CAP. III
GENEALOGIA DELLA CRISI (3):
MODELLI POLITICI
1. Incubazione dei tratti salienti del caso italiano
Partiamo da una iniziale considerazione: la prima caratteristica che connota la situazione italiana è la compresenza nello stesso arco temporale della rivoluzione nazionale e della rivoluzione industriale.
L'Italia, assieme alla Germania, conquista l'unità nazionale in un' epoca relativamente tarda: soltanto nel XIX secolo. I principali paesi europei attorno al processo di formazione dello Stato moderno insediano il processo di costituzione dell'identità nazionale, a cavallo dei secoli XV e XVI.
Al punto che è proprio lo Stato uno dei principali fattori della "ac-cumulazione originaria", della "eversione della feudalità" e della limitazione dello strapotere dei singoli capitalisti nella transizione dalla "cooperazione semplice" alla "grande manifattura", come ha esemplarmente mostrato Marx.
Dalla fase di avvio del capitalismo fino a tutta la prima guerra mondiale, come appropriatamente rilevato da P. Farneti, particolarmente in Francia e in Inghilterra, v'è da registrare una crescente pressione della domanda dello Stato nell'economia: "lo Stato moderno è stato interventista, chiamato sempre più a risolvere le contraddizioni dello sviluppo economico e sociale". Nel caso italiano e tedesco, invece, continua Farneti, "lo Stato diventa l'agente principale di due processi di fondazione fondamentali: quello dell'unificazione-formazione della nazione e quello di industrializzazione-formazione della società industriale".
Nel caso italiano, F. Bonelli coglie una relazione diretta tra costituzione della macchina statuale e avvio dell'ingranaggio dello sviluppo economico. Ciò ha conferito allo Stato una funzione di centro di imputazione e coordinazione dello sviluppo economico, allargando oltremodo, ribadisce Bonelli, la "presenza pubblica nell'economia", la quale "costituisce uno degli elementi centrali della "diversità" dell'Italia dai paesi dell'Occidente capitalistico".
Interessante è la conseguenza che Bonelli inferisce da questa "diversità". Egli fa da qui derivare due transiti decisivi: (i) "l'avvento del regime democratico"; (ii) la "riforma e la modernizzazione delle strutture statuali". Nel primo caso: sussiste la necessità di rispondere istituzionalmente a una richiesta di mediazione quantitativamente più vasta che in passato, visto che, in potenza, "tutti gli strati sociali ne sono interessati" e che, conseguenzialmente, nuovi "centri di rappresentanza" subentrano alle vecchie "oligarchie politiche"; nel secondo: la spinta alla modernizzazione della forma di Stato, altrove avvenuta per il tramite del consolidamento della "dialettica politica", si verifica all'insegna "di una netta separazione tra obiettivi dello sviluppo e finalità di carattere sociale". Si può aggiungere: sono le finalità politico-sociali della sicurezza, della protezione e del controllo che fanno primato sulle esigenze proprie dello sviluppo economico, il quale ri-mane fortemente condizionato dalla dinamica politica dell'intervento pubblico che, toccato l'apogeo, si privatizza in funzione degli interessi più forti; come puntualmente accade nel decennio che va dalla fine degli anni '60 alla fine dei '70.
Nel caso italiano, dunque, ci troviamo di fronte, fin dall'inizio, a un modello di sviluppo politico autocentrato il quale ha modo di manifestarsi particolarmente nella fase costituzionale-repubblicana. Ma sezioniamo alcune sequenze di rilievo.
I fenomeni in base ai quali la rivoluzione industriale altrove succede alla formazione dello Stato moderno di ben due secoli, in Italia non trovano modo di concretarsi. Ritardo della formazione dello Stato moderno e ritardo della rivoluzione industriale convivono. Due processi storici alteri e separati nel tempo si trovano, così, ad insistere nello stesso orizzonte temporale. Ciò fa sì che, in Italia, la rivoluzione industriale sia destinata a divenire uno dei fuochi della formazione e del consolidamento dello Stato moderno, lungo un arco temporale che si distende per più di un secolo tormentato.
Tutti i governi post-unitari di Destra e di Sinistra, fino a quelli caratterizzati dal trasformismo di Depretis e più oltre dal centralismo autoritario di Giolitti, si sono prevalentemente mossi animati da modelli e da logiche da economia rurale, il cui asse politico rimaneva sospeso tra ancien régime e riformismo illuminato del Settecento. Il trasformismo politico, che ha caratterizzato, sul finire dell'Ottocento, lo specifico di molte condotte nazionali, trae da qui la sua linfa. Prima di essere un cattivo costume politico, esso rimarca il mancato superamento da parte della classe politica italiana dei moduli contrapposti dell’ancien régime e del riformismo illuminato.
Lo stesso fenomeno del fascismo, in una qualche misura, è una testimonianza di trasformismo politico. Non tanto e non solo con riferimento al destino di transfuga di Mussolini, che dalle sponde del massimalismo, con una svolta di 180 gradi, perviene all'approdo dello Stato autoritario di massa, quanto per il nucleo politico che lo anima. Primo: dall'autoritarismo illuminato di Giolitti viene espunta la dinamica che consegue al suffragio universale, con relative massificazione dello Stato e statalizzazione delle masse. Secondo: dal trasformismo storico, che annebbiava i confini tra Destra e Sinistra, viene espulsa l'indeterminatezza dei mezzi in rapporto al progetto e ai fini e la Destra, di nuovo, si situaziona come alternativa storica, politica e ideologica della Sinistra.
Se si assumono il trasformismo, l'autoritarismo illuminato di Giolitti e il fascismo come passaggi fondamentali, ben si vede come la Costituzione del '48 erediti una struttura squassata da profonde discontinuità. Se lo Stato moderno è nato come reagente alla conflittualità sediziosa delle guerre civili di religione, in Italia lo Stato repubblicano si pone come collante sul piano storico-sociale. L'unità dello Stato nazionale è ricostruita in negativo come reazione al fascismo, più che in positivo come attenzione e ricerca attorno all'evoluzione e al mutamento sociali. Il patto costituzionale avviene nella comunanza del riferimento di contrarietà al fascismo e non anche intorno al "come" costruire la democrazia avanzata. Dopo, a Costituzione fatta e, sovente, fuori della Costituzione, si insedierà la società industriale. Alla base della società industriale v'è, dunque, un compromesso politico e non già un patto sociale. Il che caratterizza, fin dall'origine, la democrazia italiana come "democrazia incompiuta".
È il compromesso politico, è la decisione delle coalizioni di governo che stabiliscono una connessione positiva con lo sviluppo industriale. È l'area della decisione politica dell'esecutivo che disegna, in un certo modo, le coordinate attraverso cui lo sviluppo industriale del paese si invera come confutazione pragmatica del liberalismo e del socialismo, dei quali pure elementi rilevanti sono presenti nel dettato costituzionale. In questo modo, viene declinato un modello di democrazia politica ad ambito ristretto e fortemente interventista nel ciclo economico.
I modelli liberali e socialisti classici sono superati sia sul piano della teoria e dell'azione politica che su quello della dottrina economica. Lo Stato prevale, sì, sul mercato, mettendo in crisi irrimediabile un principio cardine del liberalismo; ma, a differenza della soluzione socialista, le regole del mercato e dell'impresa trovano uno spazio specialmente protetto, fino al punto da originarsi un ciclo di accumulazione di cui lo Stato, attraverso l'amministrazione per Enti e il sistema delle partecipazioni statali, è il centro unitario di regolazione e il garante nella concorrenza con il sistema delle imprese private nazionali e internazionali. Non a torto, molti hanno parlato, a proposito del caso italiano, di "economia mista".
Ne è derivato che il sistema politico ha dovuto necessariamente dare luogo ad un'azione di governo in assenza di una ricerca puntuale e generalizzata del consenso sociale. Esso, per come strutturalmente era stato concepito e messo in opera, non poteva enucleare i fattori e gli elementi dell'azione di governo tra integrazione e mobilitazione: dalla ricostruzione a tutto il miracolo economico, come avremo ampiamente modo di argomentare, una coltre stagnante viene calata sulla società tutta intera. Il regime politico ha tradotto il problema de-mocratico per eccellenza: la costruzione del consenso attraverso la partecipazione, in allestimento di reti di controllo clientelare, in forza di cui il consenso si risolveva in subordinazione politica. In tal modo, la società civile si è vista imporre il ritmo di sviluppo, le forme e i limiti della società politica.
Il sistema politico ha costituito la sua forza, fasciando in un busto di gesso la società civile. Quando la seconda ha rotto il gesso, il primo ha cominciato a smarrire la sua autoreferenzialità. Non gli è rimasto che tentare di ricostruirla, spostando il centro verso sinistra: dalle coalizioni di governo centriste e neocentriste si è passati al centrosinistra. Il regime politico ha centralizzato di più, espellendo di meno, lasciando invariata l'impalcatura di fondo.
2. |
La scienza politica tra modelli interpretativi e istanze interventistiche: dagli anni ’60 agli ‘80 |
2.1. Il pluralismo polarizzato
Si è soliti far risalire l'attenzione della scienza politica verso il sistema politico italiano a un celebre intervento di G. Sartori del 1961. Come ricorda opportunamente Mastropaolo, è quello il periodo culminante della crisi del centrismo e della travagliata gestazione del centro-sinistra. Sartori, a fronte della crisi del centrismo con contestuale cre-scita elettorale delle estreme, applica al caso italiano l'ermeneutica po-litica del pluralismo polarizzato .
Come è noto, per siffatta ermeneutica la polarizzazione pluralistica avviene tra due ali estreme Pci e Msi configurate come partiti anti-sistema. A loro volta, Pci e Msi fungono quali coagulo e attrazione antisistemica: il Pci nei riguardi del Psi e Msi nei confronti del Partito Monarchico. All'interno del sistema, la polarizzazione pluralistica avviene attorno alla Dc. Tre, dunque, le aree della polarizzazione, secondo Sartori: (i) una di centro, imperniata sulla Dc; (ii) una di sinistra, focalizzata sul Pci; (iii) una di destra, incardinata sul Msi, ben presto destinata all'autoconsunzione. Soltanto la polarizzazione di centro gio-ca qui una funzione pro-sistema; le altre due esplicano una funzione anti-sistema. Nel sistema politico italiano dal centro promanerebbe una azione di legittimazione sistemica, mentre da destra e sinistra una di delegittimazione. Secondo l'ermeneutica di Sartori, appare con evidenza che le cerchie della polarizzazione pluralistica del sistema, considerato nel suo insieme, sono marchiate dal divieto di comunicare. Tra di loro si dà unicamente una connessione di interferenza e di esclusione. Azione anti-sistema e azione pro-sistema rimandano a ipotesi politiche che si escludono vicendevolmente. Chi è dentro, è agevolato a restarvi. Il sistema è qui rinnovabile solo dall'interno e mai dall'esterno. Reciprocamente, chi è fuori del sistema politico dominante è condannato a rimanervi: l'opposizione è enucleabile solo da fuori il sistema e mai da dentro. Tra governo e opposizione si dà qui un'autentica antitesi. Il pluralismo di governo e quello dell'opposizione sono in rapporto di ne-gazione reciproca: per una sorta di ontologia politica negativa, l'uno non può comunicare produttivamente con l'altro. La Dc qui non può rinnovarsi, se fuoriesce dal sistema politico di cui è l'elemento di governo inamovibile; il Pci non può trasformarsi, se diviene forza di governo. Destini fatalmente divaricati si incrociano e incastrano proprio al livello più alto del loro distanziamento reciproco: la Dc è condannata perennemente al governo, poiché senza comando sul governo perirebbe; il Pci è perennemente condannato all'opposizione, poiché fuori di essa smarrirebbe la sua identità e la stessa forma partito che si è dato.
L'ermeneutica sartoriana rigorizza la dinamica sistemica tra funzioni simmetriche. Due le risultanti maggiormente in rilievo: governo senza ricambio e opposizione senza governo. In questo senso, è vero che la Dc presta "un'attività di servizio" allo Stato e al sistema, recependo traumaticamente l'eventualità della sua rimozione da Palazzo Chigi. Avverte Moro, persino nella fase di gestazione della solidarietà nazionale: "Se la Dc lascia Palazzo Chigi, non vi farà più ritorno". È altrettanto vero che il Pci, soprattutto nella versione berlingueriana post-solidarietà nazionale, è un partito "diverso". La sua è una diversità in relazione al sistema politico dato, il quale non lo integra compiutamente e dal quale non è disposto a lasciarsi integrare. Anche se, dalla "Svolta di Salerno" del 1944 e dal "Partito nuovo" di Togliatti fino alla proposta di Natta, nella seconda metà degli anni ‘80, della "Alternativa Democratica" (riedizione della medesima proposta avanzata da Berlinguer nel novembre del 1980), il Pci ha meglio precisato le sue funzioni di opposizione nei termini di ricambio del sistema e non, invece, del suo rovesciamento, come prescritto dalla dogmatica socialista e comunista delle origini. Quanto più il Pci ha accoppiato a un'azione critica del sistema una proposta di ricambio, tanto più è cresciuto elettoral-mente. Punte massime di questo trend politico positivo sono da assumersi il successo elettorale del 1975-76 e il sorpasso alle Europee del 1984. Ciò indica che nella dinamica elettorale un processo di centrifugazione e di crisi del centro è tanto più forte quanto più la critica al sistema si combina con una proposta di ricambio. All'inverso, quanto più il Pci ha isolato e ipostatizzato o le funzioni di opposizione o quelle di governo ha conosciuto le maggiori difficoltà. Nel primo caso, può valere l'esempio degli anni Cinquanta; nel secondo, quello della solidarietà nazionale. La diversità del Pci sta propriamente nel suo essere partito anti-sistema che dall'esterno espleta funzioni pro-sistema. Nella contestualità delle due funzioni il Pci ritrova la sua più densa identità. In questo senso, è vero che è "partito di lotta e di governo". Qui il suo dilemma. Lotta e governo sono autonomi l'una rispetto all'altro e vengono semplicemente giustapposti in una forma politica e organizzativa debole, collidendo incessantemente l'una di contro all'altro. Il partito o corre il rischio di appiattirsi ora sulla lotta e ora sul governo; oppure si sdoppia al suo interno in due anime. Nell'un caso come nell'altro, manca la sintesi programmatica efficace, capace di recuperare e assestare il partito su una linea di effettivo rinnovamento. E non è un caso che Berlinguer (e il gruppo dirigente a lui più vicino) abbia gestito due linee politiche tra di loro polarmente distanti come la solidarietà nazionale e l'alternativa, elaborata nell'ultimo periodo berlingueriano, dalla fase post-terremoto del 1980 ad andare avanti. Ciò denota l'estre-ma incapacità del partito di riflettere su se stesso e di ripensarsi: gli stessi accenni di autocritica girano a vuoto e rimuovono i problemi di fondo. L'equivoco permane fino alla svolta segnata dal congresso di Firenze, incentrata sull'adesione del Pci alla sinistra europea, con cui il partito si trascina dietro vecchie incongruenze. Da un lato, c'è chi vede nella fondazione della sinistra europea una sorta di partnership finalizzata alla ripresa della crescita e a una rivitalizzazione del modello democratico in un'ottica classicamente socialdemocratica; dall'altro, c'è chi la fonda glotzianamente sulla critica alla "società dei due terzi". Il centro del partito stenta a mettere d'accordo tra di loro una prospettiva definibile socialdemocratica con un'altra concettuabile come neo-socialdemocratica. Ne consegue che il partito assomma dentro di sé, in maniera egualmente irrisolta, i dilemmi del comunismo e quelli della socialdemocrazia.
Se partiamo da questo insieme aggrovigliato di fattori, effettivamente, deve concludersi che la Dc e Pci sono due partiti che, per struttura, finalità e storia, risultano tra di loro alternativi. Alternativi sono, difatti, i modelli di pluralismo polarizzato di cui ognuno di essi è centro. Ma mentre si sa con sufficiente precisione di che cosa è centro la Dc, rimane nel vago di cosa è e può essere centro il Pci. Sull'onda delle sconfitte elettorali del 1975-76, la Dc è stata costretta all'esperienza della solidarietà nazionale. Ora, proprio quest'ultima esperienza ha visto ulteriormente erodersi la posizione e la forza di centro della Dc. La caduta d'immagine della sua alternativa al Pci ha accentuato la sua crisi.
Da questa angolazione, si può dire che il governo di solidarietà nazionale abbia finito col penalizzare proprio Dc e Pci che, venendo meno allo storico divieto, si sono consociati nella compagine di governo. Al dilemma della Dc: governo senza ricambio, si è aggiunto quello del Pci: opposizione senza governo. Cosicché il governo è rimasto senza opposizione esterna e l'opposizione senza il ricambio di riferimento. In altre parole: il sistema politico italiano bloccato ha preteso di svilupparsi e di generare paradigmi politici, facendo leva sul suo blocco. In questa fase di ibridismo tra opposizione e governo, è emerso un nuovo modello di pluralismo polarizzato proposto da una nuova aggregazione politica: il polo laico-socialista. Il quale aggregato ha cercato di trarre profitto dalla crisi incrociata e contestuale di Dc e Pci, mirando al loro ridimensionamento, senza per questo fare una proposta politica nuova e alternativa e limitandosi a una mera ridistribuzione del rapporto di forza interno al sistema dei partiti. Così, il governo di solidarietà nazionale ha costituito il periodo di incubazione della forza del polo laico-socialista e la migliore preparazione possibile dei due governi Spadolini e del lungo governo Craxi. Su tale piano, la politica della solidarietà nazionale costituisce una bruciante sconfitta sia della strategia morotea che della strategia berlingueriana, a cui hanno cercato di porre rimedio, su opposte sponde, De Mita e Natta. Di nuovo Centro e Sinistra si polarizzano, escludendosi. La forza pro-sistema della Dc e quella anti-sistema del Pci chiudono qui il sistema politico, compensandone gli squilibri.
Ma tra Dc e Pci il Centro dove è realmente posizionabile? E dove sta la Sinistra? Se Dc è Centro e Pci è Sinistra, Centro e Sinistra nel sistema politico italiano si immobilizzano a vicenda. La nascita di una "terza forza" — il polo laico-socialista — si colloca proprio tra l'alternativa di centro e quella di sinistra e ha costituito uno dei pochi motivi nuovi nel panorama politico degli anni ‘80: da un lato, per lo smobilizzo delle tendenze più perverse del sistema politico bloccato; dall'altro, per impedire che centripetazione (Dc) e centrifugazione (Pci) convergessero in eterno in un effetto di compensazione e di paralisi. Con ciò il polo "laico-socialista" si propone esplicitamente di modernizzare e razionalizzare il sistema politico bloccato, rimuovendone gli effetti perversi. Questa operazione di riaggiustamento interno procede in uno con una versione "laico-socialista" della conventio ad excludendum avverso il Pci. In questo senso, il polo "laico-socialista" costituisce un'entità po-litica e non già un'espressione geometrica. Sul punto, è la stessa strategia di De Mita a sconfessare il virus polemico demitiano. Il disegno demitiano ha puntato, nel 1987, alle elezioni anticipate, per azzerare gli effetti di depotenziamento del Centro seguiti alla fase della solidarietà nazionale. Come, entro una prospettiva divergente, l'obiettivo del Pci è stato, in quella occasione, quello di porre un termine alla depotenzialità del suo ruolo centrale a sinistra. In tutti e due i casi, ciò ha significato azzerare il polo "laico-socialista". È questa una convergenza oggettiva perversa, partorita dai vizi strutturali del sistema politico italiano. Soggettivamente, mai come sul finire degli anni ‘’80, Dc e Pci paiono indisponibili a consociarsi.
2.2. Il bipartitismo imperfetto
In un clima storico differente, quando il centrismo può dirsi defunto e il centrosinistra ha alle spalle alcuni anni di esperienza, nel 1966 Giorgio Galli elabora la fortunata teoria del bipartitismo imperfetto .
Nell'analisi di Galli, l'aggregazione del Psi al governo rappresenta, in quel periodo, sia il superamento delle politiche centriste che l'avvio ricostruttivo di un quadro che valesse contemporaneamente come mo-dernizzazione della Sinistra e del sistema politico italiano. Ricombinando criticamente gli argomenti di Galli con la riflessione di Sartori, può dirsi che lo sforzo principale verso cui il sistema politico avrebbe dovuto tendere constava nella liberazione delle forze anti-sistema bloccate a sinistra, più che nel consolidamento delle forze pro-sistema bloccate al centro. Nell'analisi di Galli, blocco al centro e blocco a sinistra costituiscono gli elementi di maggiore labilità e anacronismo del sistema politico italiano.
Correttamente, A. Mastropaolo rileva nell'ipotesi di Galli una ripresa di motivi liberali, in colleganza con la tradizione risorgimentale e unitaria. Sviluppo e modernizzazione della Sinistra e del sistema politico si danno, in Galli, come modernizzazione neoliberale della Sinistra e del sistema. Qui è, dunque, possibile cogliere una torsione che si risolve in una duplice richiesta: modernizzazione liberale della democrazia e modernizzazione liberale del socialismo. Il modello politico proposto risulta quello della democrazia con alternanza. Meglio ancora: soltanto in costanza di alternativa può parlarsi di sistema politico democratico. Ne viene che democrazia è alternanza. Ed è su questo specifico punto che Galli si attira le obiezioni di Sartori, per il quale nessuna identità può essere postulata tra democrazia e alternanza, rivelandosi buoni sistemi democratici anche quelli in cui non avviene un ricambio politico.
Sulla base dei modelli interpretativi proposti da Sartori e da Galli, si può tratteggiare un'ermeneutica generale sdoppiata in due moduli: (i) democrazia con alternanza e (ii) democrazia senza alternanza. La maggioranza delle democrazie occidentali rientra nel primo modulo; la democrazia italiana è riconducibile al secondo. Nell'ipotesi di Galli, blocco al centro e blocco a sinistra sono sommamente deleteri non semplicemente considerati in se stessi; ma, più ancora, perché hanno il significato negativo di soffocare al centro e a sinistra un multiverso partitico caratterizzato pluralisticamente. Il bipartismo imperfetto non vale ad estirpare il multiversum partitico; nondimeno, non ne asseconda la positiva evoluzione politica. Nonostante i due blocchi contrapposti, il sistema politico italiano è ben lontano dal produrre due univoci e alternativi schieramenti politici. Non emergono due proposte politiche tra di loro alternative, assoggettabili alla dialettica democratica dell'alternanza; bensì un'universo pluripartitico frammentato e dissonante. Il vizio, per Galli, sta nella circostanza che si stagliano due coalizioni non omogenee al loro interno, eppure bloccate l'una di contro all'altra. Ne consegue che la coalizione possibile vincente è quella che è nata maggioritaria. E maggioritario è nato il Centro.
Secondo Galli, l'incapacità tutta italiana di produrre due omogenee e contrapposte aggregazioni politiche, l'una al centro e l'altra a sinistra, costituisce un difetto di capitale importanza. Si tratterebbe, pertanto, di lavorare ad un sistema bipartitico effettivo, in cui la possibilità di un'alternanza democratica, da potenzialità, diventi atto.
L'alternanza democratica (o, che è lo stesso, la democrazia con al-ternanza) predicata da Galli va a poggiarsi su una semplificazione del sistema politico italiano, secondo cui il Centro sia effettivamente catalizzatore dei partiti di centro e la Sinistra aggregante dei partiti di sinistra, ponendo fine alle alleanze spurie di centrodestra e di centrosinistra. Secondo Galli, la malattia mortale del sistema politico italiano consterebbe nel fatto di essere fondato su due perni difettosi: la Dc e il Pci. Il che indubbiamente corrisponde al vero, ma non esaurisce il pro-blema. Qui l'inconsistenza e la difettosità dei due perni interdirebbero la ricerca di una diversa polarità politica. Per Galli, tali difetti sono la risultante della debolezza strutturale del capitalismo in Italia e della borghesia liberale italiana, da cui è derivata una società civile debole. Quanto più la società civile è apparsa debole, tanto più è rimasta esposta alla penetrazione e all'invadenza del sistema partitico. Il primato della società politica ha come soffocato il dinamismo della società civile. A sua volta, la dinamica tarpata della società civile si rivela qui come la principale controtendenza dell'alternativa.
Ora, secondo quanto emerge dalla storiografia e dalla politologia meglio accreditate, fino a tutto il 1968-69 la società politica è parsa in grado di garantire la rappresentanza della società civile. Dando pure per scontata, per un momento, tale tesi, irrisolto rimane il problema del deficit di rappresentanza e di integrazione, nel senso dell'ampliamento delle aree dell'inclusione della cittadinanza, e di quel vero e proprio disagio sociale che ha proprio negli anni Cinquanta la sua base di accumulazione.
Dal pluralismo senza liberalismo deriva, per Galli, la democrazia senza alternanza. Il pluralismo senza liberalismo sarebbe un pluralismo difettoso, così come la democrazia senza alternanza sarebbe una de-mocrazia viziosa. Vedremo meglio in seguito come, sul piano teorico e su quello storico-sociale, la trasfusione di elementi liberal interagisca con la struttura politica della decisione.
2.3. Egemonia dei partiti e pluralismo centripeto
Se, come dice Pasquino, è vero che la posizione di dominio dei partiti sulla società dipende dal fatto che essi controllano e guidano i suoi processi di trasformazione, negli anni Settanta le trasformazioni di società attivate e dirette dai partiti hanno avuto più un segno di con-servazione che di sviluppo emancipativo. L'egemonia del sistema dei partiti si è andata impiantando sulla conservazione delle loro funzioni e dei loro ruoli nevralgici di potere, piuttosto che sulla loro rigenerazione, a contatto con la domanda sociale che nel corso degli anni Settanta è stata particolarmente vitale, attiva e pressante.
Il governo di solidarietà nazionale rappresenta il massimo punto di caduta di tale tendenza, quasi il precipitato di un'epoca. Il sistema dei partiti è andato centralizzandosi, delocalizzando le fenomenologie e le aspettative sociali: si è irrigidito su se stesso, respingendo l'impatto trasformazionale con l'ambiente sociale, allo scopo di perpetuare all' infinito la sua manovra di governo dispotico della società civile.
L'effetto centripeto e aggregazionistico del sistema politico, al quale non si sottrae la riflessione berlingueriana che parte dal bilancio dei fatti cileni del 1973, risulta essere in flagrante contraddizione con la dinarnica storica e sociale che contrassegna gli anni Settanta. In par-ticolare, il ciclo 1974/76 vede mutare profondamente l'assetto sociale e le condizioni di fondo del sistema ed è prevalentemente caratterizzato da un potenziale di mobilitazione che conosce pochi eguali nella storia italiana contemporanea. L'elaborazione di Berlinguer e dell'intero Pci omette di fare adeguatamente i conti con queste condizioni e questi fattori di novità . La strategia e l'analisi del Pci fraintendono smaccatamente il senso dei nuovi movimenti collettivi, dei nuovi soggetti e delle nuove domande sociali.
Sul punto, le conclusioni di Pasquino paiono quanto mai calzanti: "Il Pci continuerà a rnuoversi lungo l'asse della ricerca di alleanze sociali e politiche di tipo tradizionale, mentre emergono nuove problema-tiche e nuove potenzialità, e si troverà ad affrontarle con notevoli ritardi politici, organizzativi e culturali".
Un attento e fine studioso del sistema politico italiano come Paolo Farneti ha colto la tendenza centripeta che si dispiega al suo interno lungo quasi tutti gli anni Settanta. In piena fase di solidarietà nazio-nale, egli elabora la teoria del pluralismo centripeto . Nel corso degli anni Settanta, come ben coglie Farneti e rileva l'attenta esegesi critica di Mastropaolo, va comprimendosi l'azione della polarizzazione ed estendendosi quella della centralizzazione. Le tendenze centrifughe vengono risucchiate e catturate con uno schiacciamento al centro. Con la solidarietà nazionale, l'opposizione viene sospesa all'estemo del sistema e centripetata al suo interno. A misura in cui il sistema ridimensiona e rinserra l'opposizione, si divarica con reci-sione dal potenziale di conflitto, mobilitazione e trasformazione che si va accumulando nella società civile. La centripetazione delle forze centrifughe — si passi il bisticcio terminologico — ricompatta il Centro e lo espande come la più potente forza di attrazione sistemica.
Ma ciò che riesce dentro il sistema politico, non può riuscire nel rapporto tra società politica e società civile. Più il sistema politico si allarga e chiude attorno al suo centro e più respinge i nuovi sistemi di preferenze collettive e individuali che vanno germogliando nella so-cietà civile.
Il pregiudizio della centralità — una vera e propria ossessione — che dalla Costituzione in avanti aveva afflitto il sistema politico dominante, negli anni Settanta affligge la stessa opposizione comunista; negli anni ’80 e ’90 affliggerà il Pds. L'emergenza invocata da Berlinguer, fatta valere come motivazione storica e base sociale della proposta del compromesso storico, alla riprova dei fatti risulta non sussistere. È una costruzione ideologica, ricavata comparativamente da un accostamento improprio col passato: il ciclo 1944-47 dell'esperienza tripartita, al cui ordine del giorno v'era la "ricostruzione nazionale". Ben altro, invece, è il clima emergenziale che il compromesso storico concorre a legittimare e potenziare: il dispositivo accecante dell'autoreferenzialità del sistema politico italiano. E tutto ciò a fronte di un rilevante passaggio di società, in cui le rivendicazioni sociali principiano a caratterizzare come "richiesta di beni immateriali"; come "domanda di senso" e cambiamento del "senso della vita"; come autonomia della "rappresentazione di senso" dal sistema della rappresentanza politico-istituzionale. Il Pci e Berlinguer, invece, guardano al nuovo, avendo nella mente la vecchia struttura sociale, l'antica stratificazione di classe.
2.4. Il fazionismo eterodiretto
Accanto a quelli del "bipartismo imperfetto", del "pluralismo polarizzato" e del "pluralismo centripeto" esiste un altro modello interpretativo della evoluzione e della crisi del sistema politico italiano: quello del fazionismo eterodiretto, la cui elaborazione si deve ad A. Lombardo.
Osserva G. Lupi: "Antonio Lombardo ha sviluppato il modello sartoriano estendendolo al livello d’analisi infrapartitica e ha proposto un modello globale di analisi del sistema partitico capace di analizzare il nesso tra il conflitto tra i partiti e i conflitti interni ai partititi". Seguiamo ora dappresso l’incedere definitorio del modello elaborato da Lombardo.
Il 1975 viene assunto quale anno chiave, in quanto disvelatore di due tendenze in atto da alcuni anni: (i) il "rafforzamento del Pci"; (ii) "l’indebolimento della Dc". Lombardo si pone due quesiti: le tendenze disvelate sono: (i) la risultante di mutamenti avvenuti fondamentalmente nella società civile?; (ii) oppure trovano il loro innesco soprattutto nel funzionamento di specifici meccanismi del sistema partitico e di governo?. Ecco la sua risposta: "Ho maturato la convinzione che certi meccanismi politici, ed i conseguenti comportamenti delle élites partitiche siano, da soli, causa sufficiente, anche se non esclusiva, dell’indebolimento politico della Dc, del Psi, e degli altri partiti della coalizione di centrosinistra, e del conseguente rafforzamento del Pci. I meccanismi in questione vanno identificati nel tipo di competizione politica che si instaura in presenza degli effetti cumulativi della competizione interpartitica e di quella intrapartitica. La frammentazione partitica non è di per sé un male incurabile; e male incurabile, per il corretto funzionamento del sistema, non è neppure un alto grado di frazionismo interno ai partiti; a condizione che i due fenomeni non coesistano e non interagiscano".
Il tema della frammentazione politica diventa, così, l’oggetto della scienza politica, in quanto determinante strutturale peculiare del sistema politico italiano. Lombardo non manca di richiamarsi al dibattito sul frazionismo politico sollecitato e ospitato sulle pagine della "Rivista italiana di scienza politica", nel 1971-72. E tuttavia, pur riconoscendo i meriti di quel dibattito, egli ne sottolinea i limiti: "Insufficienti erano tuttavia gli accenni al nesso tra sistema partitico e sistema di governo; mancava cioè un’analisi approfondita dei processi coalizionali. Passigli rilevava che le analisi compiute erano di tipo morfologico e non genetico, e aveva in parte ragione, anche perché nell’analisi delle cause incentivianti il frazionismo, si restava nell’ambito degli anni del centrosinistra". Il punto di indagine specifico non sufficientemente tematizzato dalla scienza politica, osserva Lombardo, è proprio dato dalla trasformazione fazionale delle correnti e/o fazioni partitiche in attori politici all’interno del gioco coalizionale e all’esterno nella relazione tra governo e opposizione.
Per Lombardo, otto sono le cause interagenti della trasformazione fazionale del sistema partitico italiano, vera causale – egli sostiene - dell’indebolimento della Dc e del rafforzamento del Pci:
1) la correzione dei deficit del sistema elettorale proporzionale sovralimenta la frammentazione partitica e la polarizzazione ideologica;
2) la logica coalizionale assegna, sì, alla Dc il monopolio del "potere di governo", ma lo vincola alla contrattazione con i partiti alleati;
3) la leadership democristiana si muove all’interno di queste "regole del gioco", assumendo comportamenti conseguenti;
4) i quali comportamenti conducono: (i) alla ricerca puntuale di alleanze con correnti interne di partiti alleati e (ii) alla costituzione di apparati di correnti di tipo personalistico;
5) il carattere pubblico di parte rilevante dell’economia italiana allarga il potere di condizionamento del sistema partitico e fa sì che le correnti e i vertici di partito si rendano in gran parte autonomi dalla loro "base militante";
6) i processi fin qui enumerati provocano il deperimento dell’ "apparato istituzionale" dei partiti; fenomeno speculare alla creazione di "apparati di corrente" e motivo cardine dell’abbandono della "presenza politica in sedi cruciali della società civile";
7) la combinazione della competizione interpartitica con quella intrapartitica induce un "circuito di destabilizzazione reciproca" tra le segreterie dei partiti coalizzati: vale a dire, "un decision making che erode le basi sociali e i nervi del potere della maggioranza, a tutto vantaggio dell’opposizione comunista";
8) ecco così spiegato il crescente processo di legittimazione del Pci presso larghe fasce di elettorato.
Come si vede, Lombardo aderisce al modello sartoriano del pluralismo polarizzato, rileggendolo e rielaborandolo sia dall’interno che dall’esterno. Da un lato, riesce a dare ragione dei processi di frantumazione degli equilibri politici; dall’altro, riduce la ratio del sistema politico alla competizione/scontro Dc-Pci. Non avvedendosi, così, che proprio negli anni della "crisi di sistema" delle coalizioni uscite vincenti dal secondo conflitto mondiale viene partorito un modello di governo — la solidarietà nazionale — che combina in sé gli effetti di centrifugazione (del "pluralismo polarizzato") con quelli di centripetazione (del "pluralismo centripeto"). Il punto è che il "sistema" qui non agisce la pura e semplice disintegrazione di sé (corollario del paradigma del fazionismo eterodiretto). Al contrario, investe sulla sua autoconsunzione, attraverso l’allargamento della rosa degli attori decisionali; il che conserva l’intangibilità degli schemi fondativi della debole e incompiuta democrazia italiana.
Nemmeno il fallimento della solidarietà nazionale conduce alla "disintegrazione del sistema"; ne mette, sì, impietosamente a nudo l’autoreferenzialità e gli spaventosi deficit, ma lo schiaccia sull’asse della competizione Dc-Psi, in cui l’unica variabile "innovativa" è data dal disegno craxiano: (i) di egemonia sulla compagine di governo; (ii) di marginalizzazione e assimilazione progressiva del Pci. Ma, come dimostrerà la fase agonica della crisi, principiata con gli anni ‘90, il progetto craxiano si rivelerà sprovvisto di "respiro strategico". Ben prima di "Tangentopoli", già con la mancata riproducibilità politica dell’egemonia del Psi sul sistema coalizionale e con lo svanire del progetto di fagocitazione smobilitante del Pci, il sistema delle coordinate politiche craxiane salta in aria. Ancora una volta, il sistema politico italiano si mostra incapace di un autentico rinnovamento, perché privo della volontà politica e delle risorse culturali idonee ad una messa in discussione delle variabili e delle regolarità strategiche del suo funzionamento, rimanendo perennemente prigioniero dei suoi circoli viziosi.
Ora, tra i fuochi principali del circolo vizioso contemplato dal sistema politico italiano stanno proprio lo sviluppo delle fazioni e il deperimento dei partiti; ma ciò, diversamente da quanto argomentato da Lombardo, solo sul piano strettamente e astrattamente teoretico costituisce una contraddizione. Per la materialità dei processi storici e politici, quello italiano costituisce un caso di sviluppo del sistema basato sulla crescita progressiva dei poteri e dell’autorità delle fazioni intra e inter-partitiche, a scapito delle organizzazioni di partito strutturate. È questa particolare fenomenologia che va, allora, sottoposta a investigazione stringente. In veste di problema, la fenomenologia può essere indagata e spiegata. In veste di "contraddizione disintegrativa", essa può essere solo segnalata (talora diffusamente e con argomentazioni acute) come stortura e distorsione, non già analizzata come una variabile avente le proprietà di un "modello tipico".
Quello che l’analisi deve mettere al suo centro è proprio la tipicità dei modelli italiani di sistema di partito e di razionalità politica. Solo questa prospettiva di indagine può consentire di mettere a fuoco le logiche di funzionamento, gli inceppamenti, la persistenza e la riproducibilità della "democrazia italiana" dentro e oltre la ricorsività della crisi. Il paradigma del fazionismo eterodiretto ci avvicina e, nel contempo, ci allontana da questa esigenza di analisi. Ci avvicina, perché ci fa immergere nel crogiolo di alcuni dei "vizi capitali" del sistema politico italiano. Ce ne allontana, perché omette di analizzare tali "vizi" come logiche e regolarità sistemiche attraverso cui si dà la produzione e riproduzione della contrazione dello spazio democratico, dell’arena dei diritti e della sfera delle libertà. D’altronde, non poteva essere diversamente. Le teoriche del "fazionismo eterodiretto", esattamente come quelle del "pluralismo polarizzato", più che porsi il problema della democrazia come fonte di arricchimento e universalizzazione dei diritti e delle libertà, ruotano attorno al bisogno di ridurre la democrazia a stabilizzazione governamentalista dei conflitti politici e sociali. Col che la democrazia diviene una forma politica di controllo (e non già di espressione) dei diritti e delle libertà, con ampia facoltà di manometterne l’esercizio e la stessa fruizione simbolico-culturale.
2.5. Pluralismo, corporatismo e democrazia
Molte sono le incrostazioni ideologiche e le inesattezze delle asserzioni definitorie che si sono sedimentate su categorie come pluralismo, corporativismo e simili. Ne passiamo qui in rassegna le principali, in considerazione esclusiva del loro rapporto con la democrazia, avvalendoci della letteratura critica migliore.
Osserva L. Graziano, uno dei più fini studiosi di pluralismo e clientelismo: "il pluralismo è venuto a connotare la variante occidentale dei sistemi democratici". Il che indica subito che "democrazia e pluralismo, sebbene spesso usati in modo intercambiabile, non sono la stessa cosa". Dello stesso parere è V. Mura: "Fra pluralismo e democrazia non vi è alcun nesso necessario: non di tipo logico-analitico, giacché è possibile ipotizzare una democrazia non pluralistica (l'astratto modello di Rousseau); non sul piano storico-empirico dato che la democrazia greca non era pluralistica e il pluralismo medioevale non era democratico". Il sintagma "democrazia pluralistica" è la commistione di una dottrina politica composta e di un sistema politico reale.
Sul piano squisitamente storico, la simbiosi di democrazia e pluralismo si origina, in forme accelerate, dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti; il modello, invece, si diffonde intorno agli anni Cin-quanta nell'area delle società capitalistiche avanzate.
Ora, nucleo concettuale e storico del pluralismo è il gruppo, sul quale viene ordita la tela della "rappresentanza degli interessi".
Nello schema pluralistico, dunque, il gruppo sostituisce l'individuo sul piano sociale e il cittadino su quello politico. L'azione di governo deve, perciò riferirsi, alla rappresentanza degli interessi tanto sul piano sociale che su quello politico. Il governo è il "terzo", avente una funzione di arbitrato tra interessi divergenti e, a volte, contrapposti. Se il pro-cesso decisionale pluralistico è a somma positiva, poiché tutti i giocatori traggono vantaggi, il governo non può dipendere da questa o quella area di interessi. Da qui discendono tre tesi classiche che hanno contribuito a fissare la struttura semantica e politica del pluralismo:
a) la tesi di Truman (the governamental process, 1951): il governo è titolare di interessi non organizzati che pertengono al rispetto delle cosiddette "regole del gioco";
b) la tesi di Wolff (the poverthy of liberalism, 1968): il governo espleta una funzione di arbitrato in vista del perseguimento di accordi di cui è garante; le molteplici pressioni vengono ricondotte a equilibrio, tenendo in conto i rapporti di forza dati: è la teoria, divenuta famosa, del "governo debole";
c) la tesi di Lowi (the end of liberalism, 1979): l'autonomia del governo dagli interessi in gioco non significa indipendenza e distacco dal sistema dei gruppi e dagli interessi corrispettivi.
A sua volta, la teoria del "governo debole" collega il mercato politico alle rigorose regole di funzionamento del mercato economico, entro cui tutte le variabili in gioco sono risospinte in un movimento di adattamento reciproco. In questo caso, il retroterra teorico è costituito dalle opere di Benthley e Buchanan. Più che un operatore, il governo è qui un ricettore che agisce sotto la scorta di impulsi esterni: non ha autonomia politica e sottostà alla eteronomia del mercato degli interessi e della sua logica contrattualistico-scambista. L'azione di cui il governo è centro di imputazione è una mediazione; non già una decisione.
Ora, secondo Dahl, citato tanto da Graziano che da Mura, la comparsa sul teatro dell'azione politica e sociale dei gruppi organizzati ha profondamente modificato la teoria democratica, dando luogo a una concertazione e a un negoziato entro un agone definito "Parlamento dell'industria". Il Parlamento resta la sede della rappresentanza degli interessi, così come si rinviene nella classica definizione di Kelsen; però, emergono altri interessi e altre aree di interesse che trovano fuori dal Parlamento la loro sede di rappresentanza. Da qui quella conseguenza che non vede più situato nel Parlamento il fuoco del processo decisionale. Dahl è ancora più secco nella sua diagnosi: "Trovo difficile resistere alla congettura che stiamo assistendo a una trasformazione della democrazia così fondamentale e durevole come lo è stato il passaggio dalla città-stato alle istituzioni della poliarchia negli stati-nazione". Asse del metodo democratico è il principio di maggioranza; asse del metodo pluralistico è il principio di contrattazione. Il primo favorisce lo schieramento che dà luogo all'aggregato politico maggioritario, il quale può farsi carico degli interessi e dei problemi delle categorie e degli strati più deboli; il secondo favorisce il gruppo (e/o i gruppi) più forte (i) che ha (hanno) più potere contrattuale. La collisione non poteva essere più dirompente. La teoria del gruppo è in stridente contraddizione con la teoria democratica. Il pluralismo si rivela particolarmente punitivo rispetto alle fasce sociali meno garantite ed estremamente intollerante verso gli emarginati e tutti quei gruppi che non trovano accesso al bargaining. Da qui la necessità di un correttivo di regolazione esterna che, per Lindblom, può essere identificato nell’ "interesse generale" perseguito dalle politiche di Welfare: lo Stato, in altri termini, come correttore dei vizi e delle ingiustizie del mercato. Occorrerebbe mettere in campo controtendenze istituzionali avverso la processualità discriminatrice del pluralismo, il quale unisce un deficit di decisione politica a un eccesso di ingiustizia sociale. Il pluralismo è regolato dalla legge e dal diritto del più forte e si pone come stato di natura americanizzato: favorisce e stabilizza le diseguaglianze; premia i gruppi più forti, già in partenza posti come favoriti. Pertinente, in proposito, la conclusione di Lowi, secondo cui il pluralismo rivela una marcata tendenza al conservatorismo, attraverso la riproduzione delle vecchie aree di privilegio e la creazione di nuove. Anche perché finalizzato al conservatorismo politico e sociale, il sistema pluralistico si rivela come sistema a basso tasso decisionale: la decisione politica assume le sembianze stravolte del bilanciamento e della mediazione degli interessi. Sicché rimane prigioniero e vittima di se stesso, destabilizzato come è dal proliferare degli interessi particolaristici che lo divorano dall'interno e che con sempre maggiori difficoltà riesce a padroneggiare e negoziare. La mediazione pluralistica si converte qui in decisione politica negativa. Il grado zero della decisione è la decisione negativa elevata allo zenit, passivizzata all'estremo. Ciò non indica, banalmente, che non vengono prese decisioni; più semplicemente e precisamente, v'è da registrarsi il crescente pervertirsi e degradarsi della dinamica politica della decisione.
Argomentando di pluralismo e democrazia, Norberto Bobbio ha, con la consueta chiarezza, enucleato i termini del seguente paradosso storico: il pluralismo rappresenta la "rivincita della società" sullo Stato, dalle cui catene di comando intende liberarsi. Ne discende che uno Stato "forte" e una società civile "debole" non possano assolutamente dare vita a un organico sistema pluralista. E ancora: che la crescita pluralistica della società civile valga come messa in discussione dei poteri dello Stato.
Senonché i lavori di ricerca di Dahl e di S. Ehrlich hanno dimostrato con sufficiente rigore che può parlarsi di pluralismo anche nei sistemi a "socialismo reale", caratterizzati da uno Stato centralistico e autoritario. Indubbiamente, il pluralismo coniuga la richiesta di allargamento della cittadinanza. Altrettanto certo è che (sovente, se non sempre), gli interessi particolari di questo o quel gruppo risultano essere in rotta di collisione con gli interessi sociali racchiusi e rappresentanti nello Stato. Ma, osserva Ehrlich: "limitarsi alle dicotomia: interessi individuali/inte-ressi sociali è una semplificazione illegittima, che impedisce di comprendere problemi essenziali".
La dicotomia interessi individuali-interessi sociali non è prerogativa esclusiva dei paesi dell'Est, così come il pluralismo non è prerogativa esclusiva dell'Occidente. Si tratta di indagare entro quali termini la diffusione dei gruppi organizzati nelle società di massa vale come critica dello Stato e potenziamento dei diritti e della libertà del cittadino; ed entro quale proporzione la logica gruppuscolare degli interessi conduce a rovina un sistema democratico già, di per sé, in crisi. È indubbio che queste siano le due facce del pluralismo.
Il corporativismo ha indagato solo la seconda. Le tendenze che si appellano, in vario modo, a un ritorno alla comunità hanno investigato solo la prima. Appare evidente agli stessi apologeti del pluralismo che i suoi vantaggi sono, perlomeno, equipollenti ai suoi svantaggi. Che, nel concreto, il problema traspaia con punte di angoscia è chiaro a uno studioso come Dahl, che non sacrifica il suo rigore intellettuale sull'altare del pregiudizio ideologico e politico: "il problema del pluralismo democratico è serio... precisamente perché organizzazioni indipendenti sono altamente desiderabili, ma al contempo la loro indipendenza con-sente loro di provocare danno, rafforzando diseguaglianze, sottraendo questioni vitali al controllo democratico e via dicendo".
Sotto il profilo positivo: il pluralismo costituisce il tramite attraverso il quale la democrazia (come coglie Graziano, interpretando una linea classica che va da Toqueville a Bobbio) si adatta alla società di massa. Sotto il profilo negativo: il pluralismo rappresenta il mezzo attraverso cui la democrazia si corporatizza e restringe le sue maglie e l'area della cittadinanza politica, sollevando esclusivamente la richiesta di un surplus di cittadinanza per i gruppi organizzati più forti.
La questione dell'organizzazione in gruppi richiama, per contrappasso, quella dell'autonomia e dell'indipendenza, rispetto cui le soluzioni fornite dal Dahl non paiono convincenti. Osserva Graziano: "Ciò che Dahl si limita a fare è di contrapporre alla legge di Michels: "Chi dice organizzazione dice oligarchia", un'altra "legge" analoga e opposta se-condo la quale "Chi dice organizzazione dice indipendenza". E qui la indipendenza e l'autonomia sono misurate dalla possibilità di arrecare danno a un altro gruppo organizzato, senza per questo essere tacitati e inibiti da un potere organizzato, eguale o più forte. L'indice dell'autonomia misura, in Dahl, I'indice del conflitto: la non repressione del conflitto è la prova testimoniale dell'autonomia. Fungendo quale contraltare dell'autonomia, la repressione è il polo negativo. L'autonomia, a sua volta, è l'antidoto del dominio repressivo dello Stato. I sistemi dei gruppi organizzati costituiscono sistemi di autonomia in rapporto di controllo reciproco e di bilanciamento. È il mutuo controllo che qui desituaziona e depotenzia il dominio.
Ma, ora, appare evidente che la conflittualità aperta e disinibita dei gruppi organizzati, dando luogo a un sistema sempre più raffinato di contrattazione, è ben lontana dal configurare una situazione di autonomia e indipendenza effettive. In realtà, l'interscambio dei gruppi di interesse è sottoposto costantemente a vincoli equilibranti e compatibilizzanti, predeterminati dalla ricerca del massimo vantaggio particolare e, nel contempo, dall'evitamento del danno comune. Tra questi due estremi, le possibilità di manovra dei gruppi organizzati vedono contrarsi di molto il loro spazio di autonomia e indipendenza.
La società di massa, tuttavia, ha come suo portato ineliminabile la proliferazione dei gruppi organizzati su scala di massa (appunto). Ma — e lo si è visto — l'economia scalare dei gruppi organizzati restringe il campo della democrazia. Ciò è stato indagato con particolare attenzione e profondità da Norberto Bobbio, le cui formulazioni sulla democrazia minima nascono esattamente dalla consapevolezza di questo fenomeno. Per la precisione, Bobbio pone in connessione il fenomeno dell'aumento del peso specifico dei gruppi organizzati col processo di dispiegamento del corporatismo, intendendo con quest'ultimo quell'assetto in cui "si è formata la massima concentrazione dell'organizzazione degli interessi (volgarmente i sindacati) e queste organizzazioni prendono decisioni collettive di grande rilievo per tutta la società attraverso i loro rappresentanti al vertice con organi di governo" È chiaro come un assetto siffatto revochi in dubbio la centralità del Parlamento come sede istituzionale della rappresentanza degli interessi, in cui vengono prese le decisioni di valore collettivo. Attraverso il voto e il metodo della maggioranza, la democrazia assegna al Parlamento le funzioni fondamentali della rappresentanza politica. L'estensione delle pratiche corporatiste segna un parziale spostamento dell'ambito della decisione politica all'esterno del Parlamento, verso sedi e circuiti extra-parlamentari. Costituisce, pertanto, un ridimensionamento della democrazia e una restrizione dello spazio decisionale delle istituzioni rappresentative.
È noto che nella concettualizzazione di Bobbio la democrazia va assunta come una forma di governo che consente ai componenti di una collettività di partecipare, a mezzo di regole e procedure prestabilite, al processo delle decisioni che li riguardano. È altrettanto noto che la nozione della democrazia elaborata da Bobbio è una declinazione della definizione formulata da Kelsen. Per Kelsen, il criterio in base al quale distinguere un regime democratico da uno autocratico risiede nell'esistenza o meno della partecipazione della collettività alla creazione dell'ordinamento giuridico cui è sottoposta. L'elemento di dif-ferenziazione è qui dato dalla nozione di partecipazione, la quale ha un grado definitorio molto elastico, attenuativo o enfatico, a seconda del paradigma di riferimento. Il più alto grado di democrazia è dato dalla democrazia diretta: "l'ordine sociale viene realmente creato dalla decisione della maggioranza dei titolari dei diritti politici, i quali esercitano il loro diritto nell'Assemblea del popolo". Il diverso grado della partecipazione definisce e limita la qualità e le forme diverse connesse col modello democratico-parlamentare. A misura in cui la collettività delega i processi a minoranze istituzionalmente elette, la democrazia parlamentare viene contaminata da un tasso di oligarchia più o meno elevato. Le "teorie delle élites", addirittura, non riconoscono alcun carattere democratico a un siffatto regime, ritenendolo senz'altro oligarchico. Il tipo ideale di democrazia, dunque, è quello dei classici: la democrazia dell'antica Atene. La democrazia parlamentare inquina questa forma ideale, contaminandola con motivi oligarchici. Ed è, ap-punto, la democrazia parlamentare borghese qui l'unica ritenuta possibile nello Stato moderno.
L'evoluzione e l'accentuazione dei motivi oligarchici si sono affermate proprio per il tramite delle procedure neocorporative. Fondati appaiono i rilievi di Kelsen e Bobbio, secondo cui il sistema parlamentare non è adattamento alla democrazia, bensì distacco dai suoi ideali. Il "doppio Stato" (così come suggestivamente argomenta Bobbio, sulla scia dei classici lavori di Fraenkel sulla dittatura moderna e sul nazionasocialismo, in particolare) è dato dall'esistenza di una procedura democratica scissa in un doppio circuito: l'uno parlamentare e l'altro extraparlamentare. Quest'ultimo è il circuito corporatista, la cui decisionalità è meno democratica di quella parlamentare. A partire da questa rete concettuale, Bobbio addiviene a una definizione ancora più stringente del corporatismo, assunto come: "un insieme di procedure per rendere più governabile un sistema politico sempre più complesso". In altri termini, il corporatismo risponde al surplus di complessità sociale con un minimo di democrazia: più si allarga la scala della prima e più si restringe quella della seconda. Stabilità e governabilità sono qui esattamente la risultante di una riduzione della democrazia.
La proliferazione pluralistica dei gruppi di interesse crea impasse politica nei canali della decisione, complicando oltremodo lo scenario dei processi decisionali. Il corporatismo nasce come risposta all'impasse pluralistica, impigliata nelle secche della mediazione creatrice di instabilità politica. Le necessità della stabilità rendono qui necessario il corporatismo. Schmitter, sul punto, è categorico: "il neo corporativismo è una necessità irrinunciabile di una società stabile" Governabilità e corporatismo sono la metafora di un identico problema: la stabilità. A tesi non dissimili perviene Bobbio, secondo cui il corporatismo: "Cer-tamente tende ad attenuare il conflitto di classe, istituzionalizzandolo, garantendo così al sistema capitalistico un certo grado stabilità" Il corollario dei teoremi corporatisti così recita: più stabilità e meno democrazia. Ed è proprio qui che ancora di più si staglia la natura del corporatismo quale correttivo al decremento della decisione apportato dal pluralismo. In ambedue di casi, assistiamo a una contrazione selettiva della democrazia. Ma nell'interdire la democrazia, mentre il pluralismo intenziona instabilità ed eccesso di crisi della decisione, il corporatismo persegue la stabilità politica attraverso la compressione della democrazia. La soluzione pluralista è una soluzione mista che combina logica parlamentare e logica gruppuscolare ed è per questo che Dahl designa le democrazie pluraliste come poliarchia. Il corporatismo intende avviare a soluzione la crisi di stabilità tipica dei regimi democratici pluralistici, per cui assomma tutti i loro difetti senza raccoglierne le virtù.
Che il pluralismo democratico risulti polarizzato o meno; che il bipartitismo sia imperfetto o no, che il fazionismo sia eterodiretto o no, in queste teoriche restano elusi i nodi di fondo legati alla crisi dei regimi democratico-parlamentari. Non sono, certo, le iniezioni mediatrici del pluralismo o quelle decisioniste del corporatismo a poter determinare in avanti l'assetto politico-istituzionale delle società complesse. È il deficit della rappresentanza il problema fisiologico delle società complesse; e pluralismo. corporatismo e fazionismo non fanno che aggravarlo. De-ficit di rappresentanza non semplicemente come difetto di rappresentanza democratica degli interessi; non semplicemente come limite imposto alla cittadinanza politica. Il fatto è che al di fuori degli interessi la società trova difficoltà a rappresentare: i beni immateriali restano fuori dalla rappresentanza e dallo scambio politico; sono, per così dire, beni non negoziabili. Senso, sessualità femminile, differenze, vita e ambiente, per procedere soltanto ad alcune esemplificazioni, vengono continuamente risospinti ai margini della società ufficiale, delle in-terazioni politiche, delle culture e subculture circolanti e prevalenti. La rappresentanza degli interessi si irrigidisce e universalizza: da particolare e univoca faccia contrattual-utilitaristica della rappresentazione statuale e istituzionale, si fa rappresentazione e comunicazione tout court. Peggio ancora: gli interessi vengono trasformati nel linguaggio del "politico", della sua rappresentazione e della sua comunicazione. È dentro questa logica che si inseriscono la restrizione e la selezione del flusso delle domande e delle aspettative sociali, vero leit motiv della governabilità occidentale in questi ultimi tre decenni. A una forma di crisi si finisce col rispondere con un'altra forma di crisi. Affidare le risposte agli automatismi selettivi del mercato politico pluralistico oppure alle pulsioni decisioniste del corporatismo, oltre che penalizzare ed emarginare gli strati sociali che non trovano accesso all'area del bargaining e della cittadinanza politica, subordina la dialettica democratica alla tirannia dei gruppi più forti. Alla crisi politica della democrazia si risponde con il detournement delle sedi della decisione politica. La crisi, così delocalizzata, risulta riprodotta su scala progressivamente più amplia.
Alla crisi del modello classico di democrazia, ormai improponibile, si cumulano instabilità politica e decisionismo, governabilità e brutale lotta per la gestione del potere, conservatorismo sociale e politico mo-dernizzato. Sono proprio queste risultanze, particolarmente attive dagli anni Sessanta in avanti, che restano inindagate tanto nella riflessione conservatrice di Sartori, quanto in quella liberal di Galli che in quella neo-conservatrice di Lombardo.
2.6. Liberalismo e socialismo
Poco più di dieci anni fa, C. Crouch si è a lungo soffermato in una disamina storica del "corporatismo liberale" in Europa, di cui si fa qui uso per spostarsi alle tematiche del liberalismo e del socialismo.
Secondo Crouch, negli anni Settanta, la costante di fondo che ha accomunato le politiche sociali dei governi dei paesi capitalistici è stata la direzione concertata (shared control) dell'economia: "I sindacati e le organizzazioni imprenditoriali sono stati incoraggiati, sollecitati e, in qualche caso, costretti a spingersi oltre l'ambito meramente contrattuale, fino a farsi corresponsabili dell'insieme dei risultati economici in primo luogo in riferimento all'andamento dei redditi, ma in generale in relazione all'efficienza del sistema economico". Le "politiche del lavoro" dei governi italiani negli anni Ottanta non hanno fatto eccezione rispetto a questa regola, portata a concreta attuazione tra il 5° governo Fanfani (dicembre '82-primavera '83) e il governo Craxi (agosto '83- aprile '87), trovando nell'area Cisl il referente sindacale più sensibile e anche internamente critico, sotto molteplici aspetti.
Da questo sfondo comune, per Crouch, dipartono due tronconi principali: il corporatismo liberale e il corporatismo contrattuale, secondo una unitaria prospettiva sottostante, tendente a richiamare le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni dei lavoratori al disciplinamento dei loro associati, in funzione della efficienza economica e della stabilità politica. Per quanto attiene allo specifico del caso italiano, Crouch ri-leva un mutamento di tendenza tra il finire degli anni Settanta e l'aprirsi degli Ottanta, con la "questione della scala mobile" a funzionare da spartiacque tra le due fasi.
Il contenimento della crescita salariale al di sotto della dinamica di incremento dei prezzi, da strategia di una politica economica deflazionista, s'è trasformato in vincolo per l'accordo politico della coalizione governativa. Questo semplice rilevamento testimonia lo scarso livello di unità politica raggiunto dalla classe politica di governo e l'approccio conservatore alle tematiche e alle dinamiche del conflitto sociale. Una strategia di questo tipo viene integralmente recepita dall'accordo del gennaio 1983, legittimamente definito dal prof. Tarantelli come "accor-do di bassa lega". Per E. Tarantelli: "solo spostando lo scambio politico dal salario monetario, o perfino da qualche centesimo di salario reale, su un terreno più alto di scontro tra interessi contrapposti si toglierebbe di mano alle forze retrive e conservatrici di questo paese l'unico alibi di cui esse purtroppo dispongono: le divisioni e le responsabilità, queste sì gravi, del sindacato unitario e dell'opposizione nella battaglia sulla scala mobile come causa, non dell'inflazione in sé, ma di propagazione e sostentamento delle inflazioni e delle aspettative inflazionistiche".
Nella esperienza italiana della prima metà degli Ottanta si realizza un mix di corporatismo liberale e corporatismo contrattuale, in cui tutte le variabili del mercato vengono ricondotte alla regolazione e agli automatismi politici di una forma di "contrattualismo decisionista" e di vertice. Elementi di corporatismo convivono con elementi di pluralismo, in un costante gioco al ribasso della rigenerazione del quadro politico e nella rarefazione delle "regole del gioco". Ed è questa incongruenza di fondo che è avvertita dallo stesso prof. Tarantelli che, pure, fu tra i primi e massimi a sottolineare l'esigenza della revisione dei meccanismi del punto di contingenza.
A lato delle preferenze istituzionali dell'attore governo, il sistema delle preferenze individuali e collettive è risultato schiacciato. Ne è scaturito l'allargamento delle maglie dell'emarginazione e l'area della cittadinanza politica si è vieppiù ristretta. La limitazione dei diritti individuali, ancora una volta, si è rivelata inestricabilmente connessa con la compressione dei diritti collettivi.
Centro preferenziale delle prassi politico-istituzionali è divenuto il mercato economico, di cui quello politico è diventato una riverberazione proiettiva e, ad un tempo, un riflesso condizionato. Ma, come opportunamente ricorda S. Maffettone: "Aristotele, nella Politica, sosteneva che il mercato non è il migliore educatore per uomini virtuosi".
È indubbio che la difesa dell'autonomia degli individui e dei gruppi risponda a un criterio etico-politico definibile liberale in senso forte. Ma è altrettanto indubitabile che l'interpretazione liberale della democrazia presenti forti limiti. Questi limiti rimangono in ombra nella riflessione di G. Galli.
Ora, parlare di concezione liberale della democrazia è sinonimo di liberal-democrazia, la quale, secondo Maffettone, innerva "le sue radici in una teoria della tolleranza. Secondo tale interpretazione, la liberaldemocrazia è quella visione della convivenza che consente la coe-sistenza secondo regole di vita diversamente orientate... Perciò, non si può consentire pena lo scontro irriducibile che nell'arena politica confliggano direttamente gli ideali morali dei soggetti sociali. Ci vuole una forma di mediazione". Qui si insinua uno scarto irricomponibile tra i piani di vita dei singoli e il progetto pubblico, la decisione pubblica. Da qui il celebre teorema di Buchanan e Tullock, secondo cui il beneficio introiettato in termini di efficienza e rendimento della decisione pub-blica si sconta in termini di attenuazione dell'autonomia delle parti; e tutto il contrario.
La crescita del consenso è qui una sorta di attentato alla decisione politica. Il perfezionarsi della decisione pubblica, per contro, lede l'au-tonomia dei sistemi di preferenza. Ora, tra le altre cose, la democrazia rappresenta una novità e una discontinuità a paragone del liberalismo, proprio perché si pone il problema di incardinare l'autorità politica sul consenso, mandando a soluzione la diseconomia tra decisione e au-tonomia.
Allo scopo di superare le dicotomie autonomia/decisione, privato/ pubblico e valicare i limiti del liberalismo e quelli della democrazia, S. Maffettone elabora primi elementi di una particolare concezione liberal-socialista della democrazia. La novità della sua proposta si regge sull' inserimento del ponte intermedio dell'autorità politica fondata sul consenso (la democrazia) tra il polo della felicità privata individuale (il liberalismo) e quello opposto della felicità pubblica sociale (il socialismo). Ma, per far questo, deve fare preliminarmente i conti con la teoria della giustizia e dei beni di Rawls e Dworkin, i quali hanno ispirato due paradigmi di etica pubblica .
Ogni determinata teoria dei beni implica una ben determinata teoria della giustizia. Rawls argomenta di beni primari: reddito, benessere, considerazione di sé. Ognuno non può fare a meno di riferirsi a siffatti beni, visto che attengono alla primarietà e alla primordialità del suo esistere e del suo esperire. I beni primari sono anche interessi vitali del singolo, talmente autoevocanti e fissati nell'invisibilità della convenzione sociale da non avere bisogno di essere espressi formalmente in tutte le occasioni. È giusta quella teoria dei beni e della giustizia che, facendo ricorso all'intervento istituzionale, assicura il soddisfacimento dei beni primari di tutti i cittadini o, perlomeno, del maggior numero possibile di essi. Se nella prospettiva neoutilitaristica il mercato è la mano invisibile che corregge le discrepanze dello Stato, nel modello neocontrattualistico l'intervento istituzionale pone rimedio e argine all' azione discriminatrice del mercato.
Dworkin, per parte sua, rimpiazza i beni primari di Rawls con i diritti rilevanti, allo scopo di delineare una situazione di effettiva eguaglianza tra cittadini. I diritti fondamentali, per Dworkin, vanno fatti rispettare in tutte le sedi istituzionali e in tutte le occasioni; e in tutte le occasioni vanno formalizzati. In questo senso, vanno "presi sul serio". Dal quadro della previsionalità rawlsiana ci spostiamo sul terreno dell'effettualità e della concretazione delle garanzie dell'eguaglianza.
Come si vede — e come coglie Maffettone —, in Rawls e Dworkin la teoria dei beni non ha uno statuto epistemologico autonomo e risolve le sue aporie e le sue in congruenze concettuali, trasformandosi, più che altro, in una teoria della giustizia, dalla cui onnipervasività risulta assorbita. Una alternativa teorica è data, per Maffettone, da una "filosofia pubblica liberalsocialista. Naturalmente bisognerebbe da questa pur ragionevole esigenza arrivare a una costruzione teorica adeguata. Chiamo tale costruzione una teoria dell'integrità... Non si tratta, però, soltanto del pur prezioso nesso mancante tra teoria del bene e teoria del giusto. La teoria dell'integrità non ha un ruolo così meramente metateorico e residuale. Ha anche una funzione importante in quei contesti che spesso sono chiamati di etica applicata, e in genere nell'ambito dei problemi filosofici concernenti le politiche pubbliche". E che Maffettone ponga in relazione una teoria dell'integrità con l'etica pubblica della felicità sociale del socialismo è riprovato dalla seguente affermazione: "Per me, I'integrità è essenzialmente una virtù pubblica. Si tratta di quegli aspetti ultimi che rendono veramente tale una comunità... La teoria dell'integrità assume un legame forte e necessario tra concezione dell'io e processi collettivi. La persona è quello che è in quanto partecipa a forme di vita comuni con altri. Non esistono persone senza interazione". Gli argomenti di Maffettone consentono di riproblematizzare le classiche concezioni del socialismo liberale, particolarmente vive nella teoria politica italiana del Novecento, da Carlo Ros-selli a Norberto Bobbio e Giorgio Ruffolo. Sulla loro base, è possibile revocare in dubbio il sistema di certezze del liberalismo, della democrazia e del socialismo.
Applicare il dubbio alla griglia irrigidita di tali concettualizzazioni e indifferibile. Da più parti, negli anni ’80, questa necessità viene avvertita. Lo stesso Lindblom, in un suo denso articolo, arriva a pensare le democrazie occidentali avanzate come democrazie embrionali, poiché "afflitte dal predominio di gruppi e classi", accomunando nell'incapacità di risolvere i problemi collettivi sia l'enfasi liberale che fa asse sull'individuo, sia l'enfasi marxista che fa asse sulla possibilità ultimativa di "sradicare una volta per tutte oppressione e ingiustizia"; e qui i problemi collettivi da Lindblom posti all'ordine del giorno del calendario politico sono: "il controllo dell'energia nucleare, i danni derivanti dall' uso di sostanze tossiche, la protezione dell'ambiente, l'istruzione, e uno sviluppo umano del Terzo mondo".
Fondare anche epistemologicamente, non solo teoricamente e politicamente, l'alternativa concettuale: ecco il punto intorno cui, negli anni ‘80, si è interrogata la politologia più attenta e sensibile. Rovesciando l'espressione da Lindblom applicata alla grande industria multinazionale, si può dire che il tentativo di ricavare un modello teorico alternativo dalla crisi di quelli classici assomiglia al "pulcino che balla in mezzo a mille elefanti". Ma è indubbio che anche questo va fatto. Stanno qui, più che altrove, le difficoltà maggiori in cui ci si imbatte, ogni volta che ci si incammina per queste contrade. A meno che non si tenti, e non si riesca a trovare, un'altra strada. In ogni caso, da qui occorre pur passare. Forse, quello che nell'immediato può essere fatto è effettivamente approntare una bussola che orienti il cammino; non già una strada ben fatta e ben compiuta, oppure desumibile per differenza critica da sentieri già battuti.
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Blocco del sistema politico e limiti della domanda sociale negli anni Sessanta. |
Il modello di società pensato dal compromesso politico in opera dalla fine del secondo conflitto mondiale a tutti gli anni ‘50 e ‘60, come è possibile agevolmente ricavare dagli approcci teorico-politici passati in rassegna, è una società a conflitto zero. La struttura della Costituzione dà spazio al conflitto e, anzi, pone dei vincoli in capo agli stessi diritti ruotanti attorno alla proprietà privata. Non altrettanto può dirsi per il sistema politico. L'opposizione di sinistra, nel mentre trova una piena cittadinanza costituzionale, viene politicamente mes-sa ai margini, attraverso la conventio ad excludendum. L'integrazione dell'Italia nel circuito politico-economico internazionale impone questo prezzo. Il processo integrativo parte col piano Marshall e può dirsi concluso col miracolo economico. In larga parte, coincide con la piena industrializzazione del paese. L'Italia, da paese eminentemente agricolo, si trasforma in una nazione industriale tra le prime del mondo occidentale. Il paesaggio sociale, economico, culturale, politico e dei costumi risulta scompaginato. La formazione della classe politica di governo, in buona misura, ruota attorno alla costituzione di una moderna cultura industriale e ai valori politici dell'atlantismo; come abbiamo cercato di mettere in risalto nei due capitoli precedenti.
Per un gioco di simmetrie, la classe politica di governo ritiene che la società industriale, così come aveva integrato l'Italia nel ciclo politico-economico internazionale, fosse capace di integrare nella società politica il conflitto sociale. In questo approccio, è la società industriale che occupa per intero lo spazio della società civile. Obiettivo primario dell'azione di governo è la messa in valore politico, è l'ottimizzazione politica del ruolo dell'impresa. La riduzione della società civile a so-cieta industriale configura il conflitto sociale nei puri termini di conflitto industriale, la cui posta in gioco non può esorbitare dal campo della contrattazione su aspetti marginali della condizione lavorativa. Il conflitto viene abbassato alla soglia di contrattazione, di volta in volta, attivata e circoscritta intorno a problematiche locali, largamente secondarie a confronto della corposità dei processi in corso. Attorno a questi modelli di azione politica e a queste culture politiche prende luogo quella invasione tutta italiana della società civile da parte della società politica.
Come abbiamo già avuto modo di segnalare, è vero che la debolezza della società civile italiana è un fenomeno storico di antica data e, per così dire, fisiologico. Ma è altrettanto vero che a questa debolezza strutturale non si è mai posto rimedio politico. Anzi: sulla debolezza della società civile i partiti hanno costituito e costruito lo sviluppo della loro propria forza, facendo su di essa aggio. Se risponde a verità che le società democratiche contemporanee si sono organizzate grazie all'esistenza e all'intermediazione dei partiti, è pur vero che la democratizzazione della società non è risolvibile con la democratizzazione del sistema politico. La decisione politica non può essere un luogo chiuso, un ambito che insiste su se stesso, come il cane che si morde la coda. È anche raccordo, apertura e messa in comunicazione dello spazio politico con quello civile e sociale. È (o meglio: dovrebbe essere) il perno di una configurazione dei diritti di cittadinanza in dialogo con le strategie e le funzioni del sistema politico.
Se il modello di società pensato dall’ideologia e politologia dominanti è la società "a conflitto zero", la strategia messa in campo è quella dell'integrazione senza corrispettivo. Il corrispettivo è univoco e di natura universalizzante: progresso industriale e modernità. Ciò fa sì che l'ideologia consumistica svolga un ruolo di integratore e coagulante sociale.
Questo modello di azione politica e questo modulo di decisione politica hanno un'indubbia presa sulla realtà, pilotando enormi trasformazioni nell'economia, nelle culture e nei costumi della società. Inoltre, frammentano e vanificano l'opposizione politica e l'opposizione sociale, a lungo incapaci di ristrutturare la loro azione. La mobilitazione collettiva stenta a ritrovare la propria identità e le proprie ragioni. I soggetti che per l'innanzi l'azionavano vanno scomparendo; i valori sui quali si dava l'aggregazione vanno estinguendosi. La società industriale è urbanesimo spinto; è concentrazione delle decisioni politiche e della vita sociale in pochi e grandi agglomerati urbani, dal Nord al Sud del paese; è esodo di massa dalle zone di sottosviluppo del paese; è, per riprendere i termini di un celebre dibattito dei primi anni Sessanta, disaggregazione del tessuto sociale nazionale in "zone di fuga" e "zone di attrazione". L'ingresso dell'Italia nel novero dei paesi maggiormente industrializzati ha fortemente penalizzato le popolazioni meridionali, le loro tradizioni e le loro risorse. Il paesaggio meridionale è risultato letteralmente sconvolto: isole di industrializzazione e di modernità convivono con un vero e proprio deserto sociale. Intere province, se non intere regioni, versano in uno stato di completo abbandono. Abbandono che fa contrasto con i messaggi dell'opulenza e dell'integrazione che, grazie allo sbalorditivo progresso dei mezzi di comunicazione di massa e in special modo della televisione, pervengono fin nei più sperduti casolari del più isolato paese di montagna. Lo stridore tra l'opulenza trasmessa e incoraggiata dal messaggio dei media e le emarginate condizioni di vita che persistono nel Sud alimenta in grosse fette di popolazione meridionale processi di frustrazione, i quali conducono inevitabilmente a rimpiangere tempi antichi, se non remoti, in cui si era immessi in un ciclo e in un ritmo di vita più stabili e meno estranianti. Per quelle quote di popolazione meridionale per le quali il passato non è presente come rimpianto, il futuro altro non è che la civiltà industriale, la quale ha valori portanti e gangli vitali nel Nord del paese. Il Meridione pare schiacciato tra il polo della nostalgia e il polo della fuga. Quasi che fosse una terra, ormai, senza radici e senza presente a cui, per questo, un futuro di emancipazione non può che essere negato. L'integrazione dell'Italia, nel circuito internazionale conclusasi col miracolo economico, ha una polarità in luce e l'altra in ombra: da una parte, la solarità del regime di piena occupazione, presente nel programmi governativi; dall'altra, il rovescio oscuro dell'emigrazione meridionale.
Il processo della transizione dalla società arretrata alla società avanzata è avvenuto nel silenzio pressoché integrale della mobilitazione collettiva. Al punto che le teoriche dell'integrazione, riferimento della classe politica di governo, parevano aver completamente esaurito il panorama della discussione politica. Il fatto è che la transizione in corso disegna una geografia di soggetti sociali, una base motivazionale dell'azione collettiva, orizzonti interpersonali e comunicativi di difficile decifrazione. Si pensi al secolare processo di differenziazione dei soggetti, di mutamento delle credenze e delle opinioni e di cambiamento delle mentalità che ha accompagnato la secolare transizione dal feudalesimo al capitalismo. Qualcosa del genere, con le debite differenze, è accaduto in Italia dal 1945 ai primi anni Sessanta, con una concentrazione nel tempo e nello spazio di inaudita intensità. Le reti dell'azione collettiva ne sono risultate traumatizzate. Il trauma della modernità ha, per una lunga fase, paralizzato l'azione collettiva.
L'aggregazione delle nuove figure sociali, mano a mano che procedeva la disaggregazione puntuale delle vecchie, faticava a delinearsi. Un largo schieramento sociale pro-emancipazione stentava, così, a coagularsi.
Come si è visto nel capitolo I, l'industrializzazione compiuta del paese è un momento di formazione di una nuova classe operaia, non più imperniata sulla professionalità e sulla specializzazione, ma sulla scomposizione e sulla rotazione delle mansioni, caratterizzate da un tasso di alta semplificazione tecnico-manipolativa. La ristrutturazione del processo produttivo e del ciclo lavorativo, secondo i modelli più avanzati dello sviluppo capitalistico, ha un grosso effetto aggregante sulla forza-lavoro: riducendola alla misura comune di operazioni parziali intercambiabili, la si riunifica ben dentro il "cuore" del processo produttivo. Sta qui la debolezza di fondo del ciclo taylorista-fordista. Quanto più procede questo modo del produrre, tanto più si alimenta il potere di aggregazione e contrattazione della classe operaia. Come, a più riprese, abbiamo già rilevato, Raniero Panzieri è il solo a leggere questa tendenza e a porsi seriamente il problema della rielaborazione della teoria e della politica a favore della classe operaia. P.zza Statuto e le lotte dei metalmeccanici nelle tornate contrattuali del 1962-63 e 1965-66 aprono un nuovo ciclo storico della mobilitazione collettiva, a forte egemonia operaia. Contraddittoriamente: la società avanzata è il teatro della debolezza progettuale e della crisi della società politica e della forza della nuova classe operaia.
La società avanzata, perché questa è, ormai, la società italiana al tornante dei primi anni Sessanta, reclamava una democrazia avanzata. Al contrario, sistema politico e classe politica di governo rimangono attestati al modello della democrazia incompiuta. All'ordine del giorno, ora più che mai in passato, è un patto sociale avanzato, da cui ridisegnare l'asse e le forme del compromesso politico. Ma tutto ciò richiedeva la preliminare rimozione dei partiti dalla loro posizione di centralità e di dominio. Sostiene efficacemente G. Pasquino che la posizione di potere dei partiti in Italia dipende dalla circostanza che essi controllano e guidano i "processi di trasformazione della società". Con Farneti, possiamo definire questa prima e lunga fase della democrazia italiana come decennio (1948-58) del primato dei partiti politici. In questa fase, precisa Farneti, al "dominio dei partiti sul Parlamento" corrispondono le "teorie della partitocrazia". Intorno a questo capovolgimento del rapporto tra Parlamento e partiti sono nate le fortunate teorie della "dittatura della maggioranza". Ciò determina effetti di polarizzazione politica, tema caro a Farneti, poiché i partiti dell'opposizione "mobilitano ampi settori del movimento operaio contro queste scelte, e si cristallizza così la polarizzazione politica e sociale che definisce sicuramente gli anni Cinquanta".
Su questo complesso di processi si innesta, continua Farneti, la fase del decennio (1958-68) del primato della società civile. È il "periodo in cui lo sviluppo economico e le trasformazioni della società civile operano mutamenti profondi nella condizione socio-economica, nelle scelte di vita e negli atteggiamenti della base sociale, dei partiti, che si rifletteranno prima nelle subculture poi sui partiti tributari delle subculture italiane". Il centrosinistra non può far altro che registrare mutamenti già avvenuti, secondo quella tesi classica che recita che "il capitalismo produce sviluppo".
La posizione e le motivazioni da cui il Psi si fa partecipe della coalizione di governo sono proprio date dall'impegno politico di "accom-pagnare i mutamenti", per aprire "nuovi spazi di libertà". Da questa angolazione, a tutti gli anni Ottanta viene argomentata una difesa enfatica del centrosinistra, poiché avrebbe aperto quell'arena entro cui hanno fatto irruzione i movimenti pre-Sessantotto e il Sessantotto medesimo. La tesi si appoggia sul seguente postulato: col centrosi-nistra, per la prima volta, la società civile trova una possibilità di espressione politica. Lo schema teorico di riferimento, al riguardo, è quello del "coinvolgimento" approntato da A. O. Hirschman.
Diverso è il taglio e lo spessore della celebre autocritica di G. Ruffolo, di cui abbiamo argomentato nel capitolo secondo a cui si rinvia.
Il processo di democratizzazione della domanda politica caratterizza tutte le società industriali avanzate, fino al punto da essere temuto e sofferto come ingorgo dei processi decisionali. A proposito del biennio 1968-69, Farneti sostiene: "le nuove forme di aggregazione e mobilitazione politica, da quella dei gruppi spontanei e studenteschi a quella operaia e sindacale, hanno incrinato, se pure attraverso molteplici contraddizioni, il monopolio di aggregazione e mobilitazione politica dei partiti politici (ma anche di certe strutture della società civile)". Altrove, con maggiore precisione, Farneti suggerisce di interpretare la mobilitazione del 1968-69 come "la chiusura di un cinquantennio di grandi investimenti ideologici iniziatisi con la prima guerra mondiale".
Vediamo di rappresentare schematicamente questo passaggio da un orizzonte all'altro: (i) peso crescente degli effetti dovuti allo sviluppo economico, originatosi nel secondo dopoguerra; (ii) dispiegamento di complessi e profondi fenomeni di mobilità sociale e di mutamento della geografia dei soggetti sociali; (iii) espansione crescente della domanda di beni e di risorse; (iv) crisi definitiva di tutte le culture e le subculture della tradizione unitaria e post-unitaria; (v) disagio e ritardo del sistema politico a confronto dell'emergente nella società civile. Il primato della società politica si ribalta in primato della società civile. Qui si innesta, continua Farneti, la questione cruciale di "una centralità delle istituzioni rispetto alla realizzazione collettiva degli "interessi" nella società civile".
Il complesso assai ramificato di queste dinamiche, ridotto all'osso, altro non è che estrema evidenziazione della "crisi di rappresentanza" che il biennio 1968-69 disvela e, insieme, suggella e porta alle estreme conseguenze. I movimenti collettivi proliferano, assumendo un'aperta caratterizzazione anti-istituzionale, tentando di veicolare la loro domanda di beni e di autonomia contro il sistema della rappresentanza dato. La contestazione del sistema della rappresentanza è a pioggia e l'autonomia di senso della mobilitazione collettiva si apre a raggiera. Contestazione e autonomia divengono critica della cultura vigente e dell'autorità; critica della organizzazione del lavoro e del complesso delle relazioni industriali; critica del sistema di vita e dei costumi dell'epoca. Ma l'indebolimento dei partiti che ne consegue non si converte in un rafforzamento della società civile. Lo iato tra società politica e movimenti convive con quello tra movimento e società civile, il cui primato non si riverbera in riassetto istituzionale, in profonda modifica dell'organizzazione e del funzionamento delle istituzioni. Ciò provoca un'occlusione politica, poiché, come aveva ben visto Farneti, la crisi del sistema politico e la contestuale crescita della società civile impongono drammaticamente e urgentemente la centralità della "questione istituzionale", attraverso la quale soltanto può procedere la rigenerazione del sistema politico. La critica della mobilitazione collettiva e della domanda sociale al sistema politico-istituzionale è su questo decisivo piano che conosce una grave caduta di tensione. Esse si trovano ad essere, per metà, la reazione al precipitato di una crisi di sistema e, per l'altra metà, l'approssimazione incipiente, ma sufficientemente stagliata, di valori e comportamenti chiaramente innovativi. Mobilitazione collettiva e domanda sociale, nel biennio 1968-69, si trovano sospese a metà strada tra l' essere un prodotto della crisi e un agente parziale di un riassetto del sistema politico. Fattori di residualità si cumulano inestricabilmente con fattori di mutamento. Questa ambivalenza e questa ambiguità originarie segneranno molte sconfitte dei movimenti degli anni Settanta, fino alla loro crisi definitiva.
Si trattava e si tratta di recuperare la dinamica istituzionale a una dinamica democratica avanzata (verrebbe di dire: democrazia complessa). La democratizzazione della domanda politica e la proliferazione di domande sociali sempre più evolute, linea di volta della pres-sione della domanda sociale nella società complesse, solo modificando il funzionamento e la decisione istituzionale possono strappare la società politica al suo delirio di onnipotenza. La critica delle istituzioni è, pertanto, anche richiesta di nuove istituzioni, di nuove organizzazioni istituzionali, allo scopo di fissare e legalizzare, non solo legittimare, punti di non ritorno nel mutamento sociale; in vista di conquiste di emancipazione e di libertà, la cui rimessa in discussione non sia agevole; nella prospettiva dell’avanzamento di nuovi diritti e nuove garanzie, il cui carattere inerziale non li faccia rifluire nel vuoto e nell'oblio.