convivere" con la mafia; piuttosto, è la mafia che intende imporre allo Stato e al mercato una coabitazione forzosa, cercando di trarre vantaggio, in maniera tanto lucida quanto capziosa, sia dai vuoti che dagli eccessi della presenza delle istituzioni e del mercato nella società. Tale processo è incubato negli anni '50 e '60 che vedono, intorno ai giganteschi programmi delle infrastrutturazioni e delle opere pubbliche realizzati nel Mezzogiorno, la nascita delle prime imprese mafiose, in un rapporto di forte colleganza con la gemmazione dei sistemi delle clientele politiche. Diversamente da quanto assunto dal "paradigma imprenditorialista", non sono, questi, gli anni dell'emarginazione delle mafie locali e della completa egemonia dei sistemi politici periferici su un patronage mafioso debole. Qui possiamo cogliere, anzi, la prima germinazione di quegli elementi processuali e organizzativi che in una successiva trasformazione conducono, negli anni '70, alla macchina impresa criminale, innestata su dimensioni economico-produttive di scala e, allo stesso tempo, flessibili e articolate sul territorio. È innegabile che gli anni '70 rappresentino un importante punto di trasformazione; ma non al punto da configurare quella "svolta epocale" tra un "prima" e un "dopo", divisi da una cesura radicale e incolmabile, così come rivendicato e argomentato dai "paradigmi imprenditorialisti".

Il presente dello spazio criminale, con tutti i suoi codici culturali, antropologici e politici, viene da lontano: dalle origini e dal passato. Come non riproduce il passato delle origini, così non lo azzera, in un processo di integrale dissolvenza. Tra il passato e il presente dello spazio criminale, come di ogni altro fenomeno e ogni altra entità, si districano passaggi, trasformazioni, svolte, continuità, rotture, connessioni in un zigzagare che diviene via via più complesso e articolato, secondo una trama fatta di grandi lacerazioni e di grandi processi unitari. Tanto il colpo d'occhio della "lunga durata" che l'istantanea non debbono e non possono perdere questo moto che procede attraverso associazioni/dissociazioni/associazioni. Le origini dell'evento e la storia come evento vengono sempre da lontano e lontano si dirigono: non è possibile imprigionarli in un "prima" o in "dopo"; non è possibile arrestare o catturare entro uno schema le strutture profonde e arcane del loro movimento. Dare ragione di ogni fenomeno, della sua specificità e della temporalità delle sue determinazioni, è esattamente dare ragione delle forme perspicue e dei passaggi precipui del suo movimento: dentro di esso la sua identità è sempre riconoscibile e sempre si rinnova e muta, sino a trascorrere definitivamente dalla vita alla morte. In questo senso, il tempo vale come storia. In questo senso, sottrarre il tempo alla storia non è dato.

2.

La razionalità strumentale dei dispositivi criminali

Il tratto distintivo di fondo che rende specifico e, per molti versi, originale il presente dello spazio criminale risiede nella circostanza che esso somma in sé la duplicità delle funzioni statuali e mercatistiche: "accanto alle funzioni di monopolio della forza e della violenza, mutuate e sottratte allo Stato, tende a centralizzare anche quelle della pianificazione, organizzazione e realizzazione dei profitti, mutuate e sottratte al mercato". Come si vede, codici che attengono alle origini dei paradigmi e delle culture mafiose vengono a intrecciarsi con la traduzione nello spazio criminale dei codici, delle culture, dei paradigmi e dei processi materiali della secolarizzazione e della modernizzazione. Avviene una riscrittura delle origini del codice mafioso nelle condizioni date della modernizzazione, dell'innovazione politica e della complessità sociale, così come sono andate procedendo nel Mezzogiorno d'Italia, dal secondo dopoguerra in avanti. Senza il rinvio puntuale e rielaborante alla memoria e alle tradizioni dei codici dell'origine, i processi di modernizzazione, innovazione e complessificazione della mafia molto semplicemente non avrebbero potuto darsi; senza i processi di innovazione e trasformazione dei codici mafiosi, quelle origini molto semplicemente si sarebbero estinte. Rifacendosi a un'importante intuizione di R. Catanzaro, si deve concludere che nelle forme di esistenza attuali della mafia vanno saldandosi le funzioni di imprenditività violenta con quelle di mediazione sociale: le seconde assecondate dalla struttura particolaristica delle istituzioni dello Stato nel Mezzogiorno; le prime direttamente agganciate all'atto sorgivo dell'insediamento della mafia storica come industria della violenza.

La funzione della mediazione mafiosa è quella di competere e cooperare con lo Stato nella qualità di potere autonomo ad esso pari, "in quanto, ne incarna, ritraduce e applica in microcosmi sociali dispositivi regolativi, sistemi prescrittivi e ruoli pubblici... Si tratta di un sottosistema che non ambisce a sostituirsi allo Stato tout court; ma anela a difendere dallo Stato la sua attività pubblica di mediazione, le sue professioni e i suoi interessi".

La funzione della impresa mafiosa è quella di competere e cooperare col mercato, nella qualità di oligopolio imprenditivo fondato sull'intreccio intensissimo di economia "legale"/economia illegale; oligopolio in grado di dettare in proprio regole di produzione e di scambio in aree territoriali in espansione e rispetto a gamme di prodotti in proliferazione. È con particolare riguardo al rapporto con il mercato che le strategie endorganizzative della mafia si risolvono in cooperazione economica con altri soggetti economici, istituzionali e politici. Le strategie endorganizzative dell'iniziativa imprenditoriale si prolungano in strategie di cooperazione, da cui l'agglomerato mafioso ricava un acquisto di potere non indifferente. L'economia politica del reticolo imprenditoriale della mafia si risolve necessariamente in relazioni di scambio, la cui posta in gioco è in forma immediata il profitto e in forma mediata, ma sostanziale, la legittimazione sociale e culturale del potere mafioso.

Vengono qui meglio al pettine le asimmetrie variamente presenti nel sinallagma della clientela politica e nel sinallagma della clientela mafiosa. Lo scambio patrono/cliente è uno scambio sociale asimmetrico che costantemente conferma e accresce la posizione di autorità del patrono e quella di subordinazione del cliente, il quale viene retribuito, proprio in virtù della sua dipendenza, con la fornitura di servizi e beni altrimenti interdetti.

Nella clientela politica il rapporto di asimmetria ruota attorno a due determinanti tra di loro concatenate: (i) la detenzione del menù delle risorse pubbliche imputata al patrono; (ii) l’integrazione dipendente del cliente attraverso la razionalità selettiva del patronage. Nel processo di riproduzione a spirale delle due determinanti si stabilisce una interazione forte tra "mercato politico" e "mercato economico". Nel senso che sono investiti non solamente i sistemi di redistribuzione politico-partitica della spesa pubblica, ma anche i settori produttivi dei beni e dei servizi sociali coinvolti nei meccanismi economici della domanda/offerta che avvolgono le reti clientelari. Si crea, così, un triangolo perverso tra sistema politico, sistemi clientelari e sistema economico-finanziario. I sistemi clientelari politici sono sistemi bidirezionali: essi si collocano al centro di fluidificazioni sventagliate sia verso il sistema politico e lo Stato, sia in proiezione del sistema economico-finanziario.

Il sistema clientelare mafioso duplica e riassume entro i suoi codici: (i) la funzione estensiva della "protezione politica" a mezzo di violenza; (ii) la funzione mercatistica a mezzo di "economie legali", cristallo emergente e a struttura reticolare dell'economia politica della violenza. L'asimmetria presente nei sistemi clientelari mafiosi ha delle caratteristiche precipue che la differenziano da quella presente nei sistemi clientelari politici. In primo luogo, tra patrono e cliente il primato del primo sul secondo si esprime attraverso la soluzione dell'affiliazione e dell'associazione. La solidarietà intergruppo che ne deriva non ruota esclusivamente attorno alle categorie e alle economie degli interessi; essa esprime, altresì, una mappa delle appartenenze entro cui si dà la formazione e la variazione delle identità, con i relativi richiami simbolico-culturali. In secondo luogo, le gerarchie interne trovano i loro punti di coagulazione e di trasmissione attraverso legami di solidarietà fortemente ritualizzati e culturalizzati. Ciò rende la gerarchia altamente sacralizzata e, nello stesso tempo, estremamente esposta al ricambio: la legittimità interna si dilata proprio in ragione dell'avvicinamento e dell'impossessamento della sacralità del comando. In terzo luogo, le condotte della mobilità sono a circuito chiuso: fuori del reticolo mafioso non vi può essere salto di status. Il che è causa di un'elevata mobilità interna e di una crescente litigiosità che trovano nella violenza e nelle ricorrenti "guerre interne" la selezione razionale, attraverso cui l'agglomerato criminale procede alla sua autoregolazione funzionale. In quarto luogo, la funzione sacrale del potere ha anche, se non soprattutto, una valenza esterna: conquistare l'egemonia interna (cioè: legittimarsi e sacralizzarsi) è precondizione dell'esercizio di potere e di violenza nelle condotte riservate allo Stato, al mercato e alla società civile. La quota di potere della violenza mafiosa, così, si riversa massivamente nei sistemi economici, politici e sociali; cioè: la sacralizzazione del potere mafioso si sublima, territorializzando i suoi codici di comportamento come regole e sistemi valoriali.

Con la messa in chiaro di queste fenomenologie e di questi sviluppi, la catena delle relazioni di collisione e di cooperazione tra Stato e mercato (da una parte) e poteri criminali (dall'altra) può risultare di più agevole intelligibilità, esimendoci da ulteriori approfondimenti. Inoltre, proprio incubando questi processi, la discontinuità post-bellica, lungi dal ricondurre la mafia ad una sorta di "anno zero", imprime ai codici e ai comportamenti mafiosi una forte accelerazione in termini di modernizzazione. Anche da questa postazione, il "paradigma imprenditorialista", celebrando la rottura radicale degli anni '70 (passaggio dalla "mafia emarginata" alla "impresa mafiosa"), appare non del tutto convincente. Le nuove forme di integrazione sociale e di mediazione politica sperimentate, nel Mezzogiorno, dal sistema politico-costituzionale repubblicano rivelano, ben presto, un doppio volto: agli effetti di crisi introdotti nell'agglomerato criminale affiancano l'induzione in esso di stimolanti fattori di innovazione. In questo nuovo contesto storico, si origina una rimodellazione di lunga lena del fenomeno mafioso: dalla interlocuzione col sistema istituzionale periferico secondo nuove modalità di scambio e di scontro alla formazione delle prime strutture e delle prime esperienze della futura impresa mafiosa. È negli anni '50 e '60 che è in gestazione quel particolare tipo di relazione tra élites politiche corrotte ed élites mafiose che è al centro dei fenomeni di speculazione sul territorio, sui suoli edificabili, sulle opere pubbliche; fenomeni responsabili, in misura rilevante, del degrado urbano e abitativo delle città meridionali. Quella secondo cui la mafia negli anni '60 si avvia verso il suo "stadio finale" si rivela una chiave di lettura che non coglie questo profondo movimento storico, del quale isola e ipostatizza gli elementi più appariscenti, enfatizzandoli attorno alla figura emergente del "mafioso-ganster", con contestuale riduzione della mafia a un caso particolare di devianza. È a fronte della costituzione, negli anni '50 e '60, delle macchine politiche urbane e delle strategie di espansione urbana che l'agglomerato mafioso fa il suo praticantato imprenditoriale e comincia a specializzarsi in prestazioni economiche di tipo superiore. Non sarebbero altrimenti congruamente spiegabili quei processi che dai tristemente noti fenomeni delle "mani sulla città" degli anni '50 (e oltre) ci conducono ai ripetuti casi di speculazione sulla infrastrutturazione e industrializzazione delle "aree depresse" degli anni '60 (e oltre). Il ciclo dell'urbanizzazione e dell'infrastrutturazione vede, sì, le élites politiche locali in posizione di comando; ma dà anche il via ai primi consistenti intrecci tra élites politiche corrotte ed élites mafiose sul terreno della speculazione industriale, economica e finanziaria.

È effettivamente vero che qui la mafia si trova in una condizione di marginalità rispetto ai circuiti politici egemoni; ma, come abbiamo visto, è, questo, un fenomeno che data al processo della sua formazione storica. Essa è, poi, sospinta all'accumulazione del profitto non soltanto perché è messa ai margini dei circuiti della politica alta; ma anche in virtù della posizione di centro che occupa nel tessuto sociale. Le due condizioni, intersecandosi e combinandosi, la portano a gestire la sovranità del suo patronage: (i) come accumulazione di potere violento e come (ii) gestione di profitti illegali. I suoi processi di "legalizzazione" e "legittimazione" traggono origine da questo doppio mulinello. A mezzo della violenza tenta di legittimarsi come potere; a mezzo dei profitti tenta di legalizzarsi come impresa. L'accumulo di potere non è semplicemente funzione dell'accumulo di profitti e viceversa; ma, più esattamente, passaggio obbligato verso la gestione pubblica dei profitti, in termini di giustificazione sociale e culturale della performance mafiosa.

Non si può, quindi, parlare di una vera e propria mutazione culturale e di un riadattamento del potenziale di violenza storicamente incamerato agli scopi dell'accumulazione del profitto, come assunto, invece, dal "paradigma imprenditorialista". E, tuttavia, la mappa degli elementi costitutivi dell'impresa mafiosa disegnata dal "paradigma imprenditorialista" ha piena legittimità storica e teorica.

Riassumiamola:

 

a)

creazione di un ombrello protezionistico;

 

b)

scoraggiamento della concorrenza;

 

c)

poteri territoriali di tipo politico-economico, in luogo del semplice monopolio territoriale della violenza;

 

d)

potenza di mercato;

 

e)

stratificazione crescente di potere e di prestigio;

 

f)

compressione salariale;

 

g)

fluidità della manodopera;

 

h)

controllo del mercato del lavoro;

 

i)

organizzazione autoritaria del lavoro;

 

l)

maggiore produttività di impresa;

 

m)

coesione interna e aconflittualità delle relazioni industriali;

 

n)

elevate capacità di autofinanziamento e di autocapitalizzazione;

 

o)

liquidità finanziaria pressoché illimitata;

 

p)

travaso finanziario continuo e garantito dal circuito illegale a quello legale.

Non si può negare che le funzioni imprenditoriali e le economie "legali"/illegali giochino un ruolo di rilievo all'interno del dispiegamento della macchina mafiosa. Con altrettanta certezza, però, deve concludersi che tali economie non risolvono – come abbiamo tentato a più riprese di dimostrare – l'intero arco delle complesse funzioni oggi imputate al dispositivo mafioso.

La categoria di signoria territoriale elaborata da U. Santino, al di là della collegata ipotesi definitoria di "borghesia mafiosa", che non pare grandemente convincente, rende meglio ragione del complicato intrecciarsi di tutti gli elementi del dispositivo mafioso. Nelle competenze della signoria territoriale sono, difatti, comprese funzioni di tipo politico, economico, militare, finanziario, culturale, simbolico e sociale. V'è, però, un rischio: quello di richiamare ed evocare una struttura di comando sociale compatta, totalizzante e onnipotente, le cui articolazioni interne sono unicamente spiegate in ragione dell'esercizio esterno del dispotismo territoriale. Vi sono, poi, delle incongruenze puramente epistemologiche alla radice dell'elaborazione della categoria di "borghesia mafiosa": far rientrare in uno strato di classe omogeneo, sulla base della valutazione di dinamiche puramente "comportamentiste", figure di provenienza interclassista, sia dalle "classi dominanti" che dalle "classi dominate". Ora, se quello mafioso è – come sembra – un "fronte interclassista", non può esprimere una "classe" o uno "strato di classe" e viceversa; delle due l'una. Proprio in virtù di un legamento strutturale e cognitivo con la categoria di "borghesia mafiosa", la nozione di "signoria territoriale", pur cogente ed esplicativa, corre costantemente il rischio di rappresentarsi e comunicarsi più come precipitato di violenza pura che come sistema di mediazioni e relazioni sociali, politiche e culturali fondato sulla violenza. La qual cosa colloca in un cono d'ombra l'evidenza strutturalmente e cognitivamente più importante: nelle presenti condizioni storico-sociali la razionalità strumentale del dispositivo mafioso si esprime attraverso le cerchie della competizione/cooperazione con lo Stato e il mercato.

Le ricerche di A. Lamberti consentono di rilevare il fenomeno anche in relazione alla camorra: la "camorra imprenditrice" mutua dallo Stato logiche monopolistiche e dal mercato logiche oligopolistiche. Il monopolio violento nello spazio illegale si combina con l'oligopolio imprenditoriale nello spazio legale: tra i due campi sussiste un nesso di differenziazione e di complementarità. Questo, per esempio, è quanto emerge dalla ricerca sulla camorra dell'area torrese-vesuviana, la quale si preoccupa di creare condizioni di "legalità" per l'investimeno economico e per la relativa commercializazione; nel contempo, unisce ad un'alta redditività di capitale una penetrazione sempre più capillare nei sistemi economici e amministrativi locali. I risultati della ricerca di Lamberti si prestano a una interpretazione, su più di un punto, diversa da quella da lui elaborata e fornita; andando oltre quegli schemi ermeneutici che qualificano l'economia "legale" della camorra come "monopolio sui settori di intervento", in luogo del "monopolio sul territorio". Il fatto è che nell'analisi delle economie "legali" della camorra (come della mafia, del resto) la categoria "monopolio" appare incongrua: più una sopravvivenza concettuale che una realtà operante. Al livello di complessificazione delle stesse economie sociali regionali, per le economie della "camorrra imprenditrice" deve parlarsi di relazioni oligopolistiche: sia in ragione della plurisettorialità delle produzioni e dei prodotti; sia in virtù delle cooperazioni sociali e delle alleanze gestionali-organizzative e territoriali che presiedono alla produzione/circolazione delle merci da parte del sistema delle "imprese camorriste". Esiste una trasversalità interna all'imprenditorialità camorrista ed esiste una saldatura esterna con i sistemi mercatistico-finanziari legali. Alleanze gestionali interne mutevoli e relazionalità esterna in continua ridefinizione costituiscono i due aspetti fondativi delle relazioni oligopolistiche di tipo camorrista. La razionalizzazione delle gerarchie camorriste e l'autorganizzazione razionale dell'intero dispositivo camorrista vedono figurare come motivo di innesco delle "guerre interne" anche – e in misura progressivamente crescente – la redistribuzione del controllo delle economie "legali" camorriste. Le "guerre di camorrra" sono state, d'altronde, inaugurate proprio da un'alleanza di tipo oligopolistico in funzione anti-cutoliana: un cartello di forze e gerarchie criminali si sono coalizzate contro il progetto cutoliano di centralizzazione monopolistica del dispositivo camorrista. Cutolo è uscito sconfitto dallo scontro, per il fondamentale motivo che rappresentava, ormai, vecchi moduli monopolistici e centralistici, di contro a moduli oligopolistici, la cui natura assorbente e catalizzatrice è in ragione diretta della loro mobilità e della loro flessibilità. Nei nuovi moduli la rete delle alleanze è soggetta alla ricontrattazione permanente tra le gerarchie dei gruppi più forti. Contrattazione corporata che, in parte, procede attraverso la regolazione armata e, in parte, attraverso la mediazione oligopolistica; ciò dentro e fuori il dipositivo camorrista. È proprio a Lamberti e a Sales che si debbono le più accurate analisi del progetto cutoliano e della "guerra di camorra" (1979-1983) che ha segnato la sconfitta rovinosa e polverizzatrice della "Nuova camorra organizzata" ad opera della "Nuova Famiglia". Solo che le loro, pur acute, investigazioni empirico-sociali restano, in gran parte, caducate da patterns storico-concettuali non sempre adeguati. Al fondo, agisce più del lecito la pur giusta preoccupazione di arrivare a conclusioni politiche, senza passare per le necessarie mediazioni analitiche e senza il congruo supporto dei necessari approfondimenti tematico-problematici e delle opportune comparazioni storico-metodologiche. Ora, il "cartello vincente", sconfitto Cutolo, ne eredita e rielabora il patrimonio più significativo; non soltanto gli uomini. In particolare, del progetto cutoliano, recupera il principio e la prassi della regionalizzazione e unificazione del potenziale e delle iniziative camorristiche. Prima (con Cutolo), la mobilitazione/valorizzazione/centralizzazione dei progetti, delle attivi-tà e della forza-lavoro criminale avviene attorno a un unico e compatto sistema delinquenziale, alla figura del "capo carismatico" e alla relativa ideologia populistico-elitaria (protezione+assistenza+attribuzio-ne di status sociale "nobile"). Ora tutto segue le "vie dei traffici" e dei corrispettivi processi di sdoppiamento-connessione dei mercati "legali"/illegali, della centrifugazione/redistribuzione dei poteri dell’élite camorrista in una raggiera a "poli di comando" diversificati, ma comunicanti. Come dire: il dispositivo camorrista, ad un tempo, si secolarizza, modernizza e complessifica.

Questo processo è empiricamente e con acume documentato da Lamberti, laddove ricostruisce puntualmente la formazione, da parte delle "famiglie", delle holding di imprese produttive. Il passaggio qui in causa implica una ristrutturazione di non poco conto del dispositivo camorrista. Come osserva Lamberti, registriamo la transizione dalla società d'impresa alla società finanziaria. Transizione tanto più necessitata, per effetto dell'enorme espansione del mercato della droga (dal 1985 in avanti) e del relativo e impressionante lievitare della massa di liquidità finanziaria disponibile. In una situazione di fibrillazione da mutamento, una trasformazione chiama in tempi ultrarapidi una sequenza di trasformazioni ancora più dirompente. Il reinvestimento dell'eccedenza di liquidità nelle società finanziarie tocca, ben presto, il livello di saturazione; si rende necessaria un'ulteriore metamorfosi, secondo linee di continuità e rottura, al tempo stesso. Per mantenere il passo del volume di liquidità estorto/prodotto, il dispositivo camorrista, dalle holding di imprese produttive, perviene alla formazione delle holding economico-finanziarie. Il che intenziona dei processi inauditi di concentrazione dei capitali produttivi e delle riserve di liquidità e, insieme, produce un'ancora più significativa rielaborazione della geografia del comando, a scala urbana, regionale, nazionale e internazionale. In particolare, rileva Lamberti, il polo del comando finanziario si delocalizza e decentra sul piano internazionale: Costa Azzurra, Spagna, S. Domingo, Brasile; anche qui inseguendo e mettendo a profitto le opportunità fornite dai mercati legali (nella fattispecie: i mercati finanziari). Il dispositivo camorrista diventa un'idra dalle cento teste, con innumerevoli articolazioni sottosistemiche, funzionalmente distinte a seconda delle competenze e dei ruoli; ma tutte cooperanti attraverso sistemi intelligenti di comunicazione-informazione-decisione. Da qui nasce il fenomeno della camorra massa; non già dal livello dei comportamenti individuali-collettivi e dalla composizione sociologica degli affiliati. Camorra massa: perché identità sistemica; perché organizzazione complessa; perché identità e organizzazione a ramificazione e diffusione territoriale e culturale. Ed è nella qualità di identità sistemica e organizzazione complessa che essa è governata dalla razionalità strumentale della competizione/cooperazione con lo Stato e il mercato.

3.

Il ruolo delle subculture devianti metropolitane

Si è ripetutamente fatto cenno all'assoluta rilevanza dell'elemento cultura per l'agglomerato mafioso, fin dalle sue origini. Nemmeno l'impresa mafiosa – l'abbiamo appena visto – sfugge alla necessità di legittimazioni di tipo culturale, tanto al suo interno che all'esterno. Al punto che sia in relazione al potere e alla violenza che al mercato elabora proprie culture: in parte connesse alle tradizioni dell'ascesa del capitalismo e della società borghese; in parte elaborate e rielaborate in proprio.

Un'analisi delle "facilitazioni culturali" della crescita dei poteri criminali nel Mezzogiorno è, perciò, indispensabile. In tale direzione vanno muovendosi molte delle riflessioni proposte da A. Lamberti, nella sua indagine del fenomeno camorristico. Ma, ora, stringiamo la ricognizione sugli stereotipi dentro cui sono state classificate le subculture della camorra.

Secondo A. Lamberti, la camorra che oggi conosciamo è, in primo luogo, la risultante combinata della metropolitanizzazione del territorio napoletano e delle connesse fenomenologie di subcultura deviante metropolitana. L'aumento del tasso di complessità sociale, a un polo, della "disorganizzazione sociale" e del degrado urbano, al polo opposto, agirebbe da punto di coagulo per l'esplosione di nuovi fenomeni di devianza sociale e di organizzazione criminale. Lo specifico metropolitano si strutturerebbe secondo l'organizzazione di compartimenti stagni, ognuno dei quali ha diversi codici di comportamento, stili di vita e riferimenti culturali. Siffatti processi di "isolamento" e di "separazione", continua Lamberti, sfociano nella formazione "di "zone omogenee" ad alto tasso permanente di criminalità". Traducendo il tutto in termini più strettamente teoretici, il dato sociologico che viene posto in evidenza è il seguente: "il comportamento deviante viene appreso, non è mai inventato dal soggetto. Questo significa che non ha praticamente senso una analisi della devianza organizzata che prescinda dal contesto ambientale, dal mondo vitale dell'individuo, perché è questo contesto che permette alla devianza di esistere e di diffondersi".

Due sono le questioni presenti nell'approccio di Lamberti che vanno in linea preliminare sottoposte a una valutazione critica: (i) il manto di uniformità e continuità, se non di omologia, disteso tra devianza e criminalità; (ii) la riproposizione degli elementi del "paradigma eziologico" nella spiegazione della devianza/criminalità. È ben vero, come notano nella loro rassegna critica N. Coco e C. Serra, che il passaggio alla "questione criminale" avviene, negli anni '70, proprio passando per la "revisione critica della devianza"; però, l’una cosa e l'altra non sono riconducibili a sostanza comune e nemmeno possono essere interamente causalizzate al quadro ambientale delle contraddizioni socio-culturali date.

Il comportamento sociale deviante non soltanto viene appreso dal soggetto, all'interno del quadro delle condizioni socio-culturali date; ma viene anche da lui inventato e agito, mediante pratiche di interazione, intervento e modifica dei patterns socio-culturali dati. Diversamente argomentando, al soggetto viene troppo riduttivamente assegnata un'identità passiva di secondo grado, unicamente e sempre a lui conferita dalle condizioni ambientali esterne. Egli sarebbe sempre e soltanto agito dall'esterno, manipolato ed eterodiretto da codici di comportamento indotti e contraddizioni socio-esistenziali subite. Il quadro complesso delle interazioni e contraddizioni soggetto/ambiente, soggetto/oggetto viene totalmente espunto dalla scena. La responsabilità della devianza finisce con l'essere proiettivamente trasferita dal soggetto a condizioni ambientali e a disfunzioni di natura socio-istituzionale. Diversamente da quanto a tutta prima è dato di pensare, questa lettura, seppur involontariamente, ha risvolti e contenuti di conservazione sociale e culturale. Deresponsabilizzando più o meno completamente il soggetto rispetto alle sue opzioni e condizioni di esistenza, si comprimono le sfere della sua libertà e della sua autonomia: egli come non è responsabile dell'opzione deviante, così non può responsabilmente attivare l'opzione liberante. Ancora una volta, è un semplice spettatore. Lo stereotipo della soggettività che subisce passivamente il carico delle condizioni ambientali è, al tempo stesso, il prototipo (involontario) dell'individuo assolutamente incapace di agire per la propria e l'altrui libertà. Il "paradigma eziologico", in tutte le sue molteplici declinazioni, rivela intorno a questi nodi le sue grandi controfinalità interne, con il rovesciamento delle sue intenzioni positive in blocco dell'emancipazione della soggettività.

Il comportamento sociale deviante è sempre trama data dall'incontro/scontro delle condizioni ambientali esterne con le elaborazioni e le azioni della soggettività. Esso è, per questo, condensato di fattori regressivi/progressivi: sia nello scambio/conflitto con gli ordini simbolici, culturali e comunicativi dati; sia nella proposizione (o, semplicemente, allusione) di nuovi ordini simbolici, culturali e comunicativi. Come non si può cedere al mito della rappresentazione salvifica della devianza, così non si può omologarla alle condizioni della criminalità. Solo in parte il comportamento sociale deviante è l'introiezione lineare nelle pratiche del soggetto dei codici e dei fattori ambientali esterni; esso è anche manifestazione perspicua della violazione proprio dei codici e dei fattori ambientali. L'eccedenza dei quadri normativi dati, con contestuale prefigurazione di nuovi comportamenti e nuovi ordini relazionali e comunicativi, si accompagna con l'assimilazione sublimata e proiettata, a volte anche in maniera inconscia, proprio di quei valori e stili di vita ufficiali apparentemente aggrediti. In virtù di questo suo profilo ancipite, la devianza sfugge sia a quelle classificazioni che la riducono ad agente patogeno della criminalità, sia a quelle codificazioni che la postulano come causa primaria della rivoluzione dei costumi. Ora, è proprio nella tradizione contemporanea delle subculture theories l'aver ridotto la devianza ad una tendenza criminale patogena, con implicazioni che vanno dal campo della "sociologia del crimine" agli studi sulla "marginalità" e sull'"adattamento". Non appare casuale, pertanto, che il richiamo alle subculture devianti finisca col concretare una interpretazione che non tiene nel dovuto conto tutti gli elementi motivazionali e causali operanti nella struttura complessa del comportamento deviante.

Nel discorso di Lamberti, il comportamento deviante è ineliminabilmente associato non solo all'"ambiente deviante", ma anche all'esistenza del "gruppo deviante": "Il comportamento deviante viene, quindi, appreso attraverso la comunicazione con altre persone, soprattutto in piccoli gruppi che non sono mai casuali rispetto alla loro composizione... In pratica, si diventa devianti attraverso un apprendistato più o meno lungo all'interno di gruppi devianti di cui si entra a far parte soprattutto per ragioni di vicinato". All'interno dei "gruppi devianti", "il soggetto acquisisce la cultura della devianza, cioè quell'insieme di norme, stili di vita, di modelli di comprensione della realtà che diverranno il bagaglio di convinzioni e di certezze che ne orienteranno l'agire sociale". A loro volta, "gruppo deviante" e "cultura della devianza", respinti dai sistemi "delle opportunità legittime", costruiscono la loro identità nei sistemi delle "opportunità illegittime": quanto più perfezionano la loro identità, tanto più rafforzano e dilatano i sistemi delle "opportunità illegittime". La struttura sociale entro cui devianza e devianti si muovono è qui data proprio dalla sussistenza dei sistemi delle "opportunità illegittime". Il rapporto subculture devianti/struttura sociale della devianza consente qui la materializzazione di scala del comportamento sociale deviante, rendendolo inoltre spiegabile. Esiste, dunque, un nesso tra forme subculturali e atteggiamenti devianti che Lamberti, nel caso napoletano, riconduce a due configurazioni generali:

a) la configurazione criminale: circoscritta a quelle aree del territorio metropolitano omogenee dal punto di vista della "subcultura deviante" e dominate dalle figure della grande criminalità; all'interno di esse, proprio per il cumularsi di questi due fattori, si riscontrano in maniera ultravisibile i migliori "modelli riusciti di devianza";

b) la configurazione conflittuale: circoscritta a quelle aree del territorio metropolitano nelle quali l'omogeneità subculturale coesiste con una frantumazione estrema del potere criminale; ne derivano "modelli riusciti di devianza" in cui prevale e si diffonde l' "ostentazione" estrema della violenza, il "cinismo", la "destrezza" e la ''temerarietà".

Se questa è la morfologia generale della camorra, si può senz'altro concludere, osserva Lamberti, che essa, pur avendo forti elementi di specificità, sia riconducibile "all'interno della categoria delle forme metropolitane di delinquenza". La camorra come forma metropolitana di devianza è, secondo Lamberti, originata dall'"aumento progressivo e costante della disgregazione sociale" nell'area metropolitana napoletana. Il livello della disgregazione interessa, in particolare:

 

a)

la struttura dell'offerta di lavoro, con inquietanti fenomeni di lavoro nero, sottoccupazione e disoccupazione;

 

b)

il degrado delle strutture pubbliche dell'istruzione e della formazione;

 

c)

la diseconomia e la bassa qualità dell'erogazione dei servizi;

 

d)

la carenza di sbocchi professionali e di promozione sociale;

 

e)

il crescente degrado urbano e abitativo.

È in una situazione di collasso di questo tipo, conclude Lamberti, che si determinano processi di "caduta della solidarietà sociale e il diffondersi di livelli inquietanti di incertezza normativa, che alimentano il riprodursi e il rafforzarsi della subcultura deviante già esistente ed operante". La dimensione qualiquantitativa del fenomeno della criminalità organizzata a Napoli poggia su "una realtà che è quella della solida presenza di una subcultura deviante in vaste aree del territorio urbano e metropolitano. La nostra convinzione è che senza questa presenza, così estesa e radicata, di una subcultura deviante, il fenomeno avrebbe altre caratteristiche e sicuramente una diversa virulenza. In altre parole, il degrado economico, lo sfacelo urbanistico, l'incapacità, spesso colpevole, della classe politica a gestire ed amministrare il funzionamento della macchina istituzionale, generano e alimentano fenomeni di distorsione criminale così vistosi, perché a tutte le altre forme di arretratezza si aggiunge la presenza di una subcultura deviante perché arretrata ed in contrasto, in quanto a obiettivi e finalità, con la cultura industriale".

Con questo abbiamo ricostruito tutti i passaggi e le articolazioni fondamentali dell'analisi di Lamberti sulla subcultura deviante quale agente moltiplicatore del fenomeno camorra. Alle notazioni critiche già argomentate possiamo, a questo punto, far seguire un discorso di più ampia estensione.

Dobbiamo necessariamente partire dall'identificazione dell'origine dei codici culturali e/o subculturali della camorra. Fin dall'atto di nascita, culture e subculture di riferimento della camorra sono mutuate dalle "classi alte": non rappresentano simbologie e metaforologie "plebee"; bensì ritraducono in ambiente popolare i codici d'onore e di setta elaborati da associazioni e organizzazioni segrete già nel Sette e Ottocento (massoneria, carboneria, ecc.). Il processo di formazione della camorra e delle relative subculture si segnala come fenomeno di emersione, se non irruzione, nel teatro della scena urbana, di un'élite che, nello stesso tempo, tende a staccarsi dalle classi popolari e a governarne e manipolarne le azioni, le credenze e i comportamenti. Già sul piano dell'allocazione urbano/territoriale e dell'assunzione degli stili di vita, l'élite camorrista tende a rimarcare e visibilizzare una separatezza costitutiva dagli strati popolari. I processi dell'autoriconoscimento e dell'eteroriconoscimento si fondano sulla percezione e sull'esperienza di siffatta separatezza. L'immagine di sé che l’élite camorrista costruisce e gelosamente custodisce e tramanda è una immagine vincente, esattamente a misura in cui approfondisce la percezione della distanza dalla "condizione plebea". È precisamente in questa misura che essa può conservare e diffondere la sua egemonia sugli strati popolari, da cui proviene e su cui si regge il ricambio delle sue gerarchie interne. Giustamente è stato fatto osservare che l'"onore camorrista" è assai più simile all'"onore aristocratico" che all'"onore popolare". In un altro e non secondario punto, la struttura sociale e morfologica della camorra riproduce, fin dall’inizio, codici "alti" in ambito popolare: la suddivisione della città in zone di influenza a gerarchie differenziate (le "paranze") non è altro che la duplicazione del decentramento fiscale e amministrativo. Gli stessi criteri dell'allocazione spaziale della camorra non seguono le vie della povertà e della miseria, bensì quelle dove più intensa è la circolazione delle merci e del denaro.

Alla base della lettura "plebeizzante" della camorra vi sono le analisi post-idealiste e positiviste con cui essa è stata interpretata dal pensiero meridionalista delle origini. In particolare, essa è stata letta secondo il topos dicotomico alto/basso (alto=aristocrazia; basso=plebe) da quel filone meridionalista definibile, in senso lato, populista che ha in Villari e Fortunato gli antesignani; filone che è stato rielaborato, in particolare, da I. Sales e, in misura minore, da A. Lamberti. Secondo questo topos, essa sarebbe, contestualmente, espressione plebea di rivolta anti-elitaria e articolazione spregiudicata dei poteri delle élites negli interstizi e nei bassifondi del tessuto sociale. Lo scenario tipicizzato è così contestualizzabile: (i) la camorra è prodotto della miseria e riproduzione dei modelli della miseria; (ii) sull'emersione della camorra si regge l'uso statalista della miseria. Conseguenzialmente, il fenomeno camorra viene concettualizzato come "partito della plebe" che è sottoposto alla regolazione e all'impiego statuali. Come è noto, è Sales che ha particolarmente fatto perno su questo tipo di analisi; secondo M. Marmo, le sue fonti più prossime sono rappresentate da Arturo Labriola e dalla tradizione populista di sinistra degli anni Cinquanta. Ora, assume Sales, l'"onorata società", attraverso le metamorfosi camorra/camorre dovute al suo essere "fenomeno carsico", arriva a svolgere "funzioni sociali complesse":

 

a)

di "protezione e rappresentanza della plebe e dei suoi interessi e valori";

 

b)

di vero e proprio "partito della plebe".

Ma vediamo come Sales fa procedere tali metamorfosi, operando una sintesi dell'itinerario e dei passaggi da lui proposti.

Il successo della prima organizzazione criminale urbana è fatto risalire al periodo che va tra il tardo regime assolutista e la prima età liberale, come risultante (i) della completa delegittimazione dei poteri istituzionali nella "sezione plebea" della città e (ii) della esigenza di condurre a rappresentanza gli interessi e i valori plebei. Successivamente, verso la metà del secolo, la camorra quale "partito delle classi popolari" è emarginata e sconfitta dall'evoluzione del sistema liberale e dalla corrispettiva modernizzazione politica, con cui si interrompe la tradizione camorrista urbana. Nei primi decenni del XX, secolo la camorra sopravvive come un circuito delinquenziale analogo alle altre forme di criminalità nella cintura urbana; mentre conserva le proprie prerogative di specificità nell'hinterland agricolo e nelle sue propaggini urbane dei "mercati generali". Dal secondo dopoguerra fino alla metà degli anni '50, la camorra subisce un effetto di eclisse, dal quale si riprende grazie allo sviluppo del contrabbando delle sigarette e al processo di partecipazione ai meccanismi di distribuzione della spesa pubblica. La diversità della camorra di oggi nasce proprio nella "grande trasformazione" post-bellica, come prodotto della modernizzazione patologica subita dalla Campania e dalla città di Napoli, in particolare. Le sue forme di espressione si distendono secondo le modalità della "camorra impresa" e della "camorra massa".

Nel primo paragrafo, abbiamo, con tutta evidenza, proposto una diversa genealogia storica dei poteri criminali (inclusa la camorra) nel Mezzogiorno d'Italia.

La ricostruzione della genesi e dello sviluppo della camorra proposta da Sales, oltre ai filoni ideologico-culturali già individuati, si regge su una delle tesi classiche del meridionalismo del secondo dopoguerra: quella della "modernizzazione senza sviluppo". Secondo Sales, la camorra è un fenomeno neutralizzabile da ipotesi e processi di modernizzazione con sviluppo; nella misura in cui la modernizzazione rimane disancorata ed estranea allo sviluppo, la camorra sopravvive e prolifera: essa è "il fenomeno criminale più congeniale a una modernizzazione senza sviluppo ... quasi rigenerata dal tipo di sviluppo scelto per il Mezzogiorno".

Riconnettendo le tesi di Lamberti con quelle di Sales (sostanzialmente omogenee, al di là di singoli punti di differenza), possiamo dire che la "camorra impresa" rappresenta l'emanazione coerente e organica della "configurazione criminale"; mentre la "camorra massa" costituisce l'articolazione della "configurazione conflittuale". Attraverso questo sviluppo analitico siamo meglio in grado di ricondurre in un unico kombinat criminale/conflittuale le forme attuali del dispositivo camorrista, così come emergono in queste posizioni. Non ci soffermeremo sulle continue sovrapposizioni concettuali e situazionali operate tra criminalità, devianza e conflitto, a proposito delle quali rinviamo alle osservazioni critiche in precedenza argomentate. Quello che ora ci preme sezionare in termini critici è la chiave universalistico-organicistica che presiede alle concezioni dello sviluppo, da cui, per ricalco negativo, viene derivata la tipicizzazione di fondo della camorra. Comune alle posizioni di Lamberti e di Sales è quella sorta di "diagramma delle parallele", secondo il quale la crescita diffusiva della camorra è linearmente conseguenza del carattere distorsivo dello sviluppo capitalistico nel Mezzogiorno, tanto sul piano politico che su quello economico. Secondo questo approccio, l'incremento dell'illegalità criminale altro non sarebbe che il prolungamento coerente ed inevitabile degli effetti distorsivi dello sviluppo. Il depotenziamento della base endogena dello sviluppo della camorra sarebbe, dunque tutto dentro l'attivazione di uno sviluppo armonico ed equilibrato. Il modello di sviluppo posto come orizzonte positivo, contraltare di quello storicamente e socialmente inveratosi, è un modello organicistico; in quanto tale, esente da distorsioni. Il carattere di astrattezza dell’analisi è evidente; altrettanto palese è il vizio di natura epistemologica: non si dà nella teoria pura, né nella ricerca applicata e nella realtà un modello perfettamente razionale e la medesima distorsione è parte costitutiva ineliminabile del modello cui compete. Si tratterebbe, nelle posizioni qui sottoposte a vaglio critico, di riportare al governo della razionalità dello Stato e della razionalità del mercato i processi che la camorra, approfittando delle distorsioni dello sviluppo e del funzionamento delle istituzioni pubbliche, avrebbe loro sottratto: "... ciò che qui viene incoraggiato, nel Mezzogiorno, è l'ipertrofia dello Stato e del mercato. La strategia che ne consegue è, così, schematizzabile: "più Stato" nella politica e "più mercato" nell'economia e nella società". Si tratta, invece, di ragionare sulle forme miste di intervento statuale ed espansione mercatistica nel Mezzogiorno d'Italia, cercando di stanare e avviando a rettificazione, proprio a questo avanzato e sofisticato livello di intreccio, la grande connessione Stato/mer-cato. Isolato, per così dire, l'archetipo cognitivo di Lamberti e Sales, più agevole risulta comprendere come le subculture devianti metropolitane vengano fatte figurare come prodotto coerente delle distorsioni dello "sviluppo metropolitano" regionale. Nel modello di Lamberti, al comportamento deviante farebbe difetto una organica "cultura industriale"; in quello di Sales, la "cultura indu-striale" farebbe difetto allo Stato medesimo. Nella realtà, invece, le subculture devianti metropolitane si dispiegano proprio come uno degli effetti principali dello sviluppo territoriale del modello urbano-industriale; del pari, all'origine del connubio Stato/mercato nel Mezzogiorno d'Italia v'è proprio una "cultura industriale" interventistica, la quale ha originato, col sostegno diretto della mano pubblica, la formazione e l'espansione dei mercati industriali meridionali. Ecco perché la crisi del mercato, nel Mezzogiorno, si risolve con effetto immediato in crisi dello Stato; ecco perché, nel Mezzogiorno, la crisi dello Stato si risolve istantaneamente in crisi del mercato. Allora, non è sulle distorsioni che occorrre ragionare; bensì sui modelli.

Per render meglio conto dei limiti dell'approccio teorico di Lamberti e Sales alle questioni della criminalità (e della devianza), si rende utile una rapida ricognizione sul dibattito internazionale sulla materia. Successivamente, circoscriveremo il versante politico della relazione tra modernizzazione della società e dei poteri e modernizzazione delle grandi concentrazioni criminali, fin qui esaminata in una prospettiva di indagine storica.

4.

Criminologie alla prova: il dibattito teorico internazionale e il "caso italiano"

Sono proprio i modelli di sviluppo dati quelli che influenzano la (e sono, a loro volta, influenzati dalla) genesi delle culture e delle subculture della devianza e della criminalità. La circostanza è confermata autorevolmente dalle investigazioni condotte in America da vari indirizzi di "sociologia del crimine", già nei primi decenni del Novecento.

Come è ampiamente risaputo, il dibattito criminologico ha conosciuto una nuova e vivace fase, a partire dalla reazione della scuola struttural-funzionalista alle teoriche della alien conspiracy, ancora fatte proprie dalle istituzioni americane in tempi a noi sufficientemente prossimi. La tesi principale della critica alla "alien conspiracy" è questa: il problema criminale degli Usa ha origini endogene nelle condizioni sociali e nei valori culturali dominanti dell'american way of life, i quali trasformano in criminali una parte considerevole dei giovani immigrati. La critica prende piede e si sviluppa negli anni '20 con i pionieristici lavori di Landesco e trova negli anni '60 i livelli di recezione più alti. Sempre in questo periodo, trovano accoglimento le tesi di E. H. Sutherland, elaborate vent'anni prima, sui "crimini dei colletti bianchi". È, però, D. Bell il primo a collegare con compiutezza di analisi e rigore teorico lo sviluppo del crimine con lo sviluppo del modello dell'"american way of life".

Il crimine organizzato comincia ad essere percepito e concepito come illicit enterprise, intorno agli anni '70, soprattutto ad opera dell'ala radicale della new criminology. In questa fase, nasce negli Usa il "paradigma imprenditorialista", che tanta fortuna ha, poi, in Italia negli anni '80. Lo sviluppo delle teoriche imprenditorialiste procede in uno con la messa a punto, negli Usa, di nuovi indirizzi di politica criminale. Al 1970 risale l'"Organized Crime Control Act" (OCCA) e viene successivamente creata la sezione "Racketeers Influenced Corrupt Organization", meglio conosciuta come "Rico Statue". Con la "Rico Statue" viene prevista l'introduzione di nuove fattispecie di reato, relativamente alla acquisizione illegale e all'uso illegale di attività imprenditoriali e agli "accordi associativi" finalizzati ad atti imprenditoriali illegali. Questo avviene esattamente quarant'anni dopo le prime forme di attività industriali illecite su vasta scala (produzione e commercializzazione delle bevande alcoliche), durante il periodo del proibizionismo (1920-1933).

L'impresa illegale si colloca sul mercato, in ragione del soddisfacimento della domanda di prodotti illeciti: in questo senso, espleta una funzione sociale. Nella lettura del nesso impresa illegale/beni illeciti viene applicata la teoria della domanda, in quanto si ritiene che sia la domanda a determinare il volume e la gamma dell'offerta. Ora, secondo le più accreditate analisi, la base del progresso del network illegale e dei collegati processi di successione etnica sta nel fatto che, per queste vie, si assicurano "strade insolite" alla mobilità sociale, a fronte della chiusura delle "strade ortodosse" dell'ascesa sociale.

Come sostiene P. Arlacchi, il quadro di queste teoriche, al di là di alcuni riferimenti generali, non è linearmente applicabile al "caso italiano". Manca, in primo luogo, una linea di implicanza diretta tra immigrazione interna e crescita della criminalità. Difatti, nel ciclo 1950-1970 pare non operare il fenomeno del blocco delle "opportunità legali" per l'avanzamento sociale; il che abbassa la soglia dell'offerta di promozione socio-economica immanente alle attività illecite. La sociologia ha dato spiegazione a questo fenomeno, rifacendosi alle teorie dei gruppi di riferimento: viene sostenuto che il rimedio culturale posto in essere dall'immigrazione è un fenomeno di socializzazione anticipatoria.

La teoria del "gruppo di riferimento" si deve allo psicologo sociale americano H. H. Hyman, il quale la va elaborando agli inizi degli anni '40. Secondo questa teorica, nei fenomeni della mobilità di status scatta un meccanismo comparativo, in virtù del quale un gruppo assume come riferimento principale lo status e i codici culturali di un altro gruppo, generalmente più in alto nella scala sociale. Come osserva L. Gallino, i meccanismi socio-culturali implicati dalle fenomenologie del "gruppo di riferimento" sono anche depositari di istanze di giustizia distributiva che, per così dire, costituiscono la molla stessa della comparazione referenziale. Il "gruppo di riferimento" si conquista dignità teorica definitiva per merito di R. K. Merton e A. S. Kitt Rossi, nel 1950; e successivamente con un corposo saggio di Merton del 1957. In Italia, le prime applicazioni teoriche risalgono agli anni '60 e si debbono specificamente a F. Alberoni e G. Baglioni, i quali si valgono dei codici della "socializzazione anticipatoria" nell'analisi dei fenomeni immigratori verso il "triangolo industriale". Nel caso degli immigrati meridionali, sostengono Alberoni e Baglioni, la "socializzazione anticipatoria", si esprime nel "rifiuto" e nella "critica" profondi dei modelli e delle culture d'origine.

Oltre alla mancata coincidenza tra ciclo dell'immigrazione e ciclo della criminalità, v'è un altro tratto di differenza tra il "caso italiano" e quello americano. Diversamente da quanto accaduto in Usa, tra gli anni '20 e l'inizio dei '30, la formazione e dilatazione della complessità dell'offerta di beni illeciti, in Italia, non sono determinate da politiche pubbliche proibizioniste. Osserva P. Arlacchi che, a tutta la metà degli anni '70, i beni illeciti tradizionali (droga pesante, gioco d'azzardo, prostituzione) non occupano ruolo e gerarchie di rilievo nella dinamica complessiva dell'economia delle imprese illecite italiane, eccezion fatta per il contrabbando delle sigarette. L'accumulazione originaria del capitale criminale, dunque, avviene su un altro versante: quello dell'offerta di beni e servizi illegali, non di rado sottoposti al vincolo del monopolio pubblico. Riemerge la specificità della razionalità strumentale del dispositivo criminale: competizione/cooperazione con Stato e mercato. La dinamica competitiva/cooperante si estende dai dispositivi sotto controllo statuale (l'aggressione ai meccanismi di erogazione e distribuzione della spesa pubblica) ai dispositivi sotto il controllo del mercato (la surdeterminazione di economie di profitto a composizione mista "legale"/illegale). Differentemente da quanto sostiene Arlacchi, questo processo non sembra databile allo "scorcio degli anni '70", bensì agli anni '50-60; come abbiamo più volte argomentato.

L'espansione del ciclo dei beni e dei servizi illeciti è sostenuta dall'economia di scala dell'offerta clandestina che compete con l'offerta legale, sopravanzandola: l'"offerta clandestina" diventa capace di creare domanda. Anche su questo punto, come si vede, si assiste a un rovesciamento delle ermeneutiche statunitensi, imperniate sulla domanda. L'economia di scala dell'offerta e le sue capacità di surdeterminare volume e qualità della domanda dispiegano forti effetti di condizionamento sui sistemi legali, creando un circuito di assorbimenti e collegamenti tra il mercato dei beni e servizi legali e il mercato dei beni e servizi illeciti. Il "caso Sindona" è stato letto come espressione paradigmatica di queste saldature progressive. Precisa Arlacchi: è in queste saldature che nasce la "grande criminalità". Su questo background analitico, Arlacchi prova a disegnare una mappa topologica delle articolazioni principali della grande criminalità italiana degli anni '80:

 

a)

mafia e criminalità organizzata: (i) detenzione e gestione su scala nazionale dei comparti strategici della produzione/ commercializzazione dei beni e dei servizi illegali; (ii) gestione di una parte significativa di economia "legale" del Mezzogiorno e di quote assai più limitate al Nord;

 

b)

corruzione politico-amministrativa: comportamenti illeciti della pubblica amministrazione, laddove si arriva a processi di mercificazione della decisione politica;

 

c)

criminalità economica: metodi illegali di gestione delle imprese;

 

d)

lobbyng illegale: gruppi di pressione proibiti dalla legge, i quali si avvalgono di strumenti di manipolazione e intimidazione.

Questa specie di parallelogramma della forze criminali determina, secondo Arlacchi, una risultante che costituisce l'assoluto e inquietante specifico della "questione criminale" italiana: la condizione unificata dell'offerta criminale, attraverso un collegamento capillare dei sistemi e delle élites illegali con quelli legali, dando luogo a un'intensa reciprocità di poteri di condizionamento. L'intreccio di funzioni e di competenze legali con funzioni e competenze illecite crea un sistema di propulsioni interagenti, le quali, cumulandosi e combinandosi, danno vita a un vero e proprio processo generale autopropulsivo del crimine, vischioso e fluido; di difficile decifrazione e ancor più difficile sradicamento e neutralizzazione. L'autopropulsione generale del dispositivo criminale arriva a interferire con gli stessi mercati finanziari, dovendo assicurare la continuità e l'espansione del travaso finanziario dal sistema illegale a quello legale, creando al livello di questa delicata giuntura dei sistemi economico-politici quelle che A. Lombardo, anni fa, ha efficacemente definito le funzioni della mafia massa.

Nonostante gli innegabili progressi delle analisi teoriche e della ricerca sociologica, tuttavia, come fatto osservare da E. U. Savona: "Resta ancora la necessità di una migliore concettualizzazione della criminalità organizzata, così come resta aperto il problema delle sue dimensioni e strutture organizzative...". Secondo le assai condivisibili esigenze avanzate da Savona, il campo delle analisi deve riarticolarsi lungo queste direttive di scandaglio:

 

a)

l'analisi della criminalità organizzata nel contesto più generale delle trasformazioni subite a scala nazionale e internazionale dalla criminalità in generale;

 

b)

l'analisi della criminalità organizzata in connessione con i processi dello sviluppo economico, dello sviluppo politico e dell'organizzazione sociale: la ricerca empirica dimostra, difatti, che il procedere dell'articolazione e della complessificazione dei sistemi economici, politici e sociali apre e, in certo senso, impone un pari, ma non omologo, processo di complessificazione e articolazione della criminalità organizzata;

 

c)

l'analisi degli effetti politico-sociali destabilizzanti indotti dalle pratiche e dalle economie criminali;

 

d)

l'analisi dei costi sociali, istituzionali, civili ed economici dell'argamento della spirale criminale;

 

e)

l'analisi delle diseconomie e della non-redditività dei sistemi di giustizia penale, civile, amministrativa, finanziaria e bancaria, a livello nazionale, comunitario e internazionale.

È questo il campo delle trasformazioni all’interno del quale va approfondito il "discorso politico" sui poteri criminali.

 5.

Il discorso politico sui poteri criminali

Che la mafia, così come oggi la conosciamo, sia uno dei prodotti del processo di formazione dell’unità nazionale e dei fenomeni di modernizzazione sociale e politica che, da lì in avanti, si sono affermati in Italia è, ormai, un dato largamente acquisito nel dibattito storico, sociologico e politico. E tuttavia, il "discorso sulle mafie", proprio sul versante politico, finisce col non tenere debitamente in conto la complessità delle "reti mafiose" e gli altrettanto complessi rapporti da esse intrattenuti con i "circuiti politici".

Soprattutto tra le forze della sinistra, è venuto consolidandosi un approccio politicista che ha ridotto il "problema delle mafie" alla questione del ricambio della classe politica dirigente (nazionale e meridionale). Col che tutti i nessi culturali, sociali, simbolici e antropologici che presiedono e accompagnano l’insediamento mafioso sono stati indebitamente posti in secondo piano.

Ma esistono opzioni ancora più riduttive e di stampo apertamente conservatore, come quella dell’identificazione tra "questione criminale" e "questione meridionale", esemplarmente formulata dalla Lega e formazioni politiche affini. Al contrario, sia la "questione meridionale" che la "questione criminale" sono da intendersi come due "questioni nazionali". Proprio l’approccio politicista, purtroppo incuneatosi e sedimentatosi a sinistra, non rende possibile un adeguato e risolutivo contrasto delle semplificazioni e delle manipolazioni che imperano intorno alla "questione meridionale" e alla "questione delle mafie".

Esaminando i quadri storici che fanno da contesto alla realtà italiana di quest’ultimo secolo e mezzo, va osservato che la concentrazione dei poteri politici, economici e finanziari costituisce lo sfondo della razionalizzazione dei poteri criminali, i quali si oppongono, sì, al potere statuale, ma, nel contempo, non ne possono prescindere. L’autonomia del potere statuale funge da "base" per l’autonomia del potere criminale. Questi due poteri sono in collisione, eppure non possono fare a meno di "usarsi" reciprocamente. Il monopolio della violenza legittima imputatato allo Stato, in Sicilia e nel Mezzogiorno, non è dallo Stato (unitario e post-unitario) esercitato direttamente, ma delegato alle élites locali, le cui autorità e sovranità vengono, così, appropriandosi dei codici della mediazione violenta.

Il tessuto differenziato delle relazioni sociali si riempie, in questo modo, di rapporti violenti, ad elevata soglia di circolazione e con una micidiale capacità di penetrazione e diffusione. È Franchetti, nella sua insuperata ricerca sulle "condizioni politiche e amministrative della Sicilia" del 1876, il primo a rilevare, con acume, il fenomeno: "... il primo fondamento dell’influenza di chi ha un potere reale, lo si trova inevitabilmente nel fatto o nella fama che quella tale persona ha possibilità, direttamente o per mezzo di terzi, di usare violenza". Ancora più incisiva è la sua definizione di tale ordine sociale: stato di relazioni sociali a mano armata. Stante questo clima sociale, continua Franchetti, gli ordinamenti istituzionali restano accampati al centro di relazioni e gruppi di interesse "fondati sulla presunzione che non esista autorità pubblica". Ne deriva, conclude Franchetti, che i poteri arbitrari (della mafia) fondati sull’esercizio della violenza siano più efficaci della legge. Si forma, così, un’industria della violenza, in mano, per lo più, alla classe media: "In generale questa classe è considerata come un elemento d’ordine e di sicurezza, specialmente dove è numerosa, come lo è infatti in Palermo". Le caratteristiche di questa classe media, differentemente dalla middle classs di stampo liberale che si va formando in tutta Europa, non sono pro, ma anti istituzioni. Il paradosso drammatico che ne discende, acutamente individuato da Franchetti, è che l’élite politica nazionale, per imporre il rispetto dell’ordine istituzionale, si vede costretta ad impiegare élites locali dal marcato profilo anti-istituzionale, il cui potere si regge sull’"industria della violenza". Da qui la necessità imperiosa avvertita da Franchetti che lo Stato unitario faccia prevalere la forza della legge sulla forza privata: "Lo Stato italiano ha dunque in Sicilia la missione di far prevalere esclusivamente con le proprie forze il suo diritto civile, penale ed amministrativo sopra il diritto attualmente in vigore. Ha missione di far prevalere l’autorità della Legge sull’autorità privata con qualunque mezzo ed a qualunque costo".

Nei primi due paragrafi, ci siamo soffermati a sufficienza su tali processi. È ora tempo di sottoporre ad investigazione i loro portati di attualità.

Nella situazione politica presente, secondo un’intermittenza ciclica, i poteri criminali sono dichiarati:

1) invulnerabili, allorché l’azione di repressione conosce una fase di stanca;

2) vulnerabili, allorché l’azione di repressione e contrasto consegue risultanze di ampio rilievo.

Queste oscillazioni non sono che il precipitato giudiziario degli approcci politicisti, con i quali finiscono con il condividere lo spostamento dell’indagine e del contrasto dei poteri criminali su un piano emintemente, se non esclusivamente, repressivo (dal piano politico a quello penale).

In questo senso, il punto di massima invulnerabilità dei poteri criminali sarebbe stato segnato, nel 1992, dalle stragi di Capaci (23 maggio) e di via D’Amelio (24 luglio); al contrario, quello di massima vulnerabilità sarebbe stato contrassegnato dalla cattura, tra il 1993 e il 1995, di quasi tutti i più importanti capi conosciuti e accertati della mafia e della camorra. Difatti, nella letteratura più vicina alla polemica politica in senso stretto, il tono della discusssione è di tipo catastrofico-apocalittico, subito dopo l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino; viceversa, diviene più ottimistico ed enfatizzato in positivo, dopo la cattura di Riina e di numerosi capi indiscussi della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta.

Che le cose non stiano in questi termini semplificatori, è dimostrato da una analisi appena più attenta del fenomeno in questione.

Diversamente da quanto a tutta prima potrebbe sembrare, il fine immanente delle "mafie" non è quello di accumulare denaro; bensì potere. Il paradigma che presiede alle teorie e alle prassi mafiose non è di tipo economico: denaro per il denaro; ma più complesso: accumulazione di denaro per l’accumulazione di potere, a tutti i livelli delle relazioni sociali e lungo tutte le articolazioni di potere della società. Di per sé, l’accumulazione di denaro dà luogo a rilevanti disfunzioni interne: non ultimo l’eccesso di liquidità, forma spuria delle più classiche crisi di sovrapproduzione. Sono i reticoli del potere mafioso che rifunzionalizzano le distorsioni economiche del modello di sviluppo criminale, convertendo, come abbiamo già avuto modo di analizzare, il "più denaro" in "più potere" e il più potere" in maggiore presenza nella società, nelle istituzioni, nei circuiti politici ed economico-finanziari. Del resto, nelle società complesse, il potere, se non il perspicuo, è uno dei principali "mezzi di comunicazione". Il potere criminale intercomunica con la sua base sociale e i relativi apparati simbolici; si confronta e scontra con i poteri politici, istituzionali ed economico-finanziari.

Gli "strumenti del comunicare" del potere mafioso sono dati dal possesso e dall’uso dei mezzi della violenza, manipolati ad un alto livello di padronanza militare, con una particolare sapienza di rappresentazione simbolica e con una ricaduta devastante sull’immaginario collettivo.

Ma v’è di più: i livelli di intercomunicazione violenta del potere mafioso sono dotati di una estrema mobilità. Essi occupano l’intero orizzonte della scena sociale, con una proiezione estroflettiva distruttiva verso tutti gli attori possibili. Ogni azione-comunicazione violenta del potere mafioso, nel suo vocabolario minimo, ha un doppio senso:

1) è atto punitivo-regolativo che rafforza il primato delle gerarchie interne dominanti, oppure insedia nuove egemonie di comando mafioso; in tutti e due i casi, in aperta competizione e contro i poteri dello Stato;

2) è virtualità che intende simulare/riprodurre all’infinito la propria impunità di fronte allo Stato, per divenire un terminale selettivo di consenso e di legittimità.

Stante questa sua morfogeneitica, il potere mafioso è capace di muoversi simultaneamente sugli scenari della "guerra interna" e della "guerra esterna": non v’è atto di "guerra interna" che non sia la proiezione della "guerra esterna"; e viceversa. Il potere di comunicazione della mediazione violenta mafiosa sposta il "fronte di guerra":

1) dall’interno delle grandi concentrazioni criminali all’"esterno", verso lo Stato e il sistema politico ed economico-finanziario;

2) dall’"esterno" dello Stato e del sistema politico ed economico-finanziario verso l’"interno" delle grandi concentrazioni criminali.

Tutto ciò anche nel senso che una "guerra interna" alle concentrazioni criminali si ripercuote anche nell’ordigno politico-istituzionale ed economico-finanziario, entro cui "tranches" non trascurabili intercomunicano con il potere mafioso. Analogamente, la conflittualità (talora violenta) interna allo Stato si riverbera all’interno degli schieramenti mafiosi, non indifferenti a questa o a quella soluzione della conflittualità e della violenza interstatali.

La storia di questi ultimi anni del rapporto tra poteri mafiosi, società politica e poteri dello Stato, a partire dall’omicidio Lima, è lo svelamento esemplare di queste elementari verità.

Più che essere i poteri criminali causa di instabilità politica e sociale, è l’instabilità del sistema politico che, mettendo in crisi i dispositivi di regolazione e di controllo sociale, conferisce un peso specifico esorbitante alla mediazione violenta mafiosa. Ciò in un senso assai specifico e circoscritto: la mediazione violenta mafiosa, di fronte e all’interno della crisi politica, finisce col giocare un ruolo di stabilizzazione dei poteri forti, fungendo come un canale non istituzionalizzato di regolazione ed equilibrio sociale. La crisi e la latitanza della politica rendono forti i poteri criminali; ma una politica "forte", di per sé, non significa l’indebolimento dei poteri criminali, perché, anzi, è proprio un quadro di stabilità politica l’"ambiente" più idoneo alla prosperità delle relazioni sociali del patronage mafioso. Non, certo, a caso, le grandi concentrazioni criminali hanno sempre operato e si sono mobilitate in funzione politica stabilizzante.

La regolazione sociale violenta esercitata dal patronage mafioso, surrogando le funzioni autoritative dello Stato, chiude i circuiti del monopolio della violenza, impedendo che essi si polverizzino in maniera privatistica, dando luogo ad una sorta di hobbesiana "guerra di tutti contro tutti". L‘esigenza principale dei poteri criminali è che i circuiti del monopolio della violenza non vengano "occupati" per intero dallo Stato, per modo che siano loro, e non altri, a "chiudere" il meccanismo della regolazione sociale. Per il conseguimento di questo fine, essi debbono rimarcare una presenza sociale capillare nel territorio di loro competenza, nel quale regolano in posizione di comando i meccanismi della mobilità e della rappresentanza sociale e si vanno "esibendo" come attore legittimo, se non legale. Il cristallo dei poteri mafiosi ha bisogno, per questo, di un forte insediamento sociale; insediamento che non è sufficiente riprodurre, ma che è necessario, invece, allargare di continuo verso nuove sfere di attività e intermediazioni, verso nuove aree territoriali, con proiezioni che si vanno progressivamente internazionalizzando.

Quali mediatori e imprenditori violenti, i poteri mafiosi trasformano l’originario possesso dei mezzi e degli strumenti della violenza in pia-nificazione politica per il controllo di funzioni cardine dell’ordine politico e dell’equilibrio sociale. In rapida sintesi, essi pianificano il controllo di sfere:

1) dell’ordine politico: a misura in cui detengono e gestiscono quote rilevanti del monopolio della violenza;

2) dello sviluppo economico: a misura in cui si accaparrano risorse pubbliche e progettano un modello di "sviluppo criminale" che converte l’originaria accumulazione violenta del denaro in capitale legale, dislocato nel cuore delle intermediazioni economiche, finanziarie e monetarie;

3) dello sviluppo politico: a misura in cui stringono convergenze ed alleanze con pezzi di Stato e di partiti corrotti o corruttibili, che convertono il loro mandato pubblico in esercizio dell’interesse privato di questo o quel "gruppo di pressione", interno o esterno ai partiti e/o allo Stato;

4) del sistema della rappresentanza: a misura in cui i circuiti dei sistemi e sottosistemi politico-istituzionali continuano a conservare, soprattutto nel Mezzogiorno, la loro natura escludente e spossessante, consentendo ai poteri mafiosi di erigere e gestire in proprio (non ultimo, sul piano elettorale) contesti di rappresentanza e mobilità sociale extra-istituzionali.

I modelli di stabilità politica che, via via, hanno governato la "lunga durata" della democrazia repubblicana hanno, di fatto, lasciato vacante il campo di attribuzioni che abbiamo appena esemplificato. Intorno a questo vuoto di attribuzioni funzionali le grandi concentrazioni criminali sono venute modernizzando e complessificando la loro identità, i loro comportamenti e il loro mandato sociale.

Il mandato di legittimità sociale dei poteri criminali trae, in Italia, origine da due processi saldamente intrecciati:

1) è la risultanza oggettiva di vuoti politico-istituzionali, economico-finanziari e di rappresentanza sociale;

2) è la riconversione soggettiva delle carenze dello Stato, del sistema politico e dello sviluppo economico in presenze mafiose ad alto tasso di complessità e radicamento sociale, attraverso la rifunzionalizzazione strategica costante del patrimonio, del potenziale, delle tattiche e delle posizioni di potere storicamente acquisiti.

Di particolare la criminalità mafiosa nel nostro paese ha le determinanti storiche, politiche e sociali che abbiamo dianzi illustrato. Il che dimostra, a fortiori, che il problema reclama ben più di un semplice ricambio della classe politica dirigente e dell’avvio a soluzione della "questione meridionale". Investiti e, in un certo senso, "contaminati" dalla presenza dei poteri mafiosi sono i processi fondativi ed evolutivi:

1) dello Stato unitario e del modello di sviluppo economico liberale (prima) e protezionistico del fascismo (dopo);

2) delle forme della democrazia repubblicana e del modello di sviluppo economico affermatosi dal secondo dopoguerra in avanti.

Con l’agonia della "prima repubblica", principiata nella seconda metà degli anni ‘80, il complesso rapporto dei bilanciamenti tra carenze statuali e presenzialità criminale che abbiamo appena descritto è stato scosso nelle sue fondamenta. In crisi entrano tutte le condotte di comunicazione, intercomunicazione e trasmissione del potere:

1) all’interno del sistema politico-istituzionale;

2) all’interno del network mafioso;

3) tra sistema politico-istituzionale e network mafioso.

A lungo andare, l’intreccio delle crisi di comunicazione del potere ha elevato le soglie di conflittualità interna ed esterna ai singoli raggruppamenti politici e mafiosi e tra i raggruppamenti politici e quelli mafiosi, finendo col costituire lo scenario cupo dell’agonia della "prima repubblica".

A fronte di ciò, permane e si moltiplica la crescita delle quote di ricchezza economica e monetaria in mano ai poteri mafiosi; il che complica ulteriormente una scena, di per sé, già fin troppo movimentata. L’economia criminale, al di là delle difficoltà e dei contraccolpi subiti dalla leadership mafiosa, continua ad allargare, secondo una specie di moto perpetuo, i suoi, già rilevanti, trend di espansione. Ora, se è vero che è sulla spinta (i) della detenzione di masse monetarie in crescita e (ii) della proprietà di beni economici rilevanti che i networks criminali mafiosi costruiscono la loro posizione di influenza, altrettanto vero è che, senza la legittimazione politica derivante dalla loro mediazione sociale violenta, il loro potere economico non appare bastevole per condizionare l’azione e le opzioni dei poteri politici ed economici legali. Senza questa azione di condizionamento e di concorrenza con lo Stato e il mercato, l’intero sistema di legittimazione del mandato sociale dei poteri mafiosi salterebbe in aria. È questo il dato che fa delle mafie forme di organizzazioni criminali assolutamente originali e specifiche e che spiega come esse non siano disposte a transigere neppure minimamente sulle loro prerogative autoritative. Grazie a loro, esse entrano lateralmente nel circuito della decisione politica, divenendone uno dei soggetti titolari forti. Inoltre, attraverso l’inclusione laterale nei processi decisionali, le mafie si mettono nelle condizioni di dare una "rappresentanza sociale" non solo al loro ceto interno, ma a tutti quegli strati sociali esclusi e marginalizzzati dalle politiche pubbliche, i quali finiscono, conseguentemente, con l’essere più potentemente attratti nell’orbita dei dispositivi materiali e simbolici mafiosi, assicurandone la diffusione sociale e la circolazione culturale. Tenendo in conto gli scenari sociali, politici e culturali entro cui si costruisce, rappresenta e prolifera, il potere mafioso si caratterizza, pertanto, per offrire non solo (i) protezione violenta, ma anche: (ii) rappresentanza e mobilità sociale, (iii) modelli culturali e cultuali e (iv) stili di vita in via di massificazione. Sarebbero altrimenti inspiegabili, tra le altre cose, le capacità di mobilitazione e organizzazione di ampie fette di strati sociali che le grandi concentrazioni criminali hanno storicamente dimostrato nella cattura e nell’ orientamento del consenso elettorale verso quelle forze politiche al centro di strategie di stabilizzazione politica e sociale.

Una situazione di instabilità politica rende più "forti" i poteri criminali, i quali, però, hanno bisogno di un quadro politico stabile con cui dialogare, competere e confliggere, per la chiusura delle cerchie della regolazione sociale. La maggior forza che a loro deriva dall’instabilità, hanno l’esigenza di reinvestirla in un progetto di stabilizzazione politica. Ciò trasforma i poteri criminali in partners indesiderati, ma necessari, di tutto quell’arco di forze che fondano la loro propria esistenza sull’animazione di un processo di stabilizzazione e regolazione sociale che ambisce ad una crescente totalizzazione politica.

In altri paesi a capitalismo avanzato, anche per la notevole diversità dei processi fondativi dello Stato nazionale e della società industriale, i progetti di regolazione e stabilizzazione della società non si reggono sulla partnership dei poteri criminali (anzi); ma sono direttamente imputati ai dispositivi di controllo e di pianificazione del sistema politico-istituzionale, nelle sue varie nervature. È questa "anomalia" che rende, in Italia, strategicamente forti i poteri delle concentrazioni criminali. La soggettualità mafiosa assurge, così, al rango di soggettualità politica, con un forte potere di interdizione e condizionamento e con una "base sociale", in larga parte, sottratta all’ azione di controllo, regolazione e repressione dello Stato.

Ciò che i poteri mafiosi temono di più, da parte dello Stato, non è la pura e semplice azione di repressione penale e militare: le "guerre alla mafie", evocate e invocate dai media e dalla quasi generalità delle forze politiche sono, in questo senso, armi assai spuntate. Anzi, questo livello di scontro le mafie non solo lo sostengono, ma lo rovesciano sulle controparti; come, in particolare, i primi anni '90 hanno dimostrato abbondantemente. Le "guerre alla mafia", a cui abbiamo finora assistito, conducono alla saturazione del teatro della belligeranza. Ne deriva una simulazione che vede gli attori conflittuali contrapporsi secondo mosse, strategie e rituali ad alto tasso di spettacolarizzazione e a bassa soglia di efficacia, per entrambi. Da una parte, lo Stato "gioca" ad occupare militarmente il "territorio mafioso": la strategia di impiego dell’esercito con compiti di ordine pubblico, nelle aree a maggiore "indice di mafiosità", è il corollario estremo a cui il "gioco" si è spinto. Dall’altra, i poteri mafiosi "giocano" a destabilizzare militarmente l’ordigno statuale e la società civile: le uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino (da un lato) e di don Puglisi e don Diana, (dall’altro) hanno rappresentato, finora, la punta di diamante del "gioco". Ma chi ha tratto e trae maggiore giovamento (o meglio: minori perdite) dal "gioco" non sono lo Stato e la società civile; bensì le mafie. Non solo e non tanto per il fatto che esse possono assestare, come hanno assestato, "repliche militari" di alto livello e incrudelimenti delle relazioni sociali e interpersonali; ma anche e soprattutto per il motivo che non è sul terreno della belligeranza che possono essere deprivate di quelle funzioni, attribuzioni e competenze autoritative e sociali che costituiscono il vero background del potere che hanno costantemente detenuto ed esercitato nella storia italiana. Le opzioni militari dei poteri mafiosi creano un danno rilevante allo Stato e alla società civile, non tanto quali portatrici di "effetti disarticolanti", ma in quanto elemento di riconferma dell’attribuzione alla mafie:

1) di quote rilevanti del monopolio della violenza;

2) di un mandato autoritativo di rappresentanza e regolazione sociale.

Il nodo cruciale, come si vede, è ancora quello individuato con grande perspicacia da Franchetti. Solo che oggi si presenta assai più sfaccettato internamente, articolato esternamente e innervato nelle condizioni della complessità sociale.

Gli approdi che siamo venuti descrivendo possono essere così definiti.

Stiamo marciando verso la:

1) naturalizzazione sociale delle mafie: nel senso che il complesso dellle fenomenologie sociali naturalizza tra le sue pieghe, ad un alto livello di profondità ed espansione, la presenza delle mafie;

2) socializzazione naturale delle mafie: nel senso che i fenomeni della socializzazione incorporano i "modelli naturali" delle mafie, così come sono andati evolvendo e trasformandosi.

Di questo correlato processuale gli anni ‘80 rappresentano uno snodo decisivo, nel corso dei quali le mafie trovano un loro punto di ancoraggio e stimolazione forte:

1) nelle strategie perseguite dalle politiche meridionaliste;

2) nella cortocircuitazione degli assetti e delle funzioni del mercato.

Per quel che concerne il campo ristretto della nostra analisi, i limiti delle politiche meridionaliste sono stati identificati con un sufficiente grado di approssimazione e largamente dibattuti: si segnalano, a titolo indicativo, le discussioni sviluppatesi intorno alle periodiche indagini della Svimez. Non altrettanto può dirsi per le trasformazioni, pure decisive, intervenute al livello del mercato e delle corrispettive relazioni con lo Stato, le élites politiche, il ceto imprenditoriale e le oligarchie mafiose. Va segnalato, in questo senso, un esplosivo intreccio, teoreticamente impensabile; nondimeno, operante ad un alto livello di densità politica e sociale. Ci riferiamo al nesso, peculiare nel Mezzogiorno degli anni ‘80, tra:

1) la surdeterminazione dei flussi e degli assetti del mercato sotto l’imperio di comando degli interessi delle egemonie politiche centrali e locali;

2) e la deregulation spinta degli ambiti dei mercati locali, sotto l’incalzare di uno sfrenato liberismo che fa la fortuna dei gruppi di interesse e di pressione più forti che, non a caso, possono contare, simultaneamente, sulla protezione statuale e sulla cooperazione oligopolistica con i poteri mafiosi.

I processi di naturalizzazione e socializzazione della mafia si reggono, in gran parte, su questo fatto nuovo che, a sua volta, sovralimenta e ammoderna sia la mediazione violenta che il mandato sociale dei poteri mafiosi. Come se tutto questo non bastasse, si deve, poi, tener conto di alcuni fenomeni di internazionalizzazione del capitale criminale e della sua crescente capacitià di compenetrazione e mimetizzazione nelle economie legali. Anche qui gli anni ‘80 hanno rappresentato uno spartiacque di primaria importanza.

Nel 1993, il Gafi (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale), per i paesi occidentali, stima pari a 300 miliardi di dollari il volume di affari annuo delle grandi organizzazioni criminali e a 80 miliardi di dollari quello dei profitti riciclati. Un ruolo strategico, in questo ambito, viene giocato dall’economia della droga. È stato fatto osservare, che il mercato della droga si situa all’incrocio tra economia e guerra. Nel senso che il calcolo economico, diversamente dal calcolo strategico, risponde al principio generale, secondo il quale la guerra è il risultato di un’azione esercitata contro o senza il consenso dell’altro, mentre, al contrario, la pace sarebbe il prodotto di un’azione esercitata con il consenso dell’altro. Cosicché, mentre il calcolo economico sarebbe normato dal diritto, il calcolo strategico sarebbe normato dalla forza. Se ne deduce, per analogia, che l’economia legale è normata dal diritto, mentre l’economia illegale dalla guerra. L’economia legale viene definita, quindi, come un gioco cooperativo; al contrario, quella illegale si caratterizzerebbe come gioco non cooperativo. Queste considerazioni, per quanto suggestive, non paiono convincenti:

1) perché gli stessi "giochi di guerra" sono giochi cooperativi;

2) perché il mercato economico è la sede di alcuni dei giochi meno cooperativi a cui è dato assistere: concorrenza spietata e senza esclusione di colpi tra gruppi di interesse rivali, guerre commerciali, dominio totalizzante di grandi concentrazioni economiche, etc.

3) perché, come recentemente dimostrato e ricordato dalla "guerra del Golfo" e dalle "spedizioni Onu" in Somalia e Ruanda, l'agire stesso della guerra viene finalizzato alla pace e la pace stessa viene configurata come risultato della guerra.

Ora, sono proprio alcune caratteristiche non cooperative del mercato a fungere quale culla della mimetizzazione dei poteri criminali. Ci riferiamo alle transazioni off-shore che, essendo impermeabili ai controlli istituzionali e garantendo all’utente l’anonimato assoluto, costituiscono un punto di snodo rilevante, per l’accumulo e il riciclaggio di denaro illecito. Ma osserviamo più da vicino il fenomeno: "Ricorrendo a società fittizie e a banche off-shore aventi la loro sede in Stati di fatto "sovrani" ma che a causa delle loro ridotte dimensioni o di una condizione di sottosviluppo, non possono contare su una propria economia, importanti transazioni finanziarie vengono in pratica realizzate nello Stato d’origine mentre l’esecuzione formale (sulla carta a livello contabile) avviene – fittiziamente – al di fuori della sovranità dello Stato d’origine. In questo modo vengono sottratte all’imposizione fiscale dello Stato d’origine somme che ammontano a migliaia di miliardi, senza che finora sia stato fatto alcunché, a livelli nazionale e internazionale, per porre rimedio a tale situazione. La Convenzione sull’assistenza amministrativa reciproca in materia fiscale elaborata dal Consiglio d’Europa e dall’Ocse (n. 127) è stata finora firmata soltanto da Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Belgio, Paese Bassi e Stati Uniti e ratificata unicamente da Danimarca, Norvegia, Svezia e Stati Uniti, il che ha sino ad oggi "efficacemente" ostacolato la sua entrata in vigore". Ma i "paradisi artificiali" costituiscono soltanto uno dei tasselli della espansione internazionale di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Per restare soltanto alla camorra, a cavallo degli anni ‘80 e ‘90, "stazioni" estere sono costituite e consolidate in Olanda, in Germania, in Romania, in Francia, in Spagna e Portogallo, a Santo Domingo, in Scozia. Va aggiunto che, con la caduta del muro di Berlino, tutta l’area ex sovietica è divenuto un bacino di insediamento assolutamente non trascurabile, anche come filtro di intercomunicazione e contrattazione con le "mafie orientali". La penetrazione capillare nei mercati economico-finanziari nazionali e internazionali è in ragione diretta dell’accumulo di forza e autorità dei poteri delle mafie sul piano politico interno.

Per quanto concerne la mafia, la competizione e lo scontro violento con lo Stato avvengono tanto ai livelli bassi che ai livelli alti. Essa si confronta con lo Stato nel territorio, nel senso che tenta continuamente di sottrarlo al suo controllo. Per far questo, ricorre anche alla dislocazione di suoi apparati organizzati nel funzionamento della macchina amministrativa locale. Dalla pura e semplice surroga del monopolio della violenza, essa tenta di esercitare anche funzioni di autorità e legittimità tradizionalmente imputate alle istituzioni e ai poteri legali. Quanto più riesce in questa operazione, tanto più surroga l’autorità e la legittimità statuale; tanto più le svuota di pregnanza politica democratica; tanto più stringe salde alleanze con oligarchie politiche e potentati economici; tanto più potenzia e proietta la sua cupa forza a livello internazionale.

Spostando il discorso sulla camorra, va osservato che anch’essa è riuscita ad assicurarsi una capillare internità all’apparato statuale e alla macchina dell’amministrazione pubblica locale. Basti ricordare, in proposito, che in Campania sono stati sciolti per condizionamento camorrisitico ben 32 comuni; che la leadership gavianea e andreottiana si trova sotto inchiesta per rapporti con la camorra; che nelle stesse condizioni versa gran parte della leadership napoletana e regionale del partito socialista; che circa la metà dei consiglieri regionali è stata destituita dalla carica, per fatti di corruzione contro la pubblica amministrazione e/o per collusione mafiosa. Da questo angolo di osservazione, è corretto affermare: "Se non si rimane prigionieri di una visione meramente formalistica della politica possiamo cogliere in tutto il suo spessore il fatto che nel Mezzogiorno ormai opera un altro soggetto politico forte che si è sovrapposto o ha svuotato altri soggetti politici tradizionali, elaborando un peculiare paradigma del fatto politico".

Non è, quindi, la politica a comandare le mafie; al contrario, sono le mafie che, divenuto soggetto politico forte, tendono sempre più a condizionare la politica, con tutti i mezzi leciti e illeciti, violenti e mediati. Il teorema del terzo livello non poteva trovare migliore confutazione pratica, come quella che la storia italiana e del Mezzogiorno si è incaricata di "argomentare" al crepuscolo della cd. "prima repubblica". Si può, non senza inquietudine, concludere: soprattutto nella non chiara transizione politica in corso le mafie hanno tentato, stanno tentando e tenteranno di condizionare le opzioni e gli assetti del sistema politico. Darle, perciò, per spacciate, a fronte della cattura dei loro "leaders storici", sarebbe un grave errore di sottovalutazione.

Movimenti interni ed esterni alla mafia testimoniano profondi processi di riorganizzazione del comando e ristrutturazione delle gerarchie. L'arresto dei leaders corleonesi Totò Riina e Leololuca Bagarella apre, all'interno degli equilibri mafiosi, una feroce competizione per il potere che altro non è se non l'aspetto complementare del permanente progetto mafioso di occupazione della società civile e di condizionamento della società politica. Il 15 gennaio 1993, con l'arresto di Riina, si apre una tremenda "guerra di successione". Verso la fine dell'anno, viene ucciso Francesco Montalto, figlio del potente capozona di Villabate (Salvatore), uno tra gli alleati più fedeli di Riina; successivamente, vengono eliminati M. Grado (figlio del boss Gaetano, cugino del pentito Contorno), Giuseppe e Salvatore Di Pieri. Ma la "regolazione dei conti" per la "conquista violenta del potere" non ha solo proiezioni pubbliche; essa si muove per linee clandestine che riproducono e, insieme, "modernizzano" le logiche e le strategie della "lupara bianca". Boss e semplici gregari, secondo sequenze esponenzialmente crescenti, vengono torturati, eliminati e fatti sparire in silenzio in fusti di acido, oppure in fosse sparse. Pietro Romeo, uno dei più spietati esecutori dei "gruppi di fuoco" dei corleonesi, subito dopo il suo arresto (avvenuto il 14 novembre 1995), fa ritrovare, oltre ad un arsenale superfornito di armi ed esplosivo, cadaveri e resti di cadaveri di almeno 10 mafiosi eliminati in silenzio.

Nel delinearsi di questi nuovi campi di battaglia, la figura emergente sembra essere Pietro Aglieri, indicato come uno dei partecipante all'uccisione dell'eurodeputato Salvo Lima e alla strage di via D'Amelio. Prima del suo arresto avvenuto il 21 maggio 1996, il suo competitore più in vista sarebbe stato Giovanni Brusca, l'ultimo leader rimasto fedele ai corleonesi. In questa nuova asperrima guerra, Bernardo Provenzano, altro leader storico dei corleonesi, cercherebbe di svolgere un ruolo di mediazione, perseguendo un doppio ordine di obiettivi: ridurre il peso dei corleonesi ed impedire che Aglieri acquisisca in toto il controllo di "Cosa Nostra". Il clima di contrapposizione appena descritto trova una testimonianza emblematica nelle vicende del boss di Misilmeri Pietro Lo Bianco, imposto contro il precedente capozona Benedetto Spera direttamente da Riina e Brusca, presumibilmente ucciso proprio dallo Spera (attualmente latitante) e fatto sparire in un incontro organizzato da Provenzano.

L'inasprirsi delle "guerre di mafia interne" obbedisce alle logiche di ridefinizione della geografia del "comando mafioso"; tema diventato ancora più scottante dopo la cattura di G. Brusca. Le "guerre interne", inoltre, anche per pure esigenze di sopravvivenza fisica, sovralimentano i circuiti del "pentimento mafioso" che si è significativamente esteso ad alcuni dei vertici dell'organizzazione criminale e che pare stiano alimentando un processo di "dissociazione carsica". Il che, per riflesso, contribuisce ad allargare illimitatamente le maglie della "vendetta mafiosa", mostrandone sempre più, del pari, tutta l'inadeguatezza e l'inefficacia. Per una lunga fase, la "vendetta mafiosa" si è intimamente saldata con la mediazione violenta per la ridefinizione delle leaderships interne: attacco ai pentiti in tutte le sedi processuali ed eliminazione giustizialista di loro parenti e/o amici hanno costituito un anello di una complessa catena di strategie di difesa del potere criminale e di strategie di offesa per la ridefinizione e il consolidamento delle gerarchie emergenti. Siffatta catena di strategie difensive/ offensive, però, si è andata inscrivendo in una riarticolata ritessitura della ragnatela della cooperazione/competizione mafiosa con il mercato e lo Stato.

Stiamo andando verso un nuovo scenario, le cui variabili strategiche appaiono completamente rinnovate. È stato fatto autorevolmente osservare che, con la cattura di G. Brusca, tutto cambia in "Cosa Nostra". Il che è vero; ma in un senso ben altrimenti definito: la mafia agisce il mutamento, non limitandosi a subirlo retroattivamente a seguito di "sconfitte militari". La stessa "caduta militare" dei vertici mafiosi disvela i processi di crisi da cui consistenti settori dell'organizzazione mafiosa risultano afferrati e, insieme, indica i riaggiustamenti avvenuti all'interno delle gerarchie del potere criminale. La selezione delle nuove leve del comando mafioso è scandita anche a mezzo della repressione statuale. Sfuggono più agevolmente alla repressione le tranches criminali meglio attrezzate a reggere non tanto il puro e semplice confronto militare con lo Stato; bensì quelle che, sul piano dell'organizzazione, dell'intelligenza e della combinazione sinergica delle risorse, riescono a fare un salto di autonomia, incardinando la loro propria impunità non tanto sulla copertura di poteri corrotti e/o collusi, quanto sull'efficacia e sul potere delle loro proprie autonome strategie. Il salto di autonomia è l'orizzonte di senso e la prospettiva storico-politica intorno cui sono in via di gestazione nuovi e ben più pericolosi modelli di impresa illegale e di potere criminale.

La cattura dei vertici mafiosi — da Riina a Brusca — segna la morte dei vecchi modelli di organizzazione mafiosa e delle vecchie élites criminali. Il bisogno strategico di una permanente copertura di tipo politico-istituzionale è stata una delle concause principali della loro disfatta. Dalla "mafia dei corleonesi", come l'abbiamo conosciuta in questi ultimi decenni nei suoi vari riaggiustamenti, stiamo transitando verso forme di comando e organizzazione mafiosa ben più complesse, avanzate e sofisticate. Variabile politica fondamentale dei nuovi modelli in gestazione non è più la corruzione e la collusione di tranches acquiescenti del sistema politico-istituzionale. Le nuove gerarchie mafiose come non puntano più sulla corruzione dei poteri politico-istituzionali come loro risorsa strategica fondamentale, così non hanno più bisogno di entrare in guerra con essi. La caduta delle vecchie leaderships ha disvelato la bancarotta delle vecchie strategie e, nel contempo, accelerato e sovralimentato il processo di ricambio e riarticolazione in corso.

Le nuove gerarchie mafiose non possono più lavorare ad un "patto sociale" spartitorio (in termini di risorse, competenze e funzioni) con pezzi dello Stato e delle istituzioni. Il limite politico rilevante della leadership corleonese è stato proprio quello di non aver previsto e messo nel conto tale cesura storica e politica, ritenendo possibile gestire all'infinito il modello surrogatorio che, dall'unità d'Italia in poi, ha visto lo Stato delegare alla mafia funzioni di controllo territoriale, di mobilità sociale e di rappresentazioni simbolico-identitarie. La sconfitta del modello surrogatorio, sfibrato e spinto dai corleonesi fino all'estremo limite dell'autoconsunzione, segna una linea di discontinuità epocale: crolla il modello unitario e post-unitario di uso politico-istituzionale della mafia con finalità di repressione, controllo e stabilizzazione sociale.

Da parte istituzionale non pare che emerga una recezione puntuale degli scenari in gestazione in questi ultimi due-tre anni. Le chiavi di lettura proposte, nella sostanza, confermano quelle tradizionali che, come abbiamo visto, si rivelavano già spuntate e inidonee a cogliere i vecchi assetti e le vecchie strategie criminali. È un peccato, perché, sul piano della rilevazione empirica, la fenomenologia criminale viene colta nel suo tentacolare dipanarsi materiale.

Dall'ultimo "Dossier" della Commissione Parlamentare Antimafia emerge un quadro particolarmente inquietante. Le vicende dell' Icla relative agli appalti per l'alta velocità costituiscono il banco su cui, con maggiore intensità, risalta l'intreccio tra interessi mafiosi e particolarismo affaristico di lobbies politico-economico-finanziarie. Paradigmatiche le vicende dell'Icla: sull'orlo del fallimento nel 1980; "risorta" nella ricostruzione post-sismica; implicata in numerosi processi di "Tangentopoli"; di nuovo in crisi nei primi anni '90; infine, fatta segno di attentati dinamitardi, nel gennaio del 1996, nei cantieri impegnati nei lavori dell'alta velocità, nel Casertano.

Come rileva la Commissione Parlamentare: " …l'Icla dal gennaio 1995 non è stata in grado di pagare gli operai e i fornitori", a testimonianza della grave crisi che l'attraversa. Ed è proprio in compresenza di situazioni di crisi che si innesta l'intervento delle organizzazioni criminali. Fa osservare la Commissione: " … è fin troppo evidente che, come nel caso dell'Icla, in condizioni di gravissima crisi, sono le imprese della camorra, incaricate di eseguire le forniture e di effettuare il movimento terra, che finanziano di fatto le società in stato di decozione operanti solo con compiti di copertura. Di qui il duplice effetto gravissimo: il primo è il riciclaggio effettuato dalla criminalità organizzata attraverso gli investimenti nei lavori dell'alta velocità; il secondo è l'esclusione dal mercato delle imprese sane, fatte oggetto di azioni intimidatorie". L'atto di accusa della Commissione è ancora più preciso: "Nell'Icla risultano presenti elementi e società della criminalità organizzata di matrice sia camorristica che mafiosa con la mediazione di personaggi del mondo politico-imprenditoriale coinvolti in gravi episodi di corruzione pubblica".

Ora, al di là delle sue origini e penetrazioni siciliane, l'Icla realizza nel Casertano nell'alta velocità le sue più produttive iniziative, in diretta competizione con la Condotte, società pubblica che più volte Di Falco e Buonanno cercano di portare nell'orbita dell'Icla. Lo schema di intervento è il solito: la proliferazione, in subappalto, di una miriade di microaziende. La Commissione Parlamentare Antimafia ne conta ben 8: Edil Moter, Sud Edil, Diana, Madonna, De Rosa Nicola costruzioni, BM Beton Meridionale, Biemme Beton. Inoltre, la Commissione fa rilevare come Edil Moter, Sud Edil e Diana abbiano titolari tra loro imparentati, in relazione di contiguità "con i potenti e pericolosi gruppi criminali dell'agro aversano a loro volta legati alla mafia siciliana". Michele, Pasquale e Vincenzo Zagaria, assieme ad altri affiliati ai casalesi, finiscono nella rete dei giudici, in un'operazione del gennaio 1996.

Niente affatto trascurabile nemmeno il giro di affari della De Nicola costruzioni. Nei secondi anni '80, la De Rosa si era aggiudicata numerosi lavori di appalto per la costruzione della tristemente famosa terza corsia Roma-Napoli; negli anni '90 fa il bis, con gli appalti sull'alta velocità. Negli anni '80, i committenti sono pubblici (Italstrade) e privati (Giustino costruzioni); negli anni '90, interamente pubblici. Il De Rosa è colpito dalla stessa operazione anticrimine che colpisce gli Zagaria, al pari di Giovanni Mincione, già amministratore delegato della Biemme Beton e della BM Beton Meridionale.

Ora, le movimentazioni in atto all'interno e all'esterno dei poteri criminali, oltre a disvelare la mappa delle sinergie tra organizzazioni criminali, imprenditori locali e nazionali, settori della pubblica amministrazione e circuiti politici corrotti, mette a nudo il fallimento dei progetti politici ed imprenditoriali a cui le classi dirigenti (nazionali e locali), hanno lavorato nell'ultimo cinquantennio nel Mezzogiorno d' Italia. Il discorso politico sui poteri criminali non può essere separato da un discorso sull'imprenditoria/imprenditorialità e sulla cultura imprenditoriale non soltanto nelle regioni meridionali. I limiti e le responsabilità del sistema politico si sommano con i limiti e le responsabilità del sistema economico, il quale — al di là del liberismo di facciata ritualmente sbandierato — è venuto sempre più dislocandosi come un sottosistema protetto e assistito dalla politica. Quest'ultima, a sua volta, si è andata erigendo e legittimando attraverso l'interscambio con gli altri poteri, non esclusi quelli criminali, dissociandosi sempre più lacerantemente dal mandato della rappresentanza democratico-popolare. Ciò non soltanto per la pura e semplice esigenza di drenare sufficienti risorse finanziarie e attingere cospicui vantaggi economici, ma anche o soprattutto per esigenze di stabilizzazione, regolazione e controllo sociale.

Gli anni '80 non hanno fatto altro che portare sino all'estrema deriva questi processi profondamente antidemocratici. Abbiamo, così, assistito alla sfrenata destrutturazione della democrazia politica e dell'economia di mercato. Nel campo della democrazia hanno prevalentemente operato élites oligarchiche e corporative che hanno fatto uso dello Stato e delle istituzioni, per smungere risorse pubbliche per fini privati: su questa base storico-sociale hanno potuto allignare patti, via via ridefiniti e ricontrattati, tra élites politico-economiche ed élites ma-fiose. Nell'ambito dell'economia di mercato, hanno trovato spazio, al Nord come al Sud:

a) imprenditori protetti direttamente: politiche dei sussidi statali; b) imprenditori protetti mimeticamente: politiche industriali al servizio degli interessi dei grandi gruppi industriali;

c) brokers specializzati nella mediazione violenta e nell'opera di "legalizzazione" del profitto illegale delle organizzazioni criminali.

Gli anni '90, hanno segnato la fine irreversibile di tali modelli, sia da parte politico-istituzionale che da parte criminale. Venendo meno la protezione diretta e/o mimetizzata assicurata dai sussidi statali ai networks clientelari locali, è venuta meno la protezione politico-isti-tuzionale garantita ai poteri criminali. La catena articolata del modello surrogatorio si è definitivamente spezzata in anelli chiave.

Le organizzazioni criminali, nell'autolegittimarsi e autolegalizzarsi, non fosse che per un mero istinto di sopravvivenza, si vedono costrette a cercare modalità altre di organizzazione, espressione e rappresentazione dei loro interessi, a livello di tutte le funzioni che tentano di ricoprire ed esercitare. Quali siano, per la precisione, queste nuove forme, allo stato, è difficile prevederlo; quello che appare certo è che si è chiusa un'epoca.

I processi di destrutturazione della mafia a cui stiamo assistendo in quest'ultimo periodo (e di cui la caduta del vertice e delle basi della "gerarchia corleonese" non è che una delle espressioni più evidenti) restano ancora tutti da decifrare. Quello che si puo', però, sin da ora dire è che non sono i livelli più o meno puntuali della repressione statuale ad esserne l'elemento scatenante principale. Il livello profondo della destrutturazione del fenomeno mafioso riposa nella ridefinizione e nel riaggiustamento delle strategie e delle forme di organizzazione verso cui i poteri criminali vanno indirizzandosi. Leggere questo livello profondo di destrutturazione non appare possibile, se non si riconosce alla mafia la dignità di soggetto storico capace di agire in proprio il mutamento. Detto in altri termini, questo significa che è impossibile destrutturare la mafia sul piano della mera repressione militare. Meglio ancora: attribuire all'azione repressiva dello Stato l'obiettivo della destrutturazione della mafia è irrealistico sul piano militare e pericoloso su quello politico. Irrealistico, perché un'organizzazione che ha radici sociali e culturali con una storia secolare non è destrutturabile militarmente. Pericoloso, per un doppio ordine di motivazioni: (i) perché alimenta l'illusione che una progressiva "guerra di accerchiamento" tolga l'"acqua al pesce", mentre invece non fa che sospingere allo zenit i livelli di scollamento del legame sociale; (ii) perché non aggredisce le nuove forme in gestazione del potere mafioso.

Considerare la mafia non solo "questione criminale", ma anche "questione sociale", su queste basi di analisi, non fa compiere effettivi passi in avanti nella comprensione adeguata del fenomeno, oltre che presentare, di per sé, non secondari elementi di ambiguità. Non è la mafia ad avere trasformato, nei territori in cui esercita la propria supremazia speciale, i cittadini in sudditi; bensì il più generale processo di formazione dello Stato unitario, il più generale modello di sviluppo economico e la più generale forma di democrazia che sono andati realizzandosi in Italia in questi ultimi 130 anni. Se questo è vero, non può essere una riduttiva azione antimafia a garantire i diritti, in quanto la loro lesione non proviene genericamente dalla mafia, ma anche e, in maniera più assorbente, dallo Stato e dalle istituzioni politiche, verso cui va esercitata una adeguata azione critica. Un discorso politico sui poteri criminali deve affondare il suo bisturi nella complessa ragnatela di queste connessioni. Restituire (forse, meglio sarebbe dire: conferire) potere alla democrazia e superarne i limiti che ne inibiscono l'efficacia sul piano dell'equità, della giustizia e della redistribuzione delle risorse e delle chances di vita, è il discorso minimo con cui affrontare la "questione criminale" nel nostro paese.