CAP. IV

FENOMENOLOGIA DINAMICA DELLA CRISI:

DAGLI ANNI '60 AI '70

  

 

1. La crisi sociale

Negli anni Sessanta e Settanta nella società italiana si innesca e manifesta in dosi sempre più intense ed estese una crisi che non risparmia nessuna delle sue istituzioni, dei suoi universi di valore, dei suoi sistemi, delle sue culture e subculture, dei suoi attori politici e dei suoi soggetti sociali. Diversi sono stati i cicli e i modi attraverso cui la crisi è andata procedendo; diversi i comportamenti istituzionali, gli atteggiamenti del sistema politico e delle sue singole forze, del sistema produttivo e dei suoi agenti; diverse, passando da un ciclo all'altro, le azioni e le finalità della mobilitazione collettiva. Si può argomentare sia di "crisi organica" che di "crisi multiforme"; sia di "crisi polisettoriale" che di "crisi di lungo periodo"; sia di "crisi politica" che di "crisi culturale"; sia di "crisi economica" che di "crisi dei costumi". Possiamo designare questo campo di problemi, dispiegati nello spazio e prolungati nel tempo, come crisi sociale. Ed è la crisi sociale che ha costituito il tratto distintivo del "caso italiano" in tutti gli anni '60 e '70. Tale crisi non ha ricevuto soluzioni negli anni '80 e tutt'oggi appare attiva nelle sue causali e nei suoi effetti. Il campo della crisi sociale ha trovato e trova assolutamente impreparato il sistema politico, le strutture istituzionali, gli agenti della produzione, i luoghi e i soggetti della rappresentanza e gli stessi attori sociali: tutti quanti, nel fronteggiarla e nel tentare di avviarla a soluzione, hanno palesato un macroscopico e variegato anacronismo nelle culture e nelle prassi, nei progetti e nelle strategie, nelle decisioni e nelle iniziative.

A prima vista, ci troviamo di fronte a un paradosso: le determi-nanti della crisi sociale italiana sono, in qualche misura, coeve ad una fase di intenso sviluppo. Il riferimento, sin troppo scopertamente, è al ciclo del mutamento rappresentato dal miracolo economico (1956-1962). Nella storia dell'Italia post-unitaria nessun periodo storico ha fatto registrare un così intenso e prolungato ciclo di sviluppo; unico precedente lontanamente paragonabile è la fase di sviluppo giolittiana. Il paradosso in questione è agevolmente smontabile: l'integrazione dell'Italia nei cicli accumulativi internazionali è sproporzionatamente subordinata alle ragioni dell'economia americana e agli interessi strategici del sistema sovranazionale incardinato attorno agli Usa. Questo "vizio di origine" mutila i potenziali interni dell'economia italiana e minimalizza l'area di vigenza ed estensione della democrazia. Il capitalismo italiano che va costruendosi nel secondo dopoguerra, come abbiamo diffusamente argomentato nel primo capitolo, nasce con strutturali debolezze. Tali debolezze costituiscono un vero e proprio labirinto di impedimenti originari, su cui non si interverrà mai con politiche strutturali e risolutrici. Ecco come efficacemente S. Tarrow riassume la situazione: "La debolezza del caso italiano era dovuta:

a) alla presenza di un vasto settore arretrato in un'economia industriale in espansione;

b) all'arretratezza del settore della produzione e trasformazione dei generi alimentari e dal disavanzo commerciale strutturale che ne derivava;

c) a una riserva di lavoro a basso costo che si sarebbe in gran parte esaurita agli inizi degli anni ‘70;

d) a un livello di domanda interna che, per quanto "consumistica", non cresceva in misura sufficiente per sostenere un'economia orientata alle esportazioni in periodi di recessione internazionale".

Il potenziale dell'economia italiana rimane compresso, esat-tamente nella misura in cui non si interviene correttivamente sulle sue strutture deboli; la qual cosa non può che provocare una progressiva contrazione delle sfere di azione della democrazia. È la manifestazione di un grande effetto di coerenza quella che vede proprio il sistema di variabili costruito nella fase repubblicana sottodimen-sionare le risorse dell'economia e della democrazia italiana.

Le determinazioni principali del problema sono di natura politica: stanno nella carenza di progettualità e lucidità strategica della classe politica di governo formatasi negli anni '50 e '60; nel corto respiro degli interessi che essa rappresenta; nella contrapposizione di veti di natura oligarchica che impastoiano le condotte della decisione politica, aprendo pratiche di contrattazione, di sottogoverno, di clientelismo e di trasformismo a flusso sequenziale praticamente illimitato. Scrive pertinentemente C. Donolo: "la mediazione tra sviluppo e sottosviluppo viene assunta dalla Dc, la quale utilizza il monopolio del potere per costruire una sua base sociale, modificando così progressivamente la composizione del blocco dominante. Le mediazioni all'interno del blocco dominante diventano le sue attività predominanti e producono una decrescente capacità decisionale di tutto il sistema politico". Del resto, questa ambivalenza paralizzante, come abbiamo avuto modo di segnalare nel capitolo secondo, è un po’ il vizio di origine della Dc. Correttamente conclude S. Tarrow: "l'esperienza italiana degli anni '60 insegna che fu l'espansione e la crisi del blocco politico dominante e il modo con cui questo mediava le sue divergenze interne ad agire come causa prima dell'incapacità decisionale del governo, e non il sistema economico in se stesso".

Le variabili principali del sistema economico italiano, nel periodo del miracolo economico, appaiono fortemente squilibrate, a partire dal "dualismo storico" Nord/Sud. Il sistema industriale italiano, come già visto, va specializzandosi in beni di consumo durevoli, la cui destinazione è il mercato estero; a ciò conseguono una forte atrofia del mercato interno e rilevanti scompensi intersettoriali nelle economie delle stesse aree industriali forti del Nord. Il processo di concentra-zione nel Mezzogiorno delle produzioni marginali riceve da qui una spinta decisiva e considerevole; al punto che, non del tutto illegittimamente, si è potuto, in proposito, parlare di "industrializzazione senza sviluppo".

L'ipotesi del centrosinistra nasce proprio dalla consapevolezza interna alla classe politica del ruolo di moltiplicatore di diseconomie esercitato da tali squilibri. La famosa Nota aggíuntiva di U. La Malfa (Relazione Generale presentata al Parlamento il 22 maggio 1962) costituisce uno dei punti alti di tale consapevolezza. È nota la dicotomia "consumi opulenti"/"consumi pubblici" da cui muove l'analisi di U. La Malfa, per sostenere, di fatto, le (altrettanto note) strategie del "risparmio contrattuale"; all'epoca particolarmente teorizzate dalla Cisl e dalla sinistra democristiana e non lontane dalle posizioni espresse da "La Rivista Trimestrale", soprattutto nell'elaborazione di C. Napoleoni. Per U. La Malfa, la diffusione dei "consumi opulenti" equivale a una veicolazione degli squilibri su cui essi attecchiscono, a partire dalla redistribuzione del reddito: "Per una sorta di effetto di imitazione, anche i percettori di bassi redditi sono indotti a trascurare e a comprimere i consumi più essenziali pur di possedere beni, specialmente di consumo durevole, che l'esempio delle classi più agiate e l'opera di persuasione dei mezzi pubblicitari fanno preferire". La dinamica salariale, per essere coerentemente produttrice di sviluppo equilibrato, va, conseguentemente, stornata dai beni di consumo durevoli e indirizzata verso i consumi pubblici: "l'aumento e il miglioramento dei consumi pubblici rappresentano una delle forme più desiderabili di aumento del reddito reale e di miglioramento del tenore di vita, in quanto esse risultano più equamente distribuite tra tutti i membri della collettività. Una espansione dei consumi pubblici comparativamente ai consumi privati, ossia un tasso di incremento dei primi superiore a quello dei secondi, rappresenta pertanto un con-tributo fondamentale al raggiungimento di un reale benessere collettivo". Se fin qui registriamo una convergenza tra la strategia lamalfiana e quella del "risparmio contrattuale" della Cisl, nel suo sviluppo politico la posizione di La Malfa apre una seconda e non meno rilevante convergenza con la strategia delle "riforme di struttura" teorizzate e caldeggiate soprattutto in ambito Cgil (e Pci). Vediamolo direttamente: "Un'azione di questo genere richiede naturalmente una decisa volontà politica, alla formazione della quale sembra indispensabile l'adesione dei sindacati operai. Questi possono decisamente contribuire alla ricerca del miglioramento delle condizioni dei lavoratori che provenga soltanto in parte dall'aumento dei salari, e si fondi, per il resto, su altre forme di aumento del reddito reale (buone scuole, aperte alle giovani generazioni; migliore assistenza medica, minore tempo e minori scese per i trasporti tra casa e lavoro e così via)".

Questa indubbia posizione riformatrice – e con essa tutta la generazione politica della "programmazione economica" – ha il torto di non riuscire a dipanare il nodo di fondo: la sperequazione strutturale del rapporto profitto/salari. Il proposto trasferimento di quote del salario reale allo sviluppo democratico ed equilibrato, se può valere a migliorare la condizione relativa della classe operaia e dell'intera cittadinanza nei termini della fruizione di una rete di servizi più avanzati, assolutamente non può scalfire le posizioni di profitto e di rendita più forti e maggiormente consolidate. Il punto era ed è esattamente questo: senza ridurre le quote di potere del profitto e della rendita affermatesi col modello di capitalismo uscito dal secondo dopoguerra, non era e non è possibile operare in profondità la democratizzazione del capitalismo italiano. Non si poteva e non si può chiedere alle classi, ai ceti e ai gruppi sociali responsabili di quelle strategie e di quei modelli la partecipazione attiva e convinta a quest'indifferibile e mai compiuta opera di democratizzazione. Democratizzare il capitalismo italiano significava e significa colpire proprio gli interessi di quelle classi, di quei ceti e di quei gruppi sociali. Il limite di fondo del centrosinistra e della programmazione sta precisamente qui: muovere verso una fase sociale nuova e aprire una stagione politica inedita, senza spianare la strada dalle resistenze antiche e dagli interessi dei poteri consolidati.

Questo esito costituisce una copertura e una cristallizzazione dei "problemi non risolti" del capitalismo e della democrazia in Italia. Il deficit di strategia politica fa massa con la difesa di interessi particolaristici e l'una cosa alimenta l'altra in un circolo chiuso che si autoriproduce all'infinito. La razionalizzazione dell'economia e della società italiana, in queste condizioni, ha visto letteralmente franarsi il terreno sotto i piedi. La vulnerabilità strutturale dell'economia italiana è divenuta, per dir così, il "nervo scoperto" della classe politica legata al monopolio del potere esercitato dalla Dc. Tuttavia, proprio questo "nervo" è stato quello meno attaccato dalle strategie della sinistra prima e dei movimenti di massa dopo. Degli squilibri originari del capitalismo italiano e dei suoi "problemi irrisolti" il monopolio del potere esercitato dalla Dc ha fatto la propria forza, operando, per il tramite del loro governo, un "blocco" costante e controllato della società civile e del sistema politico stesso. Dagli anni '50 agli inizi dei '70, è in questo contesto che procede la statalizzazione dello sviluppo, attraverso il sistema delle PP.SS. e degli enti collegati, che crea e lubrifica un modello tutto particolare di interazione (i) produzione/redditi/ consumi, (ii) Stato/mercato, (iii) classe politica/rappresentanza, (iv) istituzioni elettive/voto di scambio. Sistema di relazioni che si esplica in funzione della legittimazione a posteriori e del rafforzamento a priori della presa politica sulla società operata dal monopolio del potere detenuto dalla Dc. Le incongruenze di strategia economica, le contraddizioni e i ritardi delle decisioni politiche trovano in questo retroterra il loro punto di applicazione irremovibile. L'architettura e la geografia economico-sociali dell'Italia sono state pesantemente condizionate dalle forme politiche di governo e dai baricentri politici dei governi di coalizione dagli anni '50 ai '60 alla guida del paese. Siamo in presenza di uno sviluppo comandato secondo una razionalità di calcolo politico e non di calcolo economico che ha reso progressivamente più vulnerabile la società civile e lo stesso apparato produttivo. Già nella crisi congiunturale 1962-63 e, ancor di più, nella recessione del 1964 appare chiaro che: "lo squilibrio a favore del consumo nella composizione della domanda ha infatti (direttamente o indirettamente) rallentato lo sviluppo della razionalizzazione dei settori arretrati, per la quale sono necessari massicci investimenti (hanno infatti avuto priorità investimenti nei settori dei beni di consumo durevoli o in settori con ripercussioni dirette sulla domanda di tali beni: ad es. la costruzione di autostrade)... hanno avuto un'accentuazione particolare certi fattori che spingono l'offerta ad "adagiarsi" sulle linee più comode di soddisfacimento della domanda (immediata, ed interna),con conseguenze che non tardano a manifestarsi".

La crisi dell'economia ha, in Italia, il suo centro di imputazione principale nella crisi della politica; intendendo per crisi della politica: (i) la situazione di monopolio del potere esercitato dalla Dc per un trentennio; (ii) la permanenza dell'egemonia della Dc, nonostante il venir meno della sua centralità politica. Questa traiettoria della crisi della politica parla esplicitamente, in Italia, della crisi della sinistra, incapace di proporsi come nuovo baricentro della situazione politica, nonostante l'evidente e, ormai, prolungata crisi della Dc. E non si è trattato, come pure è stato spesso argomentato e come pure si è verificato, soltanto di preclusioni di carattere internazionale all'accesso al governo da parte della sinistra. In altri casi e situazioni, come in Inghilterra e in Germania prima e in Francia, Portogallo, Grecia e Spagna dopo, queste stesse contrarietà non hanno potuto impedire che la sinistra salisse al potere. La sinistra, in Italia, deve fare i conti con alcune sue deficienze organiche, mai adeguatamente meditate e assunte con la necessaria analisi critica e autocritica, secondo un grado di responsabilità politica e di arretratezza culturale che varia da una forza all'altra.

L'approccio neoclassico allo sviluppo e al conflitto ha, invece, sempre spiegato le debolezze e le strozzature dell'economia italiana con le forti rigidità contrattuali e sindacali del "fattore lavoro", soprattutto a lato dei suoi "costi unitari". Come nota acutamente M. Paci: "In realtà, nel momento stesso in cui queste interpretazioni venivano formulate, la storia si stava incaricando di smentirle: gli anni Cinquanta, infatti, furono anni di progressivo indebolimento del sindacato e di forti flussi migratori interni di forza lavoro". Come abbiamo avuto già modo di argomentare diffusamente nel primo capitolo, il mutamento collegato al miracolo economico può essere ricondotto a due modalità precipue:

a) ciclo a costo zero: nel senso che la curva dei profitti schiaccia progressivamente in basso la curva dei salari;

b) ciclo a conflítto zero: nel senso che le dinamiche della mo-dernizzazione in atto tacitano, soffocano e spiazzano il libero espri-mersi della conflittualità sociale.

Le tesi del salario quale causa principale dell'inflazione, come ampiamente prevedibile, vengono largamente riprese dopo l'autunno caldo e negli anni '70, a fronte di cicli di aumenti salariali estremamente consistenti. E, questa volta, non soltanto in ambiti teorico- culturali particolarmente legati e collegati al Fondo Monetario Internazionale, ma anche progressisti e addirittura sindacali. Il caso limite è rappresentato dal celebre economista del MIT e premio Nobel F. Modigliani che, per tutto un decennio, batte su questo tasto, assumendo l'Italia come un caso esemplare di "inflazione da salari" e, perciò, "incompatibile con gli obiettivi di piena occupazione, stabilità dei prezzi ed equilibrio esterno".

Il tambureggiare di tali posizioni è tale che esse riescono ad aprirsi un varco all'interno del movimento sindacale: la "svolta dell'Eur" ne costituisce la sanzione formale. Ma occorre riconoscere che esistono delle origini remote, su cui le politiche sindacali di contenimento salariale della seconda metà degli anni '70 attecchiscono e di cui costituiscono la linea di sviluppo nella continuità. Da questa angolazione andrebbero rilette, in particolare, le posizioni della Cgil e della Cisl agli inizi degli anni '60, sul rapporto tra salario e sviluppo e tra produttività e salari. Secondo le posizioni della Cgil e, particolarmente, del suo segretario generale dell'epoca (A. Novella), l'aumento del salario reale va nella direzione di uno sviluppo economico program-mato ed equilibrato e, in quanto tale, democratico e antimonopolistico. Ne discende che i bassi salari sarebbero il contrassegno di un' economia monopolistica (come quella, si fa notare, del miracolo economico); mentre gli alti salari costituirebbero uno dei portati di un'eco-nomia democratica (come quella, si fa notare, del centrosinistra). Il salario è, quindi, assunto, come funzione diretta dello sviluppo, al cui ciclo viene subordinato in linea teorica e pratica. Su questa piattaforma teorico-politica, la strategia salariale sindacale si duplica secondo due variabili principali:

a) nella fase alta del ciclo si giustificano pienamente gli aumenti salariali;

b) nella fase bassa del ciclo, invece, la dinamica salariale non può infrangere le linee di compatibilità dello sviluppo, altrimenti le cerchie della crisi lavorerebbero alla deflagrazione dell'intero sistema produttivo ed economico.

Lungo tale linea di coerenza muove, negli anni '70, la "svolta dell'Eur", con l'esplicita teorizzazione e messa in pratica del salario quale variabile dipendente dello sviluppo (e, dunque, del profitto), nella elaborazione e difesa della quale gioca un ruolo decisivo il segretario generale della Cgil (L. Lama).

Ancora un volta, sarà la storia a confutare tali posizioni, invero assai semplificatrici. In tutto il corso degli anni '80, i salari operai e la conflittualità sociale sono investiti da una parabola discendente. Non per questo la crisi economica e sociale italiana è stata risolta nei suoi elementi strutturali; anzi. Assumere il salario come unico elemento di condizionamento del profitto è una semplificazione teorica, prima ancora che un'analisi politica strumentale. Il nesso sviluppo/salari e profitto/salari è assai più complesso della pura e semplice traduzione monetaria della relazione capitale/lavoro salariato. Detto questo, non si può trascurare di considerare l'effetto politicamente dirompente degli aumenti salariali delle lotte operaie negli anni '60 e nella prima metà dei '70; come vedremo specificamente nei paragrafi dedicati all’autunno caldo . La parabola della crescita del salario reale è, così, rappresentabile: "Il dopoguerra, ed in particolare gli anni '60, hanno fatto registrare aumenti del salario reale 3 o 4 volte superiori a quelli, semistagnanti, delle medie di lungo periodo. La cosa risulta, poi, particolarmente evidente, per quanto riguarda l'Italia, quando si pensi che, fatto 100 l'indice del salario reale nel 1913, questo rimane fisso nel primo mezzo secolo (quota 100,9 fra il 1900 e il 1950), per poi salire a quota 147 fra il '51 e il '60, a 211 fra il 60 e il '69 e a 305 fra il '69 e il '75". Abituato ai bassissimi salari di tutto il ciclo 1900-1950 e ai bassi salari del ciclo 1950-1961, il capitalismo italiano non può non subire i contraccolpi della dinamica salariale ascendente attivata dalle lotte operaie negli anni '60-70. Ma il contraccolpo non sta nella dinamica salariale in sé; piuttosto, va ricercato nel venir meno della tradizionale manovra politico-economica di contenimento e schiacciamento non solo del salario reale, ma dello stesso salario nominale. I problemi politici del ciclo vanno ricercati, a monte, in quell'esaltazione del profitto intenzionante una dinamica sottosalariale che, nel medio e lungo termine, sprigiona effetti boomerang:

a) sul piano economico: un regime di sottosalari è controtendenziale rispetto allo sviluppo (quanto, per ragioni opposte, un regime di supersalari), perché comprime il rapporto domanda/offerta e il legame produzione/mercato/consumi;

b) sul piano politico: un regime di sottosalari fa convergere le ragioni del conflitto politico-sociale intorno alla dinamica salariale che, così, assume quel ruolo di centralità politica che, pure, le si vuole assolutamente interdire

Sul piano strettamente economico, il nodo del problema — come visto nel primo capitolo — sta nella matrice del modello di sviluppo italiano, articolato secondo tre linee di alimentazione principali:

a) offerta di beni per l'esportazione;

b) domanda di beni di consumo;

c) redistribuzione del reddito discriminante e squilibrante.

Le tre linee congiurano nello scompaginare la struttura generale della domanda ad ogni semplice aumento della richiesta di beni di prima necessità, poiché il conseguente incremento delle importazioni viene compensato dalla contrazione della domanda, attraverso la riduzione del potere di acquisto dei salari. Cosicché, non intervenendo sull'offerta, la struttura produttiva rimane eternamente immutata nei suoi assetti e nelle sue diseconomie funzionali, in una spirale perversa che riproduce eternamente i suoi vizi congeniti. Gli economisti hanno unanimemente e legittimamente argomentato, al riguardo, di vocazione deflazionista del capitalismo italiano. Tale vocazione si corona coerentemente ed esemplarmente con una indomabile volontà politica tendente alla riduzione degli spazi democratici. Le strut-ture politico-economiche di questo modello di sviluppo saltano in aria non solo per le contraddizioni e i limiti interni e l'azione politica delle lotte operaie che abbiamo sinteticamente esaminato; ma anche per la non secondaria ragione che negli anni '70 l'economia mondiale precipita in una prolungata e generalizzata fase di recessione, di cui i due shock petroliferi e le ricorrenti e sempre più gravi crisi monetarie non sono che la classica punta dell'iceberg.

Profitto massimo e democrazia minima costituiscono i poli fondamentali della società italiana prima, durante e dopo il miracolo economico. Si innesta qui uno dei principali meccanismi alimentatori e moltiplicatori della crisi sociale. Questi due poli diventano il bersaglio principale delle lotte operaie in tutti gli anni '60, fino all'esplosione dell'autunno caldo e delle lotte sociali degli anni '70. Essi delimitano le linee perimetrali dell'arena politica intorno cui prende origine e si sviluppa il conflitto sociale, con la creazione di schieramenti contrapposti e mobili.

2. La colonizzazione politica

Il sistema delle strozzature non risolte del capitalismo italiano è tra le causali principali delle debolezze della democrazia italiana che, a loro a volta, si riverberano sulla struttura produttiva e sui meccanismi della stratificazione sociale, confermandone e dilatandone i fattori di squilibrio.

Anni fa, ha avuto modo di dire G. Amato: "noi stiamo transitando dal passato al futuro del capitalismo industriale senza averne vissuto il presente". Ed egli aggiunge, quasi immediatamente dopo, allargando a dismisura la prospettiva storico-temporale dell'analisi: "Lo Stato non lo fece in Italia una classe intenzionata a servirsene per far correre meglio il motore capitalistico... Ho sempre considerato un simbolo e un peccato originale non più cancellato il primo atto compiuto dalla borghesia laica che creò il Regno d'Italia: la spartizione delle terre degli ecclesiastici e dei baroni. L'Italia nacque all'insegna della spartizione e a poco giova che ne fosse oggetto la manomorta improduttiva. A subentrare non fu infatti un ceto produttivo, furono gli sciacalli disprezzati dal principe di Salina, che vollero le terre per farne oggetto di operazioni speculative. All'assenteismo dei baroni si sostituì quello degli avvocati (o meglio prese ad affiancarsi quello degli avvocati perché furono pochi i baroni sbalzati di sella) e per i contadini poco o nulla cambiò". Nell'Italia unitaria e post-unitaria la borghesia si distingue, osserva Amato, per essere borghesia speculativa, anziché produttiva: "In tal modo curava se stessa, ma non aveva nulla con cui trascinare, coinvolgere gli altri, che restavano com'erano. Gli industriali non c'erano o erano pochi quando nacque l'Italia; e allorché sopraggiunsero dovettero patteggiare la propria crescita con questi più forti alleati di classe, né potevano essere più loro, ormai, a cambiare le cose". Sta qui il calco originario dell'intreccio specificamente italiano tra forma Stato e mercato, tra sistema politico e società, tra classe politica e società industriale: "Ecco profilarsi dunque lo specifico storico del caso italiano. La nostra rivoluzione liberale lasciò la società più o meno come l'aveva trovata. Perdurarono le tendenze alle chiusure particolaristiche, che esprimevano spesso un naturale atteggiamento difensivo, perdurò l'abbandono al loro stato di sfruttata miseria delle masse contadine, un'immensa mina vagante sotto le istituzioni, che le temevano ma non seppero integrarle".

La "rivoluzione democratica" che apre la fase repubblicana e pluralista della storia dell'Italia contemporanea esprime, pur dentro una serie di fratture rilevanti e irreversibili, una forte linea di continuità rispetto alla "rivoluzione liberale", nel rapporto tra Stato e mercato, tra classe politica e sviluppo industriale, tra sistema politico e masse. Il metodo del patteggiamento e della contrattazione degli interessi tra i ceti e i gruppi dominanti prevale costantemente sulla trasparenza delle procedure e delle decisioni democratiche, sulla razionalità dell'intrapresa economica. Al punto che la classe politica va progressivamente assumendo funzioni imprenditoriali, a lato e oltre il sistema delle PP. SS.; che gli imprenditori debbono allinearsi a funzioni e gerarchie politiche, per aprire le valvole dei finanziamenti pubblici.

Ma, diversamente dalla "rivoluzione liberale", la "rivoluzione democratica" sconvolge da cima a fondo la società, non lasciando più niente al suo posto e trasformando tutto quello che incappa nel suo vortice. Tutto viene sovvertito, tranne quegli elementi del "calco originario" individuati da G. Amato. Anzi, è proprio partendo dalla conferma e dalla innovazione modernizzante di quei tratti che "tutto cambia", secondo risultanze storiche e politiche che non possono non far tornare alla mente la famosa espressione di Tommasi Lampedusa. Certamente, esiste un problema di continuità nella "questione dello Stato" tra fase repubblicana e precedente regime fascista, rilevabile già dalla lapalissiana evidenza della permanenza dei codici Rocco. Ma sussiste un terreno di continuità ancora più marcato e più sotterraneo, occultato e attivo nelle modalità di funzionamento, nelle regole di produzione e interazione del sistema politico; segnatamente, le relazioni tra esso (da un lato) e la società civile, le risorse materiali e immateriali, i beni e la ricchezza sociale, il sistema dei diritti e l'area delle garanzie (dall'altro). Possiamo sintetizzare il fenomeno in questo modo: in Italia, la democrazia repubblicana condivide del regime parlamentare liberale il profilo sovraordinatorio di regolazione autoritativa del conflitto, attraverso accordi di vertice che tagliano il rapporto tra classe politica e società civile, subordinando ferreamente la seconda alla prima e creando forti sacche di emarginazione sociale ed esclusione politica. La regolarità antica confermata è il primato della società politica sulla società civile, sullo sviluppo economico e, cosa decisiva, sul medesimo Stato, secondo i moduli dello sviluppo politico autocentrato che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti. Il primato della politica ha operato in direzione della compressione dello sviluppo, dell'atrofizzazione della società civile e dell'occupazione dello Stato. Allora, appare più congruo definire questa forma di "primato della politica" come una delle modalità perspicue della crisi della politica, in quanto pericolosamente irrisolta rimane proprio la "questione dello Stato", della sua legittimazione democratica, quale snodo e punto di equilibrio della decisione e della sovranità. La mancata democratizzazione del dispositivo politico-istituzionale esprime, sì, una forte continuità col regime liberale e quello fascista; ma non nel senso dell'imputazione allo Stato della sovranità della decisione politica. Anzi, qui rileviamo una delle tante fratture tra lo stesso regime liberale e la dittatura fascista: tra il mercatismo del primo e lo statalismo della seconda. La vera continuità, esaminando la "lunga durata" del ciclo della storia contemporanea italiana (per intendersi: dall'unità all'attualità), sta nel progressivo spostamento dei luoghi della decisione e dei nuclei della sovranità dal sistema delle istituzioni al sistema politico, quale totalizzante e primario titolare legittimo della risorsa politica. Il sistema politico non si subordina allo Stato; ma subordina lo Stato. La colonizzazione della società operata dalla politica, tratto peculiare del caso italiano, va, pertanto, assunta come una delle forme più intense e rovinose della crisi del 'politico' e, dunque, come un micidiale e devastante dispositivo di sovralimentazione della crisi sociale.

Il carattere di universalità e di impersonalità dello Stato, profilo distintivo e saliente delle rivoluzioni borghesi, viene meno: il par-ticolarismo degli interessi più forti, tra di loro in competizione, si è annidato nell'ordigno statuale, il quale finisce col perdere progres-sivamente la sua propria autorità. Non è lo Stato Leviatano di Hobbes che, onnivoro, prevale sulla società e sulla relazione politica, occupandole e smungendole. Al contrario, è il sistema politico in senso stretto che si insedia nello Stato, lo infiacchisce e sussume. Lo Stato non riesce più ad essere il regolatore autoritativo e impersonale dei conflitti di interesse; sono, anzi, questi ultimi che lo penetrano intimamente, al punto da divorarlo. Le istituzioni statuali divengono la sede privilegiata e concentrata degli scontri di potere e dei conflitti di interesse, quanto più aumenta in profondità e in estensione la colonizzazione della società civile operata dalla società politica. Come ha modo di osservare S. Tarrow: "non è lo stato come tale che ha direttamente colonizzato la società italiana; è il sistema dei partiti, con gli incentivi meno rigidi e strumentali rivolti a individui e gruppi, di cui i partiti dispongono. Il risultato è stato la monopolizzazione della rappresentanza politica da parte del sistema partitico (e recentemente anche dei sindacati), un quasi monopolio che estranea lo Stato rispetto agli interessi non organizzati dai partiti (con l'importante eccezione delle organizzazioni padronali, che hanno trovato forme più immediate di accesso allo stato)".

Assunta come punto di partenza la fusione tra 'politico' e statuale, ben presto, ci si avvia verso l'integrale sottomissione dello Stato alla volontà e alla potestà del sistema dei partiti. Nella fase repubblicana, la colonizzazione politica della società ha operato nel senso della sua partiticizzazione: una società sempre più partiticizzata è andata vieppiù assumendo i caratteri della spersonalizzazione e della depoliticizzazione. I meccanismi della rappresentanza politica sono stati trasformati in un veicolo di depoliticizzazione diffusa. Rovesciandone completamente la logica, il sistema pluralistico dei partiti ha fatto della rappresentanza uno strumento di penetrazione nella società, per infeudarla e disporne secondo la mutevolezza dei propri interessi e la gerarchia delle proprie strategie. In queste condizioni, la risorsa politica è divenuta un crudo mezzo di comando e di controllo, per organizzare il potere sulla società e sulle istituzioni. Lo Stato, da vertice supremo del dispositivo politico, è stato convertito in un bene di possesso del ceto politico di governo. Quanto più ha proceduto l'intimizzazione di quest'ultimo nell'organismo statuale, curvandolo alle sue proprie esigenze e ai suoi propri interessi, tanto più lo Stato e le sue istituzioni sono stati resi estranei e, a volte, dichiaratamente ostili nei confronti delle aspettative, dei bisogni e dei diritti della cittadinanza. L'organizzazione degli interessi è stata comandata dal sistema politico e, attraverso il filtro e la selezione dei partiti, ha modellato e funzionalizzato le leve dell'ordigno statuale che ha, così, smarrito tutte le attribuzioni formali di organo decisore e di arbitro super partes.

Al tornante degli anni '60 e, ancora di più, nei successivi anni '70, l'intreccio di tutte queste ragioni e di questi processi critici raggiunge il suo punto di collasso. Gli equilibri sociali e politici elaborati e consolidati si dimostrano inidonei per il governo della società, a fronte dei mutamenti sociali e culturali che la vanno investendo e di cui la classe politica non esprime la necessaria coscienza. I problemi antichi non risolti e quelli nuovi non adeguatamente percepiti commassano, dando luogo a una miscela altamente infiammabile. La "riscossa operaia" principiata nel 1960 e i cicli di lotta dei decenni successivi sono una componente di questa miscela: per metà, il carico ereditato dai problemi irrisolti del capitalismo e della democrazia in Italia; per l'altra metà, il portato di istanze e domande nuove, le cui origini e causali sono profondamente innervate nei processi del mutamento sociale e culturale in atto, di cui rappresentano uno degli elementi maggiormente caratterizzanti. A lungo, la società politica, con i collegati grup-pi di interesse più forti, dà luogo a una classica azione difensiva, di pura e semplice conservazione. Sentendosi minacciata e presa d'assalto, reagisce istericamente, accentuando sia il suo profilo sovraor-dinatorio autoritativo che la sua impermeabilità e la sua sordità rispetto al sistema di aspettattive attorno cui va formandosi e aggregandosi la nuova domanda sociale. Prigioniera di una vetusta concezione della politica, singolare punto di incrocio di liberalismo e dirigismo sfrenato; ostaggio di un antiquato modello di società industriale; rinserrata in anacronistici moduli culturali, manifesta una sorta di "incompetenza professionale" nel disegnare le coordinate politiche e culturali d'interpretazione e gestione della transizione al "capitalismo maturo" che si va dipanando sotto i suoi stessi occhi.

Ora, dire che la società politica subordina a sé lo Stato vuole dire che i processi di formazione della volontà e delle decisioni politiche che avvengono nella prima surdeterminano forma e funzioni del secondo; che il composto indisgiungibile di potere e consenso viene sempre più plasmato dalla prima e sempre meno dal secondo; che, in definitiva, lo Stato compie volizioni e decisioni ed è depositario della forza, dell'autorità e del potere della legge in nome e per conto della società politica. Il campo di vigenza della società politica, allora, non coincide più con lo spazio politico d'intermediazione tra Stato e società civile; bensì riconduce Stato e società civile alle sue volizioni e alle sue decisioni. Sta qui il senso profondo e la valenza più destrutturante della colonizzazione politica della società. Questa la causale profonda di quel fenomeno che vede, di necessità, trasformarsi la conflittualità politica interpartitica in conflitto tra le istituzioni e tra i poteri dello Stato; come appare con particolare rilievo nella congiuntura politica a cavalo degli ani ‘80 e ‘90. Circostanza che rende sempre più difficile, sino al limite dell'impossibile, la stessa comunicazione politica interpartitica; che inibisce quasi del tutto il dialogo tra il sistema politico e il sistema delle attese della cittadinanza; che impossibilita la circolazione e la socializzazione del conflitto e della politica.

Imbrigliate in logiche non proprie ma a loro sovraimposte, le istituzioni statuali sono venute progressivamente meno alle loro funzioni e ai loro compiti, rendendo vieppiù labile il già debole tessuto della democrazia, con una puntuale estroflessione sui processi costitutivi dell'identità nazionale. La debolezza del tessuto democratico è consustanziale alla debolezza del tessuto dell'identità nazionale, con ripercussioni particolarmente letali per il Mezzogiorno d'Italia. I compiti tipici delle istituzioni statuali, in democrazia, sono quelli dell'integrazione della cittadinanza, dei gruppi e degli strati sociali nel gioco democratico, mediante l'apprestamento di un sistema di regole e di procedure vincolanti, aventi il carattere dell'universalità e della certezza, dell'impersonalità e dell'equità. In questo senso, le istituzioni statuali democratiche sono gerarchicamente superiori alla società politica; in questo senso, possiamo parlare di "egemonia istituzionale sulla società politica".

Utilizzando un modello apprestato da J. G. March e J. P. Olsen, R. Cartocci osserva pertinentemente che in Italia le funzioni statuali integrative sono state messe in secondo piano dalle funzioni statuali aggregative, in forza di cui l'inclusione nei meccanismi della cittadinanza e della rappresentanza avviene per aggregazione partítica e non per integrazione democratica. Osserva ancora R. Cartocci: "La società italiana è stata storicamente carente di integrazione, e con tale deficit è arrivata all'unità politica e successivamente alla democrazia...". Un esito assai pernicioso della colonizzazione politica della società è proprio il (sempre più) debole senso di cittadinanza democratica e, specularmente, il (sempre più) forte senso di allineamento politico, regolato dalla razionalità strumentale dello scambio politico patrono/cliente. Il meccanismo dell'allineamento politico, asservendole a fini particolaristici strumentali, rende le istituzioni statuali (soprattutto le strutture dell'amministrazione pubblica): (i) indisponibili alla collettività dei cittadini; (ii) inefficienti e a basso contenuto di prestazione; (iii) onerose in termini di spesa.

Nella catena di effetti collegata alla metamorfosi (da universali-stico a particolaristico) del carattere delle istituzioni, il fenomeno politicamente rilevante (e da lungo tempo dibattuto) è il seguente: "Il funzionamento in modo aggregativo, particolaristico, delle istituzioni integrative produce consenso ma non legittimità; né il primo può tradursi nella seconda... È ormai un luogo comune che le istituzioni italiane godono di consenso ma non di legittimità. Consenso che viene da due tipici meccanismi aggregativi: il voto clientelare, non a caso definito "di scambio", e l'elevata remunerazione del debito pubblico ..., necessaria per reperire le risorse che servono a finanziare la ricerca del consenso mediante scambi particolaristici". La produzione di consenso a mezzo aggregazionale-scambista, saltando i processi dell'integrazione e della legittimazione, è produttiva di disgregazione sociale, con l'inevitabile venir meno della validazione della razionalità della scelta democratica. Tale processo di destabilizzazione pone acutamente in crisi le ragioni, le funzioni e le finalità di socializzazione e di comunicazione politica proprie del patto democratico. La colonizzazione politica della società delimita i contorni di un caso esemplare di crisi della socializzazione e della comunicazione politica.

Ulteriore elemento da prendere in considerazione, a fronte della forbice consenso/legittimità, è il meccanismo di "mobilitazione indi- vidualistica" attivato dal monopolio del potere esercitato dalla Dc, in forza di cui il consenso viene aggregato non solo e non tanto attorno a "interessi di gruppo", ma si va polarizzando intorno a "interessi individuali" di natura estremamente particolaristica. La struttura delle disuguaglianze e delle discriminazioni presenti nella società costituisce la base sociale della costruzione e della implementazione di questa forma di consenso aggregativo, ottenuto e sovraimposto mediante l'attivazione del dispositivo diffusionale della mobilitazione individualistica degli interessi. Gli incentivi individualistici sostituiscono gli incentivi collettivi nella delimitazione delle sfere del consenso sociale. Questa linea di aggregazione per via individualistica fonda il consenso su "(...) una strategia che utilizza le stesse disuguaglianze che dovrebbero dare origine al dissenso e al rifiuto del sistema e le fa servire invece proprio come incentivo alla partecipazione ai benefici che il sistema può distribuire". I processi della socializzazione, della coesione e della comunicazione si risolvono nel loro contrario: (i) mobilitano la miriade di particolarismi che fuoriescono prepotentemente dal loro stato di latenza, mettendo sempre più in crisi le sfere di costruzione ed espressione del legame sociale; (ii) snaturano, in parte cospicua, le linee potenziali di manifestazione del conflitto e del dissenso, regolandole a mezzo dello scambio diseguale tra la conferma e crescita del potere, a un polo, e il conseguimento di benefici di natura individualistica, al polo opposto; (iii) confermano e dilatano le strutture, le articolazioni e le strategie della situazione di monopolio del potere. La relazione d'urto tra monopolio del potere ed esigenze di allargamento delle sfere di espressione e di azione della democrazia viene riprodotta su scala allargata.

Siamo, così, pervenuti al nucleo politico portante della situazione italiana dal secondo dopoguerra ad oggi: democrazia non socializzata e non comunicata; vale a dire: democrazia dimezzata. La democrazia dimezzata, in quanto vettore di disgregazione, è produttrice di crisi sociale, precisamente nella proporzione in cui la crisi sociale dimezza la democrazia. La democrazia dimezzata è causa e risultato della crisi sociale, allo stesso modo con cui la crisi sociale è causa e risultato della democrazia dimezzata. Nasce da qui il circolo chiuso della situazione politica italiana. Nel caso italiano, ai dilemmi, ai limiti e ai paradossi della democrazia – tipici dello sviluppo e dell'estensione della parabola democratica –, si aggiunge la sostanza cancerosa di questo circolo chiuso, ancora ben lungi dall'essere stato sbloccato.

3. Il processo di governo: continuità e fratture

Negli anni '60 e '70, l'architettura della colonizzazione politica della società si dà all'interno di maglie differenziate (e crea maglie differenziate), sia sul piano storico-temporale che su quello politico-sociale. Per esigenze di sintesi, possiamo distinguere due fasi generali:

a) il ciclo 1960-1975: la fase in cui va progressivamente calando l'egemonia democristiana;

b) il ciclo 1976-1979: il passaggio dal consociativismo costitu-zionale al consociativismo di governo.

La prima fase continua a registrare la compenetrazione tra la Dc e lo Stato, principiata negli anni '50: la centralità politica della Dc si esprime contestualmente come "partito-governo" e "partito-Stato". La questione ha costituito e costituisce un tema di discussione politica e di indagine politologica largamente dibattuto. Valga per tutti il giudizio che, nella sua analisi comparata, fornisce P. Farneti: "Il caso più evidente di compenetrazione tra partito di governo e stato è quello italiano ove la Dc diventa, dalla metà degli anni '50 in poi, centro di creazione e nello stesso tempo di mediazione di gruppi di interesse (sovente di interessi in contrasto tra loro). Esso dà luogo a quel particolare rapporto tra partito al governo e amministrazione dello stato che è il "sottogoverno", mentre in Germania avviene più mediazione che compenetrazione, perché i gruppi di interesse hanno propri canali diretti rispetto al governo e in Francia, probabilmente, avviene più "concertazione" che direzione" dell'economia da parte del partito al potere... In sostanza i tre paesi mostrano tre modelli diversi: il neocorporativo in Germania, quello spoliatorio in Italia, e quello dirigistico in Francia". Questa evidenza costituisce una base di analisi rilevante: "È precisamente questa implicazione diretta della classe politica elettiva nello Stato, questo processo di compenetrazione tra classe politica elettiva ed amministrazione dello stato con modalità diverse attraverso i tre modelli, che è determinante non ultima della genesi del "movimento", cioè del formarsi di frange dissidenti alla ricerca di una struttura non partitica. Il senso di questa, come "movimento", è lo scontro diretto con lo stato come complesso di istituzioni: il che è possibile nella misura in cui il partito al potere (ma anche, per certi aspetti, il partito all'opposizione per quel che riguarda il potere locale) tende a identificarsi con lo stato e non tiene quella "distanza" che era propria, almeno in teoria, dei sistemi politici liberali".

Tralasciamo, per il momento, il rapporto tra sistema politico/ Stato/movimenti sociali, su cui ci soffermeremo in seguito; concentriamoci, invece, sul rapporto sistema politico/Stato/società.

In una area tematica e problematica vicina agli enunciati dei "gruppi di pressione" e del "pluralismo", le teoriche del "decision- making" (che, nei primi anni '60, hanno in gran parte caratterizzato la discussione della comunità degli "scienziati politici" americani) assumono che la selezione dell'ordine delle preferenze dei problemi su cui è chiamato a decidere il sistema politico è aperta alla partecipazione di tutti i gruppi attivi e potenziali operanti in società. Non sottoponiamo a confutazione, in questa sede, l'evidente carattere acritico- apologetico del sistema democratico americano sotteso a tali enunciazioni. Facciamo ricorso al modello del "decision-making", unicamente in forza di un suo postulato cardine: governa chi partecipa alle decisioni.

Meno lontano da questo assunto decisionista di quello che potrebbe apparire a prima vista è il modello del "nondecision-making" che agli inizi degli anni '70 negli Usa, si costituisce come critica del pluralismo. Secondo il modello del "nondecision-making" di Bachrach e Baratz, il potere consta di "due facce": quella delle decisioni pubbliche, ma irrilevanti, rilevabili comportamentisticamente; quella delle decisioni nascoste, ma rilevanti. In ulteriore determinazione, il processo decisionale nascosto si qualifica per essere un processo non-decisionale: il suo compito specifico consta nel ridurre il campo delle opzioni del processo di governo, selezionando quelle materie e questioni su cui v'è la certezza matematica dell'accordo e scartando quelle materie e questioni intorno cui v'è la certezza matematica del dissenso. La selezione e lo scarto non sono dati a priori, ma vanno determinati e costruiti in maniera mutevole e con estrema cura. Ciò per un doppio ordine di motivazioni: (i) sia perché un tema apparentemente irrilevante può dar corso a rilevanti insidie e viceversa; (ii) sia perché grandi contrasti ideologico-politici possono essere simulati ad arte – qualche volta, in maniera tanto inconscia quanto "astuta" –, per dar corso allo spettacolo delle "grandi e sofferte intese". Chi detiene il potere è, allora, investito di una duplice facoltà:

a) la possibilità di decidere: selezione dei temi del processo di governo;

b) la possibilità di non decidere: esclusione dei contenziosi conflittuali dal processo di governo.

Il modello del "nondecision-making" ci serve proprio come problematizzazione del lato nascosto del processo decisionale, in base a cui possiamo più congruamente pervenire ad una conclusione epistemologicamente più corretta, empiricamente rilevabile e storica-mente dimostrata: il processo di governo è articolazione contestuale di decísione e non-decisione. Chi decide è colui (o coloro) che decide (o decidono) anche ciò che non si deve decidere.

Quello italiano è un magnifico caso di coerente commistione di decisione e non-decisione che dimostra con la forza dell'evidenza come, spesso, le dicotomie formali e concettuali (nel caso: decisione versus non-decisione) nella realtà non trovino spazio.

Vediamo l'intreccio di decisione e non-decisione all'interno delle fasi e delle trasformazioni del processo di governo, in Italia, dal secondo dopoguerra in avanti.

Il processo decisionale negli anni '50 e '60 coincide letteralmente con l'area di governo, escludendo la partecipazione diretta dei gruppi di pressione e, ancora di più, delle sfere della cittadinanza. La natura del processo decisionale è escludente, anziché partecipativa. Diversamente dalla teoria dei "gruppi di pressione" (A. F. Benthley) e "dalla teoria pluralista" (D. Truman), il processo di governo non passa attraverso la mediazione degli interessi e dell'accesso al potere dei relativi gruppi che ne sono portatori. Gli unici interessi che trovano diretto riconoscimento politico sono quelli di cui è depositaria la classe politica di governo: l'area della decisione politica ruota attorno ad essi ed ha la specifica funzione di giustificarli e di realizzarli. I gruppi di interesse e di pressione accedono al processo decisionale, nella misura in cui si collegano in maniera subordinata agli interessi del ceto politico di governo. Il processo decisionale pluralizza, in questo modo, gli interessi di quel ceto politico che, colonizzata la società, fa del potere dell'esecutivo il vettore permanente dell'impossessamento dello Stato. Le selezioni del processo di governo sono di natura spoliante, come rilevato opportunamente da Farneti, per questa decisiva circostanza in più: l'esecutivo incamera le funzioni istituzionali dello Stato, spoliandolo dei suoi attributi di potere. Il processo di governo, per-tanto, si qualifica per due caratteristiche fondamentali e fondanti:

a) la colonizzazione politica della società;

b) il comando dell'esecutivo sullo Stato.

La colonizzazione politica della società e il comando dell'esecuti- vo sullo Stato rappresentano le coordinate principali del modello spoliatorio italiano. Su di esse si regge l'ascesa e il declino del mono-polio del potere della Dc; su di esse scorrono i binari dell'implosione/ esplosione del sistema politico italiano. Il "partito-governo" assolve, qui, sia le funzioni di "partito-Stato": attraverso il comando dell'esecutivo sulle istituzioni, sia le funzioni di "partito-movimento" e "partito- società": attraverso la colonizzazione politica della società. Questa realtà empirica mette palesemente in crisi – e non di poco – tutta la trattatistica politologica sui modelli di partito nelle democrazie occidentali. L'appropriazione ai partiti di funzioni improprie, non rientranti nei loro codici di funzionamento e nelle loro competenze, apre un processo di surroga costante da parte del sistema dei partiti (in particolare, dei suoi centri gravitazionali effettivi) nei confronti dello Stato, della società e dei movimenti che vengono estraneati e spossessati della loro autonomia, segregati nella funzione di puri e semplici terminali passivi della decisione politica. Il circuito della domanda e dell'azione politica viene progressivamente sterilizzato, deprivato come è dei suoi attori, delle sue articolazioni attive e dei suoi centri nervosi intelligenti.

Il monopolio del potere della Dc si regge su questo processo multiforme di deprivazione politica; ma, sul medio-lungo periodo, è proprio da esso vulnerato. La surroga di potere esercitata dalla società politica priva del suo oggetto e dei suoi soggetti le dimensioni dell'azione e della comunicazione politica, facendole implodere: quanto meno riescono a parlare e comunicare con la società e i soggetti dell'azione politica, tanto più i partiti non riescono a comunicare nemmeno tra di loro. Dalla surroga del potere, essi trascorrono progressivamente alla surroga della comunicazione. Gli accordi e le alleanze di vertice dovrebbero supplire al venire meno della comunicazione interpartitica: i conflitti non vengono risolti attraverso la mediazione politica e il riconoscimento di un comune "progetto di società"; ma mediante l'esplosione della redistribuzione del potere. La situazione di monopolio del potere della Dc viene riarticolata per linee interne: la Dc ridisloca il monopolio del potere, chiamando alla compartecipazione al processo di governo forze per l'innanzi escluse. Così operando, le strutture profonde dell'implosione/esplosione del sistema politico italiano rimangono inalterate; anzi, vengono ulteriormente stimolate e generalizzate. Il passaggio dal centrosinistra degli anni '60 alla "solidarietà nazionale" degli anni '70 disegna le linee di svolgimento della progressiva universalizzazione della sclerosi e della fame di potere che mina dall'interno il sistema politico italiano.

La transizione dal "pluralismo polarizzato" (G. Sartori) al "plura-lismo centripeto" (P. Farneti) accentua sia i processi di centripeta- zione della decisione politica che i processi della centrifugazione del sistema delle aspettative sociali Con gli anni '70, come con acume coglie P. Farneti, si comprime l'azione della "polarizzazione politica" e si estende quella della "centralizzazione politica".

L'allargamento del centro, a mezzo della cooptazione delle forze politiche prima centrifugate, fa sì che i processi di centrifugazione si dispieghino in maniera concentrata contro le domande e le attese civico-politiche che continuano ad agitare in quegli anni la società italiana. Da un sistema senza alternanza e senza alternativa: monopolio del potere della Dc, si passa ad un sistema senza opposizione politica: il consociativismo di governo. L'opposizione politica e sociale viene esternalizzata integralamente e il sistema politico viene ridotto ad un dispositivo completamente autoreferenziale. Il processo di governo pone in essere e consolida a tappe forzate un modello di elitismo democratico spinto: la democrazia dimezzata delle origini si perfeziona come massificazione della democrazia corporatista, attraverso la rimozione forzosa del conflitto politico e sociale dal teatro dell'azione e della comunicazione simbolica. I modelli di partito sono plasmati concretamente dall'ossessione del centro e del governo, finendo letteralmente fagocitati dai modelli della modernizzazione elitista della democrazia. L'esplosione della democrazia elitista, negli anni della "solidarietà nazionale", rappresenta il punto di arrivo estre-mo e senza residui dell'implosione del sistema politico italiano, a fronte di cui subentrano mutamenti di "scenario politico" ancora più negativamente connotati.

Il modello costituzionale italiano si regge su uno schema consociativo tra forze accomunate, per il passato, dalla unitaria esperienza di lotta contro il regime fascista e l'occupazione nazi-fascista del paese, ma non sufficientemente coese, nel presente, intorno a un modello di società e di appropriazione/uso/distribuzione delle risorse. L'unità politica si ferma alle scelte irreversibili della democrazia e della libertà; non riesce a proiettarsi oltre. Le linee applicative della democrazia e della libertà diventano, così, il terreno elettivo del conflitto politico tra forze che, pure, vantano una comune matrice democratica. La costituzione repubblicana è un composto politico di elementi multiformi, non riconducibili a una struttura politica e a una costellazione culturale unitarie. Essa raccoglie e assembla elementi della tradizione politica e culturale delle forze che hanno cooperato nella lotta al fascismo (dal CLN all'esperienza tripartita): il garantismo liberale, il solidarismo cattolico, l'egualitarismo socialista-comu-nista. Il suo nucleo vitale è, conseguentemente, caratterizzato da forti forme di ibridazione politico-culturale, nel segno di una sopravvivente oscillazione fra conservazione e mutamento, fra arcaicità e modernizzazione. Di tutto ciò furono consapevoli gli stessi "padri fondatori": per Piero Calamandrei, nella costituzione coabitavano "pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore da aeroplano"; per Giuseppe Saragat, "l'eterogeneità delle forze politiche che hanno contribuito al progetto di Costituzione si riflette necessariamente sull'eterogeneità delle sue formulazioni". In quanto tale, la costituzione è il risultato di un compromesso politico; nel tempo stesso, è e rimane la tavola dei valori fondamentali della democrazia italiana: vale a dire, è un patto socíale. Da questo insieme di cause e di processi nascono la natura bifronte della costituzione italiana e le sue contraddizioni interne più dilaceranti. L'aver fondato il patto sociale sul compromesso politico ha conferito un carattere consociativo al patto e un carattere di primarietà al compromesso. Le condotte del compromesso politico e del processo di governo hanno preso ad autonomizzarsi dal patto costituzionale, senza mai riuscire a recidere (e senza volerlo) il cordone ombelicale che ad esso le tenevano avvinte. Il conflitto politico interpartitico si è, così, concentrato per intero sugli elementi, le forme e i risultati del processo di governo, mantenendo impregiudicati la natura contraddittoria e gli equilibri del patto costituzionale.

Il processo di governo si è costituito come compromesso politico, rigidamente incardinato sui suoi centri motori; il patto costituzionale è stato imbavagliato e reso indisponibile a processi di critica e di riaggiustamento su frontiere culturali, politiche e sociali più avanzate. Il processo della legittimità si è, così, duplicato secondo due determinanti:

a) la legittimità costituzionale;

b) la legittimità governativa.

Tra universo della costituzione e universo del governo si è aperta una disgiunzione: non tutte le forze costituzionali sono state, per ciò stesso, ritenute legittime forze di governo. L'inclusione costituzionale si è andata divaricando dall'inclusione governativa. Nella scala delle nuove gerarchie, il compromesso politico ha fatto primato sul patto sociale e la legittimità governativa ha preceduto la legittimità costituzionale. Al consociativismo costituzionale ha corrisposto la "conventio ad excludendum". Inoltre – e ancora più gravemente –, il consociativismo costituzionale si è tradotto e traduce in blocco costituzionale. Fino a tutti gli anni ’80, la maggioranza delle forze politiche non è stata disponibile (e, in parte, non lo è ancora) a varcare, per una frontiera politica, culturale e sociale più avanzata, i limiti della costituzione:

a) le une, poiché in essa, a fronte della loro esclusione dall'area di governo, hanno trovato e trovano almeno l'ancoraggio della loro legittimità istituzionale;

b) le altre, perché in essa hanno trovato e trovano la fonte della loro costituzionale centralità politica e della loro legittimità gover-nativa.

Consociativismo costituzionale e polarizzazione politica sono stati gli assi portanti della democrazia italiana dal 1948 alla prima metà degli anni '70.

Nella fase della "solidarietà nazionale", l'area del consociativismo si allarga dalle cerchie costituzionali alle condotte del compromesso politico, caratterizzando il processo di governo, in uno scenario che non è più quello della coalizione tripartita dell'"unità nazionale" post- guerra. Il consociativismo costituzionale si va sviluppando in consociativismo di governo. Stante il primato del compromesso politico sul patto sociale, il blocco costituzionale della situazione italiana viene ulteriormente confermato e alimentato. Riconoscendosi le forze politiche costituzionali pienamente compartecipi del processo di governo, tutte cooperano a:

a) bloccare la costituzione, a mezzo del compromesso politico;

b) bloccare il compromesso politico, a mezzo della costituzione (bloccata).

Il processo di governo tenta la costituzionalizzazione di sé medesimo, cercando di valere e funzionare esso, non già la costituzione, come tavola dei valori fondamentali e asse delle leggi. Partendo da qui, il consociativismo di governo ha potuto inverare una normazione e una procedimentalizzazione sospensive di molti degli asserti prescrittivi e delle tutele della costituzione formale. Entro questo nuovo quadro di riferimento, vengono profondamente ridefinite le formule, gli schemi e le linee concrete della mediazione e della decisione politica. La costituzionalizzazione del processo di governo attraverso il processo di governo tende a insediare la titolarità della sovranità all'interno dell'esecutivo stesso. Dai luoghi del compromesso politico vengono dislocati il controllo e il comando sui meccanismi del dispositivo costituzionale, riducendone l'area di vigenza, a seconda della mutevolezza delle esigenze primarie dell'esecutivo. L'erosione del congegno costituzionale diviene la norma di comportamento principale della teoria e prassi dell'esecutivo. Ciò è agevolato proprio dallo schema consociativo che regge la costituzione italiana, il quale rende possibile il passaggio dalla costituzione bloccata alla costituzione erosa. Meglio ancora: blocco costituzionale ed erosione della costituzione diventano un tutt'unico. Alla lunga, una costituzione permanentemente bloccata non può che sciogliersi e coronarsi nell'erosione costituzionale.

Attraverso questa ampia feritoia, nel processo di governo fa prepotente irruzione l'azione demolitiva dei "gruppi di pressione" e dei "gruppi di interesse", fino ad allora tenuti ai margini dei luoghi della decisione. Un sistema politico completamente imploso esplode, cercando riparo e aiuto nei "gruppi di interesse" più forti, tentando di ag-girare, per questa via, la sua crisi di rappresentanza e di legittimazione sociale. La selezione delle domande sociali si costituisce come selezione degli interessi più forti ("austerità, "sacrifici", "patto tra produttori", "lotta all'inflazione", ecc.), con la copertura del collante ideologico della "solidarietà nazionale" e della sottostante cultura dell'emergenza.

La formula monopolistica del processo di governo si contamina; ma non per questo viene meno la sua natura spoliatoria. La dissoluzione delle basi sociali e delle coperture ideologiche del monopolio del potere della Dc (governo come decisione senza mediazione; decisione come processo di allineamento) induce una metamorfosi nelle forme e nelle procedure di governo. Confermato risulta il carattere escludente e non partecipativo del processo di governo; ma, ora, quest'ultimo realizza un mix di decisione e mediazione, non solo agendo, ma anche subendo le tecniche e le strategie dell'allineamento. In tal modo, viene conferita piena cittadinanza di governo agli interessi dei gruppi economici più forti, i quali fanno accesso all'area di governo non più per la porta secondaria. Per la classe politica di governo si tratta di un passaggio obbligato, dettato anche – e non irrilevantemente – dal collasso del sistema delle imprese pubbliche e dalla crisi catastrofica delle funzioni dello "Stato-imprenditore". Il passaggio in questione, inoltre, si inserisce in un processo operante a livello internazionale: la crisi del/e l'attacco al Welfare in tutti i sistemi democratici avanzati.

Il circuito della decisione politica subisce un ingorgo, poiché deve far fronte a domande interne per le quali non è attrezzato, in una situazione in cui i suoi poteri appaiono in caduta e quelli dei "gruppi di interesse" in ascesa. Il patteggiamento in funzione della redistribuzione del potere non è più limitato alle cerchie interne al sistema politico; ora include questo nella sua interezza e i gruppi economico-finanziari più forti, i quali reclamano quel potere e quelle autonomie che un ceto politico invadente e dirigistico ha loro a lungo sottratto. Da qui due fenomeni esiziali, la cui azione è pienamente in opera fino agli anni ’80 e poco oltre:

a) l'effetto di paralisi che investe il processo di governo;

b) la natura trasversale del compromesso politico e della continua redistribuzione dei poteri.

I due fenomeni sono reciprocamente implicati e alimentano un circolo vizioso che non ha fine. L'ingorgo nel processo decisionale fa da premessa per il perseguimento di accordi che non solo attraversano ogni singolo partito e i partiti tra di loro, ma tagliano le forze politiche nella loro relazione non univoca col sistema economico-finan-ziario. Ogni accordo politico si qualifica immediatamente come accordo di potere e vede come suoi attori schieramenti politico-econo-mico-finanziari mobili e di natura trasversale. Il processo irrigidisce posizioni contrapposte alimentate da interessi particolaristici: da qui un surplus di paralisi per l'azione di governo. Le ragioni interne delle coalizioni di governo vengono progressivamente meno: il governo dell'emergenza è, per definizione e cultura, un accordo stipulato e ricontrattato in permanenza in funzione della neutralizzazione dei contro-agenti esterni (che possono essere, di volta in volta, fenomeni di allarme sociale, di allarme politico e di allarme economico; soggetti e comportamenti devianti ben individuati, etc.). In altri termini, è sempre meno un "governo per..." e sempre più un "governo contro...". Ed è qui che, pur varcando un significativo passaggio di forme, il processo di governo conferma e innova le modalità escludenti e non partecipative, i caratteri aggregativi e non integrativi, il portato disgregativo e non coesivo del "calco originario". Possiamo così definire i fulcri sequenziali di tale percorso di mutamento politico: continuità nella discontinuità e discontinuità nella continuità.

I modelli interpretativi del processo di governo della società ita-liana degli anni '70, pur nel loro indubbio valore e nella loro cogenza, hanno avuto il limite di non risalire ai "fulcri di scenario" che abbiamo cercato di individuare. Essi ci forniscono un'immagine statica della situazione politica italiana. Le metafore impiegate dai tre modelli prevalenti trasmettono un'immagine di univocità e fissità che, per quanto rispondente al vero, non dà pienamente conto delle sotterranee linee di movimento e degli effetti di metamorfosi più dirompenti che solcano i processi della decisione politica negli anni '70. I modelli interpretativi a cui ci stiamo riferendo sono quelli della:

a) "repubblica senza governo";

b) "sopravvivenza senza governo"-

c) domanda :"esiste un governo?".

Con tutta evidenza, tutti e tre i modelli mettono l'accento sull'assenza di governo in cui sarebbe precipitata la situazione italiana. Ad alimentare il loro impianto teorico-politico v'è un retroterra episte-mologico secondo cui, per implicito, la crisi è, in quanto tale, manifestazione palese (causa ed effetto, insieme) di un deficit di governo. La crisi viene concettualizzata, fondamentalmente, come ostacolo e interdizione del processo di governo: tra la prima e il secondo viene istituita una relazione di esclusione reciproca. Il processo decisionale è assunto come risoluzione della crisi e/o come disinnesco dei suoi agenti potenziali ed effettuali, attraverso l'azione puntuale e costante delle politiche pubbliche. Il quadro concettuale dell'approccio in questione è così designabile: dove c'è governo, non può esservi crisi; dove c'è crisi, non v'è governo. Ma le cose, nella realtà politica ed empirica, non stanno in una maniera così lineare; senza qui voler considerare l'ambivalenza e la flessibilità, se non il carattere sfuggente, dello statuto epistemologico in senso stretto della crisi.

Tra crisi sociale e governo politico non si stipula un nesso dicotomico: come esiste il governo dello sviluppo, così esiste il governo della crisi. In questo senso, la crisi sociale è un fattore di introduzione di nuove variabili politiche; come abbiamo appena finito di vedere. Anzi, è in presenza della crisi che il processo di governo deve aggiornare le sue tecniche, affinare le sue armi e rinnovare le sue procedure, se vuole permanere e conservare lo status quo. Il governo della crisi è l'architrave e la chiave di legittimazione politica della "solidarietà nazionale". L'attore governo rinuncia a dare soluzione compiuta alla crisi; riarticola, quindi, le proprie strategie, in funzione della riassunzione del controllo della crisi, per scaricarne, il più possibile, all'esterno gli scompensi e gli squilibri.

Dare risoluzione compiuta alla crisi sociale significa dare un'altra forma e un'altra tavola di valori al processo di governo; cioè: lacerare gli equilibri e gli assetti politici consolidati, lavorando a un altro "progetto di società", a un altro rapporto istituzioni/cittadinanza, a un'altra forma di sovranità, ad altri moduli di rappresentanza. Nel concreto della situazione degli anni '70, ciò avrebbe dovuto significare: (i) mettere mano ai "problemi non risolti" dello sviluppo economico e della democrazia in Italia; (ii) dare soluzione democratica ai problemi della complessità sociale, allargando l'area della decisione e dell'accesso alla democrazia e alla politica. Detto altrimenti, dare sostanza concreta e compiuta a un programma di rivoluzione democratica, con al centro la liberazione dei potenziali di libertà compressi dalla colonizzazione politica della società e dalla massificazione dell'elitismo democratico; vale a dire: trasformare, intorno a questi assi, la costituzione e la democrazia.

Uscire dalla crisi sociale significa, dunque, uscire dal processo di governo vigente; dare forma e corpo a un processo di governo non più ancorato sulla conservazione della struttura di comando politico esistente; portare a compimento il processo di democratizzazione e liberazione della società italiana; lavorare a un nuovo patto sociale che riformuli la relazione della politica, della società e dei cittadini con i beni fondamentali. La strada imboccata, come si sa, è stata esattamente di segno contrario. Restare nella crisi: questo il contenuto precipuo della "solidarietà nazionale". Non una repubblica senza governo, allora; ma una repubblica in crisi, tenacemente controllata mediante il governo della crisi, con proiezioni illimitate nel tempo e nello spazio. Non il sopravvivere senza governare, allora; ma governare per sopravvivere.

Quello italiano costituisce un caso unico nel suo genere, proprio per la compresenza di governo e crisi; proprio per le dimensioni ipertrofiche e irreversibili assunte dal governo della crisi. La classe politica di governo si è specializzata nel governo e nella gestione permanente della crisi, trascinando in questo vortice la stessa classe politica di opposizione, cooptata in chiave subordinata per la gestione politica e sociale della crisi. Se sul piano epistemologico occorre sottoporre a investigazione il "concetto di crisi", sul terreno squisitamente politologico è il concetto di "governo democratico" che va investito con più stringenti interrogazioni; a partire dalla rimessa in questione di alcuni postulati forti della teoria democratica e della teoria economica, quali: (i) "sviluppo=democrazia"; (ii) "democrazia=benessere"; (iii) "sviluppo=parità delle opportunità"; (iv) "democrazia=universalità dei diritti"; etc. Non è in questione il carattere democratico del governo della "solidarietà nazionale"; bensì la natura non univoca e le forme differenziate del governo democratico e della democrazia. Un governo che si regge sulla permanenza della gestione della crisi e, quindi, sulla proliferazione dell'ordigno e dei dispositivi emergenziali – come quello della "solidarietà nazionale" – è un governo caratterizzato da un deficit progressivo di democrazia: pur rimanendo un governo democratico, è strutturalmente attraversato e viziato dalla sindrome elitista. Storicamente e politicamente, il governo della "soli-darietà nazionale" è stata l'espressione meglio riuscita di "governo contro...": non ha esitato a sacrificare e "tagliare" la democrazia, pur di raggiungere e mantenere i propri disegni politici. Emergenza e cultura dell'emergenza hanno significato, in primo luogo, compressione dei diritti e delle libertà, riduzione della democrazia. Sono state, in questo senso, prassi e culture dell'ostilità e non del dialogo e del confronto; del minimalismo costituzionale, anziché del potenziamento e dell'allargamento dell'area dei beni fondamentali; del blocco del dispositivo costituzionale, anziché della trasformazione della costituzione e della democrazia su piani di giustizia, equità e libertà più avanzati.

Questo dispositivo bloccante a doppia mandata è ancor oggi operante: poche le forze politiche disposte ad una sua effettiva ridiscussione e alla sua concreta rimozione. La sua permanenza in opera ha giustificato (negli anni '50-60) e giustifica (negli ultimi anni) una polemica anti-partitocratica marcatamente caratterizzata in termini di conservazione politica, sociale e culturale. La giusta polemica e il giustificato disamore nei confronti del sistema dei partiti si sono tradotti in una pericolosa e, spesso, occulta e/o inconscia critica di alcuni dei fondamenti della vita democratica (di cui i partiti sono, appunto, uno dei piloni), secondo un modello demagogico-elitario di mobilitazione delle masse che accomuna posizioni neo-liberali, di centro tecnocratico e di sinistra radicale e neo-democratica. La pratica referendaria sulle "riforme istituzionali" è stata la tendenza che meglio ha espresso il revival della polemica anti-partitocratica, fornendo ad una giusta domanda di trasformazione sociale e culturale un'arretrata risposta di ingegneria costituzionale. Stiamo, così, assistendo a quel processo che vede buona parte di quegli stessi agenti del blocco del dispositivo costituzionale italiano agire nominalmente contro quel blocco, senza procedere preliminarmente ad una reale rimessa in questione trasformativa delle sue strutture causali. Anche in questo reperiamo le vestigia e l'azione inquinante del "calco originario".