CAP. I

DENTRO, CONTRO E OLTRE IL CARCERE

 

 

 

 

1.

Può la libertà dei liberi fondarsi sull'illibertà dei reclusi?

Il carcere, per implicito e per esplicito, con la sua fabbricazione sociale e le sue proiezioni simboliche sottende, organizza e difende una certa idea di libertà. I mutamenti che intervengono nella costruzione sociale e nell'organizzazione simbolica del carcere, da un lato, riverberano e, dall'altro, determinano metamorfosi e riaggiustamenti nelle idee e nelle pratiche della libertà. Si può dire: come il carcere è la faccia nascosta del pianeta libertà, così le sfere materiali della libertà sono il nascondimento emarginante e segregante del carcere. Sfere della libertà e sfere del carcere, proprio per questo, non smettono mai di intersecarsi. Contrariamente a quanto – da sempre – postulato dai paradigmi punitivi, quanto meno sono estesi e profondi gli spazi e i tempi delle culture e delle pratiche del carcere, tanto maggiormente estesi e profondi sono gli spazi della libertà; e viceversa. Da questo lato, trova una coerente verificazione un principio così postulato: il grado di civiltà di un ordinamento giuridico-politico e di un sistema sociale è misurato dal grado di civiltà del sistema carcerario. La libertà dei liberi verifica il suo reale grado di cogenza sulla serie e sulla qualità dei diritti che i reclusi riescono ad esercitare. Intanto, perché il soggetto recluso è titolare pienamente di diritti naturali inalienabili e di diritti civico-politici non surrogabili. In secondo luogo, ma non subordinatamente, la "difesa della libertà" non ha, certo, nella risposta reclusoria una strategia conforme allo scopo, a partire da due evidenze elementari:

1) l'una quantitativa: l'aumento del numero dei reclusi diminuisce quello dei liberi;

2) l'altra qualitativa: la restrizione della libertà applicata secondo una razionalità incrementale rende incerte e comprime le sfere di esercizio della libertà dell'intero corpo sociale.

Ovviamente, le condotte di azione di queste due risultanze trovano frequenti e preoccupanti punti di intersezione, drammatizzando le condizioni di enucleazione delle sfere della libertà e rendendo abnormi, per intensità e perimetro, le cerchie della sofferenza legale. Sicché, concretando un caso veramente esemplare di "circolo chiuso", la libertà giustifica il carcere e il carcere la libertà. Non sorprende se, su questa base, interdette siano verifiche puntuali tanto del grado di libertà della "società libera" che di quello della "comunità reclusa". La prima legittima la propria libertà come libertà dal carcere, nel mentre chiede/impone alla seconda di cristallizarsi come rinuncia alla libertà. Attraverso strategie di controllo e discipline di destrutturazione/strutturazione del Sé e delle corri-spondenti scale valorative, la rinuncia alla libertà cerca di sedimentarsi nel corpo e nell'anima della "comunità dei reclusi": l'interiorizzazione della colpa costituisce qui la "retribuzione" della pena e, nel contempo, disvela la finalità riposta della punizione. Ecco perché – da sempre – la sofferenza e il controllo incrociano la coercizione e, reciprocamente, la coercizione non è mai sganciata dalle strategie di introflessione della colpa, le quali non sono semplicemente finalizzate alla reclusione dei corpi, ma si configurano anche come una modalità dell'incatenamento delle anime e del pensiero. In carcere, le strategie che dall'alto scandiscono il tempo, regolano lo spazio, normano il movimento delle forme e dei soggetti viventi costituiscono un composto indivisibile di coercizione, sofferenza e controllo. Per sua essenza, il carcere è l'associazione permanente di questi tre elementi.

Le forme del carcere dipendono:

1) dai modi attraverso cui procede la combinazione di coercizio-ne, sofferenza e controllo;

2) dal peso specifico, di volta in volta, assunto da ogni singolo elemento.

Ciò è vero per tutte le forme di carcere finora conosciute; tanto più vero è per il penitenziario moderno, con il quale il carcere si è eretto a vero e proprio sistema concentrazionario.

Tutto questo, a livello sistemico, sdoppia e, insieme, articola due livelli:

1) il primo, sul piano macro: le forme storiche generali attraver-so cui ha proceduto la metamorfosi del sistema carcere;

2) il secondo, sul piano micro: le forme storiche particolari at-traverso cui il sistema carcere si è andato strutturando.

Ad ognuno di questi livelli corrispondono delle funzioni, delle strategie e delle pianificazioni, in forza dell'esigenza del governo flessibile del sistema. Le strategie del governo flessibile del carcere si differenziano nel tempo e nello spazio. L'universo concentrazio-nario si compone di più anelli penitenziari: ogni anello si ca-ratterizza per i modi e le forme dell'associazione di coercizione, sofferenza e controllo. Persino, all'interno di un singolo penitenzia-rio, con una capillare strategia di differenziazione socio-antropo-logica, convivono "sezioni" regolate da strategie di governo diver-se, in cui differente è il grado della combinazione di coercizione, sofferenza e controllo. Il "trattamento differenziato" è una costante nelle strategie di controllo della reclusione e, al tempo stesso, una variabile relativamente recente, introdotta dalle "carceri di massima sicurezza" che in quest'ultimo mezzo secolo, dagli Usa, si sono rapidamente diffuse in tutti i paesi democratici avanzati. Una co-stante, perché le procedure, le tecniche, le strategie di controllo e governo della reclusione, in ogni tempo, hanno dovuto dar conto alla differenzialità (i) dei soggetti (e dei comportamenti) reclusi, (ii) delle circostanze sociali e delle motivazioni del reato, (iii) degli ef-fetti della pena e della punizione. Una variabile nuova, perché il suo retroterra culturale e simbolico si è prolungato in paradigmi cognitivi e modelli politici che hanno fatto della norma penale e della sanzione reclusoria un meccanismo di riproduzione sociale del carcere, di totale aggiogamento e illimitata sofferenza dei soggetti reclusi. La risultante terribile del "trattamento differenziato" nelle democrazie avanzate è proprio la socializzazione dello stigma, per cui la comunicazione con la "comunità dei reclusi" procede soltanto attraverso gli archetipi e gli stereotipi della criminalizzazione e della delegittimazione simbolica, esistenziale, culturale e politica. La rappresentazione sociale, la costruzione mentale e l'espressione simbolica del carcere normalmente fornite divengono, così, rappre-sentazione, costruzione ed espressione di un mondo non più uma-no e, in quanto tale, non riconosciuto nella pienezza dei suoi auto-nomi diritti di rappresentazione, costruzione poietica, pensiero ed espressione. Nell'ufficialità delle norme, delle regole di comporta-mento e del comune sentire, il carcere viene pensato ed agito co-me un non-mondo; i suoi abitatori, come creature non-umane.

A monte di siffatte convenzioni/conclusioni v'è un pregiudizio di natura kantiana che subordina la libertà al principio di legalità. Per effetto di un automatismo, culturale prima ancora che etico-politi-co, libero diventa sinonimo di legale. Ne segue che il cittadino libero può e deve essere esclusivamente il cittadino conforme agli stereotipi normativi della legalità. Marchiato il recluso con lo stigma dell'illegalità, lo si depriva di ogni diritto. Egli qui non è nemmeno cittadino, poiché, secondo queste concezioni, si dà cittadinanza unicamente entro le sfere di estrinsecazione del principio di legalità dato e imperante. Un principio di legalità cosiffatto, astratto e rigido, non è in grado di intavolare una dialogica produttiva con l'emergente della storia e dell'esistenza; emergente che finisce, spesso, con l'essere penalizzato abnormemente, costretto com'è entro contesti normativi, esistenzali, culturali e politici angusti. La dipendenza della libertà dal principio di legalità, inoltre, presenta il grave rischio di drammatizzare la questione del potere legale, indotto a fondare e ricercare la sua autorità esclusivamente sul monopolio della coazione, sulla punizione e sulle discipline/ strategie metacomunicative che vi corrispondono. Unico principio di legalità diviene il principio del potere legale che, però, non coincide con la libertà. Al contrario, è la libertà il metro di misura del grado di legittimità e di legalità del potere; in primis, del terribile "potere di punire". In un certo senso, v'è l'esigenza di capovolgere il paradigma kantiano della dipendenza della libertà dalla legalità. In tal modo, sia al "principio di libertà" che al "principio di legalità" si assegnano il giusto peso e il giusto posto nelle relazioni umane e sociali e nel rapporto tra Stato, istituzioni, singolo e comunità.

Da lungo tempo, ogni volta che pensiamo, parliamo e agiamo intorno al carcere, siamo stati abituati a sospendere le scale del-l'universalità dei diritti e gli stessi princípi di validazione democra-tica. Il diritto naturale alla vita felice, i diritti sociali dell'eguaglianza e i princípi democratici in carcere sono messi in mora in linea defi-nitiva. Il problema non fa scandalo, tale è il livello di diffusione e di interiorizzazione della convenzione criminalizzatrice che accompa-gna l'esistenza del carcere. Il patto sociale che regola la conviven-za civile, obbligando lo Stato ad assicurare la sicurezza e i cittadini al rispetto della legalità, costruisce la presenza del carcere come non detto, come minaccia simbolica e materiale. In quanto recin-zione e neutralizzazione della devianza dalla norma e dal principio di legalità, il carcere è uno dei più potenti regolatori del patto so-ciale su cui si fondano le democrazie moderne. Una delle ragioni della difficoltà di pensare la democrazia e la libertà in carcere e di demistificare il ruolo del carcere nelle democrazie avanzate sta pro-prio nella circostanza che il carcere è uno dei regolatori del patto democratico. Metterne in discussione o semplicemente disoccul-tarne le funzioni di dominio, per la democrazia e il governo demo-cratico equivarrebbe ad una messa in questione dei presupposti fi-losofici e dei contesti normativi del patto fondamentale su cui si reggono. Una democrazia forte e vera sarebbe capace di questo. Una democrazia ridotta sempre più ad orpello e simulazione no; tanto più per i poteri democratici avanza l'esigenza di un massiccio ricorso ad uno strumentario simbolico di manipolazione e am-mutolimento delle coscienze (non soltanto dei reclusi). Ciò che qui è motivo di inquietudine per le strategie della simulazione del gioco democratico non è tanto la reclusione in sé, quanto l'occlusione dei canali di trasmissione tra società e carcere. In altri termini, qui una società democratica si legittima come tale quanto più massivo è il suo ricorso al carcere. Nel gioco delle convenzioni e delle simulazioni sociali, il più carcere tende ad assumere la funzione perversa di più democrazia. A chi inoltra la domanda di "più democrazia", pertanto, viene spesso fornita la risposta spuria e terribile di "più carcere" (il fenomeno "mani pulite", pur positivo sotto molteplici punti di vista, è stato estremamente indicativo di questi risvolti inquietanti). Ciò secondo linee articolate:

1) elevando uno stigma politico contro i soggetti portatori di cri-tica e conflitto sociale;

2) surrogando con gli strumenti penali-giudiziari le aspettative e le domande di cambiamento, di giustizia ed equità inoltrate dalla cittadinanza;

3) recuperando le disfunzioni e le inefficienze della democrazia con le funzioni e l'"efficienza" del carcere;

4) associando tutte le figure della devianza e del conflitto alle maschere del crimine cristallizzate nel teatro antropologico-simbo-lico dell'immaginario collettivo e da qui immesse, senza soluzione di continuità, nei sistemi comunicativi di massa, dove vengono ag-giornate e rielaborate.

Tutto ciò rientra nell'edificazione di un complesso apparato con-cettuale-comunicativo e nella messa in scena di figure mitopoie-tiche che solo la sistematica rimozione e la capillare copertura dei processi reali mantiene in piedi. Riconducendoci alla realtà, mettia-mo apertamente in questione tali costruzioni. Per farlo, dobbiamo continuare a formulare domande inquietanti

2.

Possono i reclusi essere proprietà privata dello Stato?

Il problema carcere non fa soltanto attrito con le forme della li-bertà e del patto sociale; ancora più direttamente, forse, urta con la questione dello Stato. La dipendenza della libertà dal principio di legalità richiama l'indispensabile funzione di comando dello Stato, che della legalità rappresenta il dispositivo incarnato. In quanto de-positaro unico del principio di legalità, lo Stato viene posto come garante della libertà: la vulnerazione della personalità dello Stato configura la lesione della legalità e della libertà. Il carcere, conse-guentemente, è la protezione coattiva da questa lesione: al tempo stesso, punizione e prevenzione.

La concentrazione della legalità nell'impersonalità della macchi-na statuale è stata assunta come transizione dalla legittimità del-l'autorità monarchica alla legalità dello Stato di diritto. Lo Stato si fonda sul diritto esattamente perché diviene l'involucro e il bari-centro della legalità in tutti i sottosistemi sociali, in particolare negli ambiti economici (libertà del mercato, libera concorrenza, libera competizione degli interessi) e politici (suddivisione dei poteri ecc.). La figura dello Stato di diritto diviene isomorfa alla figura di Stato legale ed entrambe alla figura di Stato liberale. Una delle pre-messe storico-materiali della costituzione dello Stato di diritto è la vigenza del modo di produzione capitalistico. Non casualmente, il passaggio dalle monarchie assolute allo Stato di diritto (dalla rivo-luzione inglese: 1640-1689, alla rivoluzione francese: 1789-1794) si concreta nelle fasi che precedono e accompagnano la rivoluzione industriale e segna l'ascesa definitiva della borghesia alle posizioni di potere. Lo Stato di diritto, corpo e anima del principio di legalità, estende le sfere della libertà dal privato al pubblico, riconoscendo espressamente la libertà politica e la parità dei cittadini di fronte alla legge. Con efficacia, è stato fatto notare che nello Stato di di-ritto i sudditi divengono cittadini.

Lo Stato di diritto è, al tempo stesso, uno Stato minimo e uno Stato massimo. È uno Stato minimo, perché si fonda sul rispetto delle libertà del singolo e dei commerci individuali e di gruppo, con cui non interferisce. È uno Stato massimo, perché il quadro dei comportamenti normati come legali non tollera la messa in discussione dei cardini del meccanismo complessivo: la proprietà privata e il monopolio pubblico della coercizione. Le deroghe dal quadro legale non sono ammesse, quanto più in basso nella scala sociale è collocato il trasgressore e/o il deviante. La pena reclusoria è una risposta che intende recidere alle radici tanto l'attacco alla proprietà privata che la menomazione del monopolio statuale della violenza legittima. In carcere si incarnano, fino all'estremo della perfezione, le figure/simbolo dei senza proprietà e dei senza mezzi di azione/reazione politica. L'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è puramente formale; in realtà, sono perseguiti razionalmente quei comportamenti devianti che smagliano la trama delle codifica-zioni e degli equilibri sociali. Per i soggetti che inducono la smaglia-tura viene eretto uno spazio senza diritti e senza possessi: il car-cere. Ma il carcere non è soltanto il luogo della privazione dei diritti e dei possessi; è, altresì, lo spazio/tempo in cui vige unicamente la proprietà privata dello Stato: i reclusi, a pieno titolo, sono proprietà privata dello Stato che ne dispone incondizionatamente e illimita-tamente.

In generale, allo Stato di diritto compete la definizione e l'eser-cizio del complesso di norme che regolano l'uso della violenza le-gittima; nel contesto concentrazionario del carcere, invece, l'effet-to di padronanza dello Stato è totale. Se nella società lo Stato libe-rale si appropria del 'politico', delegando il comando sui poteri eco-nomici e sociali agli "interessi forti", in carcere non delega alcun potere a nessun altro attore o soggetto. Il carcere è un'istituzione totale proprio perché totalizzante, assoluto e incontrollato è in esso il potere dello Stato. Il carcere rappresenta il rovescio oscuro del "laissez faire": quello stesso Stato che confessa il suo assoluto non interventismo nella sfera economico-sociale, capillarizza la sua presenza e la sua azione coattiva in ogni piega del sistema car-cere, di cui è regolatore unico e terribile.

Lo Stato di diritto, come è stato ricordato dagli studiosi più at-tenti e conseguenti (da Kelsen a Bobbio), si pone esplicitamente come regolatore dell'uso della forza, quale unico soggetto politico abilitato a tracciare le regole, l'intensità, la durata, le finalità, i limiti e i casi concreti dell'impiego della coazione. Nelle condizioni speciali del carcere lo Stato di diritto è restio a fissare limiti di tempo e di spazio per il ricorso alla coazione. In carcere metodi, strategie e pratiche coattive, fino all'uso sistematico della forza, non costituiscono una mera ricorsività; bensì una costante, più o meno hard o soft. Ora, è proprio questo impiego flessibile, non regolamentato e non limitato, della coazione a costituire la più plastica e intensa rappresentazione sociale della forza e dei suoi codici, in un territorio, come il carcere, in cui lo Stato non solo non sopporta avversari, ma dove non può trovare un contrasto efficace. Dove più il rapporto di forza gli è favorevole: nelle istituzioni totali, là più si esprime il potere di coercizione dello Stato. In linea strettamente teorica questo esito, per un verso, è di una coerenza esemplare: come abbiamo visto, il carcere (l'istituzione totale) è la faccia occulta e terribile del "laissez faire"; per un altro, apre una falla di non lieve entità, in quanto lo Stato di diritto dovrebbe porre limiti anche in carcere (nell'istituzione totale) al ricorso a metodi e pratiche coattive. Sotto quest'ultimo riguardo, N. Bobbio ha felicemente osservato: "Considero altrettante battaglie per lo stato di diritto, rigorosamente inteso come lo stato in cui l'uso della forza viene via via regolato e limitato, le battaglie per il miglioramento delle condizioni di vita nei manicomi e nelle carceri". Se il carcere (l'istituzione totale) non fosse il non detto e l'off limits della teoria politica e del conflitto, le battaglie per portarvi dentro lo Stato di diritto e la democrazia conoscerebbero sorte migliore, soprattutto in ragione di quell'assunto teorico che fa della democrazia il regime politico specificamente deputato alla riduzione ad un minimo degli spazi della coazione. Dovrebbe essere sufficientemente chiaro, a questo snodo del nostro argomentare, che uno dei limiti più profondi del discorso e della pratica della democrazia è il loro fermarsi fuori dal perimetro delle mura e delle sbarre dell'istituzione totale.

3.

Può la democrazia fondarsi sulla sospensione della democrazia?

È risaputo che la democrazia liberale prevede: (i) la libertà per-sonale; (ii) la libertà di stampa e di opinione; (iii) la libertà di riunio-ne; (iv) la libertà di associazione.

Il passaggio dallo Stato di diritto allo Stato democratico, nel mentre conferma i diritti di libertà dell'individuo, riconosce in pieno i diritti di organizzazione, associazione e partecipazione politica dei gruppi. Connotati essenziali della democrazia post-liberale sono, dunque, la libertà personale e il pluralismo politico, tanto che essa di frequente è (tautologicamente) definita democrazia pluralista. L' innovazione apportata dalla democrazia post-liberale sta nella estensione della libertà di associazione dalle sfere religiose, cultu-rali, di mestiere, ecc. alla sfera specificamente politica, con la co-stituzione vera e propria dei partiti politici e delle organizzazioni po-litiche in senso lato.

Ora, per le costituzioni democratiche moderne, alcuni diritti di libertà (democrazia liberale+democrazia post-liberale) presentano la qualifica dell'inviolabilità. Nel caso della Costituzione italiana, inviolabili sono i diritti garantiti dagli artt. 13 (libertà personale), 14 (libertà di domicilio), 15 (corrispondenza e comunicazione). Inoltre, in maniera ancora più pregnante ed estensiva, ma anche meno pre-cisa, la Costituzione italiana garantisce i "diritti inviolabili dell'uo-mo" (art. 2). Le teorie e le dottrine costituzionaliste più sensibili e avvertite hanno inteso saldare il riconoscimento dell'inviolabilità dei diritti dell'uomo con la protezione di inviolabilità espressamente ac-cordata ad alcune tipologie di diritti, estendendo a tutti i diritti di li-bertà la clausola dell'inviolabilità; in particolare, la protezione dell' inviolabilità è estesa alla libertà di manifestazione religiosa (art. 19), di espressione del pensiero (art. 21), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18).

Possiamo concludere questo rapido excursus, rilevando il ca-rattere di universalità che lo Stato democratico, facendo proprie le acquisizioni dello Stato di diritto e ulteriormente sviluppandole e perfezionandole, attribuisce ai diritti di libertà.

Il problema della democrazia è che, in genere, ogni agglomerato organizzato e aggregato comunitario o di gruppo, nel suo funziona-mento, tende a limitare fortemente l'universalità dei diritti di liber-tà. Ciò tanto al suo interno che al suo esterno. Problema dei pro-blemi è, poi, la sospensione del principio di libertà e del principio di democrazia all'interno delle reti comunicative chiuse, in cui vige una relazione di supremazia speciale: dal rapporto uomo/donna alla famiglia; dall'amministrazione pubblica alla fabbrica; dalla scuola alla caserma; dal carcere a tutte le istituzioni totali. Come è stato fatto osservare, il carattere distintivo delle relazioni di "supre-mazia speciale" è che esse assegnano ai diritti di libertà "garanzie e tutele minori, e talvolta minori fino a zero, di quelle di cui godono entro l'ordinamento generale".

Il carcere (l'istituzione totale, in genere) rappresenta l'organiz-zazione storico-politica e spazio/temporale del grado zero della li-bertà e della democrazia.

Tutti i tentativi, pur fatti, di deviare da questo grado zero, deco-struendolo per linee interne/esterne e caricandolo di senso altri-menti vitale, sono più o meno rientrati, per non aver voluto o sapu-to affrontare il "nocciolo duro" delle teorie e prassi della libertà, dello Stato e della democrazia; non solo e non tanto le teorie della penalità e le culture della pena. Ciò ha facilitato oltremodo il rimon-tare periodico di impostazioni autoritative e afflittive che si sono letteralmente smangiate le aperture riformiste, esperite, a onor del vero, sin troppo flebilmente e contraddittoriamente. Così è stato per la legge di riforma del 1975, a partire dagli interventi controri-formatori del 1977, che trovano il loro punto di coronamento for-male nell'istituzione delle "carceri speciali"; così, per la cd. "legge Gozzini" del 1986, smantellata e destrutturata con una valanga di decreti legge controriformatori, che dal novembre del 1990 si sono prolungati fino al 1993.

La questione politica generale che qui emerge si scompone in tre segmenti:

1) la democrazia pone dei limiti all'universalizzazione dei diritti di libertà;

2) la democrazia pone dei limiti all'esercizio dei diritti di associa-zione e partecipazione politica;

3) la democrazia pone dei limiti all'applicazione delle regole de-mocratiche.

In carcere, questi tre segmenti si saldano in maniera perfetta e intensissima. Le teoriche della punizione reclusoria, per solito, re-citano che il carcere si "limita" alla restrizione della libertà perso-nale. Come abbiamo visto, così non è. È il complesso dei diritti di libertà e dei diritti di associazione previsti dallo Stato di diritto (pri-ma) e dallo Stato democratico (poi) che viene vulnerato e sospe-so.

4.

Può la sicurezza dei liberi divorare il destino dei reclusi?

Diversamente da quanto postulato da un topos classico della politologia, lo Stato di diritto (liberale) non è univocamente rappre-sentabile come articolazione della strategia (liberale) di difesa della società contro lo Stato, con l'espressa previsione del non inter-vento di quest'ultimo negli "affari" sociali, economici e personali. È proprio la distinzione (liberale) tra Stato e società che fa dello Stato il "pilone di sostegno" della politica; base indispensabile per le future politiche di intervento sociale equitativo che, a partire dal "sistema di assicurazioni sociali obbligatorie" di Bismarck (1883-1889), trovano diretta imputazione nello Stato. Lo Stato liberale ha il monopolio della politica ed è proprio tale monopolio a "garantire" e "tutelare" lo sviluppo della società, secondo le regole della libera concorrenza e la competizione tra gli interessi (individuali). Funzioni non secondarie, anzi di primissima rilevanza, sono dalla società incanalate verso lo Stato; in particolare, le politiche della "difesa sociale". Qui è lo Stato che difende la società. Lo Stato democra-tico eredita queste funzioni e le porta, come abbiamo appena visto, a compimento. Il carcere è uno dei mezzi principali della protezione della società da parte dello Stato, tanto nella società liberale che in quella democratica.

Come sappiamo, lo Stato democratico scambia sicurezza contro autorità. Nel senso che in cambio del riconoscimento della sua autorità garantisce la sicurezza sociale. Della sicurezza sociale il carcere continua ad essere il presidio; esattamente nella misura in cui la fabbrica continua ad essere il "centro" del meccanismo di produzione/riproduzione della ricchezza e della stratificazione so-ciale. Anche per questo, come abbiamo visto nel primo punto, il "più carcere" può assumere le sembianze espressive e comunicati-ve del "più democrazia"; e viceversa.

L'insieme di queste coordinate centrali comincia a venir meno a cavallo del XIX e XX secolo:

1) a fronte del processo di formazione della metropoli contem-poranea;

2) con la progressiva estensione della produzione di massa che, incardinata sulla incorporazione della tecnologia e della scienza nel rapporto di produzione, nel volgere di pochi decenni, scalza il la-voro vivo dalla posizione di "centro" della valorizzazione.

La mappa delle fenomenologie e delle problematiche sociali vie-ne sconvolta. La conseguenza che più ci preme sottolineare è che, nel pieno di queste trasformazioni delle forme sociali, l'offerta di si-curezza apprestata dallo Stato democratico, nonostante l'ipertrofia, ormai, conseguita dagli spazi della reclusione, abbassa progressivamente le sue soglie. Entrano, pertanto, in crisi i circuiti della legittimazione democratica. Il controllo concentrazionario del crimine e della devianza non risolve la richiesta di sicurezza che viene dalla cittadinanza, a fronte del ramificarsi di profondi processi di diseguaglianza e discriminazione sociale. La legittimazione dell'autorità democratica deve, a questo punto, passare per la porta stretta di politiche sociali atte a recuperare, con un intervento di bilanciamento equitativo, le distorsioni che in termini di appropriazione e distribuzione delle risorse e dei beni sono prodotte dal libero funzionamento delle "regole del mercato" e dalla competizione sfrenata tra i "gruppi di interesse". Intorno a queste nuove esigenze, in opera già sul finire dell'Ottocento nelle società industriali più avanzate ed "esplose" nel ventennio che segue il secondo conflitto mondiale, va maturando il passaggio dallo Stato democratico allo Stato sociale. Nelle nuove condizioni, la garanzia della sicurezza non si risolve più: (i) nella tutela delle libertà personali e del libero funzionamento del mercato, (ii) nel pieno riconoscimento degli at-tori politici organizzati e nella progressiva riconduzione del conflit-to alle cerchie legali del gioco democratico. Ora le politiche della sicurezza sociale rivestono la funzione di ammortizzatore delle con-traddizioni e differenze sociali. A questa funzione eminentemente politica se ne affianca un'altra di carattere economico. Lo Stato so-ciale, difatti, non solo ammortizza le tensioni sociali, ma ossigena il mercato, stimolando la crescita della domanda: le politiche keyne-siane rappresentano questo cruciale punto di passaggio nel rap-porto tra Stato e mercato, politica ed economia.

Le funzioni ammortizzatrici delle politiche di Welfare prolungano la loro azione e i loro effetti anche in carcere, sgravando le politi-che penitenziarie del loro eccesso di internalità e autoreferenziali-tà. L'uso del carcere è:

1) rideterminato sul piano quantitativo;

2) rielaborato sul piano qualitativo.

Ora, i mutamenti di qualità e di quantità dell'uso del carcere nell'epoca dello Stato sociale non implicano il declino irreversibile del carcerario all'interno del sistema dl controllo sociale; bensì ne ridefiniscono le funzioni sociali, le logiche di funzionamento interno e la razionalità strumentale. Inoltre, la contrazione degli ambiti territoriali della reclusione:

1) non sradica la extraterritorialità del carcere; anzi, la riconfer-ma e riclassifica;

2) è un'intermittenza ciclica: come non si estende simultanea-mente a tutti i paesi industrializzati, così limita la sua vigenza a durate storiche ben specifiche.

Lo Stato sociale deve regolare, sul punto, una trasformazione di fondo: la perdita di centralità del sistema di fabbrica all'interno del processo di produzione e realizzazione del plusvalore, a cui si ac-compagna la perdita di centralità del carcerario entro il sistema del controllo sociale. In questo passaggio, come è ovvio, mutano le funzioni assegnate al carcere nelle fasi liberale e post-liberale. Ciò anche perché, nel frattempo, una trasformazione non meno rilevante interessa la devianza sociale, la cui fenomenologia non è più riconducibile ad una "serie comportamentista" monocausale, nega-zione simmetrica e complementare del carattere monocratico del principio di legalità. I processi della differenziazione e della com-plessità sociale intenzionano pratiche devianti diffuse e "illegali-smi" di massa, i quali non sono riconducibili alla pura e semplice "trasgressione della norma", ma richiamano, altresì, altre "forme" e altri "codici" di normalità. Si pensi, per fare un esempio onni-esplicativo, alle lotte intorno al "senso" e all'"identità" condotte dai movimenti sociali negli anni '60 e '70 in tutti i paesi capitali-stici avanzati.

"Fuga dalla sanzione detentiva", "de-istituzionalizzazone" e "controllo diffuso", portato perspicuo delle politiche penitenziarie del Welfare, rimuovono il sistema carcere dalla posizione di centro del controllo sociale. Ma ciò, lungi dal segnarne l'estinzione delle funzioni e del ruolo, avvia all'interno del carcere un processo di ra-zionalizzazione. Il carcere diviene un selettore elastico che allarga e chiude le sue ventose, filtrando e concentrando il massimo ne-cessario di coercizione/sofferenza/controllo sul minimo possibile di massa reclusa. La popolazione detenuta, entro questo nuovo mec-canismo, può aumentare o diminuire; ma si scontrerà sempre con la massima modulazione storicamente e politicamente richiesta di coercizione, sofferenza e controllo. Il carcere qui restituisce il re-cluso alla "società libera"; ma non prima di averlo fatto passare at-traverso le cerchie selettive che dalla cella conducono al "controllo diffuso" e/o a suoi equivalenti. Il Welfare fa questa importante sco-perta: per far divenire la società più sicura, bisogna far diventare più sicuro il carcere:

1) impossibiltando l'uscita illegale: l'evasione;

2) prospettando la fuoriuscita legale: la "de-istituzionalizzazio-ne", il "controllo diffuso", ecc.

Ecco perché le "carceri di massima sicurezza" sono codetermi-nanti del "controllo diffuso". Il carcere è, ora, uno dei filtri delle generali politiche di ammortizzazione sociale del Welfare: non più il terminale di raccolta concentrazionaria dell'illegalità; bensì uno dei punti (medi) di ammortizzazione degli illegalismi e di fluidificazione del rapporto legalità/illegalità. Non si tratta di custodire/segregare, punire/proteggere o rieducare/risocializzare. Il Welfare prende atto del fallimento tanto del custodialismo e della segregazione quanto della rieducazione e della risocializzazione. Più realisticamente, usa il carcere per non far esplodere le contraddizioni sociali e la società per non far esplodere le contraddizioni del carcere. Da qui un esito perverso, così, rappresentabile: quella stessa società che si difende dal carcere, ne fa uso per sopravvivere; quello stesso carcere che minaccia la società ne consente la riproduzione allargata. Per un verso, il carcere non è più il centro del controllo sociale; per l'altro, si trova più intensamente coinvolto nelle politiche della sicurezza. Il patto sociale ora pone in capo allo Stato l'obbligo della sicurezza nelle forme della mediazione attiva del conflitto sociale. Il benes-sere e l'integrazione sociale sono le finalità dichiarate della media-zione. Il carcere viene integrato quale elemento attivo delle politi-che del controllo e della sicurezza che, ora, si decidono e giocano, in gran parte, "prima" e "fuori" di lui. Qui i cittadini debbono esse-re più sicuri dell'inoffensività dei reclusi e della disattivazione del crimine e della devianza per linee sociali interne, ancor prima del momento topico della cella; i reclusi, per parte loro, debbono es-sere garantiti (cioè: mantenuti legalmente) nello stato di insicurezza totale. Ai vecchi ceppi se ne aggiungono nuovi. I reclusi non sono semplicemente proprietà privata dello Stato, senza il riconosci-mento di alcun diritto di libertà e di democrazia; ora sono senza destino, nel senso che debbono fare completamente e solamente assegnamento sullo Stato, per migliorare o modificare la loro posi-zione. Per i reclusi, essere senza destino significa essere e vivere senza la possibilità della decisione. Le risorse della loro autonomia esistenziale e della loro identità, non meramente il loro corpo e la loro azione: ecco la "posta" che il "Welfare penitenziario" tenta di fare sua. Lo Stato sociale intavola con i reclusi uno scambio senza equivalenti, di cui è il regolatore e decisore supremo, apprestando due livelli di azione possibile:

1) le soluzioni positive: la normazione delle fattispecie e dei percorsi istituzionali della fuoriuscita legale dal carcere;

2) le soluzioni negative: la normazione delle ipotesi e delle azioni di repressione, a livello individuale e collettivo, di tutti i casi di "resistenza attiva" e "ribellione aperta" contro il regime reclusorio.

In un contesto comunicativo e normativo cosiffatto, per i reclusi non c'è possibilità di scelta effettiva, essendo sia quella negativa che quella positiva già interamente sovradeterminate dall'alto, se-condo impulsi e logiche tendenti a favorire l'"opzione positiva" e disincentivare "l'opzione negativa". Ecco perché il Welfare State, soprattutto in Italia (nonostante la pressoché totale assenza di politiche di "de-istituzionalizzazione" e "fuga dalla sanzione deten-tiva"), è anche lo Stato della premialità. La razionalità lineare dello stimolo/risposta qui corona il processo di sottrazione del destino e della decisione dentro i cui vortici i reclusi sono violentemente gettati. Entro un meccanismo di tal genere tutti i comportamenti tendono ad essere "indotti": il recluso può solo aderire a scelte altrui, mai optarne una in proprio, autonomamente; e quando si rifiuta di scegliere, per non cadere prigioniero della decisione altrui, si espone terribilmente alla paralisi, alla rinuncia ad essere fattore attivo della propria libertà, pur nelle condizioni della carcerazione.

Due le vie d'uscita da questo "doppio vincolo" decisionale:

1) o l'accettazione del destino sovraimposto della decisione al-trui;

2) oppure la rottura critica dello schema lineare stimolo/risposta allestito in carcere dal gioco welfaristico.

5.

Il tempo e lo spazio dei liberi possono rendere virtuali il tempo e lo spazio dei reclusi?

La crisi del Welfare dà libero sfogo, per tutti gli anni '80 e l'ini-zio dei '90 (in maniera ancora più accentuata, dopo le "rivoluzioni del 1989" e la caduta del "muro di Berlino"), al neoliberismo che domina la scena anche nel campo del controllo sociale e delle politiche penitenziarie. In auge ritornano le teorie e prassi della "mano forte" nella repressione penale". Moloch ritorna; ma ora si avvale di strategie ben più complesse e raffinate: i processi di capillarizzazione sociale del controllo e l'uso attivo del carcere ai fini della sicurezza sperimentati nei decenni del Welfare non sono passati invano. La giustizia penale, mai come nella crisi del Welfare, assume il doppio volto di Giano: uno rivolto al passato, agli albori della pena moderna; l'altro rivolto al futuro, a tecnologie penali rarefatte e inafferrabili. Nel dopo Welfare, si realizza un mix tremendo di materializzazione cruda (non di rado, crudele e sadica) e smaterializzazione eterea (non di rado, indiscernibile) del regime reclusorio. Un esercizio penale elastico e soggettivo coesiste con la pressante richiesta dell'inasprimento delle condizioni di sottomissione alla pena. Da qui un "doppio mulinello", particolarmente intenso in Italia, paese in cui il Welfare poco o niente ha fatto per "de-istituzionalizzare" il carcere:

1) la soggettivizzazione dei tempi della repressione penale;

2) l'oggettivazione degli spazi della repressione penale.

I tempi della repressione penale si soggettivizzano, nel senso che come la legge può inquadrare e sanzionare il reato, così il giu-dice, incentivando e premiando condotte collaborative, può estin-guerlo. Il carcere dismette di essere il terminale di norme imperso-nali e condotte illegali tipiche; più esattamente, si configura come il risultato delle decisioni e delle azioni soggettivistiche del giudice. Le "procedure processuali" di "mani pulite", ancora una volta, ap-profondiscono e affinano tali meccanismi.

Gli spazi della repressione penale si oggettivizzano, nel senso che come la colpevolezza (le motivazioni soggettive e la specificità del reato) si evapora, passando in secondo piano, così irrompono in prima fila sulla scena le "strutture organizzative" e la "strategia politica" delle forme della devianza e della criminalità. Il carcere as-sume qui le forme specifiche di una contro-struttura organizzata e di una contro-strategia spazializzata.

Diversamente dallo Stato sociale, le strategie di controllo socia-le attivate dallo Stato post-welfaristico non mirano alla mediazione ed integrazione del conflitto e della devianza. La politica del con-trollo sociale trascorre in tecnologia del controllo, avente la finalità dichiarata di destrutturare il conflitto e la devianza, attraverso la lo-ro cancellazione politica, simbolica, culturale e, talora, anche mili-tare. All'altezza di tale esito, le tecnologie del controllo sociale di-svelano il loro carattere politico occulto. Incardinate sul discono-scimento culturale, politico e simbolico del conflitto e della devian-za, si fissano come forme della diseguaglianza, per il cui tramite si affermano politiche sociali e penali discriminatorie.

Il carcere del post-Welfare realizza la sintesi più avanzata tra prigione del corpo e prigione della mente e dell'anima. I reclusi non sono più "soltanto" senza diritti di libertà, senza possessi, senza diritti di democrazia, senza destino e decisione; ora sono "ri-portati" al mondo reale, ai territori degli affetti e delle passioni, agli universi del pensiero e dell'immaginazione, all'esperienza vitale del tempo e dello spazio unicamente dalle condotte e dalle stimolazioni materiali, sentimentali, immaginative e pulsionali indotte e predisposte ad hoc dalle strategie dei poteri complessi post-welfa-ristici. Questi ultimi si caratterizzano, in prima istanza, per essere: potere della comunicazione e comunicazione del potere. L'istanza utopica per eccellenza del '68: "l'immaginazione al potere", viene prima assimilata, destrutturata e destabilizzata e poi, in queste forme distorte, convertita in risorsa principale dei "giochi di potere". Contrariamente a quanto potrebbero far credere i suoi carichi di afflittività crescente, il carcere post-welfaristico non è il carcere dell'isolamento sociale e della ghettizzazione personale. Anzi, ereditando e riclassificando l'esperienza del Welfare, costruisce e rielabora in continuazione un'idea precisa di interazione e canali di comunicazione tra "interno" ed "esterno". Non solo tra l'"interno"/"esterno" del carcere e della "comunità dei reclusi"; ma anche e soprattutto tra l'"interno"/"esterno" di ogni singola individualità reclusa e tra una singola individualità reclusa e l'altra. Qui le strategie della coercizione, della sofferenza e del controllo non si limitano alla destrutturazione/strutturazione del Sé; prolungano le loro sfere nella costruzione coattivo-comunicativa dell'Altro relazionale. Il "dialogo" non è impedito; ma, per intero, ricostruito arti-ficialmente tra figure/simbolo predeterminate e a mezzo di linguag-gi/segni che esprimono una disperante perdita di vitalità, autonomia e socialità. Le catene di questa coazione dialogante si duplicano e sventagliano per tutto l'ordito degli spazi e tempi differenziali di cui si compongono il sistema carcere e ogni singolo penitenziario, dappertutto mettendo mano a forme e combinazioni di forme diversificate.

I tempi e gli spazi interiori ed esteriori dei reclusi si trovano ad essere presidiati da flussi di linguaggi, di simboli ed immagini, il cui scopo è quello di determinare e rideterminare senza posa contesti e attori dell'introflessione ed estroflessione comunicativa. Tempi e spazi si slargano e restringono in un vortice ininterrotto, sfuggenti e inafferrabili. La condizione della reclusione diviene un precipizio in cui tempo e spazio sono incessantemente sottoposti a processi di disintegrazione/riassociazione comunicativa. L'isolamento non è più il prodotto di una coazione negativa di rottura della relazione con l'esterno; diviene il portato rarefatto di una coazione positiva che satura a tal punto il teatro temporale e spaziale della relaziona-lità con l'esterno da aggrovigliare i reclusi in un labirinto infinito, senza vie d'uscita. In questo labirinto, il tempo è senza tempo e lo spazio senza spazio: esistono solo nella comunicazione virtuale che tenta di ridurre a governo l'"interno"/"esterno" del carcere. L'isola-mento cellulare-custodialistico vecchia maniera è una condizione che, in confronto, lascia maggiori margini di autonomia e libertà. Ora è la tipologia di contatto col mondo esterno che funge quale isolante dal mondo; non più la mancanza di contatto dal mondo. Grazie alle tecnologie informatico-comunicative, all'uso di tecniche di controllo dei corpi, della mente e dell'anima il rapporto con l'Al-tro relazionale è virtualizzato. I poteri complessi post-welfaristici comandano questa virtualità: il non essere nel mondo fa largo all' illusione disperata di stare nel mondo. In questa vertigine, mezzi di controllo hard si ricombinano, ad un alto livello di intensità, con strumenti di controllo soft.

6.

Un nuovo percorso

Portare i diritti di libertà e di democrazia in carcere, restituire destino, decisione, tempo e spazio ai reclusi significa sottolineare i limiti della libertà, dello Stato e della democrazia.

Significa essere dentro, contro e oltre il carcere.

Significa superare tutte le forme di discriminazione, disegua-glianza e coazione che hanno finora storicamente accompagnato l' enuclearsi della libertà, dello Stato e della democrazia.

Significa aprire un nuovo percorso nella storia delle forme e delle istituzioni politiche e civili, oltre il "circolo chiuso" della libertà come giustificazione del carcere e del carcere come giustificazione della libertà.

Significa aprire una prospettiva di estinzione progressiva del carcere.