CAP. III

FILOSOFIE PUNITIVE E ASSETTI PENITENZIARI:

1947-1975

  

 

1. I retaggi del passato: dalla ricostruzione ai primi anni ‘70

Come si sa, la legge 354/75 di riforma penitenziaria ha avuto una gestazione lunghissima: ben 28 anni. Questo dato da solo evidenzia le notevoli resistenze politiche ed istituzionali ad un intervento di modifica e razionalizzazione degli assi del controllo penale e del regime reclusorio.

Tali resistenze hanno avuto un peso rilevante anche dopo la promulgazione della legge: ad esse, come da più parti denunciato, debbono ricondursi molte delle cause del sistematico venir meno di gran parte degli "obiettivi qualificanti" della riforma. Sarebbe riduttivo, però, attribuire loro un ruolo meramente negativo di contrasto, poiché, invece, hanno esercitato anche una funzione positiva di proposizione. Il senso della legge di riforma, difatti, è stato piegato ad una logica che ha messo al centro le funzioni di controllo, lasciando in secondo piano le esigenze di una interazione progressivamente più ampia tra carcere e società. Laddove le seconde si scontravano con le prime, finivano immancabilmente col soccombere, nonostante testo e lettera della riforma, su più punti, assicurassero formalmente il contrario. Ciò ha reso oltremodo più agevoli i ricorrenti interventi "controriformatori" che si sono succeduti nel tempo.

Già nella prima fase di attuazione, il bilancio della legge di riforma è ampiamente negativo. Sentiamo come si esprime un impegnato giudice di "Magistratura democratica":

A circa quattro anni dalla promulgazione del nuovo ordinamento penitenziario è possibile abbozzare le linee di un bilancio: e non sono linee confortanti [...] Le ambizioni di bonifica del carcere sono rimaste in gran parte velleitarie; la pressione penale è stata indiscriminatamente alleggerita, ma non si è modificata la qualità della pena; l’uso classista del carcere e la composizione sociale della sua popolazione non sono stati intaccati; l’ingo-vernabilità dell’istituzione è stata in qualche misura arginata, ma solo facendo ricorso a strutture e metodi di estremo rigore, antitetici alle aspirazioni della legge; i tassi di criminalità si sono elevati.

Se una riforma così attesa e laboriosa ha prodotto frutti tanto amari, l’esame di coscienza deve essere condotto in profondità. Continuare ad addossare l’insuccesso al cronico difetto di strutture è abitudine consolatoria ed elusiva; attribuirlo alla ventata di restaurazione trionfante è una risposta apparente, in quanto non chiarisce il perché di questa restaurazione, né offre gli strumenti per superarla; rifugiarsi nell’attesa di un giorno in cui le mura del carcere cadranno per effetto della palingenesi sociale, significa continuare a chiedere al mito ciò che la ragione non riesce più a vedere".

Vi sono delle preesistenze culturali e politiche alla legge di riforma che, nel varo e nell’attuazione di essa, hanno continuato ad esercitare il loro condizionante ruolo. Esse affondano la loro origine nella formazione dello Stato unitario, accompagnano la costituzione dello stesso Stato post-unitario e conservano la loro intangibilità nel processo di insediamento dello Stato repubblicano.

Si tratta, in breve, di quelle tendenze che assegnano ai vertici dei poteri statuali un eccesso di potere di normazione autoritativa, in un quadro di ampia delegittimazione e neutralizzazione repressiva del conflitto sociale, politico e culturale. I sistemi del controllo sociale e della sanzione penale non potevano che rimanerne fortemente vincolati.

È quantomai opportuno, pertanto, effettuare una rapida ricognizione sulle culture e filosofie della pena che preesistono alla legge di riforma del 1975.

Limiteremo il nostro excursus alle filosofie della pena che hanno modo di svilupparsi subito dopo il secondo conflitto mondiale. Tali filosofie, su molti punti, raccolgono e rielaborano il lascito delle due grandi scuole – quella "classica" e quella "positivista" – che, sul finire dell’Ottocento, occupano la scena della giustizia penale.

Determinato, in questo modo, il campo di indagine, non possiamo che partire da un punto obbligato: i lavori della Costituente che conducono alla formulazione dell’art. 27/3 della Costituzione.

Nella seduta plenaria del 15 gennaio 1947, la "Commissione dei 75", insediata sui problemi inerenti alla pena, approva un testo che, così, recita: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità"; il testo portato nell’adunanza suonava, invece: "Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono ricorrere a trattamenti crudeli o disumani".

L’attribuzione alla pena di una funzione sociale rieducativa, superando l’impostazione retributiva della "scuola classica", si insedia, con tutta evidenza, nel filone del pensiero penale positivista, per il quale la pena necessaria è, nel contempo, pena utile. Per il diritto penale positivista, come è ben noto, si tratta di recuperare il condannato, attraverso il riadattamento; nel caso in cui ciò risulti di impossibile attuazione, si deve, senz’altro, passare alla sua neutralizzazione, attraverso la segregazione e, in estrema ratio, l’eli-minazione fisica.

Ma l’obiettivo della rieducazione, per converso, conserva un’im-pronta classica, a misura in cui vincola l’esecuzione penale a quel quantum di carcere funzionale al recupero sociale. La retribuzione della pena viene a coincidere esattamente con la quota di pena detentiva funzionale alla rieducazione; oltre tale tetto, il carcere non solo non è necessario, ma è anche disutile.

In tutti e due i casi, l’obiettivo primario positivo è il ristabilimento e il mantenimento dell’ordine vulnerato.

L’art. proposto dalla Commissione segna, dunque, un singolare incrocio tra i paradigmi retribuzionisti della scuola classica e quelli neoutilitaristi della scuola positiva.

Ma vediamo, più in dettaglio, i contesti culturali e normativi fondamentali disegnati dal retribuzionismo e dal positivismo.

La pena come retribuzione del danno arrecato, per effetto della condotta deviante o criminale, trasforma gli eventi in fattispecie giuridiche, instaurando una proporzione che rescinde il fatto dal contesto disordinato che l’ha provocato. Immerso nella normativa giuridica, l’evento ne acquisisce l’ordine interno, la logica e l’equi-librio astraente. Se il delitto è violazione, la pena deve reintrodurre, normare ed estendere l’autorità e l’ordine della legge violata. L’ordine, più che essere il complesso risultato di interazioni, combinazioni e variazioni sociali, è, fino in fondo, il portato esterno di un equilibrio formale sovraimposto alla società. Le teorie retributive mettono qui in contrapposizione il disordine sociale con l’ordine giuridico, facendo di quest’ultimo il baricentro del ristabilimento dell’ordine (esterno) alla società.

L’obiettivo del ristabilimento dell’ordine, come ben si vede, si ammanta di metafisica giuridica. La conservazione e riproduzione del potere ruotano esclusivamente attorno al diritto, trasformato in fonte del potere. Col che questo indirizzo espunge dagli scenari sociali i conflitti, gli interscambi tra Stato e cittadini, tra società e cittadini e tra i vari strati sociali; anche per la decisiva circostanza che quale fonte del diritto la scuola classica assume la divina provvidenza. La norma si sclerotizza e si separa definitivamente dall’ evoluzione e trasformazione degli eventi, dei fatti e dei soggetti sociali: si ammanta di una razionalità metafisica e metastorica, facendo emergere il diritto come metapotere. Secondo la chiave di lettura che stiamo proponendo, la teoria retributiva della pena è una metateoria del potere. Più che coniugare pena con autorità, tende a far coincidere autorità giuridica con autorità statuale, in una singolare anticipazione del programma kelseniano del "diritto puro".

Se la teoria retributiva concentra la sua attenzione sul delitto, la scuola positiva, sotto l’impulso degli studi criminologici di Lombroso, sposta l’interesse sul delinquente, in quanto unico "evento" suscettibile di esperienza. Il diritto penale dismette la sua aura metafisica e, per così dire, rinuncia ad essere filosofia, collocando la risposta dello Stato al delitto fuori dal reato e dalla pena corrispondente.

Sganciato il fatto dalla colpa, la pena non può più essere la retribuzione dovuta al delitto. Col che scompaiono imputabilità e castigo e la sanzione non diventa altro che un mezzo di difesa contro il delinquente. Baricentro dell’azione penale non è più la punizione, ma il riadattamento, la segregazione e la neutralizzazione. Riadattamento, segregazione e neutralizzazione sono i tre vertici della "difesa sociale".

Non conta più il valore del delitto, ma i suoi presupposti e i suoi precedenti sociali. Secondo l’approccio positivista, il delitto porta alla luce la pericolosità sociale che l’ha sotterraneamente prodotto. L’ostacolo reale da rimuovere non è più visto nel delitto in sé; bensì nella pericolosità sociale sottostante e circolante.

La sanzione deve differenziarsi e orientarsi in vista della difesa del corpo sociale perturbato dal conflitto, dalla devianza e dalla criminalità. Il diritto si fa sociologia positiva. La norma non si limita a diffondere la metafisica della statualità e del potere; bensì si costituisce e articola come strumento di difesa tra gli altri. Il diritto acquisisce qui un carattere protettivo: protezione dalla pericolosità sociale. Quest’ultima, come è agevolmente intuibile, è particolarmente patita in periodi storici di transizione che comportano grandi trasformazioni sociali. Non a caso, la scuola positiva ha potuto attecchire nell’immediato periodo post-unitario, in cui si sono gettate le basi per il passaggio da un’economia sociale di tipo agricolo ad un’altra di tipo industriale. Sempre non casualmente, le teoriche neopositiviste della "nuova difesa sociale", nella seconda metà degli anni ‘70, costituiscono l’humus culturale di fondo su cui alligna la legislazione dell’emergenza, a fronte di un quadro di forte conflittualità sociale, politica e culturale e nel pieno di un mutamento di di società che, dal modello industriale, passa al modello informatico-comunicazionale.

Al di là delle differenze e delle connessioni già individuate, il punto di convergenza che, infine, intendiamo sottolineare è l’alone di darwinismo giuridico che permea ab origine retribuzionismo e positivismo. Alla evoluzione biologica e genetica, che elimina per selezione naturale, si fa subentrare la selezione giuridica, egualmente tesa alla soppressione delle specie inferiori: il delitto e il delinquente. La naturalità dispotica del diritto si interconnette con la naturalità dispotica della sanzione. Pena e delitto permangono ancora più intimamente avvinti. Qui alla società appartengono i valori; ai delinquenti, i disvalori. Alla pena viene assegnato il compito di riproporzionare delinquere e delinquente alla società: o riconducendoveli conformisticamente oppure neutralizzandoli.

La discussione che si sviluppa nella "Commissione dei 75" supera i contrasti intorno alla praticabilità e consigliabilità della rieducazione, combinandola e sottoponendola rigidamente alle strategie e alle esigenze della difesa sociale. Egual cosa farà l’Assemblea, la quale licenzia il seguente testo: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27/3, Cost.).

Il riaggiustamento operato dall’Assemblea sembrerebbe di scarso rilievo: difatti, registriamo "solo" un’inversione della posizione occupata dalle due proposizioni costituenti il comma:

1) il testo proposto dalla "Commissione dei 75" annette alla rieducazione del condannato un primato gerarchico e, dunque, la colloca al primo posto nella costruzione logica e linguistica della frase;

2) il testo finale approvato dall’Assemblea, invece, relega la rieducazione al secondo posto: la costruzione logica e linguistica fa del trattamento umanitario dei reclusi l’obiettivo strategico primario da conseguire.

Sicché un fatto normale: le pene debbono essere conformi al senso dell’umanità, colloca in secondo piano un fatto straordinario: le pene debbono tendere alla rieducazione. L’Assemblea, invertendo le priorità tra rieducazione e trattamento umanitario, compie una scelta di campo, privilegiando sia il carattere extraterritoriale dell’istituzione carcere che le prospettive rigorosamente intramurarie del trattamento. La messa in secondo piano della rieducazione, al di là dei limiti illuministi e ideologici presenti nell’opzione rieducativa, taglia alla radice le possibilità: (i) di prospettare un’ipotesi di trattamento extramurario; (ii) di lavorare ad un rapporto più stringente tra carcere e istituzioni e tra carcere e società. I teoremi e le prassi della difesa sociale, così, non solo sono legittimati, ma alimentati.

L’opzione "umanitaria" dell’Assemblea avviene a tutto danno di un inquadramento sociale e politico più adeguato delle questioni della pena, del carcere e, in linea più generale, della giustizia. Nella sostanza, costituisce un atteggiamento liberista nel campo della definizione e soluzione delle problematiche del controllo sociale e penale; allo stesso modo con cui, nella fase della ricostruzione, princípi di stampo liberista si affermano in altri settori della vita nazionale, in particolare nelle politiche di bilancio, nella ristrutturazione economica e nella riconversione industriale.

Sicuramente, l’Assemblea, ancora più della "Commissione dei 75", compie un’operazione di modesto profilo culturale e gioca una mediazione politica al ribasso. Tuttavia, ciò non esaurisce la portata complessiva del disegno normativo, così, apprestato. Anzi, è proprio l’azione che deriva dai limiti appena sottolineati a mettere in opera un dispositivo assai flessibile, in cui formalizzazioni ideologiche "progressive" si collegano a imperativi politici "regressivi". L’apertura ideologica: la rieducazione del condannato, convive con la chiusura politica: il ruolo di comando giocato dai discorsi e dalle prassi della difesa sociale. Cosicché, situazione per situazione e caso per caso, lo Stato ha sempre a disposizione la possibilità formale e l’opportunità politica di ricombinare, al più alto grado, le strategie soft del recupero trattamentale con le strategie hard della segregazione attiva. Non solo può bilanciarle, secondo le sue mutevoli esigenze ordinamentali, autoritative e politiche; ma può pure sospendere le une in favore delle altre, per ogni singolo condannato, per tipologie omogenee di reato e/o di autori e per ogni circostanza storica.

Sul finire degli anni ‘50, le strategie del controllo penale e le politiche penitenziarie si risolvono in una scelta di fondo repressiva. Il contenuto morale insito nelle teorie retributive è subordinato alle politiche di neutralizzazione attiva della "pericolosità sociale" e, quello che più conta, è piegato agli imperativi di "ordine e sicurezza" attorno cui il nuovo Stato in costruzione va organizzando la raccolta del consenso sociale. Per effetto dell’insediamento ai vertici dello Stato e dell'istituzione di un "blocco sociale" di centro, egemonizzato dalla Democrazia cristiana, la polarità ambigua del dettato costituzionale (rieducazione+difesa sociale) si dissolve. A partire dall’estromissione delle sinistre dall’area di governo (maggio 1947), si vanno progressivamente affermando strategie di controllo penale incardinate esclusivamente sul momento di contrasto coattivo. Il carcere, conseguentemente, viene concepito ed agito come luogo elettivo dell’afflizione e contenitore totalizzante delle condotte devianti. L’ipotesi rieducativa, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra sotto spoglie metafisico-confessionali: l’emenda passante per la sofferenza e il pentimento. Le sofferenze del corpo dovrebbero essere, per il condannato, viatico per la salvezza dell’ anima.

I condizionamenti confessionali sulla sanzione e sull’esecuzione penale sono parzialmente mitigati dall’incipiente processo di modernizzazione ed espansione industriale che ha negli anni ‘50 la sua rampa di lancio. Il che fa letteralmente esplodere il ricorso alle politiche di difesa sociale. Pena ed esecuzione penale vanno sempre più connotandosi come azione di difesa della personalità giuridica, morale e politica dello Stato e del "benessere economico" da esso promesso, ammantandosi di una forte carica simbolico-intimidativa.

Lo Stato, divenendo il soggetto titolare della difesa sociale, tutto sovraimpone e tutto controlla: tutte le fenomenologie della devianza e delle manifestazioni del delinquere debbono essere ricondotte ai suoi centri unitari e alle sue articolazioni. Il terreno penale-carcerario diventa un suo essenziale campo di intervento e di controllo. Le soggettività recluse vanno ricondotte sotto l’imperio della "conoscenza scientifica" dello Stato.

Quanto ciò si allontani dalle teorie retributive e dalla concezione trinitaria colpa/pena/castigo è di tutta evidenza. Non casualmente, i paradigmi della nuova difesa sociale saranno fieramente avversati da Pio XII, nel corso del suo intervento al VI Congresso internazionale di diritto penale (Roma, 3 ottobre 1953). L’impostazione cattolica, prevalente nella fase 1947-1950, collega invariabilmente la colpevolezza alla pena e il castigo all’espiazione: il diritto di punire è, quindi, un diritto sacro. La violazione della norma vulnera la sacralità del potere, in quanto tale abbisogna di essere censurato e si richiede, pertanto, che la sanzione si accompagni con l’espia-zione dolorosa. La funzione fondamentale della pena, in questa posizione, sta, giustappunto, nel castigo e nell’espiazione; non già nella difesa sociale. Pio XII è esemplarmente chiaro, al riguardo, nel suo intervento al Congresso dianzi menzionato: "Niente è così necessario alla comunità nazionale e internazionale come il rispetto della maestà del diritto, come l’idea salutare che il diritto è consacrato e difeso di per se stesso, e che per conseguenza colui che lo offende si espone al castigo, e lo subisce in effetti".

Sotto l’urto della nascente industrializzazione del paese e le sollecitazioni dell’interventismo delle gerarchie ecclesiastiche che patiscono la modernizzazione come attentato al controllo ideologico-morale esercitato dalla Chiesa sulle coscienze e sul giovane Stato democratico, il conflitto tra retribuzionisti e neopositivisti si fa sempre più acuto. Quanto tale contrasto impregni gli organi dello Stato e le sue istituzioni è dimostrato da una sentenza della Corte di cassazione, la quale rigetta come manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale della pena dell’ergastolo e interpreta in maniera unilateralmente restrittiva il comma 3 dell’art. 27 Cost. Il programma teleologico della rieducazione, sostiene la Suprema Corte, va inteso esclusivamente nel senso dell’umaniz-zazione dell’esecuzione della pena, in quanto il dettato costituzionale in questione ha inteso raccordare la finalità retributiva e intimidatrice della sanzione con la finalità dell’emenda. Tale lettura univoca e strumentale è resa possibile proprio da quell’operazione di inversione tra rieducazione ed umanizzazione avvenuta nel seno dell’Assemblea Costituente e sulla quale ci siamo prima soffermati. Sulla stessa linea si è già collocato il ministro di grazia e giustizia dell’epoca, il quale in un’apposita circolare, che non abbisogna di alcun commento, sostiene:

La pena pur dovendo tendere, giusta il precetto costituzionale, alla rieducazione del condannato, non può essere totalmente privata, secondo la legge e il comune sentimento, del carattere afflittivo che la distingue dalla misura di sicurezza. È perciò inevitabile che arrechi sofferenze per le limitazioni che apporta alla libertà di circolazione, alla libertà del lavoro – essendo questo un dovere per il detenuto e non un diritto – e alla libertà di soddisfare, come l’uomo libero, le varie esigenze di ordine materiale e spirituale. [...]

poiché i detenuti vivono in comune, la conoscenza [...] di avvenimenti [...] suscettibili di eccitare l’animo normale [...] deve essere accuratamente evitata. Pertanto devono essere esclusi i giornali dichiaratamente o accentuatamente di carattere politico, ammettendosi solo la lettura di giornali che non siano organi di partito o notoriamente emanazioni di un determinato partito. E anche tali giornali devono essere esclusi quando indugiano su fatti di cronaca ovvero su avvenimenti tali da turbare un ambiente facilmente eccitabile quale è quello carcerario.

La lunga fase politica del centrismo e del neocentrismo, anche a sinistra, è stata criticamente classificata come epoca delle inadempienze costituzionali e della continuità col passato regime fascista. Conseguentemente, bersaglio critico diviene tutto quell’ apparato concettuale e normativo, assai elaborato e sofisticato, eretto a difesa dello status quo politico, a partire dal varo, tristemente famoso, della categoria delle norme programmatiche della Costituzione. Queste ultime, appunto in virtù della loro natura "programmatica", non possono – così sostengono gli indirizzi politici e culturali dominanti – trovare attuazione nell’esistente immediato.

La classificazione critica appena esemplificata, pur avendo legittime motivazioni, appare elusiva e riduttiva, in quanto trasforma la Costituzione nel luogo mitico della perfezione, immunizzandola da ogni critica possibile e necessaria. Al contrario, soprattutto per le forze dell’opposizione di sinistra, sarebbe stato quanto mai necessario riflettere, agire e proporre sui limiti e sulle contraddizioni interne al dettato costituzionale che, in tema di diritto penale ed esecuzione della pena, come abbiamo visto, non sono di lieve entità. Proporre il programma rieducativo, senza insistere sulle oscillazioni e sulle ambiguità del precetto costituzionale, è un’arma spuntata che lascia campo libero alle forze della conservazione politica e culturale. Queste hanno, così, buon gioco nell’applicare il "pro-gramma fondamentale" dell’Assemblea Costituente: subordinare la rieducazione al trattamento umanitario, col risultato inevitabile di estinguere la prima nella pura e semplice propaganda del secondo. Il programma delle forze di sinistra, soprattutto in tema di giustizia, si riduce alla richiesta dell’attuazione conseguente della Costituzione repubblicana; quando, invece, si trattava di prendere, sì, atto dei suoi indubbi meriti, ma anche e soprattutto di aprire, per far uso di un lessico assai in auge qualche decennio fa, un processo di riadeguamento profondo della "costituzione formale" alla "costi-tuzione materiale" del paese.

È ben chiaro che, per l’art. 27/3 Cost., la rieducazione è ferreamente subordinata alle esigenze custodiali che, a loro volta, fanno coincidere il muro della sicurezza con il muro della segregazione. Sulla base del testo costituzionale, trovano conferma autorevoli orientamenti dottrinari che la sentenza della Corte di cassazione del 1956, prima richiamata, recepisce e che non mancano di precisarsi anche successivamente.

Rimanendo invalicata e inattaccata questa barriera di fondo, il dibattito sulle pene e sul carcere si va impigliando intorno al falso dilemma: prevenzione o repressione? Ancora una volta, impregiudicata rimane la sostanza politica e culturale che impregna il modello costituzionale. Ad un lato si collocano le forze conservatrici e moderate, per le quali la prevenzione deve necessariamente strutturarsi sulla repressione, essendo, questa, la forma migliore di rie-ducazione; al lato opposto, le forze di sinistra che, al contrario, intendono agire la rieducazione in funzione eminentemente preventiva, combinando prevenzione con recupero sociale.

Stante questo quadro, fanno fatica ad entrare nel dibattito sulle pene e sul carcere gli orientamenti che, in campo internazionale, si vanno affermando fin dall’inizio degli anni ‘50.

Il Congresso internazionale di diritto penale dell’Aja del 1950 afferma l’esigenza dell’anailisi della personalità del recluso, al fine della messa a punto di una strategia differenziata e in funzione dell’opzione di sanzioni congrue al suo reinserimento; nel Congresso di Roma del 1953 viene avanzata la proposta di riunificare pena e misura di sicurezza, ipotizzando una "sanzione unitaria" avente un chiaro intento rieducativo; nel Congresso di Anversa del 1954 all’osservazione della personalità del recluso viene attribuito un carattere di scientificità; nel Congresso di Ginevra del 1955 si riafferma la finalità rieducativa della sanzione penale; nel Congresso di Milano del 1956 il sistema penitenziario preconizzato è funzionalizzato alla prevenzione dei delitti, con il contestuale recupero delle posizioni di E. Ferri intorno ai "sostitutivi penali", inseriti in contesti normativi che sono loro originariamente estranei.

Del resto, come non manca di osservare E. Fassone, le stesse strategie della "Nouvelle défense sociale", elaborate da M. Ancel, abbinano alle politiche di protezione della società la risocializza-zione del recluso, attraverso l’"umanizzazione del diritto penale" e l’osservazione scientifica della personalità, estesa anche a quei soggetti che Ferri e il positivismo, in genere, avrebbero senz’altro ritenuto irrecuperabili.

Una delle tesi principali di Ancel è che lo Stato sia il guardiano dell’ordine sociale. In quanto tale, la sua funzione e il suo dovere consistono, essenzialmente, nel creare e conservare l’ordine. Reciprocamente, continua Ancel, l’individuo ha il dovere di partecipare alla creazione e conservazione dell’ordine sociale: il suo diritto di esigere che i suoi spazi sociali siano protetti è subordinato all’ot-temperanza di tale dovere. Per Ancel, il cittadino deve meritare, contribuendo alla costruzione statuale dell’ordine, il suo posto nella società. Proprio la riconduzione delle sfere di azione del singolo a quelle dello Stato indurrebbe, secondo Ancel, un equilibrio sociale, politico e morale tra diritti dell’individuo e diritti dello Stato. Il generale riconoscimento dell’autorità statuale crea un legame tra cittadinanza osservante delle norme e cittadinanza deviante. Il che renderebbe agevole (sul piano teorico) e praticabile (sul piano empirico) ipotizzare percorsi di risocializzazione nell’alveo di quelle politiche di difesa sociale, tese alla creazione e conservazione dell’ ordine.

Tutte le posizioni passate in rassegna sono costrette a fare i conti con la realtà: le varie funzioni assegnate alla pena e al carcere si rivelano fallimentari. Il dibattito dottrinario e politico è costretto, seppure tardivamente, a questa ammissione, fino ad assumere esplicitamente che quelle assegnate alla pena e al carcere non sono che funzioni retoriche. Ciononostante, queste funzioni vengono conservate, acutizzando il conflitto tra attività prescrittivo-normativa e realtà empirica. Non solo: sempre più stridente si fa il dissidio tra prevenzione speciale e prevenzione generale, visto che la pena fallisce i suoi scopi e che, per converso, il suo portato di intimidazione va aumentando.

La crisi del diritto penale procede in uno con la crisi delle funzioni istituzionali assegnate al carcere dalle varie scuole e dai vari indirizzi. Ciò avviene, senza che il dibattito riesca a risalire alle cause profonde di questa crisi incrociata. Le incongruenze di fondo continuano ad essere operanti e, anziché riflettere su di esse, le si rimuove e si procede, apportando riaggiustamenti che spostano, non già risolvono, l’ordine delle contraddizioni.

Di queste incongruenze, però, viene fatto un sapiente uso politico, per bloccare l’evoluzione del dibattito sulle pene e la trasformazione della situazione carceraria verso condizioni di più elevata civiltà giuridica, per un coerente e pieno rispetto dei diritti sociali, civili e politici dei detenuti.

Che le teoriche e le prassi dominanti non abbiano in particolare cura i diritti dei detenuti trova una puntuale conferma nella discussione che, all’inizio degli anni ‘60, viene aperta, dapprima in ambito cattolico, sui diritti dei condannati. L’apertura del discorso verso questo tipo di tematiche segna un indubbio passo in avanti; restano, però, da registrare pesanti interferenze di tipo ideologico e confessionale. I diritti dei detenuti vengono tout court assimilati alla possibilità concessa al condannato di introiettare la morale cristiana: la precipitazione nella condizione del delinquere viene qui causalizzata direttamente alla perdita della morale cristiana. Ne consegue che solo nascendo o rinascendo alla condizione di cristiano il recluso possa prendere commiato dalla situazione delinquenziale. Ecco come, in proposito, si esprime con chiarezza G. Ragno: "Un condannato che, dopo l’esecuzione della pena, si astenga dall’operare il male, ma non rinunci a desiderarlo: l’utile sociale sarebbe servito, e per i feticisti di tale idolo la pena avrebbe soddisfatto l’esigenza che la ispira. Ma non dal nostro angolo visuale [...] Quel condannato deve espiare perché in lui nasca o rinasca il cristiano". La morale cristiana diviene il perno della sistematica entro cui vengono confinati i diritti dei detenuti.

Sul versante laico, i limiti e le ambiguità non sono di minor rilievo. Il leitmotiv delle forze di sinistra, in particolare, diviene il recupero sociale del recluso, sullo sfondo di un’etica produttivistica che assegna al lavoro la funzione di riscatto e reinserimento sociale. L’etica lavorista è contestuale alla sottomissione all’autorità statuale, senza che nei suoi confronti si delinei una puntuale e risolutiva critica democratica. Queste due componenti costituiscono una costante del pensiero e dell’azione della sinistra istituzionale in Italia, sino a tutti gli anni ‘70 e ‘80. Non fa meraviglia che, su queste basi, nasca e proliferi una vera e propria retorica del lavoro carcerario.

Con le rivolte dei detenuti del 1969 e dei primi anni ‘70, la "questione carcere" rompe le acque limacciose del dibattito istituzionale ed accademico: anche i detenuti hanno il loro ‘68. Il punto di vista dell’osservazione e la posizione dell’osservatore mutano radicalmente, sotto la spinta della crescente "presa di parola" dei detenuti intorno ai loro problemi, ai loro bisogni e alle subumane condizioni di vita a cui sono costretti. L’analisi dal carcere e sul carcere si carica di politicità e demistificato è il ruolo occulto, funzionale ai poteri dominanti, giocato dalla pena detentiva.

2.

La riforma penitenziaria del 1975: un’analisi critica

Il dibattito accademico e politico-istituzionale che conduce al varo della legge di riforma subisce, nel biennio 1973-74, ulteriori spostamenti verso posizioni moderate e conservatrici. Ciò per un complesso ordine di fattori:

1) per contrastare i cicli di lotta dei detenuti e la mobilitazione sociale che intorno ai temi del carcere si va affermando;

2) per la rinascita delle tesi neoclassiche in tema di filosofie penali e pena detentiva;

3) per l’accentuazione delle posizioni neopositiviste della difesa sociale nei termini della neutralizzazione rigorosa delle condotte devianti;

4) per l’opzione generalmente difensiva delle forze di sinistra che, in tema di sanzione e pena detentiva, optano per le tesi elaborate dalla "sociologia della devianza", le quali trasformano il carcere in "occasione" per il recupero e il riscatto (anche morale) del reo;

5) per il clima culturale internazionale che, in materia di pena e carcere, va muovendosi verso un inasprimento della repressione penale;

6) per gli effetti della crisi economica che, dal 1973, interessa le aree a capitalismo sviluppato e, in particolare, il nostro paese.

Fa notare Fassone:

La relativa novità degli anni ‘70 sta nel diverso substrato sociale sotteso alla nozione di incorregibilità (che meglio potrebbe definirsi "irreducibilità"). L’impossibilità di un processo rieducativo (che per i positivisti era legata principalmente a incoercibili propensioni delittuose a sfondo ancora bio-psicologico) oggi è percepita sia nei soggetti "integrati" – vale a dire coloro che hanno già fruito di un sufficiente processo di educazione ordinaria – sia, e soprattutto, nei confronti dei delinquenti politici, con i quali è impossibile un patto di natura penitenziaria.

Possiamo dire che, a questo punto, tutte le determinanti dell’ impalcatura su cui si innesta la legge di riforma siano compiutamente articolate.

Prima di passare ad affrontare lo specifico della riforma, occorre gettare lo sguardo sul panorama sociale entro cui va maturando la discussione sulla pena e sul carcere e sul cui sfondo si consuma la crisi irreversibile del penitenziario moderno. Viene fatto lucidamente osservare che tale crisi procede su due rette di azione tra di loro contrapposte.

1) da un lato, il penitenziario conosce una "progressiva dissoluzione nelle pratiche di controllo diffuso";

2) dall’altro, si va accentuando la sua "funzione meramente deterrente".

Il massimo di sicurezza qui richiesto al secondo punto è anche massimo di estraneità dal tessuto circostante e dallo spazio urbano; il minimo di sicurezza richiesto dal primo punto è minimo di estraneità dal tessuto sociale e dallo spazio urbano. La persistenza di questo fenomeno è indubbia: l’osservatore coglie qui un fatto reale, disvelandone le dinamiche nascoste.

Rileva giustamente Pavarini:

Il carcere perde, definitivamente, una propria fisionomia per "segmentarsi" in momenti di un "continuum" disciplinare altamente strutturato: una specie di cono rovesciato, la cui base coincide ormai definitivamente con l’insieme dei rapporti di controllo metropolitano e il cui vertice è rappresentato dall’istituzione per eccellenza "chiusa" e "totale": il penitenziario che "deve far paura".

È, ormai, generalmente accettato che il processo di formazione del "cono rovesciato" si origini a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 e che esso, inoltre, appronti nuove strategie di "controllo diffuso". La fase storica che si va, così, aprendo si caratterizza per la fuga dalla pratica segregativa e per l’accentuazione del processo di de-istituzionalizzazione. La pluricausalità dei fenomeni di devianza mette irreversibilmente in crisi il carattere monocratico delle pratiche segregative e richiede allo Stato politiche di controllo e di sicurezza più puntuali. A tali funzioni risponde la diffusione delle politiche di Welfare, le quali dislocano una presenza capillare delle istituzioni nelle maglie del tessuto sociale. In questo senso, il controllo sociale, diffondendosi, si de-istituzionalizza e le figure coinvolte non vengono sottratte al circolo della socialità.

Ora, in Italia, per tutti gli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70, le politiche di de-istituzionalizzazione della pena non trovano soverchia applicazione. Per converso, con la crisi del Welfare esplodono nuovi fenomeni di emarginazione sociale, da vero e proprio ghetto metropolitano. Le figure che popolano queste aree di emarginazione, pur non ancora precipitate nel carcere, vengono divorate in uno spazio interessato da un "minimo di socialità". Lo spazio di estraneità e di emarginazione si prolunga dal vertice del cono alla sua base rovesciata, ben dentro il territorio metropolitano. Non è solo il "car-cere duro" ad essere interessato da un massimo di estraneità; ma anche il tessuto metropolitano e gli spazi del controllo diffuso risultano colpiti da una rete di rapporti estraneanti ed emarginanti.

Proprio mentre nelle aree a capitalismo avanzato si assiste alla crisi delle nuove pratiche di controllo in comunità, in Italia viene promulgata la legge di riforma penitenziaria.

Il postulato base su cui si regge la riforma è il seguente: la cella non può essere intesa come unico luogo dello "spazio di vita" del detenuto. Essa, pertanto, non può essere chiusura interna dell’isti-tuzione chiusa. Rottura dell’universo totalitario della cella è rottura del "regime di vita indifferenziato" che vige nel penitenziario moderno, secondo cui la struttura del tempo e dello spazio carcerario non ha articolazioni interne e non conosce mutazioni, spostamenti, innesti.

Descritto il panorama storico-sociale che fa da sfondo alla maturazione della necessità di una riformulazione dei parametri dell’ ordinamento penitenziario (crisi del penitenziario moderno + crisi della sanzione penale), possiamo passare a isolare i centri politico-ideologici della legge di riforma.

È stato fatto puntualmente osservare:

Una lettura anche sommaria della legge n. 354/75 permette di individuare tre punti di equilibrio, o centri paradigmatici, che reggono tutta l’impostazione legislativa. Schematicamente e con impropria terminologia possiamo così organizzare quei tre centri:

a) ad un primo livello, e come vera e propria stratificazione ideologica, opera uno spirito generale della legge , luogo di assimilazione di quella gamma di valori propri della repubblica postresistenziale. È l’aspetto più sfuggente della legge , quello meno evidente, ma che a monte decide della stessa organizzazione semantica dell’ordina-mento penitenziario, presuppone e giustifica finalità ed operazionalità;

b) a copertura degli scarti che si innestano tra spirito generale e le specificità trattate, opera un’ottica di stampo terapeutico. È il luogo grazie al quale le differenze sono risucchiate nel paradigma;

c) l’ultimo potrebbe essere definito come bisogno di ridurre le diseconomie che l’esecuzione penale comporta.

Il quadro delle necessità e delle difficoltà è il seguente:

In generale possiamo dire che la riforma penitenziaria, se per un verso nasce in un clima particolare: la cosiddetta stagione delle riforme; per un altro verso deve coprire uno spazio rimasto per anni vuoto, e che non sfugge al legislatore: dare un assetto istituzionale al sistema penitenziario.

Rimonta da qui il convergere dell’esecuzione penale verso il trattamento individualizzato disciplinato dalla riforma, in una sorta di proiezione ortogonale del primato dei diritti dell’individuo e della persona che è uno dei fulcri ideologici del dettato costituzionale.

Ma prima di concentrare la nostra attenzione sul trattamento individualizzato, prendiamo in esame il regime di reclusione che, intanto, viene eretto.

La legge di riforma prevede un modello di vita reclusoria particolarmente articolato.

In primo luogo: opera una distinzione tra luogo di vita durante il giorno e durante la notte, prevedendo nel corso della giornata diurna ampi momenti di socializzazione in strutture altre dalla cella. Col che vengono meno la "indifferenziazione della struttura" e l’ "indifferenziazione del regime di vita" del soggetto recluso. L’im-piego del tempo e l’occupazione dello spazio vengono, così, a dotarsi di una struttura atomica articolata.

In secondo: si evidenzia un processo di trasformazione della funzione del carcere che, da istituzione di custodia e isolamento, viene mutandosi in istanza che deve favorire la "risocializzazione" del detenuto, mediante un trattamento adeguato e relazioni continue con la "comunità esterna".

Alla struttura articolata interna si affianca un’altrettanto articolata struttura verso l’esterno. Le dinamiche di aggregazione e di chiusura verso l’interno, tipiche del carcere di isolamento e di custodia, vengono rimpiazzate da una "dinamica di proiezione" e riaggregazione verso l’esterno, di "connessione con il sociale che è propria del nuovo carcere delineato dalla legge di riforma".

Se questi costituiscono gli assi principali, quali gli scogli che restano subito da aggirare?

In primis, si tratta di superare l’utopismo trattamentale che permea la riforma. Particolarmente rilevanti sono gli effetti della terapia medica e psichiatrica che si concretano nell’applicazione di scala di "tecniche di comportamento" e nell’impiego disciplinare del trattamento.

Se intorno a questi nodi si dipanano i limiti interni maggiori della legge di riforma, è esattamente perché l’opzione culturale che la sorregge non tematizza congruamente lo scarto tra i teoremi della "pena utile" e i modelli della "sofferenza meritata". L’esperienza empirica dimostra che le funzioni di utilità assegnate alla pena falliscono; così come gli imperativi della "sofferenza meritata" mostrano sempre più il loro volto di neutralizzazione repressiva.

Le ipotesi di risocializzazione e rieducazione vengono meno, perché la riforma non riesce a padroneggiare e a dare soluzione alla frattura tra:

1) il polo della utilità della pena, la cui realizzazione va sempre più regredendo verso il grado zero;

2) il polo della sofferenza meritata, il quale si va sempre più dilatando nello spazio e prolungando nel tempo.

Lo scambio equivalente colpa/pena salta. Il tempo, il modo e lo spazio della pena detentiva non si proporzionano in relazione all’ entità del reato. La pena non retribuisce la colpa; ma la enfatizza in termini di sicurezza e allarme, sganciandola dalla norma. In queste condizioni, il trattamento rieducativo e/o risocializzante è destinato allo scacco o, nel migliore dei casi, si rivela un’aspra strategia di adattamento sociale.

La legge di riforma si dimostra incapace di assumere consapevolezza della frattura appena individuata, trovandosi sotto il pieno controllo dei retaggi culturali che abbiamo esaminato al paragrafo precedente. Essa non solo si rivela un groviglio indistricabile di retribuzionismo e neopositivismo, ma si trascina incongruenze ancora più remote.

Vediamo con ordine; ma in breve.

Nella transizione dal Medioevo all’epoca moderna, acquisisce rilievo la rottura dell’"ordigno penalistico pubblico" proposta da Hobbes. La costituzione dello Stato moderno muta le procedure di regolazione dei conflitti, della convivenza civile e della sanzione penale. L’attribuzione hobbesiana del diritto di punire allo Stato – e solo allo Stato – e, dunque, alla legge – e solo ala legge – appare, effettivamente, come un punto di svolta difficilmente sottovalutabile. Crolla il fondamento teologico della pena. L’autorità statuale diviene il fondamento laico della pena. Come dire: autorità per l’autorità, a mezzo della legge. Nel mezzo, tra l’autorità presupposta e l’autorità riprodotta e garantita, si insedia il diritto/dovere di punire, modernizzato e laicizzato. Come punto di massima tensione della svolta hobbesiana è da assumere il Leviatano. A questo punto di svolta, razionalità del potere e razionalità del diritto si incrociano. La sfera del diritto si separa ed emancipa dalla sfera morale-religiosa.

Ma v’è un passaggio successivo non meno dirompente: dalla crisi teologica alla crisi teleologica della pena. Siamo qui di fronte alla crisi dell’utilitarismo settecentesco e dello stesso mix di utilitarismo e contrattualismo che, nel corso dell’Ottocento e Novecento, ha accompagnato molte formalizzazioni teoretiche ed applicazioni pratiche in campo penalistico. Rilevante, nella transizione, è la rottura del paradigma retribuzionistico. In particolare, il passaggio dai paradigmi della pena giusta ("nulla poena sine culpa", ma anche "nullum crimen sine lege") alla pena utile struttura il sistema della sanzione penale come immediatezza incoercibile e intrascendibile dell’azione punitiva. È il sistema penale che l’utilitarismo mette in forma come "diritto di punire", giacché la relazione punitiva risponde al comando della funzione (utile) della prevenzione generale. Necessità di punire e fondamento della pena si coappartengono ed equivalgono. La pena viene qui fondata, deducendola non dall’universale di giustizia, bensì dalla volontà di colpevolizzare, ad un polo, e dall’azione colpevole, al polo opposto. Con ciò, il fine per il quale si punisce si eclissa definitivamente e irreversibilmente. Si può dire: il diritto di punire, nelle sue partizioni classiche moderne, scompare. Restano soltanto la decisione e l’ossessione delle "volontà libere incolpevoli" di perseguire le "volontà colpevoli", a cui, per questo, va sottratta la libertà. La finalità politica è qui direttamente quella di conservare e consolidare l’autorità, in assenza, ormai, di un fondamento razionale. Come dire: produzione e riproduzione di autorità a mezzo di autorità. La privazione della libertà ipostatizza il carcere come pena. La crisi della retribuzione della pena è risolta con il richiamo alle teoriche e pratiche dell’uti-lità della pena. Cosicché il diritto di punire si risolve in un movimento che riunifica in sé sia le funzioni dell’illimitatezza della pena esemplare (prevenzione generale) che quelle dell’onnilateralità della pena indeterminata (prevenzione speciale).

Già a questo crinale, essendo la pena esemplare illimitata e la pena indeterminata onnilaterale, il carcere si rivela un mezzo inidoneo allo scopo rieducativo. In risposta a tale crisi, negli Usa, nel corso degli anni ‘40 e ‘50, prendono corpo i discorsi e le pratiche del controllo in libertà: la fuga dalla sanzione detentiva sperimenta out door i percorsi della risocializzazione. Ma si tratta, al fondo, di una ridislocazione dell’approccio rieducativo che va più intimamente saldandosi con l’approccio segregativo. Il sistema penitenziario che ne scaturisce, soprattutto nel caso italiano, si va dotando di un repertorio di risposte assai ampio. Contemplato è sia l’uso della forza che il ricorso alle strategie disciplinari, in un sapiente dosaggio e intreccio. Come abbiamo visto nel primo capitolo, il disciplinamento non è sospensivo o sostitutivo delle strategie basate sulla forza e sull’autorità repressiva: soprattutto per quel che concerne il carcere, lo Stato resta il titolare del "monopolio della violenza legittima".

La "sofferenza meritata" va perdendo i suoi parametri normativi e, laddove intensifica il proprio regime, rende ineffabile il proprio ritmo, traumatizzando tempi e spazi della reclusione. L’unità e l’ utilità della rieducazione fanno riferimento, ora più che mai, al contraltare negativo della pena dura e al carico intimidativo che sprigiona copiosamente dalla "sofferenza meritata".

Il fallimento delle ideologie e delle prassi del recupero sociale sono, come si vede, contestuali alla costruzione teoretica ed empirica degli embrioni della differenziazione. Embrioni che abbiamo già visto all’opera nel basso profilo culturale e politico delle opzioni dell’Assemblea Costituente e che la legge di riforma eredita.

La strategia della differenziazione, che costituisce il contenuto perspicuo della legge di riforma, non è che una combinazione assai avanzata di coercizione e disciplinamento. A ben vedere, essa è la risposta operativa alla dicotomia (non solo teorica, ma anche politica ed empirica) tra le funzioni retributive e quelle rieducative assegnate alla pena; come vedremo.

La differenziazione si regge, a sua volta, sul trattamento individualizzato, il quale costituisce il vero punto focale della legge di riforma, in quanto in esso convergono valori ideologici, regole trattamentali, orizzonti etici e programmi politici.

L’obiettivo è esplicitamente dichiarato: innescare, con la collaborazione attiva del detenuto, dinamiche di rientro di quegli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una "costruttiva partecipazione sociale".

Il trattamento previsto dalla riforma segna il passaggio dall’iper-osservazione di impostazione anglosassone ai modelli di "rieduca-zione oggettiva". Il contesto terapeutico non viene espunto; bensì integrato e superato in una prospettiva più ampia. L’innesto avviene sulla nozione di "risocializzazione" fondata sul "lavoro esterno". Non, certo, casualmente il beneficio delle misure alternative ha come sua condizione sostanziale il reperimento di un lavoro esterno.

L’inserimento del detenuto nel meccanismo produttivo dovrebbe equipararlo, o condurvelo per la prima volta, alla condizione di produttore. La rieducazione è in ragione diretta del farsi dell’attività produttiva, suo frutto; impostazione che abbiamo già visto in opera nel corso del dibattito che ha accompagnato i lavori culminanti nella promulgazione dell’art. 27/3 della Costituzione. In siffatta ipotesi, con motivazioni diverse, si riconoscono tutte le forze politiche, tutte impregnate di etica lavorista e sacrificale.

La linea di recupero attraverso il lavoro produttivo ipotizza il reinserimento nel sociale attraverso un’attività parziale. Il lavoro non compare semplicemente come mediazione sociale, per l’acquisi-zione e il godimento delle risorse, bensì figura direttamente e universalmente come società. Questa linea di fondo espone la riforma ad una pesante ricaduta nell’assistenzialismo caritativo, come l’ esperienza storica si incaricherà di dimostrare.

Tra gli elementi di più profonda crisi della legge di riforma va computata proprio l’ideologia produttivistica, in virtù della quale il reinserimento produttivo non è immissione in un insieme vario e ricco di relazioni e ambientazioni sociali. Il percorso preconizzato, basato sul trattamento individualizzato e sull’osservazione scientifica della personalità, intende valere come preparazione della figura del produttore in tutte le sue dimensioni, da quelle lavorative a quelle etiche, culturali e intrapsichiche. Presupposto di fondo dell’ opera rieducativa è la centralità del momento produttivo e dello scambio analogico tra la figura dell’uomo e quella del produttore, entro cui questa viene progressivamente risucchiando quella.

Il lavoro di decostruzione del deviante procede in uno con quello di ricostruzione del produttore. Il programma di trattamento più che assorbimento critico, assimilazione e riconversione trasformativa della devianza, è sua rimozione, suo scarto. La società, attraverso l’istituzione chiusa fondata sul trattamento rieducativo, tenta di separarsi dalla devianza, quasi che fosse cosa a lei estranea: come se non le appartenesse e non potesse assolutamente appartenerle.

La formazione del programma di trattamento tiene in conto i risultati dell’osservazione scientifica, il cui scopo è quello di accertare le "carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento" (l. 354/75, art. 13/2). L’intervento rieducativo è fondato su questo programma che, a sua volta, ha come suoi elementi cardine il lavoro, l’istruzione e la religione (art. 15).

Certamente, su questi temi la riforma è stata largamente disattesa. Tutte le ricerche, al riguardo, condotte hanno dimostrato, già nella fase immediatamente successiva al varo della legge, che di "osservazione scientifica", "programma di trattamento", "cartella personale", ecc. v’è scarsa traccia; come pure delle figure e delle strutture all’uopo previste.

Il fatto indubitabile è che l’"osservazione scientifica", quando non ha assunto un carattere di pura normazione, è restata lettera morta. Ciò costringe ad una seria riflessione, essendo un inoppugnabile indicatore di come il momento punitivo sia costantemente incombente su quello rieducativo e di come la risocializzazione stessa sia profondamente intrisa da una consistente miscela punitiva. Il ministro di grazia e giustizia, il 24 novembre 1977, nella sua relazione al parlamento sullo stato delle carceri è esemplarmente chiaro: "il momento della custodia non potrà non apparire preminente sul trattamento rieducativo".

La testa di ponte tra punizione e rieducazione è la strategia differenziata. Essa suddivide i soggetti della reclusione in due grandi e distinte categorie, a seconda della loro reattività alle strategie dell’amministrazione penitenziaria. Laddove i soggetti reclusi sono disponibili culturalmente, eticamente e politicamente alla condivisione dei valori che essa trasmette e sovraimpone, l’amministra-zione fornisce il "servizio" del trattamento; dove, invece, i soggetti reclusi esprimono contestazione e dissenso nei confronti di tali valori, l’istituzione carcere si fa meramente custodiale e sospende alla radice l’ipotesi stessa del trattamento.

Ma questa è soltanto la partizione generale introdotta dalla differenziazione, quella, per così dire, di primo impatto. Esiste una scala di progressione della strategia differenziata. Nel senso che essa agisce in permanenza e allarga, di continuo, il suo raggio di influenza. Tutti i detenuti sono sottoposti alla sua azione, condividano o meno le linee guida dell’osservazione scientifica e del programma di trattamento. A misura in cui essa incide nel corpo complessivo della popolazione incarcerata e in quello dei singoli reclusi, muta e si ridefinisce l’assetto generale del sistema penitenziario e/o quello di singoli penitenziari.

Per effetto della strategia differenziata, il sistema penitenziario si assetta in una serie di anelli regolati da un regime diverso, hard o soft a seconda dei casi. La differenziazione non solo reagisce ai comportamenti e alle opzioni dei reclusi, ma agisce anche nella direzione della loro predeterminazione. Lo stimolo della differenziazione incoraggia quelle risposte più in linea con gli orientamenti dell’istituzione. Per questa via, risultano codificate sia le risposte positive alla differenziazione che quelle negative: le positive vengono premiate con l’immissione nel circuito del trattamento soft; le negative, penalizzate con l’immissione nel circuito del trattamento hard.

La medesima ipotesi rieducativa e/o risocializzante risulta, così, svilita: da percorso possibile di uscita dal carcere, si trasforma in mero alleggerimento intramurario del regime di trattamento. Nel raccordare retribuzione a castigo e nel subordinare la rieducazione alla punizione, fino ad estinguere la prima nella seconda, la strategia differenziata viene a costituire la base operativa dello scambio premiale che caratterizzerà la legislazione dell’emergenza.

Ora, la premialità dello scambio soggettivizza all’estremo grado le condotte di intervento nei confronti del recluso, innescando in lui una serie comportamentale diffusiva condizionata. Il comportamentismo premiale è tarato non su una dinamica soggettiva eman-cipatoria, bensì sulle psicologie e le prassi spossessanti della ricerca forzosa del beneficio individualistico o di gruppo. Quanto più tale processo si allarga, tanto più le strategie degli attori ai due poli dello scambio rendono sempre più inconsapevoli i soggetti, asservendoli: sia chi come soggetto gestisce il trattamento che chi lo subisce come oggetto. A questo terminale, una dinamica tecnicistica e falsamente neutra corrode e conforma negativamente le identità in gioco.

Tale processualità spoliatrice e neutralizzante è particolarmente evidente ove si concentri l’attenzione sulla relazione dialogica tra soggetto del trattamento (l’operatore penitenziario) e oggetto del trattamento (l’utente recluso).

L’interazione dialogica rimanda invariabilmente ad un "Io" e all’"Altro". Questa situazione, apparentemente così elementare, è gravida di innumerevoli problemi. Intanto, perché, già a livello concettuale, risulta difficile formulare una definizione compiuta e rigorosa di "Io" e "Altro". Inoltre, perché tanto "Io" quanto "Altro" so-no implicati in una rete di relazioni sociali e personali, di flussi culturali e di comunicazioni simboliche, talvolta assunti inconsciamente e altre volte elaborati in maniera critica e originale.

Le cose si complicano ancora di più in ambito penitenziario, dove uno dei due termini dell’interazione dialogica è, per definizione e posizione esistenziale, privato della libertà.

Qui uno dei due attori del dialogo vede definita la sua identità dalla posizione di detenzione: è, per così dire, l’utente senza libertà. Al polo opposto, l’operatore è, insieme, attore libero e istituzionale, il cui compito specifico è proprio quello di assecondare un processo di "liberazione" del recluso attraverso la sua "istituzio-nalizzazione".

Già questa semplice esemplificazione pone di fronte a due ardui interrogativi.

In primo luogo: in che misura e quali modalità è possibile attivare un’interazione dialogica veramente feconda, se l’utente si trova privato della libertà?

In secondo: in che misura e quali modalità l’operatore può essere effettivamente depositario di "strategie di liberazione", se, per "liberare", deve "istituzionalizzare" e, per questo, rispondere agli inputs/outputs dell’amministrazione penitenziaria?

Uno dei dati negativi è proprio rappresentato dalla circostanza che le strategie istituzionali e i sottostanti modelli culturali hanno dato luogo ad uno schema generale offuscante, entro cui la figura dell’operatore è stata assimilata e metabolizzata come "soggetto attivo" e quella dell’utente come "fruitore passivo".

Il fulcro concettuale e normativo dello schema sta nell’ideologia del trattamento e dell’osservazione scientifica della personalità che, ha costituito il centro di gravitazione tanto della strategia di "flessibilizzazione della pena" (la riforma del 1975: come abbiamo visto) quanto della strategia di "razionalizzazione della flessibilità della pena" (la cd. "legge Gozzini" del 1986: come vedremo, tra poco).

Nonostante queste strategie siano andate incontro ad uno scacco irrimediabile, i modelli culturali che stanno alla loro base sono tuttora pienamente operanti. Ciò ha fatto sì che questi modelli, da paradigmi di riferimento per la definizione di strategie istituzionali puntuali, si siano trasformati in "costrutti ideologici" autoreferenziali, ormai irrimediabilmente incapaci di fare i conti con la realtà storica e i suoi quadri complessi.

La mancanza di capacità e volontà nell’elaborazione, sperimentazione e verifica di nuovi modelli culturali, alla fine degli anni ‘80, ha spianato la strada al ritorno in scena delle ideologie della "mano pesante" nel campo della repressione penale. Da qui ha preso origine un processo, nemmeno troppo lungo, di delegittimazione integrale (prima culturale e successivamente politico-istituzionale) dei diritti personali e di cittadinanza dei detenuti. Il che non ha potuto fare a meno di riverberarsi sugli operatori del trattamento: se prima poteva parlarsi di una loro "crisi di identità", in quanto agenti attivi di un processo votato all’insuccesso, adesso si deve registrare una loro sostanziale "rimozione dalla scena".

L’intrecciarsi di tutti questi fattori ha condotto al completo fallimento del progetto di "umanizzazione della pena". Più che mai oggi il carcere è divenuto luogo elettivo di una sofferenza disumana che investe ogni ambito dell’esistenza personale e della vita relazionale.

Se quanto precede ha un senso, ne discende che il contesto entro cui agisce l’interazione dialogica operatore/utente si articola e riconnette in una duplice scala di valori e di relazioni:

a) la scala micro: il modello operativo di "relazione umana";

b) la scala macro: il modello normativo-sanzionatorio generale.

L’interrogazione critica deve svilupparsi su tutti e due i livelli.

Nelle pagine e nei capitoli che precedono, abbiamo cercato di enucleare un compiuto discorso intorno al secondo livello di valori/relazioni. Lo assumiamo ora come "sfondo".

Su questo "sfondo", è possibile articolare un "discorso minimo" sul modello operativo di "relazione umana" da incoraggiare.

Due i limiti da superare in partenza: (i) i ruoli e (ii) la routine entro cui l’interazione dialogica operatore/utente rimane avviluppata. Ognuna delle parti in gioco "recita" una parte e, nella misura in cui la recita viene iterata, la relazione umana si "routinizza". Nella fattispecie, l’operatore gioca il ruolo di soggetto attivo che (dovrebbe) trascina(re) la relazione verso le sue finalità istituzionali; l’utente, il ruolo passivo di soggetto trascinato.

Questi ruoli simmetrici e, al tempo stesso, complementari, per esistere e dispiegarsi attivamente, hanno bisogno di un "copione" che conferisca loro senso, fini e durata: la "rieducazione", la "riso-cializzazione", il "recupero", l’"integrazione", ecc..

Ma il "copione", in quanto testo scritto e, nello stesso tempo, rete di messaggi e di comandi simbolici, ha un "autore" e/o più "autori" (i vari sottosistemi istituzionali e culturali) che pre-esistono all’operatore e all’utente, condizionandone le mosse e gli atteggiamenti. Tanto l’operatore che l’utente debbono obbedire agli schemi fissi, al testo scritto e ai comandi simbolici definiti nel "copione". L’operatore deve obbedire, mandando in esecuzione il programma; l’utente, sottomettersi al disegno terapeutico intrinseco al programma.

L’operatore è qui libero a confronto dell’utente, anche nel senso preciso che esegue azioni ed esercita funzioni, al di là di una effettiva conoscenza e verifica, sia pur labile, dei profili identificativi e della vita di relazione del soggetto sottoposto allo stato di detenzione. L’utente, a sua volta, appena inserito nella relazione dialogica, più che di fronte ad una "persona", si trova ad impattare contro "funzioni" e "prestazioni" ruolizzate.

Non solo il recluso (per definizione, "utente senza libertà"), ma anche l’operatore non appare libero: le sue opzioni non dipendono da volizioni e decisioni autonome, ma costituiscono, piuttosto, un adattamento alle stimolazioni più o meno autoritative che provengono dai centri decisionali (gli autori del "copione"). Egli non ha la possibilità di mettere in discussione tali "comandi", anche laddove il contatto con la realtà e il campo problematico entro cui sono gettati gli utenti ne dimostrano tutta l’infondatezza e inadeguatezza.

Da qui due non irrilevanti problemi:

a) come l’operatore può essere portatore di un’interazione dialogica attiva e feconda, quando viene imprigionato entro schemi funzionali esecutivi, deprivati di ogni componente di criticità e di creatività?

b) come il recluso può giocare un "ruolo" positivo, se la privazione della libertà si somma all’attribuzione autoritativa di funzioni servili?

La pragmatica dell’interazione dialogica risulta inficiata, come è agevole rilevare, da un "doppio legame" che, di fatto, sospende tutti gli attributi di creatività, vitalità e criticità.

La rete dei saperi, delle procedure e dei messaggi comunicativi all’interno di cui sono avviluppati l’operatore e l’utente è obsoleta: semplificatrice dei dati e dei soggetti reali, più che "complessifi-catrice". Rivela, pertanto, un profilo altamente autoritario che finisce per ridurre l’immane problema del controllo sociale nelle società complesse ad una questione di mera integrazione repressiva. Quanto più, alla prova della realtà, questi saperi e queste procedure falliscono, tanto più vengono iterati e implementati, poiché tutti i sottosistemi istituzionali e culturali e tutte le agenzie del controllo non riescono ad affrancarsi dall’ossessione punitivo/rieducativa che regola l’intervento dello Stato e l’atteggiarsi dei cittadini verso il carcere e la devianza in generale.

Definito a monte un modello normativo-sanzionatorio più eman-cipante e democratico, occorre costruire a valle modelli di "relazio-ni umane" che valorizzino l’autonomia delle identità in gioco: sia quella dell’operatore che quella dell’utente. L’istituzione, pur non rinunciando al proprio mandato, deve restituire ad entrambi piena autonomia e libertà e giovarsi proprio del surplus di senso che ne consegue. Lo stesso operatore deve tenere in grande conto l’auto-nomia e la libertà critica dell’utente; così come quest’ultimo non deve guardare al primo come una figura con cui aprire un gioco strumentale teso alla (parziale o totale) "decarcerizzazione".

Così come oggi stanno le cose, la razionalità che governa l’in-terazione operatore/utente è di tipo strumentale; occorre "rove-sciarla", a favore di una dialogica della libertà.

L’estremo compimento del soggettivismo premiale è destinato, dunque, ad incrociarsi con l’oggettivismo terapeutico, il quale concepisce il recluso come "malato" più o meno psicotico e, in quanto tale, da sottoporre a terapie di recupero e riadattamento. Tali terapie non si preoccupano della "malattia", bensì del "ma-lato", con un prepotente effetto di positivismo di ritorno. Intervenendo sul "malato" e mutandolo, si presume di venire a capo della "malattia". Così, i mali del "dentro" e "fuori" del carcere permangono e si accumulano.

Queste risultanze della strategia della differenziazione contribuiscono a disvelare alcuni "orpelli retorici" della riforma. Diversamente da quanto sancito dall’articolo 13/3 della legge, il trattamento non è esteso a tutti i condannati e gli internati: il recluso che è gettato negli anelli duri del sistema penitenziario è escluso, per definizione, dal trattamento rieducativo: per lui, il carcere svolge una mera funzione custodiale. A livello di opzione ideologica, la legge di riforma esclude i casi di incorreggibilità; nell’amministrazione e nella pianificazione del controllo, invece, le tesi dell’irrecupera-bilità, care alla scuola positiva, rifanno prepotentemente capolino e dislocano "macchine di comando" assai flessibili e aspre. La regola è: differenziare; l’eccezione: rieducare. Ma l’eccezione qui non si volge contro la regola, sospendendola; al contrario, è veicolata e plasmata da essa. Insomma, non è l’eccezione a sospendere la regola, ma, al contrario, è la regola che sospende l’eccezione.

Anche se in una maniera non sufficientemente formalizzata e ad un non elevato livello di consapevolezza politica, la strategia differenziata si impernia su un concetto e una pratica di flessibilità della pena. Concetto e pratica successivamente elaborati in maniera più matura dalla legge n. 663/1986, non a caso, agita simbolicamente (e retoricamente) come "riforma della riforma"; come vedremo.

I livelli formali ed operativi di flessibilizzazione della pena presenti nella riforma del ‘75 presiedono al "governo" delle misure alternative, istituendo una differenziazione di primo grado tra comminazione ed esecuzione. Il primo momento è dato oggettivamente una volta per tutte; il secondo, è rideterminabile e modificabile di volta in volta e caso per caso:

[...] se di fatto l’esecuzione della pena irrogata diviene più elastica, ciò è attuato non tanto attraverso una coerente applicazione delle misure alternative, bensì portando fino in fondo l’esecuzione della pena, tutte le volte che ciò risulta possibile, riducendo la durata della pena stessa attraverso gli strumenti della liberazione anticipata, della liberazione condizionale, dei condoni, etc. C’è insomma una resistenza di fondo a mettere in questione la pena attraverso alternative formalmente istituzionalizzate. Si ha in definitiva una situazione per cui di una pena ufficialmente erogata può venirne in parte ridotta l’applicazione con provvedimenti che però non ne intacchino la inevitabilità.

In siffatto contesto, tutte le "diseconomie funzionali" e la sovrapposizioni di indirizzi, orientamenti e pratiche disciplinari che abbiamo visto caratterizzare la legge di riforma penitenziaria sono destinate ad accumularsi su se stesse all’infinito.