CAP. IV
FILOSOFIE PUNITIVE E ASSETTI PENITENZIARI:
1975-1997
1. |
Dalla differenziazione alla differenziazione, passando per l’emergenza: il dopo riforma |
Una delle tesi maggiormente ricorrenti nella letteratura critica è che la crisi dei progetti di riforma e delle sottostanti ipotesi rieducative e/o risocializzanti sia alla base di quel riflusso che ha ingenerato i modelli delle "carceri di massima sicurezza". Il che risponde al vero, ma coglie solo un elemento della realtà. Come abbiamo avuto modo di osservare a più riprese, l’obiettivo della punizione/ sicurezza informa e subordina le ipotesi risocializzanti. È la strategia differenziata che riconduce costantemente la risocializzazione sotto l’imperio dei codici dell’"ordine" e della "sicurezza"; la qual cosa mette pericolosamente in bilico il principio di libertà, quello di legittimità e, persino, quello di legalità. Il nucleo portante della legge di riforma del 1975 sta qui.
D’altro canto, non bisogna dimenticare che l’istituzione delle "carceri di massima sicurezza" avviene nell’America degli anni ‘30 ‘40 e ‘50; vale a dire, l’epoca a cui data la pratica del "controllo diffuso" in comunità e prende avvio il processo noto come "fuga dalla sanzione detentiva". Sicurezza e risocializzazione, sono allora, due facce della stessa medaglia, in cui la prima fa costantemente premio sulla seconda.
L’alleggerimento della pressione penale e le misure alternative al carcere vanno muovendosi in questo quadro complessivo. La finalità perseguita dalle politiche penitenziarie è quella di concentrarsi contro i "tipi di autore" a più alta soglia di "pericolo sociale" e attenuare, invece, la pressione verso i "tipi di autore" con irrilevante carico di pericolosità sociale. Il che non fa che esternalizzare, dal campo del diritto penitenziario, al campo del diritto penale la logica e la strategia della differenziazione.
Se prendiamo in esame la produzione legislativa del periodo, rileviamo che:
1) ad un’attenuazione delle sanzioni per alcune ipotesi di reato di scarso allarme (legge 220/1974),
2) corrisponde l’inasprimento di quelle relative a reati/figure classificati di grande allarme (leggi 497/1974, 152/1975, 533/ 1977, 191/1978; d.l. 625/1979).
Lo stesso inasprimento delle norme sulla custodia cautelare, sancito dalla legge 151/1977 si inscrive in questo contesto normativo.
Ancora più dirompentemente, in questa direzione, agisce:
1) la legge n. 450/1977 che limita enormemente, sino ad annullarla di fatto, la concessione dei permessi concessi ex art. 30 della legge di riforma del ‘75;
2) la costituzione del circuito delle "carceri di massima sicurezza" avvenuta nel 1977e l’applicazione massificata dell’art. 90 nei primi anni ‘80.
Calzante è il commento critico di E. Fassone:
Si costruisce un nuovo stereotipo di devianza a statuto speciale contro la quale non è ammessa tregua o armistizio, e si ritirano le forze della devianza a statuto ordinario, nei cui confronti la prevenzione speciale ha ancora senso.
Perfettamente inserita in tale atmosfera è la legge di "modifica al sistema penale" (l. 689/81). Come è noto, essa sancisce la depenalizzazione di alcuni reati minori e prevede, in applicazione del vecchio principio positivista affermato da Ferri, il ricorso a misure sostitutive delle pene detentive brevi. Ma l’obiettivo vero che si intende perseguire non è tanto la diffusione delle "sanzioni sostitutive": difatti, semidentezione e libertà controllata trovano, fin da subito, una ben scarsa applicazione. La ratio della legge ha il duplice scopo di:
1) flessibilizzare il dispositivo e le strategie della legge di riforma penitenziaria;
2) estendere l’applicazione dell’osservazione della personalità ad una fase antecedente a quella dell’esecuzione penale.
Risulta, pertanto, confermata la trama disegnata dalla strategia differenziata: attenuare la pressione del carcere sulle strutture istituzionali, realizzando, nel contempo, una più capillare e intensa repressione custodiale dei soggetti ritenuti irrecuperabili.
Ne consegue un doppio movimento, secondo due linee di azione solo apparentemente contrastanti. Da un lato, gli strumenti, le strategie e gli scenari della legge di riforma del ‘75 vengono via via integrati e sviluppati; dall’altro, i contenuti della riforma più aperti all’innovazione risultano progressivamente svuotati. È, questo, il risultato inevitabile di quel primato dei codici dell’ordine e della sicurezza sui codici della rieducazione e della risocializzazione che marchia ab origine la riforma penitenziaria del ‘75 e lo stesso art. 27/3 della Costituzione.
Possiamo, pertanto, dire: più che essere la crisi della risocializzazione a innescare la dilatazione operativa dei moduli della sicurezza, è la sicurezza a determinare i modelli e i percorsi della risocializzazione. La sovranità della sicurezza opta verso un ventaglio decisionale ampio, i cui centri nevralgici sono:
1) la sospensione del percorso risocializzativo per i soggetti irrecuperabili;
2) la finalizzazione del trattamento risocializzante al recupero conformistico del soggetto deviante;
3) l’applicazione del percorso di risocializzazione (misure alternative alla pena detentiva e lavoro all’esterno) entro una scala attuativa sempre più ridotta e ad una serie ristretta di soggetti reclusi.
Questi centri della decisione penitenziaria assettano il sistema complessivo e ogni singolo carcere in anelli differenziati che fungono come sottosistemi funzionali dell’ingranaggio reclusorio generale. Questo è il "programma fondamentale" della legge di riforma.
Il carcere di "massima sicurezza" non è la risposta alla crisi della riforma; bensì uno dei suoi possibili esiti coerenti e funzionali. Tutta la legislazione in materia penale e penitenziaria successiva alla legge di riforma, come abbiamo appena finito di vedere, non ne scardina o destruttura l’impianto culturale o le finalità etico-politiche; piuttosto, ne sviluppa alcuni assunti base, in una relazione di continuità assai profonda.
Né possiamo concludere che le "carceri di massima sicurezza" esemplifichino in toto l’idea e la prassi della segregazione. In realtà, ne costituiscono "soltanto" una delle sue variabili attive; certamente, quella più carica di deterrenza e di coazione. Il solco entro cui si incammina la legge di riforma, anche in virtù dell’esi-genza palese di articolare la strategia differenziata, non è univocamente definibile. Conseguentemente, il carcere, da forma compatta e totale del controllo sociale, si trasforma in un composto integrato di forme differenziate.
Ciò avviene per la serie di motivazioni che siamo venuti fin qui investigando e che qui riassumiamo in sintesi.
Innanzitutto, non coincidendo più la pena con la semplice sottrazione di libertà, il carcere si fa sistema articolato e differenziato delle pene, da mero luogo dell’esecuzione penale che era. Ne discende che il sistema penitenziario tende a fagocitare il sistema penale.
Inoltre, va ricordato che il caso italiano ha di specifico questo paradosso: la crisi del Welfare non ha risparmiato i carcere. L’ha "valorizzato" non semplicemente come luogo da preservare; ma lo ha sovraccaricato di funzioni massificate di controllo e neutralizzazione, dal piano empirico a quello simbolico.
Infine, il riconoscimento teoretico ed empirico del primato della sicurezza e della neutralizzazione fa saltare per aria il rapporto di proporzione tra reato e pena. L’unico criterio di riferimento del diritto penale diviene il principio sfuggente e abnormemente dilatato dell’allarme sociale.
È vero che quanto appena detto sarà, poi, sviluppato organicamente e massicciamente dalla legislazione dell’emergenza e dal diritto penale premiale; altrettanto vero, però, è che esso trova declinati i suoi assi concettuali e operativi nella legge di riforma del 1975; come abbiamo cercato di dimostrare nel paragrafo precedente.
Se è vero che il "carcere di massima sicurezza" segna la morte del carcere, così come è venuto erigendosi in parallelo col processo di formazione e affermazione del capitalismo; se è vero che, fin dal "New Deal", il "carcere di massima sicurezza" ci parla di un’ altra forma carcere ed è un’altra forma che va strutturando nel corpo sociale e nelle codificazioni simboliche, non appare fondata l’ipotesi che postula l’alternativa tra morte del carcere e carcere come puro terrore.
La persistenza del carcere va oltre la sua obsolescenza e riorganizza un’altra forma carcere. Occorre partire da questa persistenza, dalla sua vigenza, se si vuole porre mano a un processo di superamento del carcere come forma. Il carcere "vecchio" è già risorto e vive come parte costitutiva, più o meno rilevante, di quello "nuovo".
Nella realtà italiana, la forma del carcere che la legge di riforma del ‘75 e la legislazione successiva disegnano non è solo fatta a scatole cinesi e nemmeno è semplicemente caratterizzata da una struttura a forbice. Più esattamente, il sistema penitenziario consta di compartimenti articolati trasversalmente e regolamentati da un regime differenziato. V’è un’area di compressione restringentesi su se stessa, in cui il regime di trattamento è come una vite che va progressivamente riducendo il suo passo. Ma v’è anche una disseminazione espansiva, fatta di comparti autonomi, eppur comunicanti, lungo un canale di progressiva attenuazione e apertura del trattamento. Tra l’area di compressione e quella di espansione si dà possibilità di comunicazione, in un percorso reciproco di andata e ritorno, sulla base del mutare delle condotte dei detenuti in esse reclusi. Sicché può concludersi che anello duro e anello soffice della detenzione, pur autonomi e costitutivamente diversi, rientrino all’interno di un modello unitario, estremamente articolato. Si tratta, dunque, di affrontare il carcere come aggregato di forme interne tra di loro disomogenee, eppur integrate. Le letture univoche o totalizzanti non reggono di fronte alla realtà complessa e flessibile che la legislazione e le condizioni sociali e politiche degli anni ‘70 e ‘80 hanno ordito.
Non c’è niente di più fuorviante di quell’opinione comune che ritiene il carcere un sistema monolitico. In esso hanno sempre convissuto sistemi di riferimento organizzati e governati da regimi disomogenei e da logiche differenziate: con il varo, in grande stile, della strategia della differenziazione, questo processo è andato ulteriormente approfondendosi e dilatandosi. Descriviamo, per som-mi capi, le linee delle diversificazione e delle stratificazioni:
Si pensi, ad esempio, alla prima grossa distinzione tra carceri giudiziarie e case penali. O, ancora, alla distinzione tra sezioni giudiziarie e sezioni a trattamento penale all’interno del medesimo penitenziario. Si pensi, infine, alla non isolata circostanza che vede integrarsi, all’interno di un unico penitenziario, sezioni giudiziarie, sezioni penali, aree di osservazione, aree di sperimentazione e sezioni di sorveglianza particolare. Ne deriva un coacervo incredibile di figure e di istituzioni penitenziarie, di figure recluse, di tecniche di controllo e di disciplinamento, di strategie di recupero, spesso, grandemente in contrasto tra di loro. Sovente, tutte queste determinazioni, compresse in un unico ambiente, si bilanciano e neutralizzano a vicenda. Più ricorrentemente, sono i livelli duri e maggiormente restrittivi che finiscono con il vincolare e uniformare a sé gli altri.
Ovviamente, questo groviglio di competenze, situazioni ed istituzioni non manca di una logica: risponde ad un criterio di razionalità che organizza la genesi e lo sviluppo di funzioni tra di loro differenziate, imperniate sulla sicurezza, anziché sulla socialità interna e la socializzazione con l’esterno. L’enfatizzazione della sicurezza non ha fatto che esaltare la preminenza assoluta delle istanze di mero custodialismo annesse al carcere.
La centralità del momento custodialistico si è andata sempre più vistosamente affermando; al punto tale, che le stesse ipotesi di risocializzazione sono informate ai criteri della neutralizzazione e del riadattamento. In questo senso, è vero che:
Ogni sforzo ortopedico sul diritto penitenziario e sulla sua prassi giurisprudenziale nel senso di ridurre la centralità del momento custodialistico, si palesa ontologicamente incompatibile con l’istitu-zione stessa
.Sono queste linee guida ad aver governato il processo di assestamento degli istituti dell’ordinamento penitenziario, producendo un immaginario e un‘immagine del carcere a forti tinte. Come fa rilevare opportunamente Pavarini, un ruolo essenziale è stato giocato dall’ermeneutica giurisprudenziale. La giurisprudenza dell’ emergenza ha puntualmente smantellato tutte le aperture innovative contenute nell’ordinamento penitenziario, totalizzando oltre ogni limite la sovranità dei codici dell’ordine e della sicurezza. Ecco come Pavarini descrive questo immane processo di strutturazione/de-strutturazione:
Gli equilibri, i rapporti di proporzione che reggono quale impalcatura i quasi cento articoli della legge penitenziaria subiscono un processo di stravolgimento profondo: alcune parti si dilatano come afflitte da un processo morboso di elefantiasi, altre progressivamente si riducono, fino a sparire. L’immagine che ne appare è però quanto mai istruttiva da un’analisi critica. Cerchiamo di interpretarla. Non solo da un punto di vista quantitativo ma anche in rapporto alle qualità delle questioni da affrontate la pratica giurisprudenziale viene a tratteggiare un profilo dell’esecuzione penitenziaria ben diverso, ad esempio, dall’immagine che è possibile ricavare dalla riflessione dottrinale. [...] Ora, a ben intendere, l’unica pratica giurisprudenziale sembra essersi orientata nella prospettiva unilaterale di quegli istituti che in tutto o in parte "riducono" l’esecuzione penitenziaria vera e propria, cioè degli istituti che "allontanano" in qualche modo dalla realtà del carcere [...] Di conseguenza ad essere messa in crisi è la stessa funzione rieducativa della pena che rimane a, tutt’oggi, l’apparato teorico legittimante la pena detentiva stessa [...] a trovare parziale attuazione sono infatti stati quegli istituti che trovano a loro volta una parziale legittimazione proprio nella critica all’efficacia della pena detentiva.
L’interesse che la giurisprudenza fa convergere sulle misure alternative stesse, quindi, serve più ad offuscare lo specchio già deformato del carcere che ad innescare un percorso di affrancamento dalle sue pastoie condizionanti.
Ma le funzioni e il ruolo della giurisprudenza dell’emergenza non si fermano qui; essa ha, del pari, esercitato anche una poderosa spinta in direzione della formalizzazione di un diritto penale premiale, in virtù del quale il giudice diviene il titolare diretto della "depenalizzazione" .
In origine, le fattispecie penali investite dal processo attengono a quella che viene definita "lotta all’emergenza terroristica": le ipotesi di reato interessate riguardano, difatti, partecipazione ed associazione sovversiva, costituzione e partecipazione a banda armata. In sostanza si scoraggia il reo, attraverso l’intimidazione del carcere duro, a perseguire nelle condotte devianti; per contro, lo si incoraggia, attraverso la concessione di sconti di pena consistenti, a desistere dai legami associativi esistenti.
L’indirizzo riceve il suo "battesimo del fuoco" col decreto-legge n. 625/1979 ("Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica"); decreto, poi, convertito con modificazioni (legge n. 15/1980). Questa prima fase può dirsi chiusa con la legge n. 304/1982 ("Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale").
Siffatti criteri prolungano il loro campo di azione, permeando le logiche che ispirano gran parte delle modificazioni apportate all’ ordinamento penitenziario dalla legge n. 663/1986 (meglio nota come "Legge Gozzini"); su cui ci soffermeremo più oltre. Il ciclo è, in un certo senso, esaurito dalla legge n. 34/1987 ("Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo").
La caratteristica principale del diritto penale premiale è quella di integrare in un contesto unitario strategie dissuasive con strategie di promozione. Il destinatario non solo sente incombere il peso intimidativo della minaccia della sanzione penale, ma è, altresì, attivato ad assumere condotte collaborative. Il momento repressivo si salda intimamente con quello propositivo, sulla base di un patto stipulato per via processuale o extragiudiziaria, secondo il quale:
1) lo Stato si impegna a fornire lo sconto di pena;
2) il reo e/o il condannato collabora con l’amministrazione della giustizia ("chiamate di correità" a valanga); oppure recede dall’op-zione illegale e/o deviante.
Con tutta evidenza, come è stato fatto puntualmente rilevare, tutto ciò scardina i princípi e i profili della legalità penale dello Stato di diritto.
Una delle conseguenza politiche più inquietanti di questo processo sta nel crescente ruolo di supplenza giocato dal giudice non solo nella definizione delle tecniche del controllo sociale, ma anche e soprattutto nei circuiti centrali della decisione politica. Ora, è chiaro che una conseguenza di tal fatta importi costi elevatissimi, soprattutto a lato:
1) degli strappi, frequenti e di assoluta rilevanza, sopportati dai princípi garantistici in materia processuale-penale;
2) del vistoso vacillare della certezza del diritto;
3) della restrizione dei diritti di libertà patita dall’intera cittadinanza;
4) del clima di crescente corporativismo alimentato all’interno della magistratura.
La funzione di supplenza esercitata dal potere giudiziario disvela la deresponsabilizzazione del potere legislativo ed esecutivo, i quali lasciano che siano gli strumenti della repressione penale speciale a governare l’intrico delle contraddizioni e problematiche sociali.
È stato fatto rilevare, con acume:
L’affidamento alla magistratura di scelte di valore fisiologicamente pertinenti al potere politico, avviene sia attraverso una normazione indeterminata, per clausole generali, sia, e qui ci allontaniamo dalla tematica più tradizionale, con l’assenza dell’intervento normativo in presenza di fenomeni segnalabili per un significativo disvalore sociale.
L’assenza dell’intervento normativo capillare è il prerequisito della presenza capillare dell’intervento giurisprudenziale speciale. Conferire mano libera al giudice è l’obiettivo politico di fondo perseguito, in questa fase, dalla classe politica di governo e di opposizione. Ciò attribuisce alle strategie e alle tecniche di controllo so-ciale e di neutralizzazione una soglia repressiva e dissuasiva illimitata, collocandole al di fuori di qualunque possibilità di controllo di legittimità democratica e costituzionale.
Ad ogni buon conto, questo è l’obiettivo politico precipuo che la classe politica di governo, in quel momento storico, intende perseguire ed è intorno al suo conseguimento che essa, di emergenza in emergenza, ottiene l’appoggio convinto e significativo della clas-se politica di opposizione. Per le forze della sinistra politica e sociale, le ombre, i limiti e i ritardi, che abbiamo visto in azione sin dalla fase costituente, si ingigantiscono fino a precipitare nel sostegno attivo al dispositivo stritolante della legislazione e della giurisprudenza dell’emergenza e del diritto penale premiale.
2. |
Il pendolo dell’emergenza: la "legge Gozzini" e le reazioni alla "legge Gozzini" |
Uno dei meriti innegabili della "Legge Gozzini" è quello di aver cercato di razionalizzare il principio della flessibilità della pena, non ancora organicamente presente (come abbiamo visto) nella legge di riforma del ‘75 e nella successiva legislazione. Per questa via, essa ha cercato di far uscire il dibattito e le prassi intorno all’ esecuzione penale, dalle secche dell’immobilismo. Purtroppo, principio e prassi della flessibilità della pena non operano quella frattura necessaria con i profili normativi esistenti e i corrispondenti modelli culturali e politici.
In parte, la frattura è oggettivamente impossibile. Il concetto di "pena flessibile" lascia, difatti, immutato, a monte, gli inputs causali del sistema penale e dell’ordigno reclusorio, limitandosi al confronto, a valle, con gli effetti ultimi della decisione giurisprudenziale e penitenziaria. Esorbitante diviene, pertanto, il potere discrezionale che si concentra nelle mani dell’amministrazione penitenziaria, del tribunale e dell’ufficio di sorveglianza; potere che ruota intorno ai poli del premio e del castigo che regolamentano lo "scambio penitenziario" che proprio la "legge Gozzini" va a sovralimentare.
Per il resto, la frattura è soggettivamente impraticabile, per l’accentuato ricorso da parte della nuova legge ai dispositivi della differenziazione e della premialità codificati ed esaltati dall’emer-genza. Basti qui fare cenno:
1) all’istituzione dei "permessi premio" (art. 30-ter dell’O.P.);
2) all’introduzione dell’art. 41-bis (dell’O.P.) che rimpiazza il vecchio art. 90 nella previsione di quelle situazioni di emergenza, a fronte delle quali vengono sospese le "normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati";
3) all’introduzione del regime di "sorveglianza particolare" (art. 14-bis dell’O.P.).
Come è stato opportunamente fatto rilevare, la strategia teleologica della legge è mossa dalla
[...] necessità di rifunzionalizzare l’intera normativa penitenziaria verso una più accentuata differenziazione del momento esecutivo.
Il processo di diversificazione in atto tra modalità trattamentali "soffici" e modalità trattamentali "dure" è una realtà di fatto che è difficile non cogliere, e non solo per chi restringe il proprio interesse alla realtà carceraria italiana. Fenomeno quindi tanto oggettivo quanto universalmente riconosciuto. A questo punto, il legislatore non poteva fingere di ignorare la realtà e forse, assai difficilmente a questa poteva opporsi e/o resistere: pertanto la registra, e cerca attraverso uno sforzo di formalizzazione normativa di darvi disciplina.
Il progetto della flessibilizzazione delle pene tende, dunque, a tradursi in un processo di decarcerizzazione che, conformemente ai codici culturali e politici dell’emergenza, trova applicazione unicamente nei casi individuali e/o di gruppo per i quali vige un’atte-nuata esigenza di sicurezza. In ragione di ciò non solo non viene intaccata la posizione di centralità della risposta custodiale, ma si vanno sempre più dilatando i campi di applicazione dei codici della sicurezza, con la conseguenza di creare intorno al carcere un clima permanente di allarme e panico sociale.
Il sistema di controllo sul/dal carcere, così, eretto obbedisce ad una razionalità interna poco reattiva alle sollecitazioni esterne, patite unicamente come "disturbi" patogeni o processi disfunzionali; ne deriva un circuito decisionale autoreferenziale a rendimento de-crescente, quanto più si costruisce e verifica sulle sue interne coordinate di sviluppo.
È questo meccanismo autoreferenziale, governato dalla sindrome della sicurezza, a far sì che le misure alternative non sostituiscano il carcere; ma si sommino ad esso, col risultato, apparentemente paradossale, che più misure alternative coabitano con più incarcerizzazione.
Ridurre l’area della penalità e l’area della carcerizzazione è, ormai, una esigenza ampiamente avvertita in tutte le società avanzate e da importanti organismi sovranazionali, come l’ONU e il Consiglio d’Europa:
Tuttavia, in quasi tutte le società avanzate la quota dei cittadini sottoposta alla sanzione detentiva è costantemente in ascesa. Nonostante i ripetuti correttivi e contenimenti di volta in volta approntati. Si pensi, ad esempio, all’uso improprio e reiterato che in Italia è stato fatto di istituti quali l’amnistia e l’indulto.
[...] Più che un ricambio organico del carcere o una sua alternativa sostitutiva, serve un’osmosi costante tra carcere e società. Una osmosi che riappropri il carcere alla società e che, così, lo espropri progressivamente del suo ruolo storico.
Il contesto normativo disciplinare della legge appena descritto assorbe nella sua orbita tutte le istanze aperturistiche in essa pur contenute.
Vediamone, in sintesi, i tratti salienti:
1) il regime delle misure alternative viene aperto a figure e ipotesi di reato prima tassativamente esclusi: vengono, difatti, ammessi all’affidamento in prova al servizio sociale e alla semilibertà anche condannati sui quali grava il reato di rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina, associazione di tipo mafioso prima esclusi (artt. 47, 47-bis, 48, 50 dell’O.P.);
2) il regime di semilibertà, prima circoscritto alle pene temporanee, viene esteso anche al detenuto condannato all’ergastolo (art. 50, O.P.);
3) l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale è allargata alle pene detentive che non superino i tre anni, con contestuale eliminazione dello sbarramento costituito dalla misura di sicurezza detentiva (art. 47, O.P.);
4) affidamento e semilibertà, per le pene non superiori a 6 mesi e per le pene dell’arresto, sono applicabili, senza la previsione del rientro in carcere, a condizione che l’interessato abbia già subito un periodo di custodia cautelare (artt. 47 e 50 dell’O.P.);
5) come nuova misura alternativa, è introdotta la detenzione domiciliare (art. 47-ter), per pene non superiori a due anni (anche costituenti parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’ar-resto) e per persone in condizioni particolari: donna incinta, donna con figli minori di tre anni, persona di età superiore ai 65 anni, persona in grave condizione di salute, persona minore di 21 anni;
6) il regime del lavoro esterno agli istituti penitenziari è liberalizzato: differentemente dal passato, qualunque tipologia di lavoro attiva la possibilità dell’ammissione al beneficio (art. 21, O.P.);
7) il tetto di liberazione anticipata, a tutti gli effetti considerata pena scontata, si eleva da 45 a 90 giorni all’anno (art. 54, O.P.). 8) è prevista la concessione di permessi premio, nella misura massima di 45 giorni all’anno, per poter curare i propri interessi affettivi, lavorativi e culturali, in presenza di "regolare condotta" e in assenza di "pericolosità sociale" da parte del condannato (art. 30-ter, O.P.); il che supera i confini dei permessi regolati dall’art. 30, previsti solo a fronte di casi straordinari ed eccezionali.
Come commento complessivo possiamo riportare il rilievo realistico di S. Margara, uno degli estensori della legge e dei magistrati di sorveglianza più aperti ai problemi di cui il carcere e i detenuti sono portatori:
La pena può dunque essere profondamente modificata nella fase della esecuzione: con la sostituzione totale di un trattamento non detentivo, come accade nell’affidamento in prova al servizio sociale [...]; con la riduzione della pena , che può giungere sino a un quarto del totale, attraverso la concessione della c.d. liberazione anticipata di cui all’art. 54 della legge; con la sostituzione parziale della pena detentiva con un trattamento non detentivo (come accade con la liberazione condizionale [...]); con la sostituzione della pena detentiva con trattamenti che alternano, nello stesso tempo, periodi di libertà a periodi di detenzione (come nella semilibertà e in quella forma, particolare e abbastanza sui generis, del lavoro esterno). [....]
Cambiano allora alcuni nostri concetti di fondo. La pena inflitta con la sentenza di condanna non è un dato assoluto, affidato per così dire alla mano esecutiva, ma la base di partenza di un percorso esecutivo, che dipende in gran parte dalla capacità di responsabilizzazione del condannato e dalla efficacia degli interventi penitenziari nei suoi confronti. La sede in cui viene definita la pena in concreto è l’esecuzione [...] nel senso che sono organi giurisdizionali che gestiscono la pena con il potere di modificarne radicalmente la qualità e la quantità.
E bisogna liberarsi da una parola che è rivelatrice di una impostazione di fondo: la parola "benefici". Le misure alternative non sono concessioni graziose, che liberano dalla pena: sono modi di eseguirla in maniera diversa da quelle detentiva. Il carcere non è l’unico modi di "espiazione" della pena: la legge ne indica ora altri, che sono ancora esecuzione della pena.
I princípi cardine, le strategie e le finalità della teoria e prassi della flessibilità della pena difficilmente potevano trovare formula-zione migliore.
Il progetto di razionalizazione della flessibilità della pena implicito nella legge n. 663/87 non vale a ricondurre ad unità gli scarti operazionali e disciplinari presenti nel congegno punitivo e nell’or-digno reclusorio; né è in grado di attivare un rientro apprezzabile delle diseconomie funzionali che minano dall’interno l’istituzione chiusa carcere e i suoi flussi relazionali con la società.
Come abbiamo già visto, la razionalizzazione in corso:
1) risucchia il dispositivo delle misure alternative sotto il controllo ferreo dei paradigmi dell’ordine, della sicurezza, della differenziazione e della premialità;
2) combina i processi di depenalizzazione con quelli di incarcerizzazione, per cui le condotte delle misure alternative si allargano secondo una raggiera più stretta di quella che regola la crescita della carcerizzazione; ne consegue che, mentre il tasso di afflusso in carcere va progressivamente incrementandosi, il tasso di deflusso verso le misure alternative va proporzionatamente contraendosi;
3) espone oltremodo l’intero sistema sanzionatorio e punitivo ai contraccolpi della situazione politica e sociale, facendo dipendere esageratamente l’afflusso/deflusso in/dal carcere dal clima di allar-me sociale di volta in volta esistente e/o creato.
L’esito politicamente più grave è questo: il sistema della flessibilità della pena (appunto perché "flessibile") non dà garanzie di stabilità. Ciò che è concesso oggi, può essere tolto domani, col mutare del clima politico e della sensibilità sociale intorno al carcere. Cosicché la situazione di precarietà estrema e di insicurezza per tutto ciò che attiene ai diritti e alle prospettive di vita dei detenuti tende a dilatarsi abnormemente, precipitando la "comunità dei reclusi" in un gorgo di sofferenze senza vie di uscita.
A questo approdo, la teoria-prassi della flessibilità della pena si mostra essere un (insospettato) collettore degli interessi e delle strategie dell’emergenza. Quest’ultima, come abbiamo avuto modo di esaminare, allarga e/o stringe il ventaglio della repressione penale e della pena detentiva, a seconda dei casi e delle situazioni. L’ esperienza della decretazione restrittiva sul carcere, che ha modo di svilupparsi dalla fine del 1990 in avanti, dimostrerà drammaticamente questa evidenza; come vedremo.
La teoria-prassi della flessibilità lascia irrisolto un problema di fondo: il declino delle istituzioni segregative. Siffatto problema non viene affrontato alla radice; bensì con ricette riduttive che non ne intaccano i processi fondazionali e riproduttivi. Non aggredendo i nodi causali della crisi dell’istituzione carcere, non si riesce ad affrancarsi dalla sue spirali tentacolari, con la conseguenza che le ipotesi di decarcerizzazione si sfibrano proprio all’interno di quel territorio in cui vanno declinando le motivazioni fondanti e le finalità delle istituzioni segregative. Su questa base, in tutta l’area dei paesi capitalistici avanzati, si è, addirittura, verificato che le misure alternative alla detenzione abbiano finito con l’essere alternative non già alla detenzione, bensì alla libertà. Perfettamente coerente, da questo lato, la situazione denunciata nel 1987 da Vivien Stern: la Gran Bretagma, ella fa osservare, detiene contemporaneamente il primato del numero dei detenuti e delle misure alternative alla pena.
Sul piano squisitamente giuridico (della norma e delle forme), il progetto di razionalizzazione della flessibilità della pena si cala in un più generale processo di deformalizzazione del diritto penale, il quale ha caratterizzato perspicuamente il ciclo degli anni ‘70 e ‘80. È sulla deformalizzazione del diritto che si incastra il potere discrezionale progressivamente crescente del giudice, dell’ammini-strazione penitenziaria e del tribunale/ufficio di sorveglianza.
Che il diritto si vada deformalizzando indica che la produzione di senso propria della norma non riposa tanto nell’oggettività del testo scritto e dei suoi quadri prescrittivi, ma nella interpretazione/ applicazione che di esso viene fornita dalla soggettività del giudice. Quest’ultimo diviene ora il vero facitore delle forme giuridiche e il produttore del senso della norma. L’ermeneutica e l’azione giurisprudenziali scalzano definitivamente la produzione normativa dal posto di comando nella gerarchia di senso della fattispecie penale, per un duplice ordine di motivazioni:
1) perché ne propongono sempre un’interpretazione restrittiva;
2) perché sollecitano la sospensione delle norme "aperte" in favore del varo di norme "chiuse".
Una sindrome contingentalista afferra il sistema della sanzione penale e l’azione discrezionale del giudice, tutti presi ad inseguire e punire, punto per punto, la massa delle insorgenze classificate come devianti e premiare il menu sempre più ristretto dei comportamenti ritenuti normali. Una strategia focalizzata interamente sul contingente, senza respiro e senza sbocchi al di fuori dell’ossessio-ne punitiva, si scarica in maniera intensiva ed estensiva sulle zone della devianza, della reclusione, del disagio e dell’emarginazione sociale, in genere.
Così , è potuto capitare, con perfetta coerenza, che un parlamento schierato, nel 1986, all’unanimità nel voto favorevole alla "legge Gozzini", quattro anni dopo rovesci specularmente la sua posizione, richiedendo, quasi all’unanimità, la sua cancellazione. Le istituzioni politiche della prima repubblica non riescono a sopportare nemmeno un razionale e ragionevole progetto di flessibilizzazione della pena. Il che riprova, a fortiori, la debolezza intrinseca dei teoremi della flessibilità, i ritardi politici e le debolezze culturali del sistema istituzionale e delle forze politiche che hanno occupato la scena della giovane democrazia repubblicana italiana.
Cavalcando campagne di allarme sociale contro la grande criminalità e agitando un presunto clima di lassismo e permissivismo imperante nelle carceri, con il decreto-legge n. 324 del 13 novembre 1990 ("Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa"), il governo dà il là ad una serie di interventi restrittivi del campo di applicazione delle "legge Gozzini"; quando, addirittura non abrogativi. La catena sequenziale dei decreti-legge si prolunga fino a tutto il 1992-93.
In questa sede, ci soffermiamo sul primo e quarto anello di tale catena: 1) il decreto-legge n. 324 del 13 novembre 1990; 2) il decreto-legge n. 152 del 13 maggio 1991. Questi due decreti costituiscono i punti focali della manovra di reazione repressivo-abro-gativa nei confronti della "legge Gozzini"; manovra tuttora in corso.
Il decreto-legge 324/1990 cancella letteralmente, per un’innu-merevole serie di gravi "tipi di reato" e "tipi di autore", tutti gli istituti dell’ordinamento penitenziario su cui fa perno il rapporto di comunicazione e socializzazione del carcere con la società: affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, permessi premio, lavoro all’esterno.
Per un’altra serie di reati di più lieve entità, ma non meno innumerevole, eleva considerevolmente le soglie di pena espiata funzionanti quali quorum di accesso alla semilibertà, al lavoro esterno e ai permessi premio:
1) per la semilibertà viene fatta ora richiesta dell’espiazione di almeno due terzi della pena, mentre prima era sufficiente metà della pena;
2) per i permessi premio e il lavoro esterno è necessaria ora l’espiazione di metà della pena, che, in caso di condanna all’erga-stolo, si eleva a quindici anni di pena espiata; mentre prima:
a) per l’ammissione al beneficio dei permessi premio era sufficiente che il condannato avesse espiato un quarto della pena e dieci anni nel caso fosse stato condannato all’ergastolo;
b) l’ammissione al lavoro esterno poteva avvenire in ogni fase della reclusione, indipendentemente dalla posizione di imputato o condannato e dall’entità della condanna.
Per una percentuale rilevantissima di detenuti, in fatto e in diritto, la riforma penitenziaria del 1975 e le successive modifiche apportate dalla 663/86 non esistono più nel loro, pur contraddittorio, aspetto di apertura, ma unicamente in quello di chiusura e contenimento.
Stante questo raggio di incidenza, va rilevato che il decreto si caratterizza per la sua natura plurioffensiva e per la sua azione policentrica.
Natura plurioffensiva, poiché colpiti risultano tutti i principali istituti di garanzia e tutela che presiodono allo svolgimento dell’ azione penale e alla sistematizzazione della repressione penale.
Azione policentrica, poiché risultano destrutturati i tre assi portanti del sistema della sanzione penale nel nostro paese: vale a dire: la Costituzione, il nuovo codice di procedura penale e l’ordi-namento penitenziario.
Più esattamente ancora, l’azione policentrica del decreto ha effetti non solo destrutturanti, ma anche sospensivi.
Della Costituzione risultano sospesi:
1) il diritto del detenuto al recupero e al reinserimento sociale;
2) il criterio di eguaglianza e oggettività della norma, dell’irroga-zione e dell’esecuzione della pena.
Del nuovo codice risultano sospese:
1) le garanzie di libertà a favore dell’indiziato;
2) la presunzione di innocenza dell’indiziato/imputato;
3) la contemplazione del carcere come estrema ratio dell’azione penale.
Dell’ordinamento penitenziario:
1) è abrogato, per la fascia dei reati alti, l’intero sistema normativo regolante la socializzazione del carcere con la società e il reinserimento progressivo del detenuto nella comunità libera;
2) sono rese assai più restrittive le condizioni di accesso al reinserimento per le fasce di reato medio-alte.
Il decreto-legge 152/1991 conserva senso e lettera del decreto 324/1990.
Con l’art. 1, introducendo l’art. 4bis dell’O.P., mantiene le forti limitazioni nell’applicazione delle misure alternative per i reati di terrorismo ed eversione, criminalità di stampo mafioso, sequestri a scopo di estorsione, spaccio e organizzazione di grandi quantità di stupefacenti, omicidio, rapine ed estorsioni aggravate.
Per i reati prima indicati:
1) il lavoro esterno è reso possibile solo dopo l’espiazione di un terzo della pena;
2) i permessi premio sono usufruibili solo dopo metà della pena e, nel caso di condanna all’ergastolo, dopo dieci anni;
3) l’accesso alla semilibertà è possibile solo dopo i due terzi della pena e non è più ottenibile come alternativa all’affidamento;
4) la libertà condizionale diventa accessibile dopo due terzi della pena.
Ma c'è dell'altro. L'insieme di queste gravi limitazioni non viene ritenuto ancora sufficiente: l’accesso alle misure alternative e ai meccanismi premiali, per tutte le ipotesi di reato prima elencate, risulta interdetto, qualora sussistano legami da parte del recluso con la criminalità organizzata ed eversiva. Per la sussistenza delle condizioni di tale collegamento non necessitano prove certe; bensì, come già introdotto dal d.l. 324/1990, semplici ipotesi o tesi non supportate da riscontri obiettivi, fornite dal "comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza", i cui "pareri" sono, pressoché costantemente, ottemperati dai tribunali e dagli uffici di sorveglianza. Co-sicché la presunzione di innocenza non viene semplicemente sospesa, ma si rovescia di senso, divenendo perversamente presunzione di colpevolezza. Qui non è più lo Stato e i suoi organi che debbono provare la colpevolezza (nel caso: il collegamento con la criminalità organizzata ed eversiva); bensì è il detenuto che deve provare la propria innocenza (nel caso: la non sussistenza del collegamento). La titolarità dell’onere della prova, dallo Stato, si sposta al cittadino, con una conseguente e gravissima violazione dei più elementari princípi dello Stato di diritto. Ma non è ancora tutto. Lo sbarramento costituito dal collegamento con la criminalità organizzata ed eversiva, come già nel d.l. 324/1990, si estingue automaticamente, qualora l’interessato si attivi per:
1) la ricostruzione dei fatti delittuosi di cui è imputato e di quan- t’altro è a sua conoscenza;
2) per l’arresto delle persone che hanno a vario titolo concorso ai fatti ricostruiti.
Col che la filosofia emergenzialista che ispira tutta la manovra viene palesemente in luce e si sublima in un clima di catarsi collettiva, mediante l’esaltazione rituale ed operazionale degli strumenti repressivi e punitivi.
Se è vero che, da un lato, si assiste ad uno smantellamento degli elementi portanti del processo di flessibilizzazione della pena, attivato dalla legge di riforma e successivamente razionalizzato dalla "legge Gozzini", dall’altro, occorre riconoscere che la manovra appena descritta trova proprio nelle inconclusioni e nelle pulsioni autoritative e disciplinari presenti nella legge del ‘75 e in quella dell’86 un felice punto di ancoraggio. Il primato della differenziazione, la preminenza dei risultati sui fini e sui mezzi, l’apo-logia dottrinale ed operativa dello scambio premiale, la coniugazione permanente del trattamento in funzione della sicurezza, assi del sistema eretto dalla legge di riforma del ‘75 e consolidato dalla "legge Gozzini", rappresentano il background delle medesime misure restrittive che abbiamo prima illustrato.
Esiste una complessa relazione di discontinuità/continuità tra la manovra di reazione alla "Legge Gozzini", inaugurata nel 1990, e il tessuto normativo, codificatorio e materiale preesistente. Questo è un fatto indubbio. Ma è, parimenti, indubitabile che il campo delle continuità non solo è più ampio, ma è soprattutto più inquietante di quello delle discontinuità. Che non siamo di fronte ad una pura e semplice abrogazione della "legge Gozzini", ma anche e soprattutto al cospetto di un disegno teorico-pratico di continuazione ed esplicitazione dei suoi nuclei politici e dei suoi princípi logici ed etico-filosofici, del resto, è parso chiaro alla critica più attenta e più impegnata:
È stato più volte rilevato come nella Gozzini il trattamento sia stato appiattito sul piano disciplinare della pura osservanza delle regole interne all’istituzione, come premessa dell’ottenimento dei benefici e, allo stesso tempo, come garanzia di cessata pericolosità e reintegrabilità sociale del soggetto. L’ampia discrezionalità prevista ed esercitata nel procedimento di sorveglianza; la tendenza ad usarla pragmaticamente in considerazione della specificità dei singoli casi, a prescindere dai presupposti espliciti di legge, ai fini di garantire il risultato, o il pronostico favorevole, dell’affidabilità sociale del soggetto; la logica premiale, e quindi disciplinare, dei benefici, destinata a discriminare inevitabilmente tra soggetti trattabili e non, recuperabili e non, affidabili e non, sono tutti aspetti di come la Gozzini, lungi dallo scioglierla, abbia mantenuto viva e rafforzata l’ambiguità di fondo della pena carceraria tra trattamento e repressione, rivelando come il trattamento sia assimilabile solo al ruolo di strumento idoneo ad ottenere ciò che la repressione è ritenuta comunque in grado di produrre: la cessazione della pericolosità del soggetto.
3. Le causali in ombra
Per rendere meglio intelligibile il processo appena descritto e i suoi terminali, tuttavia, occorre riflettere su alcuni nessi causali spesso lasciati nell’ombra.
La crisi del diritto penale e il declino delle funzioni assegnate alle istituzioni segregative, che datano perlomeno alla fine dell’Ot-tocento, sono alla base tanto dei progetti di abolizione, decarcerizzazione, flessibilizzazione, depenalizzazione etc. quanto dei progetti di accentuazione della pressione penale. Addirittura, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, in non rari casi decarcerizzazione e incarcerizzazione hanno figurato come due lame dello stesso processo di normazione della devianza e di razionalizzazione della pena detentiva.
In Italia, il diritto penitenziario dello Stato democratico agisce all’ombra di un diritto penale in crisi e a fronte di un’istituzione carceraria i cui outputs risultano essere sfasati dagli inputs funzionali e finalistici che hanno l’ambizione di modellarla e governarla. Come abbiamo avuto ampiamente modo di osservare, dal dopoguerra in avanti, tutti i tentativi di venire a capo di queste contraddizioni e di queste disfunzioni sono sistematicamente falliti. Il che ha delineato e tuttora mantiene desto un acuto conflitto:
1) da una parte, troviamo collocato chi vuole allargare in maniera graduale le "maglie di garanzie" dell’ordigno penalistico;
2) dall’altra, troviamo schierato chi ambisce alla dissoluzione integrale degli "ambiti di garanzia", fino ad affermare un modello di "diritto di punire" codificato come compressione assoluta delle libertà e dell’autonomia dell’indiziato, ancor prima che dell’imputato e del detenuto.
Ovviamente, tra questi due poli limite si situano posizioni intermedie, oscillanti ora verso l’una e ora verso l’altra polarità, a seconda delle circostanze, dei casi e della situazione storico-politica.
Proprio perché il conflitto è rimasto confinato entro questo circuito culturale angusto, le forze della sinistra politica e sociale non sono state in grado di proporre una via di uscita dalla crisi del diritto penale borghese e delle sue aporie contemporanee. Col risultato che oggi, nel panorama non soltanto nazionale, registriamo il prepotente ritorno in scena di Moloch, sotto forma di teorie della pena e della reclusione ultra-autoritarie. Il "realismo criminologico" ame-ricano degli anni ‘70 e ‘80 è stato il consistente propellente culturale di tale ritorno.
Componenti significative del campo garantista, di fronte a questo ritorno, hanno inteso adottare scelte pragmatiche, ammor-bidendo via via le loro richieste, nella speranza di fronteggiare l’ ondata autoritaria. Ciò si è rivelato:
1) perdente sul piano politico: perché il gioco al ribasso della mediazione politica consegna l’iniziativa nelle mani dell’avversario, perennemente inseguito e mai spiazzato e anticipato;
2) esiziale sul piano culturale: perché le filosofie emergenzialiste e statocentriche intanto metabolizzate non sono state sottoposte alla necessaria e non più differibile rimessa in discussione.
La teoria-prassi della "mano forte" nella repressione penale non è altro che scarno e crudo riconoscimento della durezza della zona del conflitto nel campo della sanzione penale e della pena detentiva. Zona tanto aspra da essere, ad un tempo, evocata, esorcizzata e demonizzata con costanti campagne di allarme sociale, tese a dare uno scossone all’immaginario collettivo e alle coscienze dell’opi-nione pubblica.
La manovra contro il sistema delle misure alternative alla pena e l’inasprimento delle condizioni di accesso agli stessi benefici premiali predisposti dalla "legge Gozzini" ha preso le mosse (appunto) da campagne di panico sociale sapientemente alimentate, prendendo a pretesto e montando eclatanti casi di cronaca giudiziaria.
È opportuno ricordare che alla base del decreto-legge 324/1990 e di tutti i successivi decreti vi sono irrisorie percentuali di inottemperanza della norma. Fotografiamo in dettaglio la situazione a tutto il primo semestre del 1990:
beneficio |
Numero totale |
Numero evasi |
Percentuale evasioni |
|
|
|
|
permessi premio |
11.695 |
125 |
1,06% |
affidamento prova |
2.931 |
37 |
1,26% |
lavoro esterno |
276 |
1 |
0,36% |
semilibertà |
3.190 |
90 |
2,82% |
Come si vede, le percentuali di evasione sono irrisorie, largamente al di sotto della soglia fisiologica messa in preventivo e agevolmente tollerata da tutte le altre nazioni europee in cui si riconosce largo spazio alle misure alternative e ai princípi di flessibilità della pena. Su questa base empirica avrebbero dovuto essere richieste più riforme, per correggere le distorsioni e i limiti ancora presenti nella "legge Gozzini"; non già meno riforme o, peggio ancora, controriforme come, invece, si è verificato nella realtà.
La campagna di allarme sociale suscitata, al di là della sua ridondanza strumentale, si rivela, dunque, una flagrante manipolazione e falsificazione della realtà. Essa ha presentato e rappresentato l’universo carcerario come un "serraglio di belve", quando, invece, all’interno del sistema penitenziario italiano, dai primi anni ‘80 in avanti, è in atto un processo di grande e positiva trasformazione, con al centro l’azione e la mobilitazione dei detenuti. La presa di parola della "comunità dei reclusi" è stato l’elemento caratteristico della realtà del sistema penitenziario italiano per tutti gli anni ‘80.
Nel corso di questi anni, i detenuti sono divenuti titolari di una esperienza di automodificazione, dalla quale è scaturita una massa di domande nuove all’istituzione chiusa, agli operatori penitenziari, al sistema politico, alle istituzioni e al mondo della cultura. A queste domande, seppur ancora troppo contraddittoriamente, la "leg-ge Gozzini" principiava a rispondere.
Notevole il numero delle cooperative e delle associazioni sorte in carcere negli anni ‘80 e autogestite dai detenuti. Cooperative e associazioni che spaziano in tutte le branche dell’agire e dell’es-sere sociale: dalla produzione artigianale e industriale ai servizi; dalla cultura all’arte e allo spettacolo. Un inedito fenomeno di associazionismo ha coinvolto fette crescenti di detenuti, allargandosi a macchia d’olio nel tempo e nello spazio.
La proliferazione di queste forme di aggregazione e comunicazione tra i detenuti ha parlato del protagonismo sociale di un soggetto sociale per l’innanzi ritenuto intrinsecamente incapace di esprimere valori positivi e a cui erano stati inibiti e interdetti adeguati spazi di azione, socializzazione e comunicazione.
Nel corso degli anni ‘80, all’interno del sistema penitenziario italiano si è consumata un rivoluzione culturale discreta, eppure significativa e densa di implicazioni. I detenuti sono usciti dal sepolcro delle loro celle e hanno comunicato le proprie problematiche e le proprie ansie di liberazione.
La società, le istituzioni, il mondo culturale, l’immaginario collettivo sono stati spiazzati. Si è andato affermando un nuovo soggetto che ha posto una serie di domande nuove intorno al campo dei diritti e alle sfere di espressione delle libertà personale e collettiva. I comportamenti di aggregazione che si sono affermati in carcere, non più assimilabili tout court alle logiche della prevaricazione, sono sfuggiti integralmente ai vecchi e consunti codici interpretativi. La cupezza e la brutalità a cui si era soliti associare l’idea stessa e la realtà dei comportamenti dei detenuti ricevevano una clamorosa smentita sul campo.
Di fronte a questa "emergenza" positiva, logica e buon senso avrebbero voluto che mutassero i giudizi, le analisi e la mentalità delle istituzioni politiche e culturali verso i detenuti e le problematiche di cui essi sono sofferti depositari.
Così non è stato.
Istituzioni, sistema politico, mondo culturale e apparato dei media hanno fornito una risposta scomposta e perturbata.
Il detenuto che parla, che si esprimeva, che comunicava e socializzava oltre il codice della violenza, ha "terrorizzato" ancor più del detenuto a cui da sempre era stato negato diritto di parola e di espressione.
La simulazione delle ragioni e delle cause della diffusione del panico ha funzionato da maschera che ha coperto e alterato la vera realtà del carcere e dei detenuti. Lo smisurato potere discrezionale del giudice intanto alimentato, le logiche pendolari e differenziate che plasmano le teorie e prassi della flessibilità della pena sono stati facilmente piegati alla messa in opera di uno scenario bellico, in cui ogni aspirazione e aspettativa della "comunità dei reclusi" veniva brutalmente frustrata e repressa.
Di fronte alla ininterrotta mobilitazione dei detenuti in tutti gli anni ‘80 e nei primi ‘90, ancora una volta, le forze della sinistra politica e sociale hanno perduto un’occasione storica, per aggredire il problema del carcere e della pena con ipotesi, strategie e prassi all’altezza dei tempi. Prigioniere dei paradigmi punitivi che le attanagliano sono, di nuovo, finite al rimorchio delle forze conservatrici, sposandone la progettualità.
4. |
Gli effetti in vista |
Possiamo ora più agevolmente spostare il nostro sguardo alle macchine organizzative e alle logiche istituzionali che oggi governano il pianeta carcere, allo scopo di metterne a nudo razionalità ed effetti.
Tutte le istituzioni (sia quelle aperte che quelle chiuse) sono, nel contempo, delle organizzazioni: cioè, operano in base ad un programma codificato di obiettivi, tramite strutture normative e apparati burocratici, coerenti con le finalità socialmente perseguite. Le istituzioni/organizzazioni, a seconda della specificità del loro codice genetico, del loro programma di azione e della loro razionalità strumentale, creano particolari "schemi normativi", "sistemi operativi", "campi semantici" e "condotte comunicative", a partire da cui interagiscono con l'ambiente esterno e il sistema sociale.
L'imperativo categorico di ogni istituzione è quello di conservare se stessa in un ambiente/sistema che muta. Le strategie organizzative sono, appunto, l'elemento specifico atto alla conservazione/ dilatazione dei ruoli e delle funzioni delle istituzioni. A seconda dei casi, esse producono innovazione e/o conservazione; in ogni caso, il loro obiettivo è conferire stabilità e influenza crescente all'istituzione cui fanno capo.
Ogni istituzione è organizzazione di scopi che offre le proprie prestazioni per la soluzione di problemi ritenuti altrimenti insolubili. Quanto più la proposta organizzativa ricopre un "ruolo sociale" in maniera esclusiva e non fungibile, tanto più status, presenza sociale e potere dell'istituzione aumentano. Ciò indipendentemente dalle risultanze materiali conseguite, ma unicamente in funzione dei flussi di domanda/offerta che si delineano intorno alle prestazioni fornite dall'istituzione.
In linea storico-empirica, è agevole accertare che le istituzioni non hanno responsabilità rispetto ai risultati, ma unicamente rispetto agli scopi e ai ruoli che ne determinano l'essere e l'azione. Ciò ingenera un processo perverso che è sotto gli occhi di tutti: quanto più un'istituzione manca gli obiettivi dichiarati, tanto più è costretta a confermare e consolidare il suo ruolo e il suo peso. Ogni istituzione, tramite le sue proprie strategie organizzative, in ultima istanza autosimula e propaganda la necessità ineliminabile della sua esistenza.
Tuttavia, contrariamente da quanto potrebbe a tutta prima sembrare, il circuito organizzativo autoreferenziale dentro cui, così facendo, l'istituzione finisce con l'essere risucchiata non è, per intero, la risultante endogena del suo modo d'essere e operare. Occorre rilevare, altresì, l'azione del sistema sociale che dall'esterno attribuisce, in negativo e in positivo, ruoli e funzioni alle istituzioni, determinandone la ragione sociale e storica. Ed è proprio la ragione storico-sociale a plasmare il calco originario entro cui si modellano il codice genetico, il programma di azione e la razionalità strumentale dell'istituzione/organizzazione.
Le dinamiche endo-organizzative, in linea generale, sono tese alla difesa e alla riproduzione del quadro esogeno delle relazioni di potere e di controllo sociale all'interno di cui si riproduce la legittimità dell'istituzione. Ogni organizzazione è, in questo senso, una costruzione politico-sociale avente una rilevanza pubblica. Ne consegue che la discussione in tema di innovazione e mutamento delle organizzazioni, per avere un'incidenza reale, deve allargarsi, fino ad investire l'istituzione: cioè, proporre ed esperire una diversa costruzione politico-sociale, il cui carattere collettivo abbia una rilevanza pubblica di altro segno e senso.
Come è possibile declinare questo discorso a proposito del carcere?
Che il carcere sia (anche) un'istituzione/organizzazione è un' evidente ovvietà. Ma, forse, questo dato palmare non è stato mai appropriatamente indagato, combinando criticamente teoria delle istituzioni con teoria dell'organizzazione. Nel far questo, sulla scorta dell’analisi fin qui svolta, postuliamo che il carcere sia output di un'assai complessa rete istituzionale, interagente con ambiente e sistema sociale. Forniremo alcuni scarni spunti di riflessione in tale direzione, non essendo, evidentemente, questa l'occasione per una discussione organica della questione.
Dal punto di vista endo-organizzativo, il carcere è sicuramente un'istituzione altamente disfunzionale; dal punto di vista eso-organizzativo, il carcere è controfattuale rispetto agli obiettivi istituzionalmente dichiarati.
In tema di disfunzionalità del carcere, profili organizzativi, processi decisionali e figure operative appaiono in uno stato di collasso, per il fatto che la verticalizzazione delle gerarchie confligge con l'esigenza di espandere comunicativamente le decisioni. La partecipazione alla formazione della decisione e alla sua verifica è tassativamente interdetta ai livelli gerarchici medio-bassi, i quali finiscono con il ritrovarsi in posizione di totale soggezione di fronte ai detentori della decisione: l'alta burocrazia ministeriale nelle sue varie articolazioni . Si determina, così, una doppia area di subalternità: (i) i livelli gerarchici medio-bassi sono sviliti a meri trasmettitori di comando, ossessionati dallo "spirito di lealtà" verso le decisioni emesse dall'alto, di cui divengono gli acritici controllori; (ii) le figure operative escluse dall'area di comando vengono ridotte a puri e semplici esecutori.
In tema di controfattualità, appare fin troppo evidente come l'organizzazione carcere fallisca i progetti/obiettivi istituzionali: da un lato, vengono meno tutte le ipotesi rieducative e risocializzanti; dall'altro, l'uso simbolico della pena detentiva come intimidazione e punizione esemplare non vale a comprimere i tassi di violazione della norma (anzi).
Nel primo caso, il carcere non fa che riflettere, nel suo "particulare", il limite di fondo del sistema istituzionale italiano: la mancata consapevolizzazione e metabolizzazione della caduta di tensione dei modelli di organizzazione strategica ispirati allo scientific management (l'organizzazione e la divisione del lavoro secondo i princìpi elaborati da Taylor e innovati da Ford), incentrato sulla netta demarcazione tra progettazione, controllo ed esecuzione. Nel secondo, come ogni altra istituzione, il carcere è in grado di riprodurre se stesso, per il fatto che il sistema sociale continua ad affidargli, anche a fronte dello scacco del suo programma di azione, ruoli e funzioni non surrogabili, da cui ricava il proprio mandato di legittimità.
Il carcere come istituzione/organizzazione disfunzionale e controfattuale, dunque, esiste e resiste unicamente perché circola una domanda sociale di carcerazione. La condanna più grave che pesa in capo ai detenuti nasce proprio da qui. È la domanda sociale di carcere e carcerazione che rende altamente problematiche innovazione e trasformazione democratica del sistema penitenziario; per non parlare, poi, del ripensamento di tutto il sistema delle sanzioni e delle pene, pure necessario, volendo e dovendo approssimare un non più differibile salto di civiltà. In tale contesto, soggetti istituzionali e operatori penitenziari sono fortemente esposti a divenire essi stessi agenti attivi della domanda sociale di carcere e carcerazione.
Sotto questo profilo, il carcere appare un'istituzione totale allo stato puro: è destinatario e, insieme, agente riproduttore della domanda sociale di carcerazione. Quando si dice che il carcere è istituzione chiusa, si deve intendere che è una organizzazione a mezzo della quale la società chiude autoritativamente i meccanismi della regolazione sociale. In questo senso, il carcere è un'organizzazione dell'antimutamento sociale. Tanto più, allora, deve inibire il mutamento democratico al proprio interno.
L'organizzazione carcere si disloca come agenzia del controllo sociale specializzata nella negazione di alcuni dei più elementari diritti naturali e civico-politici. Sul piano strettamente formale, dovrebbe limitarsi alla "sola" restrizione della libertà; così non è. Come abbiamo avuto modo di segnalare in questo e nei capitoli precedenti, La comunità libera si costruisce come tale in contrapposizione alla comunità reclusa: la libertà della prima è direttamente funzione della cattività della seconda; e viceversa. Il carcere consegna la comunità reclusa nelle mani dello Stato. Spossessati dei più elementari diritti e di ogni risorsa, i detenuti divengono proprietà privata dello Stato e delle sue istituzioni.
La comunità reclusa trova riconoscimento politico, sociale e culturale unicamente quale comunità dei cittadini senza diritti. Negati sono: il diritto di associazione, il diritto di espressione, comunicazione e stampa, il diritto al voto, il diritto alla sessualità e all'affettività ecc. I detenuti sono, così, abbassati alla condizione di sottoclasse sussunta nei meccanismi del controllo e della regolazione sociale e sistematicamente esclusa dall'area dei diritti e delle libertà.
L'organizzazione carcere sospende le più elementari regole di democrazia: la democrazia in carcere è letteralmente interdetta. Anzi, il carcere organizza i tempi e i luoghi della negazione della democrazia e dei diritti, dove si afferma incontrastata la signoria speciale e assoluta dello Stato e dell'istituzione.
Ecco perché, soprattutto nel caso del carcere, ogni discorso sulle trasformazioni organizzative deve prolungarsi in dibattito intorno al mutamento istituzionale. Solo così è possibile transitare dai diritti negati ai diritti riconosciuti.
Ecco perché ogni discorso e prassi sul carcere debbono essere discorso e prassi sui diritti di tutti, reclusi e liberi: cioè, discorso e prassi sulle istituzioni della democrazia e della libertà.
5. |
Quale il tempo della giustizia? |
Concludendo la nostra ricostruzione critico-ricognitiva, non pos-siamo esimerci dall’approssimare sintetici, ma stringenti interrogativi.
Qual è il tempo della giustizia, quando vige ancora il tempo del carcere? Il tempo della prigione non imprigiona anche il tempo? E il tempo imprigionato non è spazio che di sé tutto impregna?
Si potrebbe continuare all’infinito con la catena di questi interrogativi. Quello che ora ci preme sottolineare è l’evidenza che essi fanno trasparire: la privazione di tempo, grazie al carcere, diventa tempo. Questa è la prima esperienza tattile che ogni detenuto/a fa del carcere e che, del carcere, conserverà eternamente nei suoi cromosomi, nelle sue pulsioni emotive e nel sue cervello; anche se e quando avrà la fortuna di separarsi dal carcere.
Nelle volizioni dell’istituzione chiusa e nell’organizzazione da essa allestita e difesa, il tempo imprigionato è tempo assente; il tempo assente, a sua volta, diviene spazialità: reticoli cubicolari e territori murati. Che il tempo/spazio del carcere abbia proiezioni nella società e che, all’inverso, siano cadenze sociali, architetture urbane e ossessioni antropologico-culturali ad aver prodotto il permanere del carcere nelle forme esistenti pare fuori di dubbio. A tal punto che viene più o meno giustificata o punitivamente esaltata una tipologia perversa di libertà del tempo della sofferenza.
Il carcere, come luogo emblematico della sofferenza, si rovescia in una sofferenza che è "libera" di esser tale e che, per esserlo, ha bisogno ... del carcere! Anche quando la sofferenza "esce" dal carcere, per frazioni di tempo o per un tempo intero, non può sta-bilmente impiantarsi nella società; regolarmente deve far ritorno al carcere, il luogo presunto dell’infezione originaria in cui il virus delle devianza deve essere continuamente ricondotto e riquantificato. Nell’immaginario antropologico-culturale che più o meno consapevolmente presiede a questo disegno di controllo ed emarginazione, il carcere diviene simultaneamente input e output del sistema della sofferenza. La società si colloca nel mezzo e, insieme, si chiama fuori. Essa si "purifica", accogliendo per frazioni di tempo le figure recluse emarginate, per poi immediatamente restituirle a quella che ritiene la loro terra madre: l’inferno delle celle.
Per questo è il "carcere alternativo" che flebilmente prende piede, anziché il totale e progressivo venir meno del carcere.
Le misure alternative designano e disegnano la "misura" dell’ utopia negativa del tempo dissociato, pericolosamente sospeso e smemorato tra la libertà incompleta e la reclusione parziale. Il tempo dissociato consente alla società di affrancarsi ideologicamente dal carcere, nel momento stesso in cui lo riproduce, decentra e disloca anche emotivamente. Prende qui luogo, tra le altre cose, un doppio movimento di chiusure: in un unico e articolato tempo, la società si libera solo simbolicamente della "necessità del carcere" e il carcere mima all’infinito la sua esternalità e la sua extraterritorialità nei confronti della società. In realtà, mai come in questo tempo articolato e dislocato carcere e società si condizionano e compenetrano.
È, questo, un giro vizioso assai meno di quanto possa apparire a tutta prima e che, come tute le "tautologie", ha il pregio di palesare legami di implicanza diretti e precisi.
V’è un risvolto che sorprende e che mostra con nitidezza il gioco degli specchi: la sofferenza legale si iperlegittima come saturazione dell’assenza della libertà. Per essa, se il tempo/spazio del carcere è assenza di libertà, l’assenza è il carcere. Il tempo è carcere e il carcere è tempo: ecco il progetto concentrazionario dell’ istituzione totale.
Allora: quale giustizia può dirsi veramente e rigorosamente tale, se non inizia radicalmente e rigorosamente a ripensare la sanzione e le sue forme, espungendo definitivamente dall’orizzonte della società, dall’immaginario collettivo e dagli archetipi culturali il carcere e tutte le soluzioni che con esso intessono e conservano un grado di parentela? Quale tempo può essere libero, se non si libera del carcere e di tutte le sue forme articolate, decentrate e surrogate?
All’altezza di tali interrogativi, possiamo provare a descrivere un altro e non meno denso fenomeno di inversione.
Il legame carcere/società può essere non soltanto temporalità e spazialità punitive, sospese ed evacuate; ma anche possibilità di trasformazione ed emancipazione. E lo abbiamo visto specificamente, analizzando i percorsi della mobilitazione collettiva dei detenuti negli anni ‘80 e nei primi ‘90.
Diciamo questo in un duplice senso: il/la detenuto/a può e deve salvarsi dal carcere; la società può e deve liberarsi dal carcere. C’è sempre in attesa uno spiraglio di tempo che anela alla libertà. Persino, la compattezza autoritativa del carcere non può occludere questa fenditura.
In ogni dove e in ogni tempo, la miniaturizzazione comandata degli spazi e l’evacuazione del tempo non riescono mai a totalizzarsi compiutamente. Vi sono sempre e sempre resistono i tempi, le donne, gli uomini e le occasioni della speranza e della lotta. Dalle viscere medesime della linea di ghiaccio delle strutture reticolari in cui la storia inghiotte gli esseri umani e gli esseri umani sprofondano la storia erompe il possibile discontinuo; come ci insegnano pre-ziosi filoni di pensiero antico e contemporaneo.
Se questo è vero, lo è esattamente perché il tempo ha scarti e scatti interni. Il carcere è un punto/luogo buio dell’oscurità del tempo. Che il tempo sia oscuro non vuol dire che esso sia cupo e indecodificabile come un assioma. L’oscurità del tempo dice la sua interna stratificazione. Il carattere mutevole e sfuggente del tempo non è dato solo dalla doppia impossibilità di ridurre il passato a presente e di separare traumaticamente il passato dal futuro; ma anche dalla possibilità di infinitizzazione di senso e forme direzionali che in ogni frazione di tempo è racchiusa. Il tempo è multiverso e multisenso.
Se ci ancoriamo un minimo ad un universo teorico più elastico e rispettoso dell’essere pluriarticolato del tempo, immediatamente siamo portati a concludere che ciò che col passato "passa" e si colloca alle nostre spalle non per questo ci è completamente e irrimediabilmente sfuggito; non per questo si situa nella "morte immensa" in cui sono catturati i "firmamenti spenti". È che, pur morendo, nulla muore mai del tutto. Ecco perché il tempo sempre vive e mai non muore. Il tempo nuovo germina e si dissemina anche perché il tempo vecchio resta: ci scalda ancora i cuori e, contemporaneamente, dobbiamo ingaggiare una lotta, per sconfiggere i suoi fantasmi e rettificare i suoi errori. Il presente infinito che ognuno di noi può costruire, che la storia stessa può allestire, zampilla proprio da questa interconnessione di passato e futuro nel presente. Il presente non può essere troppo a lungo la prigione proiettata dal passato che inibisce il futuro. Se è questo, diventa il tempo dell’indifferenza, della disperazione e dell’autodissoluzione.
Spinto velocemente lo sguardo così lontano dal carcere, possiamo più proficuamente farvi ritorno. Che cosa è, nella sua più riposta essenza, il tempo imprigionato, se non la gabbia presente conficcata tra passato e futuro? Il carcere tenta qui di compiere il sortilegio che arresta e aggioga il tempo.
L’esito irreparabile a cui tende la razionalità di comando che possiede il tempo imprigionato è la conversione della solitudine, da premessa di libertà, in servitù. La "comunità dei reclusi" testimonia, con la sua semplice esistenza, l’asprezza di questa degenerazione e di questa umiliazione. Ecco perché l’esperienza del tempo in carcere è così intensa e, insieme, così incerta; così problematica e, insieme, così prossima allo scacco; così difficile e, insieme, così necessaria e vitale.
La tortura maggiore è quella di toccare con mano e quantificare in termini di tempo e di spazio che qualcosa di noi sta irreparabilmente morendo col nostro passato; ma sta anche, qui e ora, morendo col nostro presente.
E la morte di tutti i tempi personali si associa con l’interdizione all’esperienza articolata e pregnante dei tempi storici e sociali. Del resto, quale "biografia personale" può mai fecondarsi fuori dall’ esperienza critica e piena dei tempi della storia e della società? Non è possibile salvare i tempi e gli spazi delle propria vita, se non in relazione allo sforzo di decontaminazione dei tempi e degli spazi della storia e della società. Tale sforzo trascende la vita di ognuno; ma può mettere tutti in dialogo. Ciò è soprattutto vero nel carcere e a partire dal carcere.
Tutte le volte che, nel carcere e intorno al carcere, questo avviene è una sorpresa. Lì, nel punto di precipitare in un abisso senza fine e senza vie d’uscita, la risalita alla luce chiara di un’esperienza di libertà. Il carcere offe di continuo il segno tangibile e inestirpabile di questo spirito di libertà mai domo. Non parla solo della brutalità del "dentro" e del "fuori"; ma anche dell’enor-me potenziale di libertà e di liberazione compresso nello spazio/tempo recluso e nella società.
Nasce a questo crocevia e tra questi elementi in gioco il de-siderio di conservare e "riprodurre" se stessi e i propri tempi, non nell’oblio o nella malinconia dei sentimenti perduti; bensì nella responsabilità e nella nostalgia che ricordano e "fabbricano" un tempo di vita diverso.