CAP. II

FILOSOFIE DELLA PENA E PENA DETENTIVA:

LE DISAVVENTURE DELL'ETICA

 

 

 

1.

Un conflitto: I'anti-etica delle filosofie penali e della pena detentiva; I'etica dell'estinzione progressiva del carcere

  Per avviare il nostro discorso, ricorriamo ad una lunga citazione del criminologo Smith, alquanto famoso negli anni '60 e '70:

Nei vari stadi della storia penale, trattare i reclusi come se fossero bestie, deficienti mentali o pazzi è stato considerato un comportamento illuminato. Attualmente [siamo nel 1965], è di moda considerarli persone patetiche, sprovvedute, immature ed irresponsabili. Il sistema pseudocomprensivo e permissivo derivante da tale atteggiamento è malsano tanto quello che ispirò la politica del "carcere duro", essendo anch'esso offensivo ed umiliante per i condannati. Esso sembra considerarli non del tutto umani. [...]

Non si può aspirare ai risultati desiderati fintanto che le prigioni continuano a privare i reclusi non solo della libertà di espressione, del sesso, della famiglia, dello status sociale e della privacy, ma anche della possibilità di essere utili, responsabili e di avere delle prospettive.

La privazione di questi ultimi tre elementi esula dai requisiti del castigo, dalla sua motivazione e dai fini che esso si propone, ed è causa del fallimento, della mancanza di umanità e della diffusione della criminalità nelle prigioni.

Il passo appena riportato, pur non introducendo nella discussione elementi politici nuovi, ci consente di allargare ulteriormente lo squarcio aperto nel primo capitolo, relativo a quel processo di com-pressione dell'etica che s'accompagna all'elaborazione delle filosofie penali e alla messa in opera della pena detentiva.

Foucault ha esaminato tale processo, posizionando l'occhio dell' indagine ad un singolare incrocio: tra la smaterializzazione dei poteri (tipica di una "società disciplinare" ad alto tasso di "uso dei saperi") e la sofferenza umana, di cui la prigione (e l'istituzione totale, in genere) è il luogo di inseminazione e, al tempo stesso, di rimozione. Qui noi intendiamo concentrare lo sguardo critico sull'anti-etica che impregna (i) le filosofie poste a base della risposta reclusoria e (ii) il viluppo di sofferenze entro cui sono inghiottiti i reclusi.

Chiediamoci: le strategie di controllo penale che promanano da queste modalità di impiego dei poteri e dei saperi sono conformi al retto, al giusto e alle virtù?

Nei campi categoriali che definiscono l'etica possiamo cogliere un elemento comune, una sorta di punto d'origine ubiquo, secondo cui essa altro non è che un "sistema di norme imperative" di riconduzione del comportamento umano al retto, al giusto e al virtuoso. Laddove s'incrociano i campi del "sociale", del "fare politico" e delle "decisioni istituzionali", quelle dell'etica si definiscono, più precisamente, come sfere dell'"etica pubblica".

Tanto nel "privato" quanto nel "pubblico", l'etica è una delle pietre d'angolo dell'agire. Immorali vengono definiti, difatti, quei comportamenti umani e quelle opzioni politico-istituzionali che si discostano, nel loro dispiegamento, dai princípi etici universal-mente codificati. Se, dunque:

1) le filosofie penali hanno per finalità dichiarata la reclusione;

2) e la detenzione ha il fine precipuo di neutralizzare il reo, sia nelle forme dell'inabilitazione che in quelle della rieducazione;

3) a quale etica tali filosofie e la detenzione medesima rispondo-no?

Soltanto il pensiero anarchico, prescindendo qui dal suo "cuore teorico" e dalle sue conseguenze politiche, ha avuto il merito di porsi e porre tali interrogativi radicali; da esso i modelli abolizionisti contemporanei hanno tratto palese ispirazione. Per il resto, è stato ed è tuttora largamente operante, in forma di pregiudizio culturale, l'apriori kantiano sulla dipendenza del "principio libertà" dal "principio legalità", di cui abbiamo criticamente argomentato nell' primo capitolo.

I nodi che abbiamo, in rapida sequenza, messo sul tappeto possono risolversi, in linea assorbente, nella questione decisiva del se sia lecito, giusto e virtuoso non tanto punire, quanto recludere il trasgressore. Posto pure che la violazione delle norme della convivenza sia un attentato alla vita retta e ai costumi civili, risponde ad un ordine morale virtuoso condannare esseri umani in carne ed ossa al supplizio della prigione?

Le giustificazioni etiche più forti poste a sostegno dell'esistenza della prigione stanno nella difesa del patto di sicurezza sociale e dei beni materiali e immateriali dei cittadini, per il tramite dell'autorità e del controllo dello Stato. La violazione della norma, essendo rottura del patto e appropriazione illecita dei beni, sospinge il trasgressore fuori dal quadro sociale della "grande alleanza" tra i cittadini e tra Stato e cittadini. La rottura del "rapporto di alleanza" implica, come sua conseguenza diretta, l'apertura di una relazione di "nemicità", per cui diviene "virtuoso" perseguire e recludere tutti i soggetti devianti. Sulla base di questa polarizzazione, il benessere di chi è al di qua delle linee di confine della norma si incardina sul malessere di chi ne è al di là. Come si vede, l'etica della felicità e della libertà del Sé va a fondarsi su un'etica dell'infelicità e dell'illibertà dell'Altro. Questa scissione radicale è una vera e propria anti-etica, poiché nell'irrogazione della condanna penale le ragioni e i valori del Sé sono posizionati sulla negazione delle ragioni e dei valori dell'Altro. Tutto ciò che non rientra nell'etica identificativa e rappresentativa del Sé viene emarginato e spossessato di qualunque diritto e valore.

I princípi e i soggetti morali si sdoppiano nella polarità etica/anti-etica; col che entra irreparabilmente in crisi il loro presunto carattere di universalità. L'etica stessa si rivela, pertanto, una "zo-na di conflitto". L'anti-etica delle filosofie penali e del carcere altro non è che una figura, per lo più rimossa, di tale conflitto. L'esercizio della giustizia e della virtù, nella fattispecie, si impianta sulla comminazione di dosi di afflizione, legittimate come sofferenza legale. Così, lo Stato diviene, in un unico momento avvolgente, titolare della violenza legittima e della sofferenza legale.

Ora, il punto di domanda è proprio questo: è eticamente corretto infliggere legalmente dosi di sofferenza, che vanno dalla restrizione della libertà alla privazione sensoriale e alla mutilazione permanente degli affetti e dell'identità? La nostra risposta all'interrogativo è no.

Occorre pensare una prospettiva che ponga all'ordine del giorno la rottura del legame di implicazione tra punizione e carcere, alla ricerca di un sistema di pene che, nel lungo termine, non sfiori nemmeno incidentalmente le forme della reclusione.

Tale prospettiva ha come punti immediati di innesco la restrizione ad un minimo delle aree della detenzione, contestualmente allargando ad un massimo le zone del non carcere. Queste ultime si configurano come aree di penalità socializzate sottratte alla reclusione, all'interno delle quali, al contrario del "controllo diffuso" in comunità, I'autodeterminazione, I'autonomia e la libertà dei soggetti siano massime e massima l'interazione con la società e le istituzioni.

Argomentando più in generale e partendo dall'esistente, le determinazioni del progetto di azzeramento graduale del carcere che immaginiamo sono:

1) I'uso elastico e liberalizzante della legislazione vigente;

2) il varo di norme innovative che restringano l'area del sistema penale e riducano ad un minimo decrescente lo spazio del carcere nella società;

3) I'eliminazione dell'ergastolo e la riduzione della pena massima a 10 anni;

4) la moltiplicazione diffusiva delle zone del non carcere;

5) la riduzione a zero, nella lunga durata storica, dei tempi e degli spazi del carcere.

I principali elementi culturali ispiratori di questo progetto/pro-cesso sono: (i) la prospettiva del diritto penale minimo; (ii) l’ipo-tesi del carcere tendenzialmente eguale a zero. Ricerche criminologiche sul campo hanno abbondantemente dimostrato che, dopo dieci anni consecutivi di reclusione, i danni alla personalità e all'equilibrio psico-fisico e mentale dei detenuti sono irreversibili, per effetto della sindrome di prisonizzazione. Occorre, dunque, allestire interventi operativi che si concentrino al di qua di questa soglia di irreversibilità, per dare credibilità attuativa ad un percorso di rimesa in libertà dei soggetti reclusi.

La progressiva estinzione del carcere si compone della concatenazione e rielaborazione di tali connessioni e prevede, oltre a quello del sistema politico-istituzionale, I'ampio e attivo coinvolgimento dei detenuti e di tutti i soggetti culturali e sociali della trasformazione.

Ciò richiama, prima di ogni altra cosa, I'esigenza di una consapevolizzazione del nodo etica/anti-etica che avvolge la sanzione penale. In mancanza di tale coscienza, il conflitto etica/anti-etica continuerà ad esprimersi nelle figure distorte del "doppio": il Sé contro l'Altro. Solo, così, è possibile vanificare l'entrata in gioco dell'etica nell'elaborazione e messa in prassi delle strategie di incatenamento della vita altrui ai ceppi della prigione, per far emergere, senza veli e senza mistificazioni, il volto tremendo del "terribile potere" di punire.

Occorre, al riguardo, demistifcare e disattivare gli stereotipi delI'"uomo morale".

L'"uomo morale" si riconosce e dissolve negli imperativi etici totalizzanti, secondo lo schema duale bene/male. Convive senza imbarazzi con (anzi, condivide pienamente) sentenze di condanna a lunghi anni di detenzione dura, poiché è convinto di essere dalla parte del bene. Da questa postazione "virtuosa", ritiene un valore "giusto", buono e positivo condannare e distruggere il male, di cui il reo è l'espressione. In questo schema totalizzante, il male non è semplicemente un'idea; ma si esprime anche in una cangiante serie di figure storiche e comportamenti sociali. La distruzione dell'idea del male deve, quindi, procedere in uno con la distruzione delle figure e dei comportamenti in cui il male si incarna. Valori, uomini e donne in carne ed ossa vanno, perciò, indistintamente e impietosamente distrutti, ove siano forme incarnate del male. Non fa meraviglia, allora, che l'"uomo morale" non sia nemmeno lontanamente sfiorato (i) dalla coscienza della mostruosità dell'esistenza stessa del carcere e (i) dall'idea della necessità, prima di tutto etica, di procedere al suo superamento, per eliminarlo dal teatro dell'azione umana. Lo sdoppiamento etica/anti-etica che opera in lui lo rende prigioniero proprio di quei meccanismi con cui imprigiona i corpi, le menti e le anime degli altri.

2.

La socializzazione della condanna e della punizione: ovvero la società dei poteri e della legalità contro la società dei diritti e della libertà

Ma la "condanna morale" che il Sé opera avverso il reo è anche una forma di socializzazione delle ragioni dell'esclusione dell'Altro dall'area dei diritti e dei valori condivisi, ritenuti, peraltro, essenziali ai fini dell'esistenza stessa della comunità umana e dell'individuo. L'anti-etica delle filosofie penali e della pena detentiva ha, dunque, anche un carattere sociale. Uno dei suoi scopi fondanti è quello di territorializzare diffusivamente in tutte le pieghe del rapporto sociale e dei vissuti individuali un pregiudizio etico-culturale: I'avversione dell'Altro, delle sue culture, dei suoi valori e dei suoi comportamenti. Secondo l'anti-etica, di cui stiamo cercando di isolare le articolazioni, è la società stessa, con il suo semplice esserci, a dover valere come condanna irremovibile e come rimozione coatta e segregante dell'Altro. Qui la società non è contro lo Stato; bensì, assieme allo Stato, contro l'Altro. Il sistema penitenziario, di tale strategia di coazione, è una delle determinazioni principali.

Se questo è lo schema etico-culturale dell'anti-etica, la società dei poteri non può che legittimarsi e perpetuarsi come valore in un moto perpetuo di circolare avversione dell'Altro, impedendone sistematicamente l'espressione, inseguendone e reprimendone instancabilmente le opzioni e gli atteggiamenti.

Ma, ora, quale frattura merita di essere introdotta nella relazione tra la società dei poteri e la società dei diritti? Quali, altrimenti detto, le opzioni, le strategie e le prassi per lacerare la camicia di forza che i poteri hanno cucito sui diritti, trasformando il diritto in forza e l'etica in anti-etica?

Se il principio libertà è costitutivamente anteriore al principio legalità, il diritto deve costitutivamente essere anteriore al potere. L' instaurazione di una nuova scala di priorità libertà/legalità-diritto/ potere rende visibile ed esperibile produttivamente il conflitto etica/ anti-etica, in caso contrario mistificato, rimosso e distorto. Ciò indica che la società non è interamente riducibile a coazione e carcere, come, p. es., conclude Stirner, spostando gli attributi di eticità e di libertà dal sociale all'individuale, dal differenziato all'unico, dal genericamente umano all'irriducibilmente egoistico, finendo col cogliere un solo polo della dinamica sociale e della dialettica della liberazione. Nella "struttura societaria" è sempre dato e possibile un passaggio dalla legalità alla libertà, dai poteri ai diritti. Sono sempre dati e possibili una metamorfosi culturale e politica; un capovolgimento e un cambiamento di segno delle logiche stesse del potere. La relazione Sé/Altro, in definitiva, deve e può cessare di essere un cupo campo di battaglia e divenire un conflitto aperto, visibile. Di questo – e in questo – specificamente constano la rivoluzione e la trasformazione, laddove non subordinano a se stesse la libertà e i diritti, allo stesso modo di quanto fanno le società di potere che si tratta di superare.

La critica del potere (attraverso i diritti) e della legalità (at-traverso la libertà) è un luogo chiave del processo del mutamento politico, sociale e culturale, in una contestuale prospettiva di rivoluzionamento dei costumi, degli stili di vita, delle relazioni intersogettive, dei comportamenti individuali e collettivi e delle opzioni etiche. L'esigenza di tale critica e di tale metamorfosi politica, sociale, culturale ed etica si avverte in carcere come nella società.

Sul piano dell'analisi teorica, si può osservare che:

1) la società è sempre dentro il carcere, in un modo storicamente determinato: presente, per innovarlo e perpetuarlo; oppure per limitarlo e superarlo;

2) il carcere è sempre dentro la società, in un modo storicamente determinato: presente, per renderla più minacciosa e cupa; oppure per rendere espliciti i problemi della coazione, del controllo e della sofferenza, sottolineando la necessità del varo di strategie e prassi capaci di venirne a capo risolutivamente.

Solo sul piano dell'astrazione teorica, però, gli appena distinti modi d'essere della società (nel carcere) e del carcere (nella società) si escludono. Nella realtà socio-empirica, invece, essi convivono, confliggendo in permanenza. Il rapporto carcere/società è un vortice tumultuoso, entro cui le negazioni e le implicazioni reciproche si elidono e si incrociano in un moto continuo. Come non esiste società pacificata, così non esiste carcere pacificato; come non esiste un modello di società ottimale, empiricamente e storicamente esperibile, così non esiste un caso di "carcere buono", conforme ai dettami della vita retta e delle virtù etiche. Se può esistere una società senza carcere, in cui conflitto, crimine e devianza abbiano altre soluzioni (e nell'esperienza umana ciò è già storicamente avvenuto), non c'è carcere, per quanto esemplarmente civile, che non richiami l'esistenza di una società punitiva e repressiva, fatalmente esposta a privilegiare il potere a danno dei diritti, la legalità a danno della libertà.

Tra carcere e società, lotta e integrazione sono due poli mobili che, di volta in volta, si combinano e ricombinano nelle forme della conservazione e in quelle del mutamento. Non sempre il contesto relazionale agito dalla "comunità dei reclusi" è peggiore di quello della società, in quanto a comportamenti etici e qualità dei rapporti interindividuali. Anzi, la "comunità dei reclusi", sovente, è protagonista di legami di solidarietà, di altruismo e di tensione del Sé verso l'Altro che nella società degli interessi cinici e dei crudi poteri non sono nemmeno ipotizzabili. In carcere le esigenze della società dei diritti e della libertà, la mobilitazione e la lotta contro quella società dei poteri che ha smarrito il senso della pietas sono più brucianti che mai, più intense, coinvolgenti e, insieme, nascoste e frustranti che nella "società libera".

A partire dal 1991-92, a seguito della lunga serie di misure punitive e repressive che hanno, in più punti, ridefinito le politiche penitenziarie, la mobilitazione e la lotta dei detenuti hanno tentato di parlare alla società dei poteri e della legalità, senza che questa recepisse, ascoltasse, mutasse il proprio atteggiamento. La "comunità dei reclusi" ha agito come comunità dei diritti negati e delle libertà escluse. Ha cercato di rendere visibile e di comunicare il carico di sofferenza e di coazione che, all'interno del sistema penitenziario, ha compresso gli spazi di socialità interna e di socializzazione esterna al di sotto delle soglie minime vitali. La risposta dei poteri, delle istituzioni e della stessa società civile, in tutte le sue espressioni, è stata l'inascolto, I'indifferenza, quando non, addi-rittura, la richiesta esplicita di un ulteriore inasprimento delle condizioni di detenzione.

Problemi fondamentali attinenti ai diritti e alla libertà, alla democrazia e all'etica sono stati sollevati dalle varie mobilitazioni e dai numerosi scioperi della fame che i detenuti hanno effettuato in questi ultimi anni. Richieste non irrilevanti sono state da loro inoltrate, per un rapporto diverso tra carcere e società, nel segno della libertà e della liberazione.

Libertà e liberazione non sono beni negoziabili. Costituiscono il senso e il sale della vita degli individui e della collettività. Costruire libertà e liberazione è questione essenziale che interessa tanto la cittadinanza che i cittadini detenuti. Non si tratta soltanto di conferire ai detenuti una cittadinanza ingiustamente negata, con tutto quel che ne consegue in termini di diritti e di libertà; ma di allargare il campo dei diritti e delle libertà di tutti, riempire di contenuti liberanti le sfere e le sedi della cittadinanza. I detenuti non sono gli unici soggetti sociali ad essere privi di rappresentanza e di cittadinanza. Certamente, però, rientrano nella cerchia dei dannati della cittadinanza e della rappresentanza. La rappresentanza e la cittadinanza sono in crisi dentro e fuori le mura del carcere; fuori e dentro, allora, urge agire. Dentro e fuori, occorre valicare ostacoli e abbattere pregiudizi.

Nell'inascolto, nell'indifferenza e nel livore con cui le istituzioni, i poteri e la società civile guardano al carcere non vi sono soltanto pregiudizi e indisponibilità primordiali di natura culturale, politica e personale. Vanno presi pure in considerazione gli effetti che, a valle, tali pregiudizi e indisponibilità disseminano: tra questi, i principali sono costituiti dalle strutture e dalle organizzazioni materiali poste a presidio dell'immarcescibilità del carcere. Necessita lottare non solo contro "strutture mentali" e "convenzioni morali", ma anhe contro quelle "strutture spaziali" e quelle "organizzazioni disciplinari" che producono e riproducono sul territorio lo spazio concentrazionario del carcere. Cause ed effetti che presiedono alla riproduzione del carcere dispongono insieme, agendo di concerto, un'enorme cappa di piombo che ricopre e distorce i rumori, le voci e la sofferenza che maturano in carcere; che nasconde e tumula i soggetti vivi reclusi.

L'azione concomitante di questi fattori fa sì che il carcere sia un teatro che maschera e tacita i Sé che lo abitano e che non riescono a comunicare liberamente nemmeno tra di loro. Tanto più questi Sé divengono silenziosi quanto più "società libera", "cittadini liberi", istituzioni e poteri li assumono passionalmente, culturalmente e politicamente come l'Altro senza diritti e senza libertà. In queste condizioni, il silenzio e l'incomunicabilità dall'esterno verso l'in-terno tendono a dilatarsi. In queste condizioni, vengono inibite e gravemente lese le possibilità di comunicazione dell'interno verso l'esterno e l'interno stesso è spinto ad accartocciarsi su se stesso. "La comunità dei reclusi" si gioca le sue possibilità di espressione e di esistenza in una situazione di svantaggio estremo. Il contesto, per essere più precisi, delinea una zona limite, in cui l'azione positiva è contrastata da immani e crescenti azioni e forze negative, le quali non sono dislocate esclusivamente all'esterno, ma occupano anche lo spazio interno della reclusione, del corpo e della mente degli stessi reclusi. Ciò rende drammaticamente espressiva e drammaticamente incerta l'azione creativa della "comunità dei reclusi", insediata sulla esilissima linea di frontiera tra possibile e impossibile. In esercizio permanente sono tecnologie di potere e discipline coattive che contraggono paurosamente gli spazi di vita e di vivibilità, di espressione e rappresentazione, interdicendo una comunicazione liberante tra carcere e società. La razionalità comunicativa è, per intero, ridotta ad una cruda ed impersonale relazione di imposizione del potere, tra un attore (i soggetti esterni) che lo detiene in maniera massimale ed esclusiva e un altro (i soggetti interni) che ne è fisiologicamente e totalmente sprovvisto.

3.

Dall'altro lato del discorso

I detenuti, per far uso del lessico impiegato dalla "psichiatria democratica" negli anni '60 e ‘70, possono essere fatti rientrare nelle schiere degli out della società, assieme ai malati mentali e agli emarginati di ogni genere. Per il resto della società gli out non rivestono alcun valore: il loro destino si consuma nel mare morto dell’indifferenza e dell’avversione sociale. La società patisce la vita degli out come un valore interamente ed esclusivamente negativo, un elemento di contaminazione etica e di degrado sociale. Secondo queste filosofie, la soluzione perfetta, rispetto agli out, sarebbe quella di eliminarli, solo che le procedure democratiche lo consentissero. La "soluzione finale" nazista rispondeva in pieno a questa logica, perché non aveva alcun principio democratico-egualitario da giustificare; anzi. Nelle democrazie avanzate queste voci di morte e di violenza illimitata non possono dispiegarsi liberamente, ma nem-meno scompaiono del tutto; si nascondono e trincerano negli strati più inquieti e tremanti delle coscienze dei singoli e della comunicazione umana. Ci pensa il sistema dei media, delle immagini e dei simboli a scuoterle, a mobilitarle ed organizzarle in forme sempre più capillari e sofisticate.

Il sistema dei media, delle immagini e dei simboli diviene il proiettore pubblico dei terrori privati. In questa veste, assurge al rango di un soggetto collettivo virtuale che organizza e veicola materialmente isterismi e paranoie di massa. Ma, in questo modo, trasmette la relazione di potere ed aumenta il potere suo proprio, per il tramite della diffusione della paura, praticando delle incisioni traumatiche nei territori più arcani e primigeni delle passioni, dei sentimenti e degli istinti. Quanto più viene generalizzato un sentimento di paura, di insicurezza, di inquietudine e di odio tanto meno l'Altro può trovare posto e rispetto nella vita relazionale del Sé; tanto più la sua riduzione in catene sarà ritenuta giusta; tanto più potranno tranquillamente proliferare poteri raggelanti, privi di uma-nità e di pietas.

La proliferazione di tali poteri si serve di strumenti culturali e mezzi scientifici "democratici". Uno dei cardini concettuali e materiali dell'istituzione totale è la destrutturazione culturale dell'internato, attraverso processi di de-culturizzazione e ri-culturizzazione estraneante. Il rapporto con il Sé, con l'esterno dei mondi vitali e relazionali, con l'interno dei mondi affettivi ed emozionali, con le dimensioni della libertà è riscritto in chiave di totale sottomissione dell'internato alle logiche e alle finalità dell'istituzione; fino al punto che egli, sotto questa pressione aliena, è condotto progressivamente e totalmente a perdere coattivamente la memoria e l'uso delle sue facoltà mentali, culturali e affettive. La letteratura in materia, sin dagli anni '50, ha parlato di un processo di disculturazione, in forza del quale l'internato diviene inabile: cioè, integralmente incapace di far un impiego positivo di sé, del mondo circostante e di quello interiore. L'inabilitazione dell'internato è l'altra faccia della rieducazione: insieme costruiscono il contesto vitale ed emozionale, normativo e finalistico in cui egli è gettato. In tale contesto, I'integrità psico-fisica dell'internato è gravemente lesa: la "soluzione finale" democratica è rappresentata dal mix di terapia e trattamento.

Stante quest'"ordine del discorso", è stato legittimamente fatto osservare che in carcere, più che in ogni altra istituzione totale, "impera un discorso di morte". Il fatto è che in carcere, come nelle altre istituzioni totali, si sta sempre dalI'altro lato del discorso, in una situazione limite in cui ogni punto e luogo sono in bilico tra vita e morte; in cui ogni voce e senso della vita sono irresistibilmente attratti dalla morte. Dall'altro lato del discorso, in carcere, ogni apertura alla propria storia e alla storia altrui deve procedere in un teatro del Sé e dell'Altro oscurato costantemente dal di fuori e dal di dentro, in cui, anziché della vita vera, vengono proiettati incubi, chimere effimere, pulsioni desideranti sotto forma di surrogati allucinatori. In queste condizioni, il desiderio di cominciare, in gran parte inibito, rischia atrocemente di rovesciarsi in desiderio di finire: là dove la vita sembra eternamente sul punto di ripartire e mai ricomincia davvero, lì muore ogni giorno, ogni istante, replicando indefinitamente le scene del dolore e della morte. Questo sottile e impalpabile dispositivo emotivo-psicologico, in carcere, è alla base del relativamente grande numero di suicidi e della larga diffusione di pratiche autoinvalidanti. I reclusi non sono immessi nell'ordine del discorso del carcere per un caso fortuito; e nemmeno ne escono per un caso fortuito. Solo se riescono ad elaborare un loro proprio ordine del discorso, possono sperare di affrancarsi dalle pulsioni di morte alla cui esposizione sono condannati irremissivamente. Questa è la posta in gioco più elevata e difficile che sia dato immaginare, visto che è stando nel "ventre del mostro" che essi sono costretti ad formulare e sviluppare una "strategia di liberazione". Questa ardua possibilità è loro concessa proprio perché sono collocati dall'altra parte del discorso: quella parte, cioè, in cui non dominano le procedure di esclusione del potere, ma si vanno faticosamente costituendo le "prassi della liberazione", nel loro conflitto insopprimibile nei confronti delle "prassi dell'asservimento". Tale conflitto è un argine posto contro quella "chiusura dell'universo del discorso" che, soprattutto, in carcere e nelle istituzioni totali trova modo di manifestarsi nelle sue modalità più aspre e oppressive. Anche la prigione, allora, può essere tempo e spazio della libertà; anche i reclusi, allora, possono essere soggetti della liberazione. Riconoscere loro questo status è qualcosa che va al di là del riconoscimento della, pur giusta, necessità di estendere i diritti di cittadinanza, di rappresentanza e di libertà ai detenuti. Significa confrontarsi con la loro alterità e la loro identità, con le quali tutti (la società, le istituzioni, i poteri, gli individui, i gruppi, ecc.) debbono avvertire l'esigenza di aprire un gioco comunicativo fatto di trasformazioni reciproche. Significa strappare, in linea definitiva, i detenuti dalla condizione di interdetto e di escluso, assumendo coscienza critica dei processi di disculturazione che ne costituiscono la base.

4.

I vertici della coazione, della sofferenza e del controllo: la carcerazione tombale

Per una migliore comprensione delle problematiche che stiamo indagando, giova esaminare in azione il complesso dispositivo di destrutturazione culturale e destabilizzazione psico-fisica che siamo venuti illustrando. A tal fine, è particolarmente illuminante analizzare strategie, contenuti ed obiettivi delle politiche penitenziarie, relativamente al periodo che ha visto l'uso massivo dell'art. 90 della riforma penitenziaria, all'interno del circuito delle "carceri di massima sicurezza" e nelle "sezioni speciali" dei "grandi giudiziari" e del circuito periferico; periodo che si distende dal gennaio del 1981 agli anni 1983-84. Tale periodo, come si vedrà meglio in seguito, può essere designato come quello della carcerazione tombale che funge, altresì, da riferimento principale della rielaborazione delle politiche penitenziarie in auge nel presente.

Come è noto, I'art. 90, recante il titolo: "Esigenze di sicurezza", ha come conseguenza immediata la sospensione dei principali istituti giuridici previsti dalla riforma penitenziaria e di quegli elementari diritti della persona che l'ordinamento penitenziario (peraltro, su un piano più teoretico che storico ed empirico) riconosce ai detenuti. Si può certamente dire che l'applicazione generalizzata dell'art. 90 abbia costituito, in Italia, quel "gorgo terribile" nel cui vortice sono cadute le politiche penitenziarie e dal quale, per molti versi, non hanno saputo e non hanno voluto più fuoriuscire. Lo stesso grado di affinità culturale e omogeneità politica tra il "vecchio" art. 90 e il "nuovo" art. 46-bis è una riprova di questo dato.

Per farsi un'idea sufficientemente precisa della qualità e della quantità dei diritti sospesi e degli spazi di comunicazione, azione e creatività negati, è sufficiente la lettura della Nota con cui la Direzione del "carcere di massima sicurezza" di Fossombrone comunica alla "popolazione detenuta" che il regime carcerario nell'istituto, per disposizione ministeriale, è soggetto alle restrizioni previste dall'art. 90:

Si porta a conoscenza della popolazione detenuta che in data 27/4/81 il Ministero di Grazia e Giustizia ha disposto con effetto immediato fino al 30/5/81, per i detenuti di questo istituto sottoposto a regime di massima sicurezza le seguenti disposizioni, ai sensi dell'art. 90 dell'Ordinamento Penitenziario.

Si sospende attività rappresentanza detenuti ex art 9 legge penitenziaria; è vietato acquistare il sopravvitto e la detenzione di generi alimentari di ogni tipo; i detenuti godranno di un passeggio settimanale in isolamento della durata di due ore.

Non sarà consentita alcuna attività in comune né consultare o detenere libri o giornali né usare macchine da scrivere.

I detenuti potranno usufruire di un solo colloquio mensile con i familiari con vetro divisorio. Non potranno godere di colloqui telefonici e sarà consentito scrivere soltanto due lettere o cartoline alla settimana agli stretti congiunti.

È fatto divieto ai detenuti ricevere pacchi dall'esterno, non potrà essere detenuto nessun tipo di fornello autoalimentato; è consentita la detenzione nella camera soltanto dei seguenti generi: due asciugamani, sei mutande, sei paia di calzini, un paio di scarpe, un paio di ciabatte (non zoccoli), due camicie o magliette, due maglie o canottiere, due maglioni, due pantaloni, un pigiama, un cappotto o giaccone, generi di igiene personale (una confezione a testa che dovrà essere restituita finito l'uso) e per la pulizia dei locali (una sola confezione per cella), una radiolina senza modulazione di frequenza.

La Direzione Fossombrone, li 28/4/1981.

Nello spazio iper-concentrazionario in cui vige l'art. 90, i poli di "massima deterrenza" sono il carcere di Nuoro e quello di Voghera; il secondo a composizione interamente femminile. Se il primo si caratterizza per l'apicalità raggiunta dalla coazione e dall'uso della forza contro i detenuti, il secondo sperimenta ad ampio raggio una violenza "pulita", di tipo tecnologico, che prevede l'impiego in scala di telecamere, congegni elettronici e apparati automatizzati nel controllo e nella limitazione della vita delle recluse. Le "sezioni di massima sicurezza" delle due carceri sono svuotate nel periodo che va dal 1984 al 1986-87, sotto l'urto di significative lotte e mobilitazioni tra "interno" ed "esterno"; particolarmente importanti sono le lotte delle recluse di Voghera (tutte detenute politiche) che hanno, tra gli altri e non lievi meriti, anche quello di sollevare il problema cruciale della "condizione femminile" in carcere.

Le donne in carcere sono sottoposte ad un doppio reticolo di interdizione e di esclusione, per il loro essere discriminate e oppresse (i) in quanto donne e (ii) in quanto donne recluse. In linea generale, la riflessione e l'impegno intorno e contro il carcere hanno dedicato scarsa attenzione allo specifico della reclusione femminile. Tra le poche eccezioni che è possibile registrare, rimane da segnalare, in tempi a noi prossimi, il seminario promosso dalle docenti e dalle allieve del "Centro culturale Virginia Woolf B" unitamente ad un gruppo di detenute della lotta armata nel carcere romano di Rebibbia, tra il 1991 e il 1992. Lo spazio chiuso della reclusione, nel corso del seminario, si fa vuoto in positivo. Cioè, si sradica ed emancipa dalle interpretazioni e dai sentimenti degli anni passati, per potersi aprire a parole e interpretazioni nuove. E tutto comincia e ricomincia dalla propria biografia femminile e intorno alle motivazioni che "da donne quali siamo, ci hanno portato a condividere con alcuni uomini un progetto politico", seguendo gli impulsi di una "molla di ribellione" imparentata intimamente con "la liberazione di noi stesse"; nel contesto della lotta armata, però, la liberazione del Sé femminile risulta tragicamente evirata: lì "ogni parola e ogni gesto serviva a giustificare il rinvio a un non luogo della pienezza dell’essere". La presa di commiato critica da un passato segnato dall'astrazione dei codici maschili della liberazione è totale. Significativamente, contro le astrazioni degli universi maschili di interpretazione e dominazione della realtà, le quattro donne recluse scelgono il motto di Emily Dickinson: "La politica è ciò che posso abbracciare".

Che, soprattutto nella reclusione, alla radice di Sé una donna debba intessere parole e trame con altre donne, che debba trovare il suono e le tracce originali e irripetibili della vita delle altre donne, a partire dalla propria madre naturale e simbolica, è la testimonianza bruciante che trasmette un breve, ma intenso racconto di Susanna Ronconi, un'altra donna reclusa della lotta armata. Tutto ruota attorno alla madre, al ricordo di lei; tutto ricomincia dalla notizia, portatale in cella di isolamento da un'altra donna, della morte della madre, avvenuta mesi prima. Il dialogo tra madre e figlia ricomincia in cella ed è attivato da un'altra donna: un'amica. Ben presto, tutto il tempo e lo spazio della cella si riempiono di questo dialogo e la figura materna campeggia in tutta la sua bellezza e la sua prossimità amorevole. Tutto il tempo della vita e del mondo torna a ruotare attorno alla madre e la figlia si ripresenta, proprio nella cella e dalla cella, a tutti gli appuntamenti con la madre che aveva sempre mancato. La morte si rovescia in un tuffo vertiginoso nella vita e madre e figlia tornano ad essere insieme, come, forse, mai lo erano state prima. La figlia ritorna nel ventre materno, dal ventre più ostile e nemico, più ottuso e maschile che si possa immaginare: il carcere. Qui recupera le responsabilità affettive e i legami materni a cui si era sottratta. Qui recupera il segno capovolto di un regalo inviato dalla clandestinità alla madre: un lilium rosso che a lei piaceva tanto; regalo giunto, quando, ormai, la madre era già morta. È dal lilium che ricomincia tutto; è il lilium che vince la morte. È il lilium il segno e il simbolo del ventre materno da cui tutto comincia e ricomincia. Lì, all'estremo limite della morte della madre, la figlia è condotta ad una "resa di conti" finale: "Il meccanismo potente con cui ho governato la morte, quella che si cerca e si accetta e quella che si dà, chiusi dentro una dura certezza, mi si rompe tra le mani, inutile. A questa morte non posso dare un senso, non c'è traccia di volontà né di storia, non ci sono acrobazie della mente che valgano". La madre, con la sua vita e la sua morte, è un eccesso per le algide geometrie della razionalità politica della scelta armata; come lo è, in generale, per le geometrie della razionalità maschile. È incommensurabile: ripartire da lei, introduce nuove "misure" e nuovo senso alle emozioni e all'agire. Con la memoria, la figlia recupera il lilium che aveva invano regalato alla madre; così glielo dona oltre le barriere della vita e della morte. Oltre queste barriere, è, ancora una volta, la madre, a regalare la vita alla figlia.

Questo universo femminile, così altero all'universo normativo e creativo maschile, è uno dei bersagli principali che con l'edificazione del "carcere tecnologico" di Voghera si intende colpire e spezzare. Non certo a caso, il primo e unico "carcere tecnologico" viene sperimentato su donne.

Ma il carcere di Voghera segna un altro importante punto di passaggio nella costruzione dell'ambiente concentrazionario: "Vi si abbonda di cemento armato, celle asettiche e cubicolari con occhio delle telecamere interne, triple sbarre e fitta rete alle finestre, porte blindate e cancelli apribili solo con le cellule fotoelettriche a tempi programmati; le luci, una tenue notturna e una forte, sono incassate nel muro e comandabili dall’esterno; massima limitazione degli spazi di passaggio con gabbie per un massimo di 4 persone; comunicazione con la custodia solo attraverso citofoni e vetri antiproiettili, così pure per i parenti e gli avvocati. In ultima analisi completa separazione fisica con l'esterno". Anche se il modello di "carcere tecnologico" non sarà successivamente generalizzato, il regime carcerario verrà definitivamente segnato dalle strutture abitative e dalle modalità di rottura e controllo della comunicazione e dell'identità sperimentate a Voghera negli anni bui dell'applicazione dell'art. 90.

Le linee operative portanti dell'art. 90 sono date dalla rottura integrale del rapporto con l'esterno e dalla vanificazione della vita relazionale interna. La socializzazione con l'esterno, in quanto pericoloso tramite di "contatti di libertà", viene inibita; la socialità interna, in quanto tramite della costruzione di un tessuto identificativo solidale e attivo, viene sradicata. L'istituzione totale carcere, in tal modo, totalizza, oltre ogni limite immaginato, il suo potere assoluto. L'elencazione delle determinazioni principali del fluire del tempo/spazio dell'art. 90, a cui si è proceduto nelle pagine che precedono, ben rende l'idea del dispiegamento di questo onnivoro potere assoluto.

La specificità dell'essere umano, quale essere socievole ricco di determinazioni interiori e depositario di complessi e articolati bisogni di realizzazione ed espressione simbolica, affettiva e creativa viene attaccata frontalmente, con strategie repressive annichilenti. L’ordito relazionale con il tempo e lo spazio è profondamente e violentemente destrutturato. Lo scopo perseguito dalle strategie di isolamento e deprivazione multisensoriale dell'art. 90 è quello di far coincidere spazio ed ambiente, per modo che la percezione dell'ambiente non possa mai convertirsi in interpretazione critica e ricostruzione dello spazio. Niente realizza il modello dello zoo umano meglio del carcere, nelle particolari condizioni dell'art. 90. Trasformare, 23 ore su 24, lo spazio in cella e l'ambiente in annichilimento dei sensi umani e delle determinazioni della natura viva (in carcere, p. es., tra le altre cose, si perde il contatto e l'esperienza con l’altro sesso, con l'aria, la terra, le piante, i fiori, il cielo, ecc.) è coessenziale ad un processo di evacuazione integrale dell'identità dei reclusi. Fatto questo vuoto totale, il passaggio istantaneo è quello di predeterminare, attraverso inputs esterni e molle di autocondizionamento interno, i comportamenti dei reclusi, dalle sfere intimo-relazionali a quelle esterno-decisionali.

Le quote elevatissime di deterrenza e di isolamento sono funzionali a tale disegno e ruotano attorno a due fuochi: (i) la deprivazione assoluta delle risorse; (ii) la creazione di uno stato di insicurezza totale, a partire dalle dimensioni cerebrali ed emotive. Decidere, pensare e percepire debbono, insomma, trovare il loro punto di incardinamento non nella sfera dell'autonomia dei soggetti reclusi; bensì nelle pulsioni trasmesse dall'implacabile macchina di comando che li opprime e ingessa tirannicamente.

È stato fatto notare che, sotto l'azione potente e concentrata di questi stimoli, gli individui hanno a loro disposizione due possibili risposte: o l'autolesionismo oppure l'iperaggressività. Il che è vero; ma entro limiti ben precisi:

1) se i reclusi non riescono ad elaborare una strategia di difesa più complessa e profonda dell'offesa che quotidianamente subiscono;

2) se nessuno fuori, nella "società libera", pensa al loro destino, si affianca al loro dolore e si mobilita concretamente per cambiare, nel segno della libertà, la vita dei detenuti assieme a quella di tutti.

Che le strategie di difesa e resistenza all'oppressione da parte degli esseri umani siano un potenziale sempre attivo, per quanto posto in cattività, è dimostrato dall'esperienza di conservazione dell'autonomia, dell'identità e della volontà che si è sviluppata persino nei lager nazisti. Che questo potenziale sia estinguibile non è una risultanza certa o automatica delle strategie di annichilimento, ma dipende da alcune variabili impredicibili; alcune delle quali si incardinano sui valori e sulle motivazioni profonde che costituiscono il modo di essere, sentire e reagire dei soggetti sottoposti alla coazione. Nemmeno la morte o l'eliminazione fisica, di per sé, certificano l'asservimento mentale e morale del soggetto sottoposto a coazione; anzi. La morte stessa può essere una via attraverso cui difendere e conservare la propria identità e integrità morale. La vittoria delle strategie della deterrenza e della dissuasione proprie dell'art. 90, insomma, per quanto probabile in un gran numero di casi, se non nella maggioranza, non è certa; non è un automatismo di tipo comportamentista. Certa è, invece, la sofferenza atroce, ai confini del pensato e dell'agito, che esse provocano.

Ansia, terrore, insicurezza, instabilità emotiva, stati di depressione e di paranoia alternati da euforia allucinatoria e vero e proprio delirio, subordinazione e apatia alternata da stati di iperaggres-sività apparentemente immotivati sono le componenti principali dell'habitat costruito dalle strategie dell'art. 90. Ed è vero, queste strategie vengono agite come "scientifici mezzi di distruzione" della personalità, miranti alla dislocazione di due situazioni patogene limite:

1) la nevrosi, al livello inferiore;

2) la psicosi, al livello superiore.

Tra questi due livelli si gioca la perdita dell'identità e la perdizione del soggetto, il quale è esposto allo smarrimento tragico di tutte le tracce del suo destino, di tutte le scansioni del proprio tempo personale e dei tempi della storia e della società.

L'individuo pressato e avvolto coercitivamente in condizioni di angoscia, paura, ansia da deprivazione e isolamento, finisce per entrare in uno stato di stress e di nevrosi dove il rischio è il delirio. Uno dei sintomi di questa nevrosi è la fissazione delle tracce mnemoniche prodotte dalle esperienze passate. È come se le certezze soggettive di un tempo avessero la forza di bloccare il tempo stesso. L'impossibilità di registrare nuovi accadimenti che modifichino le reali condizioni ambientali e storico-sociali, viene interpretata come immutabilità delle condizioni e immobilità del tempo.

Lo stato al quale sono sottoposti i reclusi, come abbiamo visto, è quello della deprivazione assoluta: esso mira alla menomazione delle loro capacità cognitive. Accade, così, che ci si può trovare di fronte a individui che vanno progressivamente perdendo la capacita di registrare eventi, elaborare analisi e ricostruire nuove certezze ed identità. Di fronte all'impossibilità di vedere il presente e prefigurare il futuro è l'ignoto che spaventa. Ciò spinge verso i sentieri letali del delirio.

Il rischio, per i reclusi, è la morte simbolica e fisica. Le sembianze più tragiche della morte vestono qui il mantello nero della morte del tempo. Può capitare, in maniera inconsapevole quanto delirante (appunto), che, per scongiurare il sopraggiungimento della morte del tempo, i reclusi tentino di bloccarlo: vale a dire, di fermarlo ad una stazione in cui emotivamente e mnemonicamente essi si pensano ed esperiscono ancora vivi. Tutto, allora, rincula verso il passato. Il presente arretra e il futuro dovrebbe mantenere le promesse del passato. "Mantenerle" in un duplice senso: sia nelI'accezione di "fissarle", difendendole dall'azione di sgretolamento del tempo; sia nell'accezione di "appagarle". Diversamente da quanto si potrebbe a tutta prima concludere, qui il rapporto col tempo non sta nell'attesa, nell'inazione; al contrario, quanto più si tenta di far arretrare il tempo, per bloccarlo, tanto più la soggettivita è costretta ad impennarsi verso un iperattivismo cerebrale di tipo nevrotico, in cui le proiezioni simboliche divengono sempre più ridondanti ed estraneanti e gli investimenti affettivi sempre più frustranti. La consunzione identificativa e la prostrazione morale che ne derivano sono il risultato coerente di questa forma di iperattivismo mentale ed emotivo. Ciò in tanto può avvenire, in quanto interviene alla base una rescissione dei legami tra le dimensioni culturali e quelle del simbolo: le seconde restano orfane delle prime e celebrano questa condizione di orfanità con il ricorso alienante al segno e al linguaggio.

Al terminale del percorso, così, segno e linguaggio non possono essere altro che modi e strumenti di alienazione del Sé: forme di incatenamento che depositano alla superficie dell'azione e della rappresentazione la fuga dalla responsabilità di riconsiderare in profondità la propria vita e la propria biografia personale. Solo l'unilaterale riapertura al tempo, alle sue forme, alle sue figure, ai suoi eventi e al suo fluire arcano può restituire una radicale facoltà di critica e di creatività, capace di ricollocare e di "riprogettare" il Sé e le sue interazioni con l'Altro, nei tempi privati e in quelli pubblici. Più che tentare di fermare drammaticamente e inutilmente il tempo, allora, la necessità è quella di rimettere tutta la propria vita di nuovo in gioco, in tutte le determinazioni del tempo: passato, presente, futuro. Occorre arrischiare di nuovo la propria esistenza, rivisitandola e rielaborandola: cioè, costruendola come se fosse la prima volta e, al tempo stesso, I'ennesima; I'ultima e, al tempo stesso, la prossima.

La "comunità dei reclusi" si trova gettata sempre tra due rischi estremi: ad un polo, la perdita irremissibile di Sé; all'altro, il ritrovamento di Sé e dell'Altro. Il doppio rischio diventa un pericolo mortale nel regime delineato e dilatato dall'art. 90. La corruzione e degradazione dello spazio, come si è visto, si va saldamente intrecciando con la corruzione e la degradazione del tempo. Ci ricorda N. Elias, sulla scia di un insegnamento kantiano: ogni mutamento di tempo è un mutamento nello spazio e ogni mutamento di spazio è un mutamento nel tempo. Ciò è particolarmente vero, per la vita sociale e individuale, con la nascita delle metropoli agli albori del XX secolo, come tra i primi intuisce G. Simmel: "la tecnica della vita metropolitana è inimmaginabile senza l’integrazione la più puntuale di ogni attività e delle relazioni reciproche nel quadro di una tabella oraria che sia stabile e impersonale". Nelle società complesse, inoltre, il tempo attivo si costituisce come tempo decrescente: vale a dire, tempo sempre più velocificato; a differenza del "tempo passivo" delle società pre-industriali.

La chiusura dell'universo del discorso picchettata dal regime dell'art. 90 intende strappare dalle mani dei reclusi l'orologio del tempo e la misura dello spazio. Non a caso, i detenuti soggiacciono al divieto di portare l'orologio e lo spazio di cui fanno esperienza emotiva, tattile e motoria è infinitamente esiguo. L'universo del discorso dell'art. 90 tende a chiudersi proprio perché tempo e spazio sono associati e governati dalla medesima sfrenata "volontà di potenza". Il potere assoluto dell'istituzione totale carcere, soprattutto in regime di art. 90, disegna i contorni netti di un universo di discorso che si chiude in sé e ne esclude ogni altro che non assuma i suoi codici di espressione e comunicazione. Il suo linguaggio, esattamente come fatto osservare da Marcuse in relazione a tutti gli universi discorsivi chiusi: "si articola in costruzioni che bloccano lo sviluppo del contenuto, che spingono ad accettare ciò che viene offerto nella forma in cui offerto". L'intero contesto discorsivo, precisa Marcuse, viene afferrato da una formula ipnotica. Significato e significante, detto e non detto, affermazione ed allusione s'impongono, sotto la sovranità di un potere onnivoro che scopriamo essere anche un'autorità ipnotica. Nelle condizioni delimitate dall'art. 90, I'intreccio di potere assoluto e autorità ipnotica raggiunge inauditi picchi di intensità. Uno stato di sonnambulismo tende ad impossessarsi dei reclusi: esso costituisce l'altra faccia della deprivazione assoluta delle risorse ed ha lo scopo precipuo di renderli permeabili ai discorsi e ai codici dell'istituzione. Non è solo la loro prospettiva temporale ad essere alterata e ricostruita su un campo di mutilazioni sensoriali e culturali a raggio sempre più largo e profondo; ma è la connessione stessa del rapporto spazio/tempo ad essere aggredita nelle sue implicazioni fondanti. L'immersione totale nel presente, tipica della reazione spontanea alla reclusione, acquisisce il carattere di un azzeramento del tempo in uno spazio vuoto di contenuti significanti propri. Il "truc-co" di far uso di un orologio soggettivo, per tentare di sfuggire ai meccanismi di soggiogamento della prigione, è qui messo in crisi. Le sequenze temporali artificiali prodotte soggettivamente dai reclusi, in un tentativo estremo di protezione e difesa della propria autonoma identità e della propria privacy, sono anticipate ed accerchiate da quelle ipnotiche ed asserventi generate dall'istituzione, attraverso i tentacoli dell'art. 90. La libertà, in carcere, tende ad essere la proiezione in un futuro tanto fantastico quanto intensamente percepito; ma, ora, in regime di art. 90, il passaggio che si tenta traumaticamente di cancellare è proprio dal "fantastico" al "percepito" e dal "percepito" al "fantastico". Le "fantasie" e i "so-gni" perdono il loro diritto di cittadinanza: il futuro diviene un inane vagheggiamento e il desiderio perde carne ed ossa. Perdendone la percezione, intorno al tempo non si può più riflettere, pensare, de-siderare e sognare; ma solo delirare. I carichi di frustrazione e di impotenza rabbiosa e cieca divengono insopportabili. Ed è qui, su questo confine estremo della sofferenza umana, che si gioca il salto mutilante ed abbruttente dalla nevrosi alla psicosi, dall'ipnosi alla dissoluzione del Sé e dei suoi legami col mondo. Qui la perdizione del destino individuale si consuma come perdita del sentimento e dell'esperienza dello spazio/tempo. Qui, stando dall'altro lato del discorso, la battaglia contro le chiusure, le tirannie, i meccanismi di asservimento e spoliazione è asperrima. Sulla linea estrema di questo confine, ancora più che altrove, i detenuti mettono in gioco la loro vita e si ribellano alla morte simbolica e fisica che il carcere vuole loro imporre.

5. Le lacrime di Eros

Continuiamo a percorrere i territori dell'interdizione e dell'esclusione.

Secondo M. Foucault, le regioni in cui il reticolo dell'interdizione e dell'esclusione è più intensamente sviluppato sono la politica e la sessualità. Ora, se nella società queste regioni costituiscono il territorio per eccellenza dell'interdetto e dell'escluso, nel carcere, come è agevolmente intuibile, lo sono in sommo grado, oltre ogni limite dicibile e pensabile. Dell'interdizione e dell'esclusione dalla politica a cui è soggetta la "comunità dei reclusi" ci siamo diffusamente occupati nel primo capitolo. Rimangono da esaminare l'interdizione e l'esclusione dalla sessualità.

Dobbiamo premettere alcune considerazioni basilari, le quali ruotano, in gran parte, intorno al lavoro di scavo proposto da Foucault:

La sessualità è, in ogni epoca, un crocevia straordinario per le dinamiche del potere, in quanto luogo ove può dispiegarsi tutta una serie di controlli infinitesimali.

La sessualità costituisce per Foucault l'esempio paradigmatico di un campo non creato ma utilizzato dal potere, che non intende affatto condannarla, ma soltanto regolamentarla.

L'autore studia allora nella sua trilogia i vari codici di regolamentazione che, nelle varie epoche, hanno tracciato il discrimen tra la sessualità "buona" e quella "perversa", dalla morale greco-romana al diritto canonico. Fino alla nostra epoca, in cui la sessualità tutt’altro che circoscritta ad ambiti discorsivi particolari, sembra parossisticamente evocata ed enfatizzata allo scopo di regalare nuovi ambiti alla colonizzazione del sociale operata dal potere. È il caso – esaminato da Foucault – della sessualità infantile, inseguita in spazi sempre più remoti e sempre più precoci, non per ridurla al silenzio ma per farla parlare, non per espungerla e distruggerla ma per accoglierla e farla proliferare come un nuovo campo di intervento normativo.

A partire dal XIX secolo, dunque, "tutta una strategia diversificata si mette in cerca del sesso (per suscitarlo) ed investe la società attraverso gli strumenti di sessualizzazione del fanciullo"; ma anche – come ben spiega d’Alessandro – dell’isterizzazio-ne della donna , del controllo delle nascite e della psichiatrizzazione delle perversioni.

Questa vocazione della sessualità all’utilizzazione da parte di un potere sempre più invasivo è del resto testimoniata dal fatto che, proprio là dove le maglie del potere si stringono, è dato riscontrare il più ampio dispiegarsi di una sessualità "eversiva": carceri, ospedali, scuole si rivelano allo sguardo del genealogista come altrettanto teatri di una sessualità caricata.

Il sesso diventa insomma "un bersaglio decisivo per un potere che si organizza attorno alla gestione della vita piuttosto che alla minaccia della morte". È la dimostrazione che il potere non deve necessariamente vietare, punire, interdire, minacciare, ma può essere produttivo; pro-ducere, cioè, rendere visibile, far apparire sulla scena un oggetto in modo da renderlo visibile e, attraverso di esso, controllare e disciplinare tutti gli oggetti che gli sono contigui (il lavoro, lo studio, le convinzioni politiche etc...). La sessualizzazione dell’esistenza operata dalla modernità non è che un modo per condurre un oggetto, quello sessuale, da un ordine proprio e invisibile – quindi non controllabile – ad un ordine in cui l'ispezione sia possibile. È per questo che la modalità primaria dello sguardo con cui l'Occidente abbraccia la sessualità è quella scientifica; come nota d'Alessandro: "L'Occidente non ha un'ars erotica come l'Oriente, cioè una scienza il cui oggetto sia il piacere in quanto tale a cui il soggetto viene iniziato. L'Occidente ha, invece, una scientia sexualis il cui primo filone è nella tradizione cristiana".

Nella società occidentale, dunque, I'Eros viene "scientificamente" organizzato e gestito come negazione e destrutturazione del "principio piacere" e del "principio felicità": lo sguardo delle "tecnologie del controllo" (del Sé e dell'Altro) lo invade e squaderna per linee interne, affondando le sonde del potere in sottosuoli remoti, altrimenti indiscernibili e ingovernabili. Nemmeno per l'Eros può più esistere un luogo segreto, in cui "rintanarsi" e conservare la propria cifra eversiva nei confronti del mare morto delle normalità e banalità quotidiane. Il controllo invasivo dell'Eros non è altro che la neutralizzazione e docilizzazione della carica di eversione liberante di cui esso è portatore. La sessualizzazione dispiegata e la de-erotizzazione della sessualità, della comunicazione umana e della relazione amorosa sono la forma svelata di questo addomesticamento coattivo delle pulsioni passionali ed emotive più profonde. Ciò che si afferma non è tanto la morale puritana dell'incatenamento inibitorio delle pulsioni della passione erotica, quanto lo straripamento dei messaggi e dei riti sessuali come consumo e interscambio energetico a "somma zero", in cui ognuno dei contraenti divora, fino all'ultima goccia, le energie, i sentimenti e le passioni dell'altro, senza che si crei e inventi alcunché di nuovo e irripetibile. La sessualizzazione dell'Eros mette in secondo piano il divieto cristiano al piacere che finalizza l'amore all'esclusiva funzione della procreazione e riproduzione della specie. La stessa procreazione viene qui evirata dei suoi contenuti vitali più profondi, per divenire fredda pianificazione, mero calcolo quantitativo, geometria delle passioni.

I riti e i simboli della sessualizzazione interiorizzano e, nel contempo, socializzano comunicativamente il volto crudele dell'Eros. Possiamo dire, approssimandoci di molto al vero: la sessualizzazione, non già la trasgressione erotica, incarna l'archetipo e gli ste-

reotipi dissipativi dell'Eros nero. Figure come il marchese de Sade rivelano, allora, tutta la loro carica liberatoria, poiché, in loro, il principio dell'Eros si erge a "principio Speranza", in lotta strenua contro l'evacuazione macchinica della passione e del fluido erotico, dei mondi vitali e sociali. Qui "principio piacere" e "principio felicità", "principio etico" e "principio estetico" non si elidono più, diversamente da quanto accade nella morale cristiana, nello spirito del capitalismo e nelle tecnologie della sessualizzazione che caratterizzano le società avanzate. Con Sade, i "poeti maledetti", il surrealismo e tanti altri poeti, scrittori, pensatori e artisti che hanno avuto e hanno a cuore la felicità del cuore umano, non bisogna dimenticare che "la sovversione, nell’arte come nella vita, passa per la voluttà". Ma non la voluttà del seduttore, bensì quella dell'amante che ama con trasporto passionale e si concede con innocenza erotica, offrendosi spontaneamente e gratuitamente.

Le sfere della voluttà, alle soglie del terzo millennio, hanno da fare i conti con una realtà sconvolgentemente nuova: il sapere tecnologico accumulato consente di intervenire sulla riproduzione (biologica) della vita, attraverso la manipolazione del codice genetico e la fecondazione artificiale. Con ciò, la sfera della riproduzione si separa, definitivamente, dalla sfera della sessualità: la nascita della vita cessa di essere destino, per diventare scelta e responsabilità. La morale cristiana (che collega la sessualità alla riproduzione) e lo "spirito del capitalismo" (che aggioga l'eros ai ceppi calcolistici e consumistici del lavoro e dello scambio equivalente) entrano in crisi per linee interne. L'interdizione alla sessualità tipica della reclusione non si configura più, allora, come mera inibizione alla riproduzione e al gioco erotico della voluttà. Più profondamente e dilacerantemente, I'interdizione alla sessualità si profila come sradicamento di quel terreno della scelta e della responsabilità dove si costruisce il proprio destino e dove prende forma l'universo comunicativo con l'altro da sé per eccellenza: la donna, per l'uomo; I'uomo, per la donna.

Nell'epoca in cui agli esseri umani si dischiude la possibilità positiva della scelta responsabile della vita, sulla "comunità dei reclusi" incombe il destino negativo di essere esclusa tirannicamente da questo nuovo campo di scelta. Essa continua a subire quell'antico retaggio che cuce e ricuce il destino della vita come destino della riproduzione e del consumo, sulla base della reciprocità delle prestazioni. In sovrappiù, su di essa grava il fardello nuovo dell'impossibilità di afferrare quelle possibilità di libertà e di liberazione che l'epoca nuova porta con sé.

Che i reclusi non possano riprodurre la vita o consumare la sessualità non è il dramma più grande. Che i reclusi non possano liberarsi dalla vita ridotta a destino interamente subito e patito, per accedere alla soglia della vita e dell'eros vissuti come scelta e responsabilità: ecco lo scacco atroce. Il tempo storico e sociale, nello scandire le sue successioni e trasformazioni, riverbera sulla "comunità dei reclusi" soltanto i risvolti acri e asserventi dei suoi percorsi e non anche quelli disposti verso una crescita potenziale degli spazi di liberazione e maturazione personale e collettiva.

Le lacrime più amare che, nel tempo/spazio della reclusione, Eros piange hanno questo humus doloroso. Esse ci ricordano, proprio dall'inferno della coazione, che gli umani non si distinguono come essere animali sociali ri-produttivi, ma in quanto esseri che pongono responsabilmente la propria scelta nel gioco inestricabile di vita e destino. La scelta dell'Eros come si ribella alla tirannia del destino, così viene a capo e corregge la sindrome di onnipotenza con cui la vita tenta invariabilmente di governare il destino. I palpiti di Eros conducono ad un rovente incontro d'amore i passi della vita con le tracce del destino. Nascono e si inventano qui luoghi nuovi, in cui non ci sono soggetti ed oggetti sovrani gli uni sugli altri, ma tutto ha pari valore e pari dignità. L'interdizione alla sessualità che regola lo spazio/tempo recluso inibisce la creazione di questo universo nuovo, senza sovrani e senza sudditi. In carcere, le lacrime di Eros è questa assenza che piangono.

L'azione libera erotica non è di per sé procreazione. Più al fondo, è amore profondo e profondamente disinteressato tra due soggettività, tra due vite che, per conoscersi e immergersi in profondità cosmiche sconosciute, anelano a fondersi e ad incontrarsi in territori inesplorati. Nell'incontro d'amore si crea ed esperisce l'ine-splorato, il nuovo e il diverso per le stesse identità individuali. L'as-sente e l'ignoto conoscono l'alba del tempo. Le onde calde di ciò che più preme per prendere forma si affacciano e specchiano nella vita, dicendo e mostrando cose inaudite, incomparabili nella loro semplice e terribile innocenza. Nel gioco d'amore l'innocenza più grande sta sempre nell'ultimo bacio e nel prossimo che è già "in agguato". La "comunità dei reclusi" è esclusa da questa esperienza di creazione dell'ignoto e di transito nell'inesplorato. Essa è esposta al tremendo rischio di perdere la sua innocenza e le facoltà di ricreare e rinnovare la vita proprio grazie e dentro l'incontro d'amore. Il peso delle sbarre e dei muri si fa più zavorrante ed evacuante. Senza amore qui significa letteralmente senza vita. Resistere e restare vivi e innamorati, pur rimanendo senza l'incontro d'amore, è possibile unicamente non nascondendosi questa mancanza, esperendola in tutta la sua profonda atrocità, nella consapevolezza di non poterla riempire con alcunché. Amare senza esperire la pienezza dell'amore è la condizione dell'Eros in carcere. Si tratta di una dimensione mutila dell'amore, ma, al tempo stesso, di un' esperienza vitale che consente di salvaguardare la propria capacità, il proprio desiderio e il proprio bisogno di amare e di amore. Si tratta di continuare ad amare e di continuare ad apprenderlo: amare la persona amata nell'amore; amare l'amore nella persona amata.

In carcere la frattura netta con la persona amata si rovescia nella fusione massima tra amore e persona amata. La mancanza della pienezza dell'incontro d'amore spacca gli universi degli innamorati, ma riunifica i loro messaggi, i loro segnali, le loro parole, i loro pensieri, i loro desideri e le loro anime. Le storie d'amore che non riescono più a passare per questi momenti di riunificazione ed ad esprimere, dai luoghi più profondi della divisione e dei divieti, questo bisogno assoluto di unità e di comunione, di libertà e di ribellione, appassiscono sotto il gelo della reclusione. Il realismo delle celle e della vita sconfigge la realtà dell'amore. Quest'ultima è sempre qualcosa che trascende i piatti firmamenti realistici che l'astuzia e, insieme, la povertà dei nostri sensi tentano di trasmetterci come campo del certo, del vero e del necessario; come scenario indispensabile delle nostre azioni, delle nostre scelte e delle nostre relazioni.

Il gioco d'amore non è solo espressione massima di libertà e di inventività. È anche e soprattutto suprema forma di ribellione contro quel realismo che traveste col manto della convenienza le nostre paure, le nostre esitazioni, le nostre incertezze e i nostri confusi e maldestri tentativi di deresponsabilizzarci nei confronti di noi stessi e dell'amore che ci impegna e ci fa responsabili anche nei confronti di un'altra vita. Per il realismo piatto del calcolo e delle convenienze, I'amore è sempre sconveniente, è sempre scandalo. Il gioco d'amore afferma la sua libertà e quella degli amanti, sfidando proprio i calcoli del realismo delle convenienze, col suo corollario di divieti e di inopportunità. L'amore afferma la sua libertà estrema, perché si ribella e dice di essere possibile, necessario e certo proprio laddove tutto vuole imporgli di non esistere o di morire.

La libertà e la ribellione dell'amore sono estreme, allora, nello spazio/tempo della reclusione: lì dove tutto congiura per rendere impossibile l'amore non solo come esperienza, ma anche come desiderio, come bisogno, come moto dell'anima. In carcere, ancor più che in libertà, rimanere innamorati, innamorarsi e amare è un tratto essenziale della cura del Sé, della sua maturità, della sua libertà e della sua disponibilità verso il mondo e l'Altro. Ecco perché è proprio il carcere il luogo per eccellenza della produzione e riproduzione degli infiniti e svariati surrogati del gioco d'amore. Essi ci parlano non semplicemente di una disperante mutilazione, ma levano alto il grido del bisogno e del desiderio d'amore, così violentemente e irremissivamente imprigionati.

Anche in carcere, la sessualità si de-erotizza ed esibisce, costituendo uno dei tanti portati della spettacolarizzazione ed evacuazione del sesso. La dialettica erotica viene letteralmente aggredita, per cercare di rovesciarne segno e senso: da matrice di ribellione e libertà a veicolo di conformismo e adattamento. Non solo. Il consumo materiale e simbolico di sesso de-erotizzato codifica e incanala l'assimilazione alle mancanze e alle ingiustizie, ma soprattutto consente allo sguardo del potere di affondare il suo occhio in regioni in cui deprivazione e coazione sono massime, per studiare più al fondo il comportamento umano ed elaborare più raffinate e penetranti strategie di controllo.

La stimolazione, nei reclusi, di consumo sessuale de-erotizzato in contesti di deprivazione sensoriale assoluta è contestuale ad una strategia di recupero delle pulsioni intime della ribellione e della libertà, destrutturate per linee interne e mobilitate in un gioco di dissipazione seriale dell'energia umano-sociale creativa. Il sesso de-erotizzato è un'inseminazione sterile, anche quando esplicitamente finalizzato alla procreazione. Con esso, I'energia vitale si spreca in negativo, fino a prosciugarsi del tutto. Il gioco sessuale diviene uno sfiancato e denutrente teatro della ripetizione che cerca di occultarsi dietro sfavillanti rituali e lussureggianti scenografie. In carcere questo ripiegamento crea a dismisura "luci della ribalta" fatte per intero da immagini, simboli e pulsioni sovraccariche di sessualità assente, simulata in maniera disperata. Il consumo di sesso de-erotizzato, più che sul terreno dello scambio sessuale deprivante, avviene sul piano dell'introiezione simbolica e cerebrale. Nel senso che il desiderio erotico e il bisogno d'amore sono poderosamente attratti dalle immagini e dalle rappresentazioni dei "rituali comuni" che del sesso vengono elaborati e mercificati.

Così, l'amore, staccato violentemente dal suo corpo, è irreparabilmente esposto a perdere anche la sua propria anima. La ricerca, a volte disperata, del mondo esterno si esprime anche in adesione ai suoi codici e ai suoi miti, così come vengono quotidianamente forniti e ridefiniti. Il tentativo di ricongiungersi con l'esterno, introiettato come luogo della libertà, assume le sembianze dell'adesione istintuale e acritica ai suoi valori più appariscenti ed esibiti. Ciò dovrebbe convincere, nonostante la reclusione, di essere ancora vivi, attuali e all'altezza dei tempi nuovi. Un processo di mimesi e di risoluzione simbolica del problema del carcere fa aderire vorticosamente a tutte le mode, ai gerghi, ai "costumi", agli stili di vita, ecc. che la società esterna va producendo. La de-erotizzazione del sesso e la riduzione dell'Eros a un fatto macchinico-seriale sono i primi fenomeni e i primi messaggi che la società esterna rovescia dentro il carcere e il più profondo e "attraente" processo di controllo e destrutturazione del Sé che la "comunità dei reclusi" si trova ad impattare.