CAP. III

LA RAPPRESENTAZIONE SOCIALE DEL CRIMINE.

CONTESTI URBANI E PROFILI CULTURALI

  

 

 

1.

Spazio urbano e territorio criminale

La prima questione in cui ci imbattiamo, nell’analizzare il rapporto fra territorio e spazio, è la relazione complessa che gli esseri umani e lo spazio urbano intrattengono con i processi dell'adattamento. L'adattamento degli umani ai rapporti e alle relazioni sociali avviene sempre nello spazio che, a sua volta, è sempre connotato da una struttura di significati sociali particolari. D'altro canto, il contesto spaziale si articola e diversifica in sottocontesti, secondo una topologia generale così conformata: (i) centro della città; (ii) periferia; (iii) campagna.

La contestualizzazione spaziale vale anche come contestualizzazione di messaggi, diversificati a seconda dello "spazio" entro cui vengono prodotti e da cui sono emessi. La contestualizzazione dei messaggi, inoltre, funge come proposizione di una struttura differenziata di comportamenti. Osserva, in maniera calzante, Gazzola: "Ogni luogo costituisce un messaggio per chi vi si trova e suggerisce determinati schemi di comportamento". Possiamo dire: esiste tanto una psico-sociologia dello spazio quanto una spazializzazione della psiche e dell'identità. Non a caso, si è con pertinenza parlato di una "costruzione psico-mentale dello spazio" che ha nella cesura "spazio costruito"/"spazio reale" uno dei passaggi essenziali.

Ma il territorio e lo spazio non forniscono soltanto i "luoghi" dell'azione e della costruzione psico-mentale; essi elaborano e materializzano anche un ambiente che è, per metà, naturale e, per metà, costruito e manipolato dalla presenza umana. In questo senso, l'ambiente è il teatro dell'azione e, insieme, il centro di emissione di significati, di simboli e di motivazioni che si riverberano sull'azione, influenzandola e condizionandola. La percezione dell'ambiente avviene sempre all'interno del teatro dell'azione: si può, anzi, dire che il teatro dell'azione è una modalità della percezione dell'ambiente. Ma come l'azione modifica l'ambiente, così l'ambiente determina l'azione.

L'ambiente è il teatro della percezione e la percezione funge quale scena dell'ambiente. Percezione dell'ambiente e percezione dello spazio, dunque, non sono isomorfe. Nel teatro dell'azione – cioè: nell'ambiente – si dà l'opzione della strategia attraverso cui passa la nostra collocazione ambientale. L'azione, da questo lato, è strategia ambientale. Nondimeno, essa è anche percezione spaziale e, in questa misura, strategia di collocazione nello spazio degli oggetti che manipoliamo. Da questo lato, l'azione è strategia spaziale.

Ora, ambiente, spazio e territorio sono il teatro delle azioni simboliche, comunicative, sociali, politiche ed etiche. Le strategie dell'allocazione ambientale fanno massa con le strategie della spazializzazione e della disposizione degli oggetti nello spazio. Soggettivizzazione dell'ambiente e oggettivazione dello spazio dipingono un quadro unitario; a volte armonico, ma più spesso lacerato da fratture interne. Le città e, più in generale, lo spazio urbano costituiscono il punto di massima condensazione di tali movimenti armonico-contraddittori. Nel senso che è in essi che culminano, sino all'esplosione, le concentrazioni laceranti di cose e soggetti, esseri umani e oggetti. Il ruolo criminogeno della città e dello spazio urbano è stato esaminato proprio in relazione all'abnorme concentrazione di uomini, di strutture, di mezzi di produzione e di mezzi di comunicazione che essi realizzano e su cui fondano la loro propria vita e le loro attività. Ciò non tanto per il loro portato storico-naturalistico, quanto per "i processi sistematici di emarginazione legati alle strutture sociali, all'organizzazione della produzione, alla rendita fondiaria, alle speculazioni in materia di costruzioni, alla distribuzione dei servizi". Processi che fanno in modo che lo stimolo città sia retratto nei suoi potenziali attivi, al punto che l'ambiente urbano limita progressivamente i suoi effetti di emancipazione e di libertà a una fascia costantemente decrescente di cittadini. È a lato di tali processi che la dimensione spaziale della "grande città" entra in fusione con la devianza, facendola assurgere ed evidenziandola sempre più come fenomeno sociale. L'economia simbolico-sociale della città e dello spazio urbano disegna, come suo contrappunto, una economia simbolico-sociale della devianza. Il modello di urbanizzazione si converte in un modello di disgregazione sociale, nei cui "spazi" e nei cui "ambienti" prende alimento l'"ecologia della devianza".

Vi sono delle condizioni dello spazio urbano e del vivere associato che si sono, per così dire, universalizzate, divenendo consustanziali all'idea e alla realtà delle città, ormai, sotto qualunque latitudine e longitudine del globo:

a) la grande densità delle popolazioni;

b) la grande difficolà degli spostamenti e delle comunicazioni;

c) il progressivo peggioramento delle qualità progettuali dei quartieri popolari, riverberato "naturalisticamente" nell'insediamento e nella proliferazione della delinquenza giovanile;

d) le dimensioni estremamente ridotte degli appartamenti e la loro distribuzione disfunzionale;

e) il basso livello dell'architettura e delle prestazioni delle strutture scolastiche, sanitarie, sportive e culturali-ricreative.

L'insieme delle fenomenologie che abbiamo passato rapidamente in rassegna costituisce la "gola profonda" delle strutture materiali e simboliche della degradadazione dello spazio e dell’ambiente urbano. Gli effetti di disgregazione e pauperizzazione del tessuto urbano che ne derivano si riverberano soprattutto nei "centri storici" e nei quartieri ghetto periferici di quasi tutte le città del mondo. Le dinamiche della marginalità e della submarginalità dei "centri storici' delle città meridionali, in particolare, si intensificano al punto da produrre un processo di negazione della città alla maggioranza dei suoi abitanti.

Da qui prendono luogo fenomenologie ancora più gravi e che costituiscono lo "spaccato" delle più grandi città del Mezzogiorno d’Italia: nel loro cuore malato, si disloca uno spazio residuale che dà luogo al fenomeno della città morta. Ampie zone della città vengono recintate e sbarrate, murate e sepolte: la città perde luoghi e abitanti. In Campania, il sisma del 1980 ha accelerato e intensificato tale processo di deturpazione e sfiguramento delle funzioni urbane e delle funzioni umane: Napoli, Salerno e Avellino forniscono gli esempi più macroscopici in questa direzione. Intorno al cuore della città si disegna una fitta mappa di sbarramenti. Interdetto agli abitanti e alle forme vive della spazialità è ogni accesso; salvo, poi, impiantare, con le strategie del "recupero urbano", nuove iniziative e attività speculative. Qui non è semplicemente l'uso della città che viene impedito; bensì è la città in quanto tale che viene dissolta, inibendone il ciclo di sviluppo degli organi vitali. Non ci troviamo semplicemente di fronte alla "città impedita", ma all'impedimento ad essere città che promana dalle decisioni e delle procedure del governo dello spazio urbano. A questo snodo, due sono i processi deleteri che è possibile rilevare:

a) si dissolve, per linee interne, la titolarità del diritto della città ad essere città;

b) non viene riconosciuto, per linee esterne, alla generalità dei cittadini il "diritto alla città".

Quanto più la città è impedita ad essere città, nella sua più alta e densa accezione storica, simbolica e culturale; quanto più alla generalità dei cittadini viene negato il "diritto alla città", tanto più gli usi dello spazio urbano e le sue reti di senso si rachitizzano e pervertono. Quanto più la città storica contesta e aggredisce la città antica; quanto più la città si polarizza in tanti spezzoni a basso contenuto di integrazione e comunicazione e con elevati livelli di marginalità, degrado urbano e disgregazione sociale, tanto più l' identità urbana viene sospinta in crisi; tanto più gli spazi della devianza e il territorio criminale fanno uso perverso della città e dei cittadini. Il volto di "città violenta" di gran parte delle città contemporanee e, segnatamente, delle città meridionali trova in questi fenomeni strutturali i suoi alimentatori principali, su cui, più che su altro, è assolutamente urgente intervenire; pena una sempre più irreversibile saldatura tra devianza e criminalità, lungo la decomposta e disperante mappa del degrado urbano.

Ma v'è dell’altro. Al deserto urbano che si insedia nei "centri storici" si accoppiano le distese di vuoto che popolano le periferie estreme delle città. Poli tra di loro distanti e, nondimeno, intercomunicati proprio dal degrado e dalla marginalità che sviluppano fenomenologie devianti e criminali. Questi luoghi deprivati di forme urbane ricche e di forme relazionali vitali divengono i mille luoghi di incontro, di decisione e perversione della devianza e del crimine organizzato.

Uno dei cunei attraverso cui si impianta e passa l'aggressione alla città da parte della criminalità organizzata è costituito proprio dall'attacco da essa sferrato alla devianza, per sussumerla sotto il suo imperio di comando; per trasformala in un terminale del suo mercato di beni illegali, sia come utente che come agente attivo. Quanto più si approfondisce ed estende la presa del controllo criminale dei circuiti della devianza, tanto più le grandi organizzazioni criminali allungano le loro "mani sulla città", si territorializzano e intimizzano col tessuto sociale, corrompendolo dall'interno. Ogni angolo della città, nel "centro storico" e nei quartieri periferici, tende a diventare luogo di scambio e di commercializzazione di beni illegali; ogni angolo dello spazio urbano tende a divenire luogo di consumo dei "sistemi valoriali" su cui si fonda e articola il territorio criminale. Sistemi di rackets si intrecciano indissolubilmente con la dilatazione abnorme del mercato della commercializzazione e del consumo della droga che ha, ormai, in alcuni poli urbani della Campania le aree di punta non solo del Mezzogiorno. Ed è proprio l'ingigantirsi del consumo degli stupefacenti che costituisce uno dei crocevia perversi in cui meglio vengono al pettine e meglio si palesano le implicanze tra degradazione dello spazio urbano, devianza e criminalità.

Quanto più le gerarchie di senso e le reti di interesse della città per produrre e per consumare prevalgono sui modelli e sui bisogni della città per vivere, tanto più queste implicanze si approfondiscono e pervertono; tanto più il territorio criminale occupa e divora lo spazio urbano. Sopratutto nel Mezzogiorno, si apre e alimenta un vero e proprio circolo chiuso infernale: lo spazio urbano alimenta il territorio criminale che diviene uno dei più corrosivi fattori entropici delle qualità urbano-sociali. È in questi "gironi" che si sono organizzate bande giovanili di quindicenni-diciassettenni fin dagli inizi degli anni '80, incrementando i tassi di violenza e di microcriminalità diffusa; è in questi "gironi" che si è prodotto e massificato il fenomeno dei "baby killers"; è in questi "gironi" che il tempo ludico è strettamente organizzato attorno a due merci estraneanti per eccellenza: droga e videogames. E sono proprio questi "gironi" che fanno da filtro fra territorio criminale e spazio urbano che, così, intercomunicano soltanto attraverso il medium della violenza e della disperazione.

2.

La città come "luogo" della criminalità e il crimine come "luogo" della città

Abbiamo visto le linee generali attraverso cui il degrado urbano opera come base di fattori criminogeni e devianti. Ma i processi di formazione del degrado urbano non coincidono con i processi di formazione della criminalità. La storia e lo sviluppo delle città non sono, ipso facto, la storia e lo sviluppo della criminalità. Il crimine organizzato non è la maledizione irredimibile che le città portano scritta nel loro codice genetico e nel loro destino. Se non è dato immaginare una città in cui non si verifichino eventi e atti di violazione e trasgressione della norma, parimenti non è dato ipotizzare scenari apocalittici in cui le città siano completamente preda del crimine organizzato.Tra città e criminalità vi sono linee di discontinuità pronunciate. La criminalità e la devianza, tra le altre cose, sono una controfinalità del fenomeno città, a misura in cui proprio la città perverte la città e comprime i diritti dei cittadini. Una città che si libera e libera i propri cittadini, progressivamente si libera della criminalità e riconverte e rielabora la devianza.

Altrettanto errato è, però, postulare un legame di estraneità assoluta tra il fenomeno città e lo sviluppo della criminalità organizzata. La città è anche "il luogo" della criminalità, l'ambito entro cui la patogenesi criminale si struttura, definisce i propri modelli e le proprie attività. Come non può esistere una città senza devianza e crimine, così non possono esistere criminalità e devianza senza città.

La criminalità costituisce una delle malattie della città, uno dei suoi agenti patogeni; ma la città è malata, ancor prima che la criminalità la infetti: proprio per questo può infettarla. Sulle malattie della città attecchisce l'ipertrofia criminale; ma la criminalità ha in se stessa, nelle sue radici e nelle sue culture, le ragioni fondamentali e fondanti della sua crescita. La città non è fatta per la criminalità, ma ingenera e contiene funzioni criminali; allo stesso modo, la criminalità non è fatta per la città, ma riproduce funzioni urbane.

Il degrado urbano è causa di criminalità proprio perché si dà una rete complessa di rapporti discontinui/continui tra città e crimine. Ora, sia la continuità che la discontinuità hanno un potenziale ruolo attivo da esercitare. È positivo per la città rimarcare le linee della discontinuità rispetto al crimine, poiché, così, non finisce impastoiata nei suoi confini e nelle sue frontiere. È, parimenti, positivo per la città assumere consapevolezza delle sue linee di continuità col crimine, poiché, così, dispiega un'azione autoriflessiva sui suoi propri mali e sulle sue proprie controfinalità, avviando un'operazione di ecologia urbana e di vera e propria liberazione degli ambiti vitali occupati dal territorio criminale.

Esistono due scale causali che dal degrado urbano conducono alla criminalità:

a) quella degli aggregati basali (o effetti strutturali);

b) quella degli aggregati periferici (o effetti di secondo grado)

Gli aggregati basali si riferiscono alle dinamiche fondazionali del fenomeno urbano e ai relativi guasti degli ecosistemi urbani di cui sono portatrici. Essi ineriscono alla scala della relazione territorio criminale/spazio urbano che abbiamo esaminato al punto precedente.

Gli aggregati periferici pertengono a quelle speculazioni sullo spazio urbano che lo avviano verso un processo di degradazione spinta che non solo favorisce la germinazione di reti criminali, ma (come emerso negli infiniti casi di corruzione di pubblici amministratori) ha creato delle sinergie perverse e operative tra la speculazione urbana e il controllo criminale del territorio.

Il degrado urbano è causa di criminalità su questa doppia scala di livelli funzionali, invariabilmente intrecciati tra di loro e immancabilmente operanti in coppia. Non v'è controfinalità urbana che non si rovesci in degrado; non v'è situazione di degrado urbano che non sia aggredita dalla spirale fagocitante dell'insediamento criminale.

In virtù dell'azione concomitante di tutti questi fattori, appare chiaro che la crescita della criminalità organizzata stia in un rapporto di proporzionalità diretta con la crescita del degrado urbano. Per molti versi, il degrado urbano corrisponde all'ambiente di coltura ideale, se non perfetto, della criminalità organizzata.

Nelle varie fasi della "storia urbana" e della "storia criminale" delle città meridonali maggiormente interessate dal fenomeno criminale, è dato rilevare questo dato: l'apice dei fenomeni di degrado ha sempre corrisposto ai picchi di maggiore aggressività e presenza territoriale della criminalità organizzata. Non solo: è possibile registrare come i luoghi elettivi del degrado urbano siano, nel contempo, tra i luoghi elettivi del radicamento, della diffusione e dell'arruolamento del crimine organizzato. I quartieri a maggiore densità criminale sono quelli a maggiore intensità di degrado urbano.

La catena delle interazioni causali tra degrado urbano e criminalità organizzata riveste una particolare importanza anche su un altro e, non meno, decisivo fronte: la dimensione etica delle problematiche e delle fisio-patologie sociali, con particolare riferimento alle questioni della comunicazione interumana e dell'ecologia degli ambienti urbani. È indubitabile che il reticolo etico della società e degli agglomerati umani subisca duri contraccolpi e destabilizzazioni interne, quanto più il degrado urbano è fonte di criminalità. I processi dell'integrazione e della conflittualità sociale risultano destrutturati e pervertiti, dando luogo a una spirale di disintegrazione sociale, anziché a esperienze dialogiche tra differenze intercomunicanti e autonome. Soprattutto le dinamiche di formazione e sviluppo della grande criminalità organizzata e delle bande giovanili attecchiscono e proliferano sulla destabilizzazione continuata e aggravata della dimensione dell'etica. Questo inarrestabile processo di destabilizzazione spiega, in larga parte, l'intensificazione e la massificazione della conflittualità omicida di cui è portartice la criminalità organizzata, con tutti gli effetti di trascinamento e innalzamento delle soglie e delle scale di violenza che afferrano la microcriminalità diffusa e ogni forma di violazione della norma.

La destrutturazione del reticolo etico ha altre e non meno corrosive conseguenze:

a) la conferma dell'ambiente culturale della grande criminalità, così come è andato storicamente rideterminandosi nel corso del tempo;

b) la disconferma di scala di quell'ambiente culturale che, nonostante gli imperanti e dilaganti fenomeni di egotismo gruppuscolare, cinismo e affarismo, è ancora ruotante e costruito attorno a un' etica solidaristica.

Come sottoespressione di tale fenomeno, assistiamo alla messa in minoranza dell'etica della solidarietà da parte della perversa alleanza che, di fatto, si va stabilendo tra l'ambiente culturale della criminalità organizzata e quegli ambienti culturali prevalenti che ipostatizzano l'interesse individuale e di gruppo come fine in sé dell'azione umana, da perseguire facendo ricorso a tutti i mezzi leciti e illeciti, morali e immorali.

Le strutture sociali non sono più rilevanti rispetto al ruolo e alle funzioni che in esse giocano gli ambienti culturali. Questi ultimi, pur in parte determinati dalla particolare tipologia delle prime, finiscono col costituire la molla fondamentale e la scala motivazionale strategica dell'azione umana. Ciò sia con riferimento alla società organizzata e alle sue istituzioni che alla criminalità organizzata e alle sue forme di rappresentanza territoriale. Gli ambienti culturali presentano un grado di vischiosità e di impermeabilità che, sovente, le trasformazioni sociali più radicali non riescono a scalfire. Per essere più precisi: gli ambienti culturali predominanti (della società e della grande criminalità) intessono un rapporto di cointeressenza con i fenomeni della trasformazione sociale, laddove risultano confermati e laddove possono ulteriormente ridisegnare in positivo la loro propria struttura genetica; viceversa, stabiliscono una relazione di collisione e di resistenza con essi, laddove risultano invalidati e laddove si aprono falle di senescenza e anacronismo nella loro architettura di senso. Questo spiega l'apparente paradosso che vede dati valori e date culture sopravvivere alla morte delle comunità e dei rapporti sociali che li hanno espressi.

Ogni ambiente culturale è portatore di un sistema etico che entra in interazione o si scontra con la società e la tavola dei valori su cui è stata eretta. Le forme dell'interazione e dello scontro possono essere le più varie e da esse dipende, per l'essenziale, la qualità della vita sociale e della comunicazione umana. Dall'approccio etico-culturale delle istituzioni e dei gruppi organizzati e non ai problemi della società, della comunità e del singolo dipendono la scala della solidarietà sociale e i livelli di attivazione/disattivazione del degrado urbano e della grande criminalità. Le culture non solo sono trasformate dalla società e dalle modalità della relazione sociale, ma trasformano società e relazione sociale. Porre l'etica della solidarietà e la cultura del confronto, per quanto conflittuale, come uno dei princípi guida delle politiche di allocazione dello spazio urbano non solo riduce la portata dei fenomeni del degrado urbano, ma contrasta quei processi mediante i quali il degrado funge come causa di criminalità.

3.

Violenza come lavoro e lavoro come violenza: l’autorappresentazione sociale della criminalità

Gli ambienti culturali della criminalità organizzata, nella loro sopravvivenza e nella loro modernizzazione, sono causa di degrado urbano esattamente nella misura in cui degradano gli ambienti culturali che fungono da base dell'etica della solidarietà. È questo il livello causale più profondo attraverso cui procede la produzione e riproduzione del degrado urbano ad opera della criminalità. Possiamo agevolmente concludere che le scale causali della criminalità quale agente di degrado urbano si duplicano in due variabili fondamentali. Esistono una struttura profonda e una struttura terminale del crimine come causa di degrado. La prima agisce e interagisce al livello dei sommovimenti più profondi che scuotono, innovano e modificano il rapporto strutture sociali/strutture culturali; la seconda si incardina sui processi di corrosione degli ambiti urbani e sociali provocati dalla dilatazione del territorio criminale.

Meritano di essere indagati con particolare attenzione tre effetti di rilevanza collegati alla struttura profonda.

Il primo effetto di rilevanza prodotto dalla struttura causale profonda sta nella conversione degli ambiti culturali del crimine in organizzazione che inquina lo spazio e l'ecosistema urbano, riarticolando in maniera perversa i loro ambiti vitali. Gli ambienti culturali del crimine divengono:

a) modi di organizzazione dello spazio;

b) modalità di comando sugli ambiti vitali.

L'autonomia del processo organizzativo criminale rovescia i propri patterns culturali in occupazione dello spazio e in colonizzazione dei mondi vitali. La crescita dell'organizzazione criminale si pone, pertanto, come crescita dell'organizzazione del degrado urbano. L'organizzazione criminale, in un certo senso, forgia le sue strategie e le sue condotte, avendo come obiettivo proprio l'inquinamento di scala dello spazio urbano e dei mondi vitali: da questo inquinamento ricava beni e risorse per l'espansione del suo potere di sopravvivenza e di sviluppo. Come per ogni altro attore sociale, l'elemento cultura è il fondamento dell'autonomia dei soggetti organizzati in raggruppamenti criminali. L'autonomia dell'identità criminale è, in primo luogo, autonomia della cultura criminale. Ora, la cultura criminale risulta sovralimentata proprio dagli ambiti particolari entro i quali nelle società avanzate più vanno degenerando i fenomeni di scollamento del legame sociale e i processi di pauperizzazione dei mondi vitali e urbani. È anche per una sorta di istinto di sopravvivenza, dunque, che l'organizzazione criminale produce – deve produrre – degrado urbano. Gli ambienti culturali della criminalità producono mondi organizzati che nel controllo e degrado del territorio urbano hanno una delle loro emanazioni organiche. Fattore cultura, fattore organizzazione e fattore società divengono, così, i centri gravitazionali dei fenomeni di formazione e dilatazione del crimine organizzato. Il grande limite dell'approccio culturalista sta nello spezzare il legame di coappartenenza tra cultura, organizzazione e società, finendo col causalizzare il fenomeno criminale esclusivamente, o prevalentemente, all'elemento culturale. Riconoscere il ruolo strategico della cultura nel flusso della relazione sociale e nella determinazione dell'identità e delle condotte dell’attore sociale, non può voler dire ipostatizzarla come causa teleologica e universalizzante del comportamento umano, comunque esso sia caratterizzato. Non va assolutamente sottaciuto o dimenticato che i processi della secolarizzazione e della complessità sociale, tra l'altro, secolarizzano e complessificano le stesse culture criminali, le quali, in parte, reagiscono e resistono e, in parte, si lasciano permeare e modellare. Il reticolo di resistenza/permeabilità alla complessità sociale rinnova e rimodella, dall'interno e dall'esterno, le culture criminali che, pur permanendo, non sono mai le stesse e mai assurgono a fattore monocausale generatore delle condotte materiali (criminali). Il comportamento criminale (come, in generale, il comportamento umano) non è la traduzione passiva dei princípi ideali e culturali interiorizzati e appresi. Bensì è l'elaborazione attiva di una strategia che, elaborando un repertorio di opzioni e agganci motivazionali di tipo culturale, seleziona tra alternative disponibili, secondo un gioco di possibilità e di variabili che dipendono, in larga parte, dalla molteplicità di varianti ammesse e inventate dall'interazione sociale e dai quadri storici che le competono.

Il secondo effetto di rilevanza ingenerato dalla struttura causale profonda è in intima correlazione col primo. Il dispositivo culturale violento della criminalità organizzata è produttivo di degrado urbano anche per la decisiva ragione che insedia il crimine come linguaggio repressivo e autoritario, in un rapporto di prevaricazione e fagocitazione con tutte le modalità di linguaggio che non assumono la relazione di dominio come loro referente simbolico e finalità ispirativa. In termini generali, un linguaggio repressivo si qualifica per essere la deviazione e la sospensione dei potenziali di conflitto e di desiderio: bloccandoli coercitivamente e/o cristallizzandoli in maniera degenerata nel dispositivo culturale della violenza intesa e praticata come fine in sé. Il linguaggio repressivo della criminalità organizzata si connota specificamente come:

a) revoca dell'ordine di legittimità dei codici morali e politico- istituzionali ritenuti vincolanti per la libertà del singolo e la sicurezza della collettività;

b) messa in codice di una nuova grammatica del vivere sociale e personale, finalizzata all'interesse violento privato;

c) giustificazione simbolico-culturale delle più crudeli fenomenologie di sfruttamento e delle più disumane prassi di oppressione e asservimento: dal "classico" sfruttamento della prostituzione alla distribuzione di scala della morte attraverso il mercato della droga; dalla produzione in serie di adolescenti killers alla uccisione di donne, bambini e anziani;

d) creazione di un ordito lessico-culturale in funzione di habitat naturale e di mercato per le "transazioni linguistiche": l'interconflitualità omicida mafiosa-camorrista, l'aggressione violenta alle risorse della città, la devalorizzazione estrema della vita umana, etc. sono anche delle "transazioni linguistiche", per il cui tramite la criminalità organizzata parla i suoi linguaggi alla società ed è parlata dai linguaggi dei propri codici della violenza.

In sintesi, il linguaggio repressivo proprio della criminalità è il mezzo affinché la città (e la società) sia parlata dai codici della violenza criminale. È, questo, il fondo del precipizio verso cui può essere spinto il degrado urbano e, nel tempo stesso, lo stadio ottimale di riconversione delle scale della violenza criminale in potere, affari e ricchezza per il crimine organizzato.

L'insieme di questi elementi tipici e di queste regolarità culturali del comportamento criminale organizzato rende alquanto implausibile e arbitraria l'omologia, spesso tentata, tra "criminalità comune" e "criminalità politica". Il registro dell'omologazione si disloca secondo due posizioni fondamentali politicamente distanti, ma ideologicamente convergenti:

a) la posizione di internità al sistema socioculturale vigente: questo approccio ritiene che le maglie del tessuto socio-culturale dato garantiscano e proteggano qualsiasi forma di conflittualità, per cui ogni azione di contrasto dell'ordine esistente viene ritenuta priva di legittimità politica e, quindi, associata e definita come forma di crimine tout court; paradigmatica, in proposito, la posizione di Cloward e Ohlin;

b) la posizione di critica funzionale del sistema socioculturale vigente: questo approccio parte dal presupposto che la contestazione armata del sistema (tipo quella delle Brigate rosse, per intendersi) e la spirale camorristica (soprattutto nelle tipologie della NCO) abbiano la stessa "base sociale" e si rivolgano allo stesso "referente di classe", per concludere senz'altro che tra di loro vengano stretti patti di alleanza, per attentare alle istituzioni dello Stato democratico; paradigmatica, al riguardo, la posizione di Sales.

È evidente il pregiudizio ideologico che mina entrambe le posizioni, le quali finiscono con il sorvolare proprio sull'elemento essenziale: la rete complessa dei nessi tra strutture sociali e strutture culturali che pertengono alla criminalità organizzata e che la fanno così specifica e unica, irriducibile a ogni altra forma di violenza individuale e di gruppo.

L'omologia ideologica "criminalità comune"/"criminalità politica" stende un velo nero e impenetrabile anche e soprattutto sui fattori causali mediante i quali la criminalità organizzata è generatrice di degrado urbano, finendo paradossalmente con l'attribuire una "identità politica" alla criminalità e un profilo criminogeno alla violenza politica, con una vera e propria inversione dei ruoli. Atteggiamenti ideologici del genere hanno illustri e negativi precedenti: per fare un solo esempio, questo è il modo con cui è stato affrontato e liquidato il problema dei ghetti e della protesta nera nell'America della discriminazione razziale degli anni '60 e che costituisce la base logico-giustificativa dell'eliminazione fisica del movimento delle "Pantere nere" da parte dell'Amministrazione Nixon.

Il punto è che le condizioni proprie del degrado urbano producono situazioni che sono, allo stesso tempo, di intensa oppressione e di grande conflittualità. Il degrado urbano riproduce e allarga in maniera perversa tutte le peggiori realtà di sfruttamento, alienazione e disagio esistenziale presenti nella società ed è in esse che la criminalità organizzata prospera.

Siffatto ordine di problematiche è particolarmente evidente, esaminando il terzo effetto di rilevanza della struttura causale. Che la criminalità organizzata funga da alimentatore del degrado urbano, nei termini organici che siamo venuti esponendo, vuole dire che essa incide non solo sui processi formativi ed elaborativi dello spazio, ma altrettanto profondamente sulle strutture del tempo. Il degrado urbano attiene allo spazio/tempo della città, del singolo e della collettività. La criminalità organizzata, approfondendo il nostro discorso, è tanto causa di degrado quanto essa stessa degrado urbano: essa è spazio/tempo in degrado che produce degrado nello spazio/tempo.

La corruzione delle strutture del tempo è uno degli aspetti meno appariscenti del degrado urbano. Altrettanto offuscata è la degradazione delle strutture del tempo operata dalla criminalità organizzata. Dobbiamo, pertanto, soffermarci nella dovuta maniera su tali questioni cruciali.

La rappresentazione dello spazio è sempre – kantianamente e eliasianamente – in un qualche modo rappresentazione del tempo; così come l'esperienza del tempo è indissociabile dall'esperienza dello spazio. E questo sia quando stiamo parlando di spazi e tempi interiori dell'anima che di spazi e tempi esteriori del corpo, volendo soltanto per un momento schematizzare il discorso secondo l'improponibile dualismo anima/corpo. Assai dubbia pare, in proposito, la tesi di Freud, secondo cui i "processi psichici inconsci" sono di per sé "atemporali"; in realtà, nei processi psichici inconsci sono tutte le dimensioni interne ed esterne del tempo che si incastrano e, spesso, si confondono.

La spirale criminale non si sottrae a questo "destino". Ogni sua attività spaziale è ferreamente integrata in una implacabile "tabella oraria", contrassegno di stabilità e impersonalità. Come esiste un "metro", così esiste un "orologio" delle culture e delle prassi della criminalità organizzata, il cui spazio territoriale non è divisibile dal "tempo socioculturale". In quanto tende e intende appropriarsi e manipolare una massa crescente di beni, la criminalità organizzata è governata da ritmi sempre più veloci che finiscono col consumare la struttura del tempo: più sono abbondanti i beni illegali/"legali", più manca il tempo. La decisione del possesso violento dei beni consuma il tempo: le scale crescenti dei beni legali/illegali debbono concentrarsi e inverarsi in scale temporali decrescenti e in scale spaziali crescenti. Il tempo decrescente è esattamente il tempo attivo delle società complesse, polarmente distante dal tempo passivo delle società pre-industriali; esattamente come il tempo iperveloce, iperdecisionista e iperviolento diviene il demone ingordo delle strutture profonde e delle gerarchie della criminalità organizzata.

Ciò è particolarmente vero per la camorra. Le carriere camorristiche non solo si consumano vorticosamente; ma è la vita che, all’interno delle strutture del tempo camorristico, si brucia letteralmente. La precocità dell’apprendistato e dell’ingresso nella camorra si sposa con l’estrema contrazione del ciclo esistenziale dei giovani camorristi: assassinati e assassini in tenera età; consumati in un’ incandescente combinazione di furia, parossismo, cinismo, disincanto, angoscia ed evacuazione. Di questo sono consapevoli gli stessi giovani interessati, i quali in più di un’occasione ("dossier televisivi) o "inchieste giornalistiche") hanno affermato di "aver già vissuto tutto della vita" e di "non aver altro da vedere e da vivere". In proposito, possiamo reperire una versione allucinata, perversa e post-metropolitana di quei fenomeni di prostrazione e infiacchimento per eccesso di esperienza e di memoria costitutivi della grande poesia di Baudelaire.

L’estrema compressione delle strutture del tempo e il crescente carico delle strutture della decisione richiedono e ammettono:

a) all’interno dei raggruppamenti criminali, un ricambio organico continuo;

b) all’esterno, un effetto di scarica predatoria e tentacolare, in vista dell’estorsione/appropriazione violenta di un volume sempre più ampio e qualitativamente superiore di beni e risorse.

Stante questa dinamica di processo, l’assalto violento ai beni e alle risorse operato dalle organizzazioni criminali deve risolversi in assalto alla strutture del tempo. La criminalità organizzata compensa il consumo forsennato di tempo interno su cui si reggono i suoi meccanismi fondanti, appropriandosi violentemente il tempo sociale dei sistemi e dei sottosistemi organizzati, dei singoli e della collettività. Ed è in ragione del furto violento di tempo che essa è una strutturale causa di degrado urbano. Reperiamo qui in opera una sorta di astuzia della "ragione criminale": per sottrarsi alla dissolvenza del suo tempo interno, si accanisce contro il tempo esterno. Per sfuggire al vortice della dissipazione, succhia tempo da tutti i pori della società e delle relazioni sociali. Per la razionalità economica, per dirla con B. Franklyn: time is money; per la razionalità del dispositivo criminale: time is life.

L’orologio della razionalità criminale di mafia e camorra tenta di dissociare le azioni e gli eventi criminali dalla dissipazione dei suoi tempi interni e di associarli al possesso/consumo di ricchezza e potere. Per il dispositivo criminale di mafia e camorra, la vita è, appunto, possesso e consumo di ricchezza e potere su scale costantemente più larghe. Quanto più le biografie personali e di gruppo dei mafiosi e dei camorristi esternano potere e ricchezza, tanto più la rappresentazione sociale del tempo criminale si proietta nei tempi personali, collettivi e istituzionali, fungendo come:

a) fattore della loro crisi;

b) area di attrazione;

c) polo di corrosione e corruzione.

Il tempo criminale è articolazione e durata della violenza e la sua rappresentazione sociale si esplica come violazione e degradazione degli ecosistemi ambientali, urbani e interumani. Nelle culture/ prassi criminali:

a) il tempo delle cose che domina la vita sociale diviene il tempio delle cose violente;

b) il tempo merce e l'uomo carcassa del tempo della razionalità economico-calcolistica si degradano: la violenza diviene tempo merce e gli umani sono ridotti a carcassa della merce violenza.

L'inaccessibilità e l'inviolabilità dell'uso personale e libero delle strutture del tempo, prerogativa di quell'articolazione tra "tempo pubblico" e "tempo privato" indotta dal progressivo sviluppo del capitalismo, vengono divelte. Il tempo merce della violenza criminale viola l'intimità e la privacy del singolo e dei privati cittadini, destrutturando le loro sfere di libertà. L'invasione della violenza criminale come merce nelle sfere delle relazioni interumane e nell'immaginario inconscio collettivo propone una contestuale dilatazione del consumo della violenza criminale come merce. Fattasi merce, la violenza criminale propone il suo proprio consumo allargato. Riesce in ciò, quanto più, a causa delle sue azioni, si comprimono gli ambiti della riflessione personale e della possibilità di disporre liberamente del proprio tempo soggettivo da parte degli individui associati. Qui la criminalità organizzata rivela una delle sue massime causalità di degrado urbano e di implosione/esplosione della relazione interumana, poiché, al pari di una istituzione totale, abolisce e delegittima la possibilità dell'uso libero del tempo. Possiamo immaginare la criminalità organizzata come la più spietata ed efficace delle istituzioni totali, con l'aggravante che, diversamente da tutte le altre istituzioni totali, essa non si decentra rispetto alla società e agli individui associati; ma si espande violentemente in tutti gli interstizi territoriali e relazionali, clandestinizzando sempre di più, per contro, le sue strutture gerarchico-decisionali. Da questo punto di vista, per la criminalità organizzata, ogni frazione di tempo è sempre tempo di lavoro, per quanto infinitesimale possa essere. Essa delinea il seguente paradosso: quanto più è libera, tanto più lavora. E quanto più lavora, tanto più è causa di degrado, violenza e oppressione. La divaricazione tipica delle società altamente sviluppate tra "tempo di lavoro" e "tempo libero" (una sorta di prolungamento ortogonale della differenziazione "tempo pubblico"/"tempo privato") viene dalla criminalità organizzata metabolizzata e rielaborata nei termini dell'assoluta anteriorità e insindacabilità della libertà ed efficacia della violenza sulle mediazioni produttivo-comunicative del lavoro sociale e del vivere associato. Il teorema principale della criminalità organizzata può essere così espresso: violenza come lavoro e lavoro come violenza. Ed è a questo stadio che la moderna scissione "tempo libero"/"tempo di lavoro" viene recuperata e ricondotta ad una unità che non è più quella delle "comunità primitive" e nemmeno quella delle "società pre-industriali". Le conseguenze sono devastanti: nel tempo libero criminale non esiste più un tempo di lavoro (classicamente esperito e inteso); nel tempo di lavoro criminale non esiste più un tempo libero (classicamente esperito e inteso). Il linguaggio repressivo della criminalità organizzata e la violenza delle culture/prassi criminali, per questo, non possono che "lavorare" per il degrado di tutti gli spazi e di tutte le sfere della libertà individuale e collettiva, nella città e nella società. Ciò procede in maniera sempre più intensa, nella proporzione in cui le forme e le regole di organizzazione delle attività illegali/"legali" della criminalità, attraverso un processo di mimesi e di territorializzazione, fanno proprie le forme e le regole dell'intrapresa economica, facendo ingresso nel mercato economico-finanziario legittimo. La criminalità organizzata diviene la fonte di processi di destrutturazione degli stessi meccanismi economico-finanziari, tradizionalmente ritenuti un santuario inviolabile; ora, invece, al loro interno essa opera transazioni, procede all'acquisto di titoli, dà luogo a "cartelli", etc.

Considerando l'interazione tra tutti gli elementi di struttura individuati e scandagliati, possiamo legittimamente ritenere le culture/prassi criminali una componente dell'umana archeologia del sapere. Come non si possono azzerare la storia e la cultura della marginalità con il marchio di "anacronismo residuo", così non si possono liquidare la storia e la cultura della criminalità organizzata con la stigmatizzazione e la pura e semplice repressione. Le culture e le prassi criminali parlano della società in cui viviamo, delle relazioni sociali e di noi stessi assai più di quanto siamo disposti a riconoscere e ammettere. Un'archeologia del crimine è, al tempo stesso, un'archeologia sociale ed è un tassello, per quanto viziato e violento, dell'archeologia di quella società entro cui tutti siamo gettati e dentro cui esperiamo i limiti e le possibilità della nostra esistenza e dell'esistenza del mondo. Tra le altre cose, il crimine evidenzia il "demoniaco" e l'orribile che si celano nelle strutture arcane e nascoste, nelle zone ribollenti dove la vita più dolora e si inferocisce. La genealogia del crimine è anche una genealogia del perdersi e dell'incrudelirsi degli esseri umani, delle reti urbane e dei sistemi sociali organizzati. Va, pertanto, analizzata con spirito critico e animo partecipato.