CAP. VI

STATO, PENA E CONFLITTO.

UN EXCURSUS FINALE PER RICOMINCIARE  

 

 

 

1.

Dal conflittualismo penale all’aconflittualismo statuale e comunitario

Si sa che è con Hobbes che lo Stato acquisisce compiutamente la titolarità del "diritto di punire", assicurando in cambio la garanzia della sicurezza sociale di tutti. Il "diritto di punire" si innesta, così, sul più esteso dei riconoscimenti del conflitto. L’autorità dello Stato si erge come fonte e fondamento del "diritto di punire", proprio per assicurare sbocchi non violenti al conflitto, tenendolo sotto controllo normativo e autoritativo. Quello che si configura come diritto imputato allo Stato si pone simmetricamente come obbedienza incombente sul capo dei sudditi. Il tratto moderno del diritto penale ha due caratterizzazioni principali: (i) l’imputazione costituisce l’azione penale; (ii) la costituzione dell’azione penale si estrinseca come differenziazione e, allo stesso tempo, come generalizzazione normativa del soggetto.

Tutto intero questo edificio crolla a fronte del paradigma uti-litaristico settecentesco e della sua successiva crisi. Caduta, con la pena giusta, la fondazione sinallagmatica del rapporto punitivo, su-bentra la pena utile, quale mezzo (utile) conforme allo scopo (utile). Il sistema penale è, così, strutturato e proporzionato come imme-diatezza incoercibile e intrascendibile dell’azione punitiva. È il sistema penale che l’utilitarismo mette in forma come "diritto di punire", giacché la relazione punitiva risponde meramente alla funzione (utile) delle prevenzione generale. Necessità di punire e fondamento della pena si coappartengono ed equivalgono. E la pena viene qui fondata, deducendola non dall’universale di giu-stizia, bensì dalla volontà di colpevolizzare, a un lato, e dall’azione colpevole, al lato opposto. Con questo, il fine per il quale si punisce si eclissa definitivamente e irreversibilmente. Si può dire: il "diritto di punire" stesso, nelle sue classiche formulazioni e partizioni originarie, scompare. Restano soltanto la decisione e l’ossessione delle "volontà libere incolpevoli" di perseguire e punire le "volontà colpevoli" a cui, per questo, va sottratta la libertà. Finalità politica è qui direttamente quella di conservare e consolidare l’autorità, in assenza, ormai, di un fondamento razionale. Come dire: produzione di autorità a mezzo di autorità.

Il parametro retribuzionistico, come si vede, salta integralmente, configurando un’ulteriore rottura del diritto penale moderno. Come ha fatto osservare Pavarini: (i) lo Stato è, ormai, libero di punire per fini insindacabili; (ii) non esiste più limite concreto al "diritto di punire" che promana dall’autorità statuale. La privazione della libertà ipostatizza il carcere come pena. La crisi della "retribuzione" della pena è risolta poprio con il subentrare delle teoriche e pra-tiche della "utilità" della pena. Il che estende il "diritto di punire" come illimitatezza della pena esemplare (prevenzione generale) e come onnilateralità della pena indeterminata (prevenzione spe-ciale). Non può stupire che sul paradigma penale utilitaristico abbia potuto organicamente attecchire l’ossessione correzionale.

L’illimitatezza e il carattere indeterminato della pena rivelano, ben presto, come il carcere sia un mezzo inidoneo allo scopo rieducativo. Dalla presa d’atto di tale inadeguatezza, con gli anni ’40 e ’50 negli Usa, prendono corpo pratiche di controllo sottratte all’istituzione chiusa carcere, attraverso le strutture assistenziali del welfare. Il paradigma correzionale viene qui ritradotto e si realizza pienamente, mediante strategie di controllo "in libertà", inaugurando il fenomeno della "fuga dalla sanzione detentiva". Si delinea una duplicità di uso del carcere come risposta utile alla criminalità e alla devianza: (i) un uso quantitativo: assoggettando vaste fasce di detenuti allo spazio/tempo illimitato della reclusione; (ii) un uso qualitativo: assoggettando tranches di detenuti progressiva-mente crescenti/decrescenti, a seconda delle esigenze contingen-ti, allo spazio/tempo delle misure alternative alla reclusione. L’uno impiego presuppone l’altro ed è con l’altro intimamente dialogante e intercomunicante. Il repertorio delle modalità di esecuzione della pena si amplia a dismisura: forme hard convivono con forme soft; moduli segregativi coabitano con moduli flessibili e aperturistici. Queste forme e questi moduli rimandano a codificazioni simboliche e a strategie ben specifiche e relativizzate. Ma ogni specificità è fortemente interrelata all’altra, concorrendo a delineare un quadro generale articolato e complesso, depositario di strategie di intervento flessibili e multidirezionali.

Il dato più interessante che contraddistingue i sistemi peni-tenziari avanzati — in specie quello italiano — è che le loro risposte non sono mai univoche. Essi contemplano sia il ricorso alla forza che quello al disciplinamento, in un sapiente dosaggio e intreccio di ambedue gli elementi. Il disciplinamento non è di per sé sostitutivo o sospensivo delle strategie basate sulla forza e sull’autorità repressiva: lo Stato resta, pur sempre, il titolare del "monopolio della violenza legittima". Anzi, quanto più si affina il disciplinamento, tanto più si affina la strategia di impiego della forza e dell’autorità. Diversamente da quanto sostenuto dalla criminolgia critica, il carcere guadagna sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. In altri termini: a questo approdo storico, il carcere è intensamente in azione dentro e fuori l’universo concentrazionario e la società repressiva è ben opera fuori e dentro il carcere.

Ciò pare tanto più vero a fronte della crisi del Welfare e dei corrispettivi modelli correzionali. Il fallimento delle politiche peni-tenziarie out-door ha comportato la riclassificazione di quelle indoor che, a loro volta, hanno pesantemente contribuito a ritessere la tela del "controllo diffuso in comunità". È vero: il penale è assurto a simbolo. La stessa critica mossa contro la nuova simbolica del penale e del penitenziario ha dato luogo a nuove codificazioni e a nuove strategie di senso nel e del carcere. Critica che, malgrado le nobili intenzioni, non reca impresso dentro di sé il sigillo dell’ emancipazione, della libertà e della liberazione, rimanendo a doppio filo legata ai valori e alle culture dominanti.

Vediamo in rapida sequenza il repertorio dei modelli che tale critica ha disegnato:

(i) La rieducazione alla moralità. La base teorica del modello è la concezione etica dell’emenda, richiamante un modello consensuale di società. Secondo questo modello, sempre e ovunque la legge penale riflette la volontà collettiva, da cui è inferita la concordia (della maggioranza) intorno alla definizione di ciò che è bene e ciò che è male. La pena qui "rieduca" il condannato, normalizzandolo e uniformandolo ai valori dominanti e alla morale dominante. Il potenziale trasgressore viene "dissuaso"; il trasgressore effettivo, "recuperato". Il "bisogno di rieducazione" così espresso rimuove un’evidenza lampante: quanto più la società costruisce "valori omogenei" e univoci, tanto più ha bisogno di costituire (simbolica-mente e materialmente) una divisione ideologico-culturale tra maggioranza osservante e minoranze devianti. Di questa rimozione basale rimane vittima, seppure in maniera speculare a quella appena esmplificata, lo stesso paradigma eziologico; in specie, quello di derivazione marxista. Per tale paradigma, come è noto, la risoluzione delle contraddizioni sociali, basi causali delle condotte criminali e devianti, condurrebbe all’estinzione della criminalità e della devianza. Qui le minoranze devianti si fanno portatrici di un messaggio palingenetico di "concordia sociale", allargandosi per partenogenesi, sino a comprendere le originarie maggioranze osservanti intorno alla griglia dei valori in precedenza discriminati e repressi. Attraverso l’esaltazione del conflitto, di cui sarebbero portatrici le minoranze devianti, si arriverebbe alla delineazione di un sistema universale di valori condivisi, in cui nuovamente il conflitto smarrisce il suo diritto di cittadinanza. Come in uno specchio, il gioco si rovescia: per il marxismo, è il "bisogno di emancipazione" delle minoranze devianti ad avere la necessità di codificare (simbolicamente e materialmente) l’esistenza di una maggioranza osservante da estinguere; con essa estinguendo conflitto, classi sociali, Stato e politica.

(ii) La rieducazione alla legalità. Trascorriamo qui dal modello consensuale al modello pluralista, attraverso il riconoscimento dell’ esistenza di una molteplicità di "gruppi sociali" e, pertanto, di una molteplicità di interessi, sovente in conflitto tra di loro. La legge non è più concepita in funzione dell’accordo generale. La legge qui riconosce il conflitto, il quale deve trovare una regolazione pacifica. L’accordo deve avvenire intorno ad una struttura legale, in modo che i conflitti siano risolti senza arrecare pregiudizio irreparabile al benessere collettivo e a quello dei singoli. La conflittualità è qui di e tra valori e interessi. Rieducazione alla legalità è rieducazione alla soluzione pacifica dei conflitti. La tutela degli interessi e dei valori costituisce il quadro normativo della convivenza civile: il "gioco strategico" entro il quale i conflitti vengono accolti e disciplinati. Ai codici normativi e simbolici, alle culture dei soggetti devianti non viene estesa la tutela, in quanto assunti negativamente come travalicanti il campo di espressione del conflitto pacifico e della pacifica competizione tra interessi e valori. A questo campo di espressione, anzi, debbono essere recuperati. Alla devianza — e, ancor di più, alla criminalità — viene negata un’identità culturale, antropologica e simbolica. Il pluralismo del modello rieducativo è qui riconoscimento non di tutti i valori; ma unicamente di quelli regolabili dalla strategia della mediazione dei conflitti. Ma, ora, negoziabili sono esclusivamente quei conflitti che hanno come riferimento un quadro normativo comune e che già si collocano nell’al-veo della legalità. Il pluralismo rieducativo conferma, dunque, il disconoscimento delle culture altere e devianti; disconoscimento ratificato dall’esistenza stessa del carcere.

(iii) La rieducazione all’autodeterminazione. La pedagogia dell’ autodeterminazione è stata elaborata negli Usa, nel corso degli anni ’60 e ’70, da Von Entig ed Eser. Soprattutto Eser ha tenuto a precisare lo spostamento di baricentro realizzato dal modello: il centro gravitazionale è slittato, dal "sistema dei valori", al "meto-do". Le selezioni del recluso dovrebbero avvenire sempre entro una rosa allargata di possibilità. Al detenuto dovrebbe essere soltanto fornito un metodo atto a fargli compiere l’opzione razionale meglio conforme al suo proprio interesse. Il "metodo della rieducazione" si presenta come "educazione alla libertà" ad opera del condannato stesso. Ma, in realtà, come abbiamo avuto modo di argomentare diffusamente nei capitoli terzo e quarto, è soprattutto nell’universo concentrazionario (indoor e out-door) che un processo di auto-apprendimento si presenta, in linea generale, altamente impro-babile, eternamente viziato e destrutturato, com’è, dai condiziona-menti delle modalità soft e hard dell’esecuzione penale, con i loro codici e linguaggi di coazione.

Prospettive egualmente critiche vengono aperte dalla criminologia critica americana; in particolare dal "Justice Model". Tali prospettive muovono dalla generale critica delle funzioni preventive speciali della pena, a cui affiancano l'aperta messa in discussione dell'ipotesi risocializzativa. La direttrice di sviluppo politico-isti-tuzionale cui il modello guarda con particolare favore è la massimizzazione del potere giudiziario in parallelo alla minimizzazione del potere amministrativo. La "certezza del diritto", in questa posizione, ritorna a far perno sull’azione e non sull’attore criminale. Il sistema della pena indeterminata viene duramente criticato.

Entro questo disegno complessivo, però, il "Justice Model" dà luogo ad un campionario di posizioni estremamente diversificate. Si possono, tuttavia, distinguere tre filoni principali:

(i) il giusnaturalismo (Schwendinger): orientamento verso un "nuovo" diritto penale, a sostegno dei "diritti dell’uomo";

(ii) il neo-contrattualismo (Rawls): orientamento alla formazione di un nuovo "patto costituzionale", rideterminante i beni giuridici meritevoli di tutela penale;

(iii) il neo-liberalismo (Fogel): orientamento verso una netta restrizione della "interferenza penale" nel sociale, in vista del so-stegno ai meccanismi di alimentazione e risoluzione privatistici dei conflitti.

Nonostante la notevole e palese diversità dei filoni individuati, è possibile identificare una cornice comune: la legge eguale. Alla legge viene assegnata una funzione formale e contrattuale, finalizzata all’interesse generale. Siamo in presenza della riproposizione dello schema sinallagmatico, il quale — come si sa — giustifica la pena, in quanto l’azione delittuosa è violazione di un accordo fondato sulla reciprocità. Al principio della "giustizia sociale" subentra il principio della "giustizia formale", il quale spoglia il diritto penale e la sanzione penale della loro natura di strumenti di potere in mano alla classe politica che governa. Il "diritto di punire" è come denaturalizzato, ridotto come è ad apparato repressivo tecnicamente e neutralisticamente riferito al quadro formale delle certezze e della naturalità oggettiva della legge. Il paradigma ideologico sottostante è facilmente rilevabile: legge e ordine. Ancora una volta, tra legge e ordine viene espulso e rimosso il conflitto. Le "teorie redistributive" e la "giustizia redistributiva", se vogliono dotarsi di uno statuto epistemologico corretto e politicamente efficace, debbono triangolare legge, ordine e conflitto. A fronte di rapporti sociali diseguali, di stratificazioni e discriminazioni sociali, la pena è "naturalisti-camente" diseguale. Il portato di neutralità della legge e dei suoi costrutti formali di equità, pur necessari e importanti, non possono valere ad occultare tale diseguaglianza. Ciò, molto semplicemente, vuole dire che:

a) se il fondamento della pena è la violazione dell’accordo generale;

b) se il fine della pena è il ripristino dell’accordo vulnerato;

c) la pena non può avere un fondamento universale, poiché l’accordo generale (che, solo, convaliderebbe il "fondamento uni-versale") può unicamente essere il prodotto ideologico-simulatorio della rimozione del conflitto.

Sicché, alla fine della sua parabola storica, il diritto penale va smarrendo il fondamento. Ha cercato di porvi rimedio, ricorrendo allo scopo utile e alla rielaborazione delle teoriche e delle strategie della deterrenza. Lo scopo utile si rivela, giustappunto, il surrogato del "fondamento universale". Come si vede, siamo in pieno vicolo cieco.

L’altra faccia del "tramonto del diritto penale" è stata l’incu-bazione delle teorie e prassi abolizioniste. Già in pieno Ottocento, obiezioni di rilievo vengono indirizzate avverso il "diritto di punire", andando a configurare l’utopia dell’abolizione del diritto penale. Si pensi alla soluzioni abolizioniste elaborate dalla cultura libertaria ottocentesca: Proudhon, Stirner, Kropotkin. Si pensi, ancora, all’ utopia anarchica e socialista di una "società senza galere"; la quale trova una particolare recezione negli stessi Marx ed Engels e nel medesimo marxismo, fino e oltre Lenin.

Su questo albero genealogico allignano i modelli abolizionisti contemporanei che hanno in Nils Christie e Louk Hulsman gli esponenti più rappresentativi.

In senso stretto, in Italia la cultura abolizionista si è origi-nariamente insediata come confutazione della pena di morte. Da qui hanno tratto ispirazione le posizioni intorno all’abolizione della pena dell’ergastolo.

Il modello abolizionista integra al suo interno diverse posizioni. Si va dalla strategia di Christie di abolizione del sistema della giustizia penale in quanto tale alle strategie che circoscrivono l’abo-lizione al solo sistema carcerario. Come è stato fatto notare, non necessariamente tra le ozioni abolizioniste v’è accordo; spesso, anzi, sussiste un’inconciliabile opposizione.

Nondimeno, al di là delle indubbie differenze, è possibile iden-tificare un territorio comune: il trasferimento del disciplinamento dallo Stato alla società civile. Se lo Stato, attraverso il carcere, reprime e rimuove il conflitto, le strategie abolizioniste riannettono il conflitto alla società; ma per disciplinarlo civilmente. Il conflitto viene desituazionato dalla trama delle mosse statuali, per essere interamente incorporato nella trama delle mosse sociali e civili dei codici di disciplinamento. Da questo lato, le strategie abolizioniste non superano la critica foucaultiana alla "microfisica dei poteri" e ai "codici disciplinatori" e si imparentano con modelli privatistici e neo-liberali.

Una strategia anti-statualista, in questo caso, si combina con una strategia anti-conflitto. La politica e il ‘politico’ scompaiono dallo spazio storico-sociale e dall’orizzonte di esperienza; le strategie del disciplinamento comunitario rimpiazzano la repressione statuale. La società, di fronte al fallimento dello Stato e al tramonto del diritto penale, si candida come baricentro del sistema sanzionatorio-punitivo-rieducativo. Prende qui corpo un modello politico-culturale di abolizione comunitaria del conflitto. La "società contro lo Stato" si riannette l’individuo e si propone come l’educatore alla convivenza aconflittuale, secondo le prestazioni regolate dalla disconferma e dall’azzeramento culturale della devianza.

Nel caso della strategia abolizionista integrale (abbinamento della soppressione del sistema penale con l’abolizione del sistema penitenziario), prende forma un codice disciplinatore universale. Nel caso di strategie abolizioniste parziali (eliminazione del sistema penale o abolizione del sistema penitenziaria), riscontriamo un codice disciplinatore selettivo. In tutte e due i casi, le strategie abolizioniste, loro malgrado, si configurano come sottomanifestazione dei processi e delle fenomenologie di rimozione del conflitto.

2.

Pena-violenza, pena-premio e pena-regolazione

Il cammino ricognitivo che abbiamo appena tracciato incontra sulla sua strada persistenze ancora più vischiose di quelle già prese in esame. Ben al di là e al di sotto del ruolo del diritto penale e del legame di coappartenenza da esso intrattenuto con lo Stato, andiamo impattando contro il ruolo e le funzioni assegnate al diritto nella risoluzione dei conflitti.

Secondo la teoria democratica, come abbiamo visto, il diritto è mediazione pacifica dei conflitti; giammai è forza, violenza.

Che le cose non stiano proprio in questi termini idilliaci è chiaro già ad un pensatore come Kelsen, per il quale, come è noto, il diritto non è altro che organizzazione della forza. In quanto organizzazione della forza agisce sulla realtà, per modificarla a propria immagine. E infatti, in Kelsen, il diritto non coincide mai con il fatto; piuttosto, tende a determinare imperiosamente il fatto.

Ma, come ben sappiamo, in Kelsen, il diritto altro non è che l’ordinamento giuridico. Ancora: è risaputo che, per il filosofo praghese, l’ordinamento giuridico concide con lo Stato. Ne discende che qui siamo brutalmente posti in faccia ad una triade (diritto/or-dinamento giuridico/Stato) che va risolvendosi e incarnandosi in una sola ed esclusiva figura totalizzante. Il diritto qui è un ordinamento coercitivo che organizza e impone la forza e la violenza dello Stato: da qui la legittimità del monopolio statuale della violenza.

Ora, al di là delle fin troppo evidenti semplificazioni presenti nel pensiero kelseniano su cui non mette qui conto soffermarsi, va riconosciuto che questo modo di esibire il problema ha il pregio di porci di fronte ad alcune delle più inquietanti dimensioni del potere e del diritto come potere (potere di punire, in primis). Lo Stato figura qui come potere cha ha il diritto di esercitare la forza e la violenza. Qui la forza è l’oggetto specifico del diritto; qui l’organizzazione della forza è l’oggetto specifico dello Stato.

Siamo più vicini alla realtà effettuale e normativa della forma Stato democratica, indagando la posizione kelseniana, pur nei suoi evidenti limiti, che occupandoci dei teorici della democrazia e del conflitto. Qui, sia detto per inciso, Kelsen è sorprendentemente e terribilmente vicino alla nozione marxiana di diritto come strumento di potere in mano allo Stato, in conseguenza di cui il diritto è sempre "diritto del più forte".

Esaminare il rapporto tra diritto e forza nello Stato democratico equivale ad ammettere, per Kelsen, che consenso e costruzione del consenso non si indirizzano e rivolgono immediatamente alla generalità dei cittadini; bensì alle consociazioni che detengono le leve di comando del potere esecutivo, del potere legislativo e del potere giudiziario. L’organizzazione del consenso solo mediatamente assume come suo referente la maggioranza più ampia possibile di cittadini. Diritto, Stato e poteri divengono mezzi di mediazione sociale, per organizzare il consenso intorno agli interessi delle classi e dei gruppi dominanti. La teoria democratica e le teorie del conflitto individuano soltanto il momento mediatorio (e nemmeno in maniera articolata e compiuta); mai l’atto costitutivo coercitivo originario e le finalità di potere che animano il diritto (dello Stato democratico).

Il progressivo svelarsi della carica di violenza e discriminazione che plasma lo Stato democratico è un esito sconvolgente che fa ritrarre lo stesso Kelsen che, da qui in avanti, cerca di ricondurre retoricamente alla Grundnorm la ridondanza coattiva del diritto. Ma ciò, proprio da ora in avanti, non può essere più possibile:

a) avendo l’organizzazione della forza (promanante dal diritto) vulnerato irreversibilmente la primarietà ontologica e assiologica della Grundnorm;

b) essendo la stessa Grundnorm il fondamento di un ordinamento coercitivo, come lo stesso Kelsen esplicitamente riconosce.

La divisione dei poteri, da elemento di controllo dei poteri e tra i poteri, si converte in fattore di omologazione e concentrazione dei poteri attraverso il diritto, a cui viene affidato (appunto) il compito di organizzare (normativamente e imperativamente) la forza e di concentrarla nel dispositivo statuale.

Sotto quest’urto terribile, la Grundnorm prima cede e dopo copre e avvolge, in tutti i sensi, l’assettarsi dello Stato che organizza il poprio potere grazie al diritto; che si difende con la forza organizzata del diritto; che offende con tutto il peso organizzato del diritto.

In virtù di questa morfogenesi, lo Stato può "resistere" al conflitto, per il semplice motivo che esercita su di esso un potere coercitivo che ne sgretola sul nascere le sfere di espressione. Più che interiorizzare il conflitto, qui lo Stato lo sussume e controlla coattivamente attraverso la forza organizzata del diritto, grazie alla quale si diffonde e articola nella società.

Lo Stato democratico, quindi, riunisce in sé le funzioni di strumento di coazione, di mezzo di mediazione conflittuale, di fattore di organizzazione sociale. Proprio a questo terminale meglio risaltano i limiti:

  1. a) della teoria democratica: per il suo ridurre lo Stato a puro strumento di mediazione, sorvolando sugli attributi di forza e violenza di cui è centro di imputazione e irradiamento;

b) delle teorie del conflitto: per la loro cieca fiducia nella mediazione come istituzionalizzazione dei conflitti;

c) della "teoria politica" marxista: per il suo ridurre lo Stato a puro strumento di potere, incapace di "sciogliersi" e articolarsi nel sociale.

In verità, merita di essere sottoposta a scandaglio una non meno rilevante trasformazione, precedente e di diverso taglio rispetto a quella che abbiamo appena richiamato.

La tripartizione dei poteri è messa in crisi già dal concetto e dalla prassi di sovranità che si affermano con la Rivoluzione francese. Qui, infatti, è il Parlamento e/o l’Assemblea che crea il diritto, non limitandosi a dichiararlo, senza che ciò preveda o ammetta il contributo degli altri organi legislativi, i quali non possono esercitare alcun contrappeso. La sovranità popolare spezza qui l’ordigno della divisione dei poteri; per così dire, Rosseau ha la meglio su Montesquieu.

L’ideale di giustizia promana qui direttamente dalla sovranità: il soggetto della sovranità diviene il soggetto del diritto e della giustizia e, per questa via, del potere. Il diritto esercita qui, senza infingementi, la violenza e la forza del soggetto titolare della sovranità. Se sovrano è il popolo, sovrana dev’essere la giustizia esercitata direttamente dal popolo o in nome del popolo. Il diritto del popolo sovrano si costituisce esattamente come diritto più forte e più legittimo (che, marxianamente e kelsenianamente, significa anche: più violento) dell’ancien régime.

L’organizzazione della violenza, attraverso cui il diritto crea e modella il fatto, è qui messa in bella luce. Segnando una profonda e lacerante discontinuità nelle forme e nei soggetti della sovranità e del potere, essa avverte ora la necessità di dispiegare la sua forza; di costituzionalizzare e imporre apertamente la propria signoria di comando.

Ecco perché è proprio qui che il "terribile potere" ha il corraggio di palesarsi in tutta la sua devastante portata. Il carattere orrido del potere di punire non era mai stato così direttamente protagonista della scena. Conosce degradazioni e turpitudini e insedia un rovesciamento sconvolgente: per la prima volta, la storia è vista e agita dalla parte dei dominati. I dominanti perdono la centralità del discorso politico e della posizione storica.

La violenza dei dominati tenta di aver ragione e di far tabula rasa della violenza dei dominanti. Il diritto dei dominati diviene la pietra miliare della riformulazione dell’idea e della prassi della giustizia. Legalità, sovranità e legittimità perdono i loro vecchi titolari e quelli nuovi le sottopongono a poderosi e radicali mutamenti di senso.

Il conflitto non conosce qui mediazioni e tutti i princípi di universalità ora dichiarati, con il rovesciamento della condizione di sudditanza, "raccontano" l’universalità dei diritti di cittadinanza: vale a dire, la violenza dell’universalità dei diritti dei dominati. L’organizzazione violenta del diritto qui organizza e risolve in maniera violenta il conflitto, deprivandolo, così, della sua interna complessità e della sua struttura di senso poliedrica.

La prassi rivoluzionaria svela qui il suo doppio volto: (i) è negazione del diritto dello Stato; (i) ma anche organizzazione del diritto positivo in una nuova codificazione. Lo "Stato di diritto" viene negato, affinché la rivoluzione impianti il suo diritto a "farsi Stato". Nel far questo, si fa diritto positivo che schiaccia il conflitto sulla nozione e sulle prassi della violenza.

Qui sta il problema della rivoluzione che trascorre in terrore e di tutte le rivoluzioni, in generale. Qui rimane da dislocare una discontinuità ancora più grande e dilacerante: come restare dalla parte dei dominati, senza per questo finire preda dei codici della violenza. Qui, in altri termini, si insedia la necessità di tornare e permanere nel campo del conflitto. Qui il conflitto riscopre la sua vocazione autentica: contrastare e abbattere la forza inaudita e, a volte, invincibile dello Stato.

L’appello al conflitto vale esattamente come sottrazione alla macchina di dominio e di forza che il diritto organizza intorno allo Stato. Se la diffidenza, l’insicurezza e la paura costituiscono la ragione principale della sottomissione dei cittadini all’invincibile macchina dello Stato, il conflitto costituisce una delle ragioni fondanti dell’aperta messa in discussione del potere di punire di cui la mostruosa macchina di potere dello Stato è centro di imputazione.

Sin qui, abbiamo visto come da una concezione del diritto quale ordinamento coattivo discendano flosofie del diritto e prassi di comando statuali differenti, circoscrivendo l’analisi entro i confini del giuridico-politico. Ciò, però, non vuole significare, per parte nostra, una sottovalutazione del ruolo e delle funzioni giocati dagli altri sottosistemi sociali; né vuole alludere ad una funzionale divisione dei compiti del tipo: al diritto e allo Stato la coazione; al mercato la mediazione consensuale.

La plurioffensività dell’ordinamento coattivo non è il riflesso speculare della delega delle funzioni di mediazione sociale che lo Stato, in tutta la fase della libera concorrenza, affida al mercato. Dal nostro punto di vista, pluri-attività coercitiva imputata allo Stato e pluri-attività di mediazione imputata al mercato sono facce della stessa medaglia. Meglio: è proprio il modello di consensualità tipico dello Stato di diritto che distingue e integra in un meccanismo unitario funzioni dello Stato e funzioni del mercato. Per essere ancora più precisi: la forma di società qui schematizzata si incardina sulle funzioni integrate di coazione/mediazione redistribuite tra e da due "sistemi centrali" distinti eppure intercomunicanti quali lo Stato e il mercato.

Le forme dell’integrazione delle funzioni di coazione/mediazione e dell’intercomunicazione Stato/mercato sono determinate storicamente. Il che porta a concludere che, malgrado tutte le apparenze contrarie, anche il mercato è latore di funzioni coattive, esattamente come il diritto è titolare (anche) di funzioni mediatorie.

Lo Stato, soprattutto dopo il crollo del laissez faire e il varo delle politiche keynesiane, non limita il suo raggio di intervento al giuridico-politico. Esso interferisce pesantemente con le sfere economiche. A quest’altezza, palesano i loro limiti sia i paradigmi che assegnano al diritto mere funzioni di "tecnica di controllo sociale"; sia i paradigmi che riducono il diritto alla funzione di organizzazione e imposizione della forza.

L’intervento dello Stato nell’economia ammette la formalizzazione di "direttive economiche". La mera norma coattiva deve accompagnarsi ad una sanzione positiva che incoraggia e "premia" i comportamenti conformi. Lo Stato, cioè, qui promuove e premia, a seconda della conformità delle decisioni e degli atti degli attori sociali. Qui il diritto cessa di essere semplice forma di controllo e diviene forma di controllo e direzione sociale.

Le funzioni del diritto diventano, quindi, un mix di violenza, mediazione, controllo e direzione. Da qui conseguono politiche sociali che si costruiscono come politiche di promozione sociale. In questo senso, le politiche sociali sono politiche premiali. In quanto premiali, sono politiche di assorbimento e assimilazione del conflitto. Se il diritto andava finora studiato come sistema coattivo-mediatorio, ora va indagato anche come sistema promozionale-premiale. Ecco disvelato uno dei reticoli nascosti su cui attecchisce la legislazione premiale negli anni ’70 e ‘80 che, come abbiamo visto, ha martoriato carcere, politica e società.

Le pene, allora, per avvicinare i centri del nostro discorso, acquisiscono storicamente vari livelli di stratificazione semantica:

a) contengono in se stesse il livello necessario di violenza (e/o sanzioni negative), atto a impedire la diffusione dell’illegalità;

b) recano in se stesse il livello di incentivazione/promozione di comportamenti ultra-conformi, attraverso un sistema articolato di premi (e/o sanzioni positive);

c) articolano il livello adeguato di mediazione dei conflitti, per garantire e proteggere i meccanismi della regolazione sociale.

Nella forma Stato delle democrazie avanzate, dunque, diventano più palesi i meccanismi di riconduzione della mediazione giuridica (cioè: la soluzione coattiva dei conflitti) alle cerchie della mediazione sociale. Le strategie di controllo e neutralizzazione del conflitto, a mezzo della pena e del carcere, si affinano. Qui si insedia una linea di continuità rispetto alla costituzione del diritto penale moderno, poiché lo Stato mantiene in piedi le proprie funzioni di mediazione sociale. Proprio qui, però, si disloca anche una linea di discontinuità nei confronti del diritto penale moderno, poiché il conflitto va incontro ad una manomissione dissolvente, anziché ad una coniugazione strutturante e fertilizzante. Ma è altrettanto vero che che esattamente l’opera di manomissione destrutturante del conflitto realizza il destino del diritto (e dell’Occidente) quale forma astratta, risucchiata nel vortice dell’astrazione/cancellazione dei soggetti diversi e delle differenze quanto più mondo e storia si complessificano. L’astrazione in quanto forma è qui atto di nascita e, insieme, agonia terminale dell’Occidente. Qui il "circolo chiuso" e la "gabbia d’acciaio" che si tratta di infrangere.

3.

Verso un nuovo paradigma

Se tale è lo stato delle cose, riteniamo di essenziale importanza riposizionare il nesso politica/conflitto. Il quale nesso è canale di comunicazione e regolazione che parte dal riconoscimento dei contrasti sociali e delle differenze. Come abbiamo sottolineato, a più riprese, politica, nel senso storico-concettuale che le è più proprio, è sempre risposta al conflitto, di cui è una codeterminazione. Il diritto penale moderno, nato proprio su questo "nodo forte", è andato progressivamente separandosi dalla sua matrice conflittuale. Ne è derivato che alla crisi delle forme della democrazia ha fatto eco la crisi delle forme dell’eguaglianza. Le più recenti tecnologie del controllo sociale sono diventate forme della diseguaglianza, per il cui tramite si sono affermate politiche sociali discriminatorie, uno Stato discriminante e un diritto penale discriminatorio. Un paradigma politico a lato della libertà può nascere solo contrastando le forme della diseguaglianza. Deve, pertanto, incardinarsi sul movimento delle forme delle differenze.

Se questo è vero, i termini fondativi per un paradigma possibile sembrano essere: politica con conflitto e pena senza carcere.

Restituita alla politica la sua matrice conflittuale e inserita la parabola della pena in un prospettiva che non prevede più il carcere come suo sbocco necessitato si è solo afferrata una necessità dell’epoca e che l’epoca ha solo bisogno di organizzare come possibilità.

Bisogna partire dall’asserto fondativo meno carcere, procedendo secondo due direttrici di movimento tra di loro collegate:

a) produrre quanto meno carcere possibile;

b) ridurre quanto più possibile lo spazio di esistenza del carcere.

Il movimento direzionale descritto apre una terza e non meno rilevante prospettiva di marcia:

c) sperimentare e organizzare forme di penalità al di fuori delle strutture e delle logiche custodialistiche.

In altri termini, il passaggio delineato va dalla forma carcere al non carcere, ben al di là dei fallimentari e irripetibili esiti del "con-trollo diffuso".

Ci tocca però fare, a questo punto, una serie di specificazioni.

Il conflitto ha una struttura interna costitutiva che ammette un paradigma e un uso. Pertanto, il paradigma "politica con conflitto e pena senza carcere" delinea un ordine/modello sostitutivo di quelli vigenti; ma non ancora è indicativo degli usi e degli sbocchi liberanti del conflitto. Con il paradigma, abbiamo semplicemente "sta-nato" la massa intricata dei problemi. Ora, con l’uso, dobbiamo uscirne fuori. Si tratta, in sostanza, di specificare meglio lo spazio/tempo del non carcere, affrancandosi dalle pastoie interne che ancora l’impacciano. Di questo percorso di ricerca tentiamo qui di fissare i primi rudimenti.

Quello di punire è un "terribile potere", come per primi non si sono stancati di ammonire Montesquieu e Condorcet. I classici della modernità, Hobbes in testa, avevano in estremo timore il diritto penale. Il minimalismo penale è nato giusto su questa griglia problematica. Per questa posizione (da Hobbes a Pavarini e Ferrajoli), il diritto di punire è violenza che la ragione dello Stato deve costantemente tenere sotto controllo, costantemente limitandolo. La pena è qui costantemente sotto tiro: smascherata e demistificata. Ciò rende meno cupo e grave e più tollerabile il terribile potere di punire. Motore del tutto, come è agevole intuire, è proprio la valorizzazione della natura conflittuale del diritto penale.

La politicità estrema del paradigma "politica con conflitto e pena senza carcere" risiede esattamente nella limitazione crescente del potere di punire. Il conflitto esegue una sorta di controllo di legittimità del diritto e del potere di punire: li sottrae alla ventosa di assiologie ed etiche universalistiche e li apre alla comunicazione conflittuale con l’individuo e la società.

Limitare il potere di punire; non invece abolirlo, dunque. Si tratta di tutelare, a mezzo della limitazione del "terribile potere", la sicurezza dei singoli e della collettività. Non soltanto nei confronti delle grandi poteri illegali e della violenza anonima e diffusa; ma anche nei confronti degli abusi e degli arbitri del potere e dei poteri.

La limitazione del diritto di punire ha tre obiettivi strategici parati innanzi a sé: (i) decontaminare i tassi della violenza diffusa; (ii) ridurre progressivamente all’impotenza i poteri illegali; (iii) sottoporre a verifica di costituzionalità e di legittimità l’esercizio dei poteri, fino a formulare vere e proprie declaratorie di illegittimità.

Triangolare legge, ordine e conflitto vuole dire tenere viva la presenza del conflitto ben dentro l’intimità dello stesso potere di punire. Qui la politica non azzera il conflitto. Al contrario, il con-flitto rifonda la politica e lo Stato, nell’alveo delle differenze e della libertà.

La "crisi dei fondamenti" può avere, nel nostro caso, rilevanti sbocchi liberanti. La pena non ha e non può avere scopi etico-sociali da perseguire; essa è solo da contenere e ridurre il più possibile. Annettere alla pena funzioni terapeutico-sociali o etico-salvifiche vuole ora scopertamente dire esercitare livelli di violenza fisico-simbolica sui corpi e sulle anime dei detenuti. L’unico scopo che può oggi essere riconosciuto al diritto di punire è quello di limitare il potere di punire.

Ci troviamo al cospetto di un formidabile conflitto interno al diritto penale. Solo conservando questo nodo conflittuale e su-perandolo in avanti usciamo dalle aporie del diritto penale borghese e, nel contempo, ne ereditiamo il patrimonio più prezioso. Diritto di punire e potere di punire compaiono qui in una inestirpabile relazione conflittuale: ecco uno degli "usi tattici" del paradigma "politica con conflitto e pena senza carcere".

Passiamo ad approssimare altri "usi tattici" del paradigma.

Il diritto presuppone un patto. Ed è indubbio che si tratta di porre all’ordine del giorno la stipula di un nuovo e inedito patto intorno ai nuovi "beni fondamentali", fruibii nel segno dell’eguaglianza e nel rispetto delle differenze e delle differenziazioni culturali e valoriali. Ciò nel solco del giusnaturalismo e del contrattualismo; ma anche definitivamente oltre i loro orizzonti normativi universalistici e reificati. Quanto più si procederà in tale direzione, tanto più si erigerà un’efficace piattaforma di limitazione del potere di punire ed estinzione progressiva del carcere.

Il carcere è una delle forme e uno dei codici della rimozione del conflitto. Dando stura, visbilità, espressione ed espressività al con-flitto, vengono meno le ragioni della rimozione e, con ciò, alcune delle cause primarie della produzione e riproduzione allargata della necessità del carcere.

La necessità del carcere riposa (anche) sulla necessità della rimozione del conflitto. Lavorare alla estinzione progressiva del carcere significa, per far uso di un lessico hegeliano, lavorare alla "ri-mozione della rimozione", riposizionando la centralità del conflitto in tutti i rapporti di potere e in tutte le relazioni sociali. È la necessità del conflitto che si oppone alla necessità del carcere.

La necessità del carcere estingue le cerchie simboliche e le interazioni produttive del conflitto. "Pena senza carcere" vuole alludere proprio ad un "uso tattico" del conflitto. Un diritto di punire limitante il potere di punire non può che esere un diritto penale che mette in codice e storicizza la pena senza il carcere. Ciò richiede il ripensamento della pena e, ancora più al fondo, della politica, della "società giusta" e dell’utopia della trasformazione. La riflessione sul conflitto e la sua multiversità espressiva e motivazionale può essere uno degli apripista per sondare questi nuovi piste di ricerca.

Le zone del non carcere sono esattamente le zone del conflitto. Liberarsi del carcere, per estinguerlo, vuole dire trascorrere dall’ universo concentrazionario out-door e indoor al campo multiverso di espressione del conflitto.

Questo è possibile soltanto partendo dal disvelamento delle quote di conflitto che si trovano mascherate ed offuscate nelle modalità hard e soft dell’esecuzione penale. Solo i sentieri del conflitto conducono dal tempo imprigionato al tempo liberato, dalla prigionia del tempo al tempo desiderato.

Siamo, con ciò, pervenuti agli "usi strategici" del paradigma "politica con conflitto e pena senza carcere". Cosa più del desiderio di tempo può smascherare lo specchio offuscato del carcere?

Nella libertà del tempo e nel desiderio di questa libertà si concentrano tutte le libertà dell’individuo e della società. "Pena senza carcere" vuole proprio significare conflitto per la libertà del tempo, nella libertà dell’individuo e della società. Conflitto che contrasta tanto la "volontà di potenza" dello Stato di impossessarsi della libertà della società, quanto la "volontà di potenza" del carcere di impossessarsi della libertà dell’individuo.

Conflitto contro carcere: ecco un altro "uso strategico" del paradigma "politica con conflitto e pena senza carcere". Il conflitto non può estinguere lo Stato, se non estinguendo se stesso, implodendo verso una catastrofe autoritaria. Esso, però, può estinguere il carcere, proprio arricchendo se stesso e i valori comunitari e individuali, senza patirne il crescente complessificarsi e articolarsi.