CAP. II

GENEALOGIA DELLA CRISI (2):

NODI PROBLEMATICI

  

 

 

1.

Il centrismo e la questione dello Stato

Molte e svariate sono state le interpretazioni storiografiche e politologiche del centrismo degli anni Cinquanta. Non mette qui conto enumerarle e ricostruirle. Tentiamo, invece, di cogliere alcuni nodi cruciali dell'epoca.

Pare indubbio, già a un primo colpo d'occhio sul problema, che l'anno 1947 debba assumersi quale importante punto di svolta nella storia politica e sociale contemporanea. Ciò non solo per cause endogene; ma anche e soprattutto per un precipitato complesso di fattori esogeni, riconducibili alla primarietà causale a quel tempo assunta dalla dinamica delle relazioni internazionali. Il centrismo, tra le altre cose, è primariamente la traduzione interna di quella "guerra fredda" che all'esterno si stabilisce nell'arena delle relazioni internazionali. L'atteggiamento degli Usa verso l'Italia muta col mutare del rapporto tra Usa e Urss. Osserva Roberto Sani: "Nei primi mesi del 1947, si assiste al mutamento della politica degli alleati nei confronti dell'Europa e al progressivo irrigidimento dei rapporti tra le forze occidentali e l'Unione Sovietica. Il fallimento della Conferenza di Mosca mostra chiaramente il tramonto della collabo-razione e del dialogo Est-Ovest. Nel gennaio 1947, George Marshall sostituisce Byrnes alla segreteria di Stato americana: il nuovo segretario sembra incarnare il mutamento della politica statunitense nei confronti dei paesi europei. Qualche tempo dopo, il 12 marzo, il presidente americano Truman pronuncia un discorso che riassume gli orientamenti della nuova politica americana, noto come la dottrina Truman . È l'inizio della "guerra fredda"". Ed ecco il passaggio chiave del discorso di Truman: "La politica degli USA deve sostenere i popoli liberi che resistono ai tentativi di soggioganiento da parte dì minoranze amiate e di pressioni esterne". Per gli Usa, l'Italia integra la presenza di entrambi i pericoli: per la persistenza del mito della resistenza armata e per il rapporto di filiazione

all'Urss che viene contestato al Pci. È con riferimento a questi due elementi portanti della strategia americana che vanno a stringersi un fitto interscambio e un'alleanza politicamente operativa tra la diplo-mazia Usa in Italia e la destra clericale italiana. Ricorda ancora Sani: "L'esigenza di una contrapposizione alle mire espansionistiche e dell' isolamento diplomatico e politico dell'Unione Sovietica viene teoriz-zata da "Civiltà Cattolica" fin dal principio del 1947. La posizione della rivista nei confronti delle vicende internazionali — e in special modo dei nodi della ricostruzione politico-economica europea — risente fortemente, in questo periodo, dei timori e delle preoccupazioni di Pio XII. La lotta al comunismo assume, in questo senso, il carattere di lotta per la difesa e l'affermazione della civiltà cristiana. Emblemati-co del nuovo corso è il discorso tenuto in S. Pietro il 22 dicembre 1946, nel corso del quale il papa pone i termini del confronto: "O con Cristo o contro di Cristo, o per la Chiesa o contro la Chiesa". Questa la base interna e internazionale su cui, nel maggio del 1947, il governo tripartitico cade e le sinistre vengono escluse dal governo.

Dopo l'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 e il relativo sciopero generale, a cui non aderisce la componente cristiana della confedera-zione sindacale, lo scontro politico si trasferisce nel sindacato. Sin troppo note sono le interferenze del Vaticano e del segretario di Stato americano, aventi lo scopo dichiarato di costruire in Italia un sinda-cato non comunista, per essere qui ricordate. Il processo anticomu-nista, in un certo senso, si chiude con il decreto di scomunica dell'11 luglio 1949, in cui viene promulgato un ferreo e capillare sistema di divieti. Ecco come "Civiltà Cattolica" lo riassume. Vietati sono: "La tessera del partito comunista, il voto e la propaganda per esso, le sovvenzioni di ogni sorta in denaro o con altri mezzi materiali; l'appoggio morale dato al partito prendendo parte alle riunioni, cortei ed altre iniziative propagandistiche; la partecipazione attiva e passiva alle organizzazioni economiche che integrano la forza politica del partito e che sottopongono la propria attività ai suoi indirizzi e alle sue direttive... L'appartenenza a gruppi politici, i quali, benché non formalmente, nella pratica però fanno tutt'uno con esso ... L'edizione, la diffusione e la lettura della stampa che mira a diffondere idee e attività comuniste, e lo scrivere in essa".

E, così, ci avviciniamo al 1950 che è anche l'anno della guerra di Corea, scoppiata in estate. Con gli anni Cinquanta, viene superata la fase della ricostruzione e l'economia italiana si inserisce a pieno titolo nel circuito mondiale dell'accumulazione capitalistica. L'inserimento organico nell'economia mondiale e nei relativi assetti di potere sovranazionali, si pensi all'adesione alla Nato nel 1949, consente a De Gasperi di reggere l'opposizione della destra Dc e l'ostilità rimontante del Vaticano. Ma il più delicato punto di frizione, più della "questione comunista", è rappresen-tato dalle politiche economiche: intorno all'emarginazione del Pci si costruiscono le ragioni dell'accordo; intorno agli indirizzi di politica eco-nomica emergono le ragioni delle divisioni. Si fronteggiano la linea liberale (Einaudi/Pella) e quella keynesiana (Fanfani/Sindacalismo cat-tolico/Area dossettiana). La prima linea è schierata sulla strategia della creazione delle precondizioni dell'avvio del ciclo dell'accumulazione e, quindi, per una politica fortemente defiattivo-recessiva. La seconda sposa le tesi dell'immediata svolta produttivistica a sostegno della domanda e dei consumi. Come è noto, la spunta la linea Eínaudi/Pella. In questa fase, per così dire, di "accumulazíone originaria" l'intensa crescita indu-striale del paese fa quadrato sul sistema produttivo: è la domanda di quest'ultirno che viene sostenuta e alimentata. Il ciclo politico pone al primo punto del suo ordine del giorno economico la risistemazione e la ristrutturazione del sistema produttivo, più che sostenere il flusso ge-nerale offerta/domanda a lato della domanda. Tale strategia richiede una pari opera di intervento riequilibratore, che culmina nella "riforma agraria", nel campo dell'agricoltura, duramente osteggiata dalla destra Dc e dal Vaticano. Nel mezzo si colloca lo "schema Vanoni" del 1954.

Azione governativa della Dc e politica centrista di De Gasperi: ecco il "cervello" di questo tipo di riassetto economico e sociale. Riassetto osteggiato dalle sinistre, con argomenti invero eccentrici rispetto al cuore del problema; e ostacolato da quella parte della Dc e del mondo cattolico italiano che aveva ancora tutt'intera la sua anima nell'epoca rural-contadina. Il centrismo di De Gasperi si rivela come una politica di alleanze che: (i) fa blocco sociale sulle forze dell'innovazione industriale e atlan-tica; (ii) neutralizza l'opposizione interna e le resistenze curiali; (iii) mette definitivamente fuori gioco le sinistre. Epperò, mantiene un canale di comunicazione sia con gli oppositori interni che con quelli esterni. Sta, forse, qui il vero capolavoro della politica di De Gasperi.

Il centrismo di De Gasperi affida allo sviluppo industriale il compito di contenere e risospingere indietro la domanda sociale. Ciò sulla base di una scelta politica preesistente: la politicizzazione della società industriale in formazione. Lo sviluppo industriale diviene una sorta di strumento al servizio di una politica che pone l'industrializzazione del paese al servizio della costruzione di un sistema politico che fa della Dc il baricentro interno e della Nato il centro di decisione e regolazione esterno. Si tratta di una repressione silenziosa che avanza sotto le mentite spoglie dell' invariabilità e della immodificabilità della legge dello sviluppo economico. La religione della neutralità dell'economia sostituisce i vecchi disegni provvidenzialistici e le vecchie religioni del mondo rurale e contadino. A proposito degli anni Cinquanta, come abbiamo già avuto modo di ricordare nel capitolo precedente, M. Salvati ha efficacemente parlato di "sviluppo repressivo". Si tratta di un rilevante processo di coazione sul piano politico, economico, ideologico e sociale che coglie largamente impreparato le sinistre. Solo nel 1956 — e solo sotto l'urto degli avvenimenti ungheresi — il frontismo cade in crisi. Il Psi avvia la ricerca della sua anima riforrnista, di cui Turati era stato, a cavallo dei due secoli, l'ultimo rappresentante di prestigio. Il Pci, per parte sua, nemmeno sotto l'urto della destalinizzazione ripensa i nodi strategici della sua politica. Il tema del neocapitalismo sarà affrontato ereticamente — e solo col principiare degli anni Sessanta — da R. Panzieri. Il tentativo panzieriano non sarà tollerato dalla stessa sinistra morandiana del Psi. Nel Pci, dall’arsenale dei vecchi paradigmi secondo e terzinternazionalisti, viene rispolverata l'analisi del capitale monopolistico di stato (buono) e dei monopoli privati (cattivi). Nel Pci, la politica delle alleanze non muta di una virgola; il Psi, dalla subalternità al Pci, si va dirigendo verso la subalternità alla Dc, in ambedue i casi sotto la guida carismatica di Nenni.

Una delle caratteristiche del ciclo politico-economico degli anni Cinquanta è l'intervento massiccio dello Stato nella formazione del capitale. Ed è soprattutto qui che la Dc costruisce il proprio sistema di potere e la sua egemonia. Il torto delle sinistre è stato quello di non fronteggiare il lato moderno delle politiche della Dc, assimilandola, a lungo, come espressione del parassitismo e arcaicismo presenti nella società italiana.

Con le elezioni del 7 giugno 1953 e la relativa sconfitta di De Gasperi, il centrismo entra in crisi. Primo sbocco della crisi è il governo Pella, costituito con l'appoggio dei voti monarchici, con il quale la destra Dc agogna di prendersi la completa rivincita, appoggiata in ciò dal Vaticano. In parecchi settori di questo schieramento, il governo Pella viene esplicitamente agito contro la direzione della Dc, considerata un "ele-mento perturbatore" . Mons. Ronca (Richielieu di "Civiltà Cattolica" e vero "ufficiale di collegamento" tra destra Dc, partiti di destra, gerarchie ecclesiali e organismi collaterali come i "Comitati Civici" di Gedda), in un promemoria del 1953, afferma che la direzione della Dc rappresenta la "vera crisi italiana". Ma il gabinetto Pella cade ugualmente il 15 gennaio 1954. Il tentativo (fallito) di Farifani che ne consegue è stato unanime-mente definito come la morte del "centrismo ideologico" di De Gasperi. In cosa consisterebbe il declino dell'ideologizzazione centrista di De Gasperi? Nel non essere né un momento di apertura vera a sinistra e né un'organica copertura dalla destra. Il dato nuovo che viene letto nel tentativo di Fanfani starebbe nella sua apertura a sinistra, con un'esplicita richiesta di copertura a destra. Ma è possibile immaginare qualcosa più ideologico di tutto ciò? Al successivo governo Scelba si è soliti far risalire l'inizio della fase "neocentrista". In realtà, il governo Scelba mette fuori gioco il progetto della destra Dc che, a fronte della progettata secessione interna, perde addirittura l'appoggio del Vaticano. In questo senso, allora, è una vittoria del centrismo di De Gasperi! La gerarchia ecclesiastica, al centro come alla periferia, matura un atteggiamento politico più equi-librato che, facendo leva sulle ragioni dell'unità della Dc e del mondo cattolico, sfocia nell'appoggio alla politica del centrismo, ritenuta senza serie e credibili alternative; fermo restando la contrarietà curiale alla posizione non organicamente confessionale di De Gasperi e dei suoi più stretti collaboratori e successori. In questa fase, decisiva è la mediazione filocentrista del sostituto alla segreteria di Stato, mons. Montini (futuro Paolo VI). Ed è significativo che nel 1954, con la nomina di mons. Montiní ad arcivescovo di Milano, padre Martegani, ispiratore principe (assieme a mons. Ronca) della strategia del rovesciamento della lea-dership degasperiana, venga rimosso dalla direzione della "Civiltà Cattolica" e allontanato dalla rivista, alla cui direzione viene chiamato padre Gliozzo, in linea con gli orientamenti politici della segreteria di Stato vaticana.

Con il congresso di Napoli del 1955, che suggella la vittoria di "Iniziativa Democratica" e di Fanfani, il centrismo si afferma come politica di tutta la Dc: debellati sono i rigurgiti interni e gli ostracismi del Vaticano. Fanfani, nuovo segretario del partito, categorizza come indeclinabili tanto l'aper-tura a destra che quella a sinistra, essendo "necessario, invece, rafforzare quella apertura reciproca tra i partiti del centro democratico che, per programma, obiettivi, si sono dimostrati sinora gli unici disposti ad assumersi senza riserve la difesa e il consolidamento della demo-crazia in Italia". L'elezione a presidente della repubblica di Gronchi, nell' aprile del 1955, contro la candidatura Merzagora della segreteria, con il voto delle sinistre e il sostegno del Vaticano, già provvede a incrinare la linea fanfaniana. Bloccato a destra e interdetto a sinistra, Fanfani si trova ad azionare la leva del centrismo che, con la morte di De Gasperi, pare aver definitivamente chiuso il suo cielo storico. A sua volta, il governo Scelba è gravemente minato al suo interno, a causa del forte dissenso del Pli, del mondo economico-finanziario e del Vaticano nei confronti dei "patti agrari". La Dc è incerta e senza linea, sballottata tra forze squili-branti che stentano a trovare un loro effettivo centro. Paradossalmente, in questa fase storica il centrismo si rivela una politica mancante di un centro vero. Il governo Scelba non riesce ad amalgare la coalizione, tanto che lo stesso Fanfani, nel suo intervento al Consiglio Nazionale del 1955, provvede a richiamare esplicitamente Scelba a "iniziare un discorso chiarificatone" con gli alleati.

Sfondare a destra era, ormai, improponibile. Permanere fermi al centrismo era obiettivamente sempre più difficile. Non rimaneva che l'apertura a sinistra, a cui la Dc arriva non per intima convinzione e lucida progettazione, ma come pressata da una sorta di stato di necessità.

È questa una costante dello scenario politico italiano. Ogni passaggio innovatone ha trovato all'intemo della Dc e degli apparati dello Stato il ricettacolo più persistente delle contromosse e delle tendenze restau-ratrici. Così è stato per il centrismo; così è stato per il neocentrismo. E così sarà, di lì a qualche anno, per il centrosinistra; così sarà, ancora, di fronte al biennio 1968-69. A ogni passaggio di modernità la Dc ha rischiato di spaccarsi e gli apparati dello Stato, in alcuni dei loro settori più delicati, hanno tramato contro lo Stato costituzionale. Puntualmente, la Dc è stata minacciata dalle gerarchie ecclesiastiche e, puntualmente, gli apparati dello Stato sono richiamati all'ordine dal vertici Nato. Puntualmente, la diplomazia Usa ha esercitato il suo potere di condiziona-mento.

Ci troviamo di fronte a una specie di vizio di origine che ha condan-nato costantemente la Dc ad anteporre le ragioni della sua unità interna alla soluzione organica dei problemi politici e sociali del paese . Salato è stato sempre il prezzo che ha dovuto pagare alle sue destre interne e salato è stato il prezzo che ha imposto al suoi alleati e alla società italiana. Per quanto sorprendente possa sembrare a prima vista, la fase di maggiore autonomia della Dc dalla destra clericale e dal confessio-nalismo vaticano è stata proprio quella contrassegnata dalla leadership di De Gasperi. Il dilemma della Dc è quello d'essere costitutivamente stata a metà partito confessionale e a metà aconfessionale e laico; partito a metà del progresso e della modernità e a metà del tradizionalismo più vieto. Questo il suo peccato originale che la condurrà al dissolvimento agli inizi degli anni ’90, dopo quasi un cinquantennio di egemonia poco contrastata. In virtù di questo vizio d’origine, il meccanismo della decisione politica che si è costruito all’interno della Dc si trascina gran parte dei problemi antichi, senza che sia loro trovata mai una soluzione positiva. È una sorta di tecnica decisionale attraverso il rinvio, il diffe-rimento costante delle decisioni su cui l'unità interna è più esposta. Per così dire: la decisione dilaziona la decisione e la lotta politica all'interno del partito va sempre più riducendosi a uno scontro correntizio per il potere e la gestione del potere nella società. Questa paranoica fame di potere ha costituito il cemento e la linfa del multiverso Dc. Quanto più labile si è fatta la comunicazione all'interno del partito, quanto più sorda si è andata facendo la dialettica interna, tanto più la Dc ha scaricato all' esterno, nella società e nel sistema politico, una cifra impressionante di dispotismo. Mi, così, si è irrigidita sempre di più. Più si è irrigidita e più ha irrigidito il sistema politico-istituzionale di cui era il perno, lavorando, così, al suo declino. Più ha avvertito istintivamente e inconsciamente tale declino e più si è arrovescia in vuote e integralistiche pratiche di potere, smarrendo progressivamente quei tratti di modernità che pure con De Gasperi aveva saputo conquistarsi e difendere. È un circolo vizioso: come il cane che si morde la coda. I referendum contro il divorzio e l'aborto, negli anni Settanta, costituiscono un paradigma e, insieme, un inquietante punto di arrivo, di cui la classe dirigente del partito non riesce ad assumere la necessaria consapevolezza.

È opportuno insistere meglio su questo vizio di fondo della Dc. La rigidità fisiologica della struttura e della linea politica della Dc è ben colta da un'eminente e prestigiosa personalità del conservatorismo moderato, V. E. Orlando, fiero disistimatore di De Gasperi. In una lettera a Borgese dell'agosto del 1950, Orlando ha modo di scrivere: "il totalitarismo settario democristiano gareggia con quello comunistico, anche nel senso di non aiutare gli avversari. Insomma, o con loro o contro di loro". E qui Orlando, con un sol dito, rimesta due ferite: l'estrema ideologizza-zione della contrapposizione reciproca tra Dc e Pci e il loro spirito egemonico nei confronti di alleati e avversari. Il "totalitarismo settario" della Dc è il prodotto della debolezza del sistema politico italiano. O meglio: il sistema politico repubblicano nasce debole, poiché è il risultato di un compromesso politico tra le forze eterogenee che lo compongono, più che il frutto di un'opera di costruzione coerente e chiara. Da qui la forza della centralità democristiana, insieme, ago della bilancia e determinazione fondante. Il compromesso politico si assesta ai suoi livelli più bassi in relazione alla questione dello Stato. Qui l'impegno è duplice: superare sia il modello dello Stato liberale che quello dello Stato fascista. Accanto a questi due vincoli interni se ne affianca uno di natura esterna: superare la turbativa e la pressione della Chiesa, tendente a costituire in Italia uno Stato cattolico forte, sulla falsariga di quello spagnolo del tempo, purgandolo delle sue più evidenti distorsioni e aggiungendo correttivi e perfezionamenti.

L'ottica politica della concezione vaticana dello Stato è bene espressa da alcune affermazioni di padre Oddone e padre Messineo, certamente le personalità più in vista che, a quel tempo, dirigevano la politica dì "Civiltà Cattolica". Padre Oddone, su la "Civiltà Cattolica" del 6/3/1948, alla vigilia delle elezioni che si risolveranno nel trionfo della Dc, osserva: "nella presente situazione italiana il problema dell'autorità riveste un carattere di speciale gravità. Il suo scadimento condurebbe la nazione al disordine, alla servitù, alla decadenza ... poiché se si bandisce Dio dalla società in modo che la norma dell'ob-bligazione morale di ogni legge non sia più in Dio, ma nell'uomo ... resta soppressa ogni vera ragione di comando da una parte e di ubbidienza dall'altra ... il popolo si burla di Dio e delle sanzioni della sua legge, si burlerà molto di più della coscienza del dovere e dell' onore". Padre Messineo, per parte sua, a commento del risultato elettorale del 18 aprile 1948, su la "Civiltà Cattolica" del 7/8/1948 precisava che gli elettori hanno conferito un mandato "di politica forte e decisa", consistente "nella consegna di contenere entro le dighe dell'ordine e della legge le correnti sovversive, togliendo ad esse l'op-portunità e la possibilità di nuocere agli interessi generali della collettività e al bene comune, con quella politica agitatoria e spregiudicata, quella propaganda di odio tra le classi e quell'infida organizzazione della vio-lenza". Il sistema collettivistico di tipo sovietico, così come quello parlamentare di tipo anglosassone, viene duramente confutato. Per il Vaticano, erano in gioco due questioni estremamente delicate: (i) quella della rappresentanza politica e della cittadinanza; (ii) quella della rap-presentanza dei cattolici. Nel primo caso, si perseguiva un modello di rapporto politico con la cittadinanza incentrato su uno Stato confessionale forte, i cui valori fondativi erano costituiti da Dio, ordine e sicurezza. Nel secondo, si intendeva strappare alla Dc il monopolio della rappresentanza politica del mondo cattolico. I lavori della Costituente e il patto costituzio-nale del '48 contrastano ambedue questi obbiettivi. Tuttavia, nella Costituzione vengono recepiti anche valori confessionali e moduli autoritativi incardinati su un modello di ordine teocratico: si pensi, p. es., alla istituzionalizzazione della religione cattolica quale "religione di Stato" e alla coniugazione, spesso presente, del tema della libertà in termini di ordine. Certamente, si può dire che il Vaticano sui punti in questione non abbia vinto. Ma, per la Dc, allora come sempre, il dissidio si è risolto facendo blocco e, insieme, accettando dalle linee del Vaticano alcuni condizionamenti di fondo. Anche la Dc, in un certo qual modo, si è resa protagonista di una specie di "politica del doppio binario". Conventio ad excludendum e scomunica dei comunisti sono l'una il braccio secolare e l'altra il braccio religioso di una politica che ha, al fondo, essenziali punti di convergenza.

Nel tornante che va dal centrismo degasperiano a quello fanfaniano la Dc approfondisce il processo di autonomizzazione dal Vaticano e dalla teocrazia della dottrina dello Stato del papato di Pio XII. Tale processo avviene sul terreno delle competenze e funzioni dello Stato. La forma e lo sviluppo morfogenetico dello Stato acquisiscono proprio in questo periodo una spiccata impronta democristiana. Nel possesso delle funzioni politiche e organizzativi della gestione dello Stato la Dc fonda la propria forza. La dottrina sociale di ispirazione cattolica rimane un punto di riferimento ideologico e una leva per azionare e mantenere unita la sua base sociale. Ma è cimentandosi con gli specifici problemi del "politico" che la Dc afferma la sua identità politica e meglio afferra le leve del potere. Punto debole del centrismo degasperiano era stato uno Stato relativamente giovane, non ancora ben delineato nelle sue strutture portanti e nel suo funzionamento. Limite, del resto, implicato e imposto dalle condizioni storiche: uno Stato appena in formazione, nella forma repubblicana, non può avere una sagomatura e delle articolazioni ben precise. Non è, dunque, ideologico il limite del centrismo degasperiano; bensì storico-politico. Con la segreteria di Fanfani, la Dc prolunga per l'appunto le funzioni politiche dello Stato in formazione: da centro della formazione del capitale a Stato imprenditore, oltre la modellistica em-brionale dell'esperienza fascista, che interviene in proprio nell'accu-mulazione capitalistica, gestendo direttamente il processo di produzione e di realizzazione del plusvalore. A misura in cui lo Stato si fa impren-ditore, la Dc cerca di compenetrarsi nello Stato e costruisce una rete di poteri assai complessa e ben articolata nella società politica e nella società civile, erigendo un meccanismo di protezioni concatenate a favore delle sue funzioni di comando e della sua autonomia. Questo disegno strategico caratterizza la segreteria Fanfani e i successivi ministeri dall'uomo politico toscano guidati. Qui uno scarto a confronto della posizione di De Gasperi; ma non, certo, un ribaltamento. È impensabile la trasformazione delle strutture statuali che si accompagna alla leadership di Fanfani, senza l’azione di modellamento politico esercitato dalle strategie e dalle politiche di De Gasperi.

Se così stan le cose, è il monocolore Zoli a segnare il passaggio tra le due forme di centrismo. I fatti sono noti. Zoli, a cui Gronchi aveva affidato l'incarico di formare il nuovo governo, presentandosi il 4 giugno 1957 alle camere, ottiene una maggioranza di centrodestra Dc/Msi/Pnrni. Dà le dimissioni, le quali non vengono accettate da Gronchi. Ripresentatosi alle camere, Zoli ottiene nuovamente la stessa maggioranza; e questa volta non si dimette. Ma, in questo modo, il monocolore Zoli dimostra a tuta la Dc e al Vaticano medesimo che non ci sono più spazi effettivi per manovre a destra. In particolare, dimostra alla Dc che la sua manovra politica non può essere libera, se non si emancipa del tutto dal pro-tettorato politico del Vaticano. Ma avere più autonomia significa avere più potere: vale a dire, costruire uno Stato le cui istituzioni e i cui apparati fossero in buona misura controllati dalla Dc. Stabilite queste condizioni, si poteva ricominciare a parlare di apertura a sinistra al Psi, come in quegli anni andava già insistentemente ipotizzando la sinistra del partito. La leadership Fanfani dà particolare vigore alla presenza dell'Iri nell' econoniia italiana, praticamente rifondandola; fa dell'Eni di Mattei una piattaforma nevralgica di potere economico e politico; struttura il sistema delle partecipazioni statali come articolazione decisiva del sistema eco-nomico, produttivo e finanziario italiano. Nella forma di Stato impren-ditore, lo Stato italiano comincia, ben presto, a competere con le grandi multinazionali, non soltanto sul mercato nazionale, ma sull'intera arena internazionale.

Punti di transito della strategia fanfaniana sono: (i) il Vll congresso della Dc (Trento, ottobre 1956), in cui Fanfani media tra tutte le componenti del partito e tra il partito e il Vaticano, per sospingere in avanti la ricucita compattezza del partito verso una nuova fase della costruzione dello Stato e dello sviluppo economico, nonché delle alleanze politiche; (ii) il Consiglio Nìzionale di Vallombrosa (luglio 1957), in cui le sinistre interne del partito — Forze sociali e Base — entrano in direzione. In questa fase politica nasce quello sviluppo economico per Enti che caratterizza lo specifico del capitalismo italiano. L'ammìnistrati-vizzazione della decisione politica, attraverso la costituzione degli Enti, connota la specificità del sistema politico italiano.

La specificità della forma Stato repubblicana va indagata proprio a partire dal disvelarnento del nesso precipuo e innovatone che si va istituendo tra il campo politico e lo spazio dell'amministrazione. L'ammi-nistrazione per Enti è stata la polarità su cui in Italia si è ricostruito e rifunzionalizzato il complicato rapporto tra ceto politico di governo e casta burocratico-amministrativa. Tale fenomenologia ha particolarmente inciso sull'allocazione dei poteri dì indirizzo e di governo: i casi dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno e dell'industrializzazione per poli sono soltanto tessere di questo mosaico. Per la prima volta, in un paese non caratterizzato da un'economia di tipo collettivista, si è creata una borghesia di Stato. E la crisi della borghesia di Stato ha, sotto molti aspetti, anticipato e accompagnato la crisi della Dc. Le "amministrazioni parallele" e il "potere degli enti" sono nati su questa base.

Il sistema degli Enti, in tal modo creato, altro non ha espresso, se non la necessità di controllo da parte del sistema politico per il tramite di una riarticolazione dei poteri — non ultimo quello dì nomina —, onde creare un'omogeneità strutturale tra classe politica e dirigenza burocratico-amministrativa. Intorno al rapporto tra 'politico' e amministrazione che qui si va delineando preme mettere in luce l'inversione del procedimento di forma-zione dell'indirizzo. Il campo di azione degli Enti, da straordinario, tende a divenire normale: così è per il Sud, così per la ristrutturazione e riconversione industriale. L'indirizzo politico viene elaborato dall'organo amministrativo di settore e da qui è richiesta una ratifica formale all'organo di indirizzo. Il ministero interviene a monte, attraverso il potere di nomina, con il quale si garantisce preventivamente dell'indirizzo. È per questo motivo preciso che l'indirizzo ha soltanto un bisogno formale di ritornare al ministero che l'ha "nominato". Gli interventi solo nella forma sono straordinari; nella sostanza hanno un carattere di normalità. È vero: questo processo ha sbrindellato sul nascere ogni idea e ogni prassi di programmazione, come ben sperimenterà il futuro centrosinistra. Ma è altrettanto vero che, in questo modo, della programmazione non solo si è voluto, ma si è anche potuto fare a meno: dal vizio alla virtù, per dir così. L'emergenza degli anni Settanta e Ottanta alligna su un terreno fertile di interventi straordinari normalizzati che dipartono proprio da questo declivio storico.

Però, il segnalato rapporto di inversione tra organo di nomina e organo di indirizzo, ben lungi dal segnare la dominanza dell'amministra-tivo sul 'politico', esprime il tentativo funzionale di aprire un processo di ammodernamento funzionale, politicamente controllato, dell'amministra-zione, sgravando il 'politico' di una serie di funzioni e competenze che, sovraccaricandolo, ne irrigidivano e compromettevano il rendimento. Anni dopo, su questo terreno, La Malfa e l'area socialista che più aveva sposato le sorti della programmazione tenteranno di incrinare la com-pattezza e I’organicità del sistema eretto dalla Dc. Ma, come puntual-mente ricorda Stefano Merlini: "a riprova del fatto che la costituzione materiale non consentiva modificazioni significative, la legge n. 48 del 1967, ed i successivi decreti delegati, se concedevano ai riformatori qualche organo restaurato, ribadivano, però, il principio cardine della feudalizzazione ministeriale, riservando ai ministri di settore l'indirizzo controllo e le nomine delle rispettive "amministrazione parallele": dalle industrie a partecipazione statale, dal credito all'agricoltura e così via" . Tutto ciò è foriero di nuove forme di clientelismo e trasformismo nella gestione del potere; ma nuove, per l'appunto.

Fanfani porta a compimento ciò che De Gasperi aveva iniziato. Il Vaticano, suo malgrado, concede una delega per la direzione politica del governo e del paese. Certo, non è una delega in bianco e non è esente da pressanti condizionamenti. Ma adesso la Dc è riconosciuta baricentro politico del mondo cattolico. La Dc, per parte sua, delega al Vaticano il primato spirituale, pedagogico e religioso. È una sorta di divisione dei compiti e di spartizione dei ruoli. Diversamente da De Gasperi, però, Fanfani si rivelerà molto più vulnerabile alla sirena del fascino dei miti e dei teoremi della pace, dell'ordine e della rnoralità ispirati dalla teocrazia vaticana. Così, ricorrentemente, di concerto col Vaticano e con gli ambienti clerico-moderati più oltranzisti, si lancerà in campagne autoritarie e normalizzatrici. In questi periodi e dentro queste campagne, la Dc ha conosciuto i suoi momenti più critici e le sue crisi più laceranti: la sua identità è parsa perico-losamente alla deriva e la sua tenuta è stata messa rischiosamente alla prova. Nella crisi che principia col 1974-76, dopo due referen-dum duramente perduti, queste fenomenologie critiche toccano il loro punto di tensione più alto. È nei periodi di crisi che, ancora di più, la Dc pare risospinta all'indietro, cercando di dissolvere le sue radici laiche a vantaggio di quelle cattoliche. Ed è qui che il suo originario totalitarismo settario, così lucidamente avvertito da V. E. Orlando, viene prepotentemente alla luce. Ma negli anni Settanta, a differenza dei Cinquanta, si trova ad avere accumulato una quantità impressio-nante di potere che, in molti casi, ha dilapidato e l'ha dilapidata e logorata; nonostante le protezioni simboliche che promanano da uno dei più celebri teoremi prodotti in casa Dc.

2.

Il centrosinistra e il problema delle riforme

Convenzionalmente, le ragioni costitutive del centrosinistra sono state ricondotte alla necessità che il sistema politico in quel periodo aveva di elaborare e attuare un "programma di riforme". Così rappresentandolo come lo sbocco naturale del centrismo di Fanfani e, a un tempo, l'esigenza suprema della società italiana. Da questo lato, il centrosinistra è interpretato e interpretabile come proiezione, riaggiustamento e razionalizzazione del sistema politico eretto attorno al centro di gravità rappresentato dalla Democrazia cristiana. Stando le cose in questo modo, tutti i giudizi possibili sul centrosinistra — sia quelli positivi che quelli negativi — si sdoppiano. Il giudizio positivo recita: il centrosinistra non può ritenersi un'esperienza fallita, poiché è stata una parziale tappa per l'allargamento della base sociale della democrazia in Italia. Il giudizio negativo sostiene: non si può parlare di fallimento del centrosinistra, in quanto strutturalmente espressione di quel sistema di potere eretto dalla Dc e, dunque, a esso funzionale e organico. Entrambi i giudizi, per quanto solcati da indubbi elementi di verità, paiono largamente insod-disfacenti e ambedue, curiosamente, convergenti su di un punto cruciale. Questo: il centrosinistra ha esattamente fatto quello per il quale era nato, che doveva e poteva fare. Salvo, poi, divergere nel giudizio di valore su tale operato. Si tratta, pertanto, di ricercare una più articolata chiave di lettura. Limitiamoci qui alle impostazioni della Sinistra.

Non sembra legittimo far risalire le ragioni del fallimento del centrosi-nistra all'arretratezza del capitalismo monopolistico italiano e della bor-ghesia; oppure alla omogeneità del blocco di potere conservatore che lo dirigeva. In proposito, il giudizio di Salvati è emblematico: "Parlare oggi di fallimento del centrosinistra (intendendo con questo il fallimento del riformismo "democratico" non ha senso". Eguale giudizio danno Diego Gambetta e Luca Ricolfi. Ma quali riforme il centrosinistra non poteva fare?; e quali, invece, ha fatto? Occorre introdurre una serie di distinzioni più puntuali e leggere in maniera meglio articolata il nesso riforme/riformi-srno e lo stesso concetto di riforrnisrno. Nell'un caso come nell'altro, rifor-me e riformismo non possono essere interpretati secondo i canoni erme-neutici del movimento operaio e della Sinistra, più in generale. Il fatto è che il centrosinistra ha "riformato" il sistema politico e quello economico della società italiana, pur in assenza di una cultura e di una prassi riforrnisticamente etichettabili di sinistra. Senza dubbio, più convincenti, sul punto, appaiono le tesi di Norberto Bobbio che argomenta di "riforme senza riformismo". Tanto la Dc che la Sinistra arrivano all'appunta-mento col centrosinistra profondamente divise al loro interno: nel Psi, addirittura, il centrosinistra sarà motivo di una scissione. Come profon-damente divisi sulla questione sono il fronte imprenditoriale e il mondo cattolico.

Il centrosinistra non ha mai avuto un programma seriamente riformatore: in questo senso, è vero che la sua azione non può essere assimilata come riforrnismo. Nondirneno, molteplici sono stati gli spostamento e le trasformazioni in avanti determinati nel sistema politico e nella società civile: in questo senso, ha avuto le sue riforme. Il dilemma non è superabile, se si rimane ancorati all'ermeneutica politica con cui la Sinistra si è approcciata, in Italia, al problema riforme. Da qui si riparte, tentando alcuni preliminari ricognitivi.

La sistemazione teorica più congrua del problema è stata fornita da Claudio Napoleoni. Secondo Napoleoni, il concetto riforme è, così, strutturato e articolato:

(i) le riforme finali: costituiscono "l'elemento orientante del processo accumulativo. Quest'ultimo, in tale visione, non soltanto non è concepito come presupposto delle riforme, ma è, anzi, da esso orientato verso scopi determinati, che l'accumulazione capitalistica, dal suo interno, non riuscirebbe ad esprimere. Rispetto al finanziamento, queste riforme sarebbero autofinanziantisi, nel seguente senso: a parte l'inizio, durante il quale si porrebbero problemi particolari di avviamento, quando questa politica di riforme si fosse affermata, le riforme finali, per la loro stessa natura, sostituirebbero forme di consumo sociale al consumo privato; ciò darebbe luogo, pur in presenza di maggiori livelli di soddisfazione di consumi, a costi minori per il consumo stesso, con conseguente formazione addizionale di risorse, e quindi di possibilità addizionali di finanziamento";

(ii) le riforme correttive: "presuppongono il processo accumulativo, sia nel senso che esse si proporrebbero di affrontare problemi che appunto all'intemo di quel processo si determinano, sia, conseguen-zialmente, nel senso che il loro funzionamento utilizza risorse che il processo accumulativo forma al proprio interno: si tratterebbe, in altri termini, di modificare, per quanto riguarda certi determinati settori, la destinazione di quelle risorse produttive che si formano all'interno di un meccanismo economico, il quale, peraltro, è sostanzialmente indipendente dall'attuazione delle riforme stesse";

(iii) le riforme grano: "hanno lo scopo di abbassare il valore della forza-lavoro mediante una "razionalizzazione" di determinati consumi, accettando, a questo fine, anche una riduzione di certe posizioni di rendita. L'idea che sta alla base di questa proposta, è quella di evi-tare che certi costi sociali si trasformino, come si dice, in costi privati, cioè in un aumento del valore della forza-lavoro per il capitale".

Le asserzioni sono talmente chiare che non abbisognano di alcuna esplicazione. Si può soltanto aggiungere che le riforme di struttura, concettualizzate da Togliatti, in quanto presuppongono il sistema di acculumazione dato e, nel contempo, ne intendono modificare profon-damente l'architettura economica, orientandola verso un diverso modello, sono situabili in una posizione intermedia tra le "riforme correttive" e le "riforme finali".

Comune a tutti i modelli qui messi a fuoco è quel presupposto che vuole le riforme come elemento di orientamento della strategia politica: sia che si tratti di un mutamento pro-sistema, sia che si tratti di un cambiamento anti-sistema. In ambedue i casi, le riforme vengono poste come necessità imposta al sistema; più che essere configurate come scelta decisa dal sistema in piena autonomia. Ciò facilita una notevole vischiosità semantica in uno con una forte indeterminazione politica. Scompare completamente il vecchio scenario antinomico: "Riforma o Rivoluzione?", tanto bene disegnato da Rosa Luxemburg nella sua polemica di inizio secolo contro Bernstein. A misura in cui, a partire da Bernstein e da Kautsky, nel marxismo occidentale la "Rivoluzione" viene positivizzata nei termini della "Riforma", diventa ancora più difficile di-scernere quale delle parti in causa è veramente riformista e/o rivolu-zionaria: l'azione espansiva del capitale oppure quella del socialismo? L'ambiguità è presente nello stesso Marx, nel quale trova una soluzione storico-politica e non già epistemologico-teorica. In lui, la "missione civilizzatrice" del capitale (e, dunque, "rivoluzionaria") coincide con le fasi storiche in cui il rapporto di produzione capitalistico riesce a funzionare quale motore di sviluppo delle forze produttive sociali.

Ora, le varianti introdotte dalla dottrina revisionista e dall'ortodossia centrista, già a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento e dai primi del Novecento, sono sia di natura storico-politica che teorico-epistemologica. Per quanto concerne l'aspetto storico e politico, si intercala la democrazia come forma politica capace di approssimare il passaggio dal capitalismo al socialismo. Per quanto attiene, invece, le implicanze epistemologiche e teoriche, vengono sposati in pieno i paradigmi positivisti ed evoluzionisti dell'epoca. La dicotomia Riforrna/Rivoluzione è rotta per un effetto di eclissi che oscura il paesaggio storico e teorico: la Rivoluzione è sot-toposta a eclissi dal pianeta Riforma. In campo rivoluzionario avviene esattamente il contrario; almeno negli enunciati politici e nel coordinato strategico, perché la costruzione del socialismo in Urss, perlomeno a far data dalla Nep, attiva un ampio ciclo riformistico di sviluppo del capitale. Sulla scia delle indicazioni dell'ideologia sovietica, incardinata sul "Bolscevismo" come categoria ideologica, nella Il e III Internazionale si consumano serie interminabili di scissioni, sulla base della linea di demarcazione ideologica tra Riforma e Rivoluzione.

Ora, l'ermeneutica rigorizzata da Napoleoni ha alle spalle questa doppia eclissi ideologica: della Riforma per opera della Rivoluzione e della Rivoluzione per opera della Riforma. Di questa doppia eclissi Napoleoni sposa la seconda. D'altronde, lo stesso Pci procede nella stessa direttrice di marcia, ma con minore coerenza intellettuale e politica. Le riforme di struttura, tanto con riferimento al paradigma riformista che a quello rivoluzionario, sono una via di mezzo. In altri termini, il Pci non riesce ad essere né un partito riformista, né un partito rivoluzionario.

Limite di fondo di tutte queste enunciazioni è quello di non indagare il nesso Riforma/Rivoluzione nel suo atto costitutivo originario, situato nell'intreccio tra Illuminismo e Rivoluzione francese, dal cui crogiolo nascono la Sinistra e l'idea della Sinistra. In tale crogiolo, come osserva Koselleck: "In considerazione della tendenza rivoluzionaria ormai sca-tenata, cominciarono a convergere, a tratti, il concetto di riforma e quello di rivoluzione: convergenza di cui si abusava spesso nella polemica politica, ma il cui nucleo oggettivo era contenuto in una generale coazione a pianificare socialmente il futuro". Siffatta convergenza tematica e semantica non è da intendersi come scioglimento di un termine nell'altro e nemmeno come compensazione materiale dei difetti dell'una con le virtù dell'altra. Più in concreto: se il programma riformistico del centrosinistra viene letto come compensazione delle distorsioni e degli squilibri del sistema capitalistico, in particolare ereditati dagli anni Cinquanta, si assiste alla messa in opera del pregiudiziale ancoraggio politico al modello declinato dalle riforme correttive, senza le appropriata verifiche teoriche, storiche ed empiriche. Né, d'altro canto, l'ipotesi rivoluzionaria può essere inquadrata nei termini della compensazione globale dell'accumulazione capitalistica, inclinando, così, verso il modello delle riforme finali. Questo è il riferimento di L. Magri: "il riformismo del centrosinistra cercava di rispondere alla domanda: come indirizzare in modo socialmente utile le risorse che l'espansione economica ci mette a disposizione?... Oggi il nuovo riformismo cerca di rispondere al quesito inverso: quali riforme, quale nuovo programma economico sono necessari per rimettere in moto l'espansione inceppata?". Su questo intreccio di nodi teorici e storici, come correttamente riassumono Gambetta e Ricolfi, nasce il paradigma riformistico del "nuovo modello di sviluppo".

Ma torniamo al centrosinistra. Degna del massimo rispetto è la celebre autocritica di Giorgio Ruffolo. Tre gli ordini della considerazione autocritica di Ruffolo. Il centrosinistra, per Ruffolo, fu dall'interno minato: (i) dalla presenza nella coalizione governativa di un blocco sociale an-tiriformistico: (ii) dall'opera di condizionamento e freno svolta dalla politica dei due tempi: prima l'espansione e dopo le riforme; (iii) dalla esiguità della base sociale rappresentata nella "politica delle riforme" e dalla sta-gnazione economico-politica della fase 1964-68.

Sentiamo direttamente Ruffolo: "Oggi possiamo, a distanza suffi-ciente di anni, valutare in tutta la sua importanza la svolta del 1964. Tra l'inizio e la fine dell'anno i tre fronti principali del blocco dominante —industria, burocrazia, e ceti intermedi — mossero un'offensiva terroristica che giunse fino alle "trame di vertice". Il centrosinistra non ne fu travolto; ma alla fine di quella offensiva aveva perduto gran parte della sua carica innovatrice". Ancora: "Il blocco di potere formatosi e consolidatosi durante gli anni facili si è notevolmente irrigidito e appesantito durante la fase di ibernazione del sistema (19641968). Durante questa fase, il ristagno degli investimenti produttivi e l'incapacità di promuovere le necessarie riforme sociali hanno determinato una rilevante estensione di due delle funzioni tradizionali dello Stato: quello di sostegno passivo dell'industria e quella di gestore diretto del sottosviluppo. Corrisponden-temente all'estensíone di queste due funzioni si è ampliata la zona del parassitismo".

Interessanti, sul punto, alcune osservazioni di Gambetta e Ricolfi: "Quel che occorre chiedersi non è perché la Dc non abbia voluto fare le riforme, nè perché, più in generale, il programma di centrosinistra sia "fallíto", ma semrnai perché il Psi abbia collaborato organicamente ad una politica i cui termini erano diventati già sufficientemente chiari nel '’64". Ancora riferendosi apertamente alla autocritica di Ruffolo: "Questa analisi presenta un grande interesse. Da una parte, infatti, il centro-sinistra non viene colto più in modo statico attraverso le resistenze del blocco democristiano all'impatto della base sociale rappresentata dal Psi. Il centrosinistra viene colto invece attraverso il blocco sociale che la sua stessa azione viene aggregandogli intorno. In questo modo l'impos-sibilità delle riforme cessa di rappresentarsi, come una pura eredità del passato per diventare piuttosto un prodotto dell'azione di governo. Si innesta così un feed-back positivo fra politica del centro-sinistra, siste-maticamente orientata all'estensione dell'area del parassistismo, e difficoltà del processo riformistico, legate proprio a tale estensione. L'altro motivo di interesse risiede nel legame istituito tra la crisi del riformismo e modello di sviluppo, o meglio fra il processo di formazione del blocco improduttivo e gli orientamenti della politica industriale".

Ma passiamo di nuovo a Ruffolo: "Occorre onestamente ammettere che la "filosofla" della grande impresa e dei grandi investimenti ha fortemente influenzato le impostazioni della programmazione, soprattutto nella sua prima fase. Quando sono diventati sempre più evidenti l'irra-zionalità e lo spreco connessi con le politiche di incentivazione nel mezzogiorno e si è dovuto constatare la forza delle resistenze da parte di quegli interessi che con tale politica sono ormai saldamente intrecciati". Ne consegue che, per Ruffolo: "soltanto una nuova alleanza di forze sociali può dare ad un governo ríformatore la forza necessaria per operare trasformazioni così profonde. E qui si raggiunge veramente il nodo delle riforme che è nodo politico". Il vecchio contesto riformatore del centrosìnistra appare a Ruffolo schiantarsi contro il blocco di potere preesistente: "Questi disegni riformistici, pur muovendo da posizioni diverse e lontane, postulano tutti una trasformazione del sistema di alleanze e di potere che si è intanto stabilito. Ma di fronte alla reazione del blocco di potere al nuovo corso politico del centro-sinistra, le "convergenze parallele" si sfaldano ben presto. Quella reazione è aperta e violenta. L'industria capitalistica rifiuta la sfida manageriale che pro-viene dalle imprese pubbliche (la morte di Enrico Mattei è l'emblematico segno della chiusura di un'esperienza di rinnovamento tecnico e culturale della dirigenza industriale italiana) e contesta aspramente, in termini ideologici, la programmazione. Le istituzioni dello Stato e l'alta burocrazia rifiutano anch'esse sia le istanze del rinnovatnento tecnocratico (il rabbioso episodio del processo Ippoliti) sia quelle alla democratizzazione, al decentramento regionale e amministrativo; e reagiscono con opaca passività al tentativo di tradurre il disegno della programmazione in effettivo sistema di coordinamento delle decisioni. E infine, il già allora vasto mondo dei ceti medi terziari più o meno toccati dal miracolo, reagisce emotivamente ad una politica che minaccia privatismo e consumismo, attraverso riforme di ispirazione "collettivistica'"".

Qualche anno dopo, Salvati esprime valutazioni analoghe: "Una politica di riforme non può essere fatta se non da un nuovo blocco di potere, che non sia costretto ad una defatigante contrattazione con i responsabili dell'attuale rovina, che elimini gli enti inutili e spazzi via il personale democristiano da quelli utili, che riformi radicalmente la pubblica amministrazione, che faccia pagare le tasse ai ricchi, che persegua, insomma, un indirizzo di politica economica coerente, non legato al rispetto dei programmi clientelari... Oggi una linea di riforma non può che passare attraverso la rottura del blocco dominante: dopo trent'anni di malgoverno democristiano necessariamente sarà un fatto traumatico, rivoluzionario nel senso che non potrà avvenire se non in situazione di entusiasmo collettivo e di grande mobilitazione popolare. Un ingresso graduale, perché graduato dal blocco di potere democristiano, nell'area di governo non può invece non significare una diluizione estrema degli impulsi riformatori che il sistema riceverebbe".

Per concludere la ricognizione, non rimane che registrare un'ultima obiezione a Ruffolo mossa da Gambetta e Ricolfi: non ha senso "individuare nella "reazione aperta e violenta" del blocco di potere democristiano al "nuovo corso politico" l'elemento principale di debolezza del progetto riformista. È anzi proprio la fragilità, la progressiva disgre-gazione del vecchio tipo di potere, centrato sui ceti precapitalistici, sui settori arretrati colpiti dal processo di modernizzazione che spinge alla formazione del centro-sinistra. Per la Dc la nuova formula non rappresenta affatto un'apertura verso il movimento, un rovesciamento del proprio sistema di alleanze, quanto un tentativo di allargarlo verso i nuovi settori di ceto medio, arrestando così, insieme, il ridimensio-namento della propria base sociale e il processo di polarizzazione che ne è all'origine. … Ma questo significa che il centro-sinistra — tutto il centrosinistra e non solo la Dc — ha prodotto i propri "vincoli". Gli "ostacoli" al processo riformistico non sono semplici eredità del passato, ma prodotti dell'azione di governo, e il Psi non è un Don Chisciotte che lotta contro il mulino a vento democristiano, ma un elemento attivo di tale azione".

Tutte le tesi passate in rassegna trovano innegabili elementi di riscontro nella realtà. Tuttavia, a ognuna sembra far difetto una matura contestualizzazione del quadro di insieme, tanto sul piano teorico che su quello storico.

Sul terreno dell'indagine storica ciò che sorprende è la non adeguata attenzione rivolta ai fattori di novità introdotti dal centrismo degli anni Cinquanta nel sistema politico, nella forma di Stato e nella base sociale della Dc. Degli anni Cinquanta si legge soltanto la faccia anacronistico-parassitaria e non anche quella modernizzante e innovatrice. Tra le due, è proprio quest'ultima che più si oppone a un rigoroso programma di riforme. È il blocco di potere moderno (dentro cui dal 1964 rimane invischiato lo stesso Psi fino alla segretería Craxi che, attraverso un ribaltamento di linea, pone il Psi in competizione politica e strategica con la Dc) che più si oppone a un rigoroso programma riformistico. È il blocco di potere moderno, non quello parassitario, la controtendenza più forte sul piano delle riforme radicali. In questo blocco, seppur contraddittoriamente, entra lo stesso Psi. È la progettualità politica del centrosinistra a essere anti-riformista. È il programma del centrosinistra a non essere e a non poter essere riformatore. Siffatto programma coniuga il tentativo di parte statuale, imperniato sulla Dc, di imputare nelle sue mani la leva politica della Riforma. La Riforma viene consegnata in mano alle funzioni politiche e di organizzazione della gestione dello Stato. Ciò depotenzia e rende periferiche tutte le diatribe intorno alla primarietà delle riforme rispetto all'espansione economica o viceversa. È la centralità dello Stato, in questo disegno, che assume padronanza della Riforma: questo il nodo di fondo che rimane inesplorato e inattaccato. Attraverso il possesso della Riforma, lo Stato fa uso del sistema dei partiti concentrato e rappresentato nel centrosinistra, tentando di abbassarlo a un suo sottosistema. Così, l'impero politico della Dc si espande e la sua interferenza nel sociale si allarga.

Il movimento delle istituzioni imperniato su questo sistema si divarica, nella massima misura possibile, dal movimento delle riforme, proprio assoggettandolo alla sua sfrenata volontà di tirannide: le riforme vere proposte o agite vengono espulse e rigettate senza esitazioni. Del resto, non è, questa, una tendenza nuova, affondando le sue radici nell'elabo-razione e nella messa in pratica dell'Encyclopedie (1751), come acutamente messo in evidenza da Gloria Regonini. Il centrosinistra va, dunque, letto come espansione ed estremo e coerente sviluppo dei mo-delli economici, politici e sociali più modemi messi in campo durante gli anni Cinquanta, rispetto ai quali introduce alcuni necessari mutamenti di forma. L'equivoco del Psi sta nell'averlo pensato come leva scardinante delle autoreferenzialità economiche, politiche, statuali e ideologiche che il sistema si era dato nel decennio precedente. L'equivoco del Pci — e di gran parte della sinistra rivoluzionaria — sta nell'averlo ritenuto un mero ricalco delle forme di potere su cui si era costituita la repubblica, tra fine anni Quaranta e inizio anni Cinquanta.

Il centrosinistra rappresenta il tentativo di superare e spiazzare dall'alto ogni ipotesi di "riformismo socialista", annettendosi le forze della Sinistra rappresentate e collegate al Psi. In tal senso, il centrosinistra è una trappola per il Psi. Eppure, il Psi doveva prendervi parte. Il torto del Psi, piuttosto, pare quello di non esserne uscito nel 1964, come indi-viduato con acume da Gambetta e Ricolfi. In tal modo, le aperture dal Psi introdotte nel sistema politico e nella società, con la partecipazione al centrosinistra, si sarebbero prolungate e approfondite. La ricerca di "equilibri più avanzati" si sarebbe, con ciò, dotata di una asse pragmatico e di una prospettiva esperibile, in aperta contestazione sia dell'autorità universalistica della Dc (al centro) che di quella del Pci (a sinistra). Ma, invece, il centrosinistra, ormai in chiara fase di collasso, affronta il biennio 1968-69 con un sistema di condotte irrigidito in maniera impressionante.

Per contro, il disegno democristiano di fagocitare letteralmente entro il suo quadro di compatibilità e utilità la risorsa socialista conosce un profondo smacco, nonostante il Psi si subordini a parecchi degli ordina-menti strategici della Dc. Le ragioni di questo smacco sono da ricercarsi nella nuova struttura sociale del paese e nell'assottigliarsi, al suo cospetto, del potenziale di egemonia e di comando della Dc. La Dc fallisce dove negli anni Cinquanta era riuscita con De Gasperi e Fanfani: lo statalismo industriale e la costruzione del partito di governo, le am-ministrazioni parallele e il potere per Enti rappresentano la carta vincente su cui la Dc aveva costruito la sua politica di autonomia e di egemonia. Tali requisiti non sono più sufficienti in una società in rapida trasformazione come quell'italiana dell'epoca. Il policentrismo sociale, economico, politico e ideologico, che di lì a qualche anno esploderà nel biennio 1968-69, mette radicalmente in discussione il sistema centra-listico-statalista della rappresentanza politica eretto negli anni Cinquanta. Centralità dello Stato e centralità dell'industria: questi i due cardini su cui la Dc aveva eretto la sua egemonia. E questi presupposti vengono meno nella prima metà degli anni Sessanta. Il centrosinistra entra in crisi e salta sul piano delle strategie politiche, perché saltano la centralità dello Stato e la centralità dell'industria; perché saltano le discriminanti della produzione di beni di consumo durevoli. Sull'insieme di queste variabili fondamentali il capitalismo pubblico e privato, assieme alla Dc, avevano puntato tutte le loro carte.

Questa processualità storica non viene identificata dalla Sinistra. Così, la conseguente crisi della Dc e del suo sistema di egemonie non viene colta e impiegata come occasione di un rinnovamento critico e coerente del sistema politico-istituzionale e dei paradigmi dello sviluppo economico-sociale. La crisi della Dc e delle variabili fondamentali del sistema intrecciato della sua autorità e della sua egemonia viene scam-biata come crisi generale del sistema politico e della società. Un'occa-sione di profonda innovazione e mutazione viene, in questo modo, lasciata andare a vuoto dalla Sinistra. Un fenomeno del genere, se non ancora più denso, si verifica negli anni Settanta con il governo della solidarietà nazionale. La Sinistra, in Italia, ha puntualmente mancato di proporsi organicamente come classe politica di governo e di cambiamento: tutte le volte che la storia le ha offerto questa occasione, l'ha clamorosamente mancata. Anzi, ha cooperato "ciecamente" con le forze che più delle altre dispiegavano letali funzioni di conservazione e sta-bilizzazione autoritativa.

Osservando da vicino la parabola del centrosinistra, non si può non rilevare che è il progetto politico più avanzato della classe politica italiana che si rivela culturalmente superato e storicamente messo in sordina. In questo senso, è vero che il centrosinistra nasce morto. È la sua cultura politica arretrata il vincolo maggiore che lo limita dall'interno. Dopo la recessione del 1963 e la crisi politica del 1964, sopravvive a se stesso, progressivamente slittando verso un'operazione di pura e semplice gestione del potere. Dallo shock degli anni Sessanta e dalla crisi del centrosinistra Dc e sistema politico non si riprenderanno fino a tutti gli anni ‘80. Il blocco del sistema politico italiano, le cui radici sono state seminate negli ultimi scorci degli anni Quaranta, si è coltivato nel corso degli anni Cinquanta ed è esploso negli anni Sessanta. Di questa eruzione il centrosinistra è stato il cratere. Il trauma materiato nel corpo del sistema politico sul finire degli anni Sessanta è stato così forte, tanto che il Sessantotto ha costituito il ricorrente e inquietante motivo di riflessione dell'ultima fase morotea.