CAP. V

PATOGENESI STRUTTURALE DELLA CRISI:

DAGLI ANNI ‘70 AGLI ‘80

 

 

 

1.

Logica dell’azione collettiva e logica dell’azione istituzionale

La struttura di classe e della società ereditata dalla repubblica democratica è relativamente compatta e semplificante: a un polo, il mondo contadino; all'altro, il nascente proletariato di fabbrica. Tale strutturazione, nel corso degli anni Settanta, salta definitivamente in aria. Col che crollano le basi sociali della polarizzazione politica attorno a due fuochi: la Dc e il Pci. L'impossibilità della democrazia consociativa (Berlinguer+Moro) sta già scritta qui, nel venir meno di questi due fuochi politico-sociali.

Qualche dato storico renderà meglio l'idea. Alla fine degli anni Settanta, gli addetti all'agricoltura non superavano il 18,20% sul totale della forza-lavoro occupata all'interno del territorio nazionale. Secondo il censimento del 1971, la popolazione attiva è così distri-buita: agricoltura 17,3%, industria 44,5%; servizi 38,2%. Nel corso degli anni Settanta, come un'ampia letteratura sociologica ha dimo-strato, il rapporto favorevole all'industria nei confronti dell'agricoltura si sposta a favore del terziario rispetto all'industria, facendo arrivare a parlare di "terziarizzazione della società". Importa qui rilevare che:

a) nel corso di soli venti anni, dalla ricostruzione fino alla metà degli anni Sessanta, metà della popolazione contadina si trasforma in popolazione urbana, impiegata nel lavoro di fabbrica e nel terziario (al 30% terziario pubblico);

b) nel corso del quindicennio successivo, la grande quantità delle masse urbanizzate viene sottoposta a un processo di terziarizza-zione intensiva.

Non è un caso che proprio con gli anni Settanta riprenda lena la ricerca sulle classi sociali, a partire dal dibattito intorno al Saggio sulle classi sociali di Sylos Labini.

Ora, la stessa discussione politica del tempo, ruotante attorno all'alternativa tra i modelli del "pluralismo polarizzato" del "bi-partitismo imperfetto", tutta votata a delineare i perfettibili del "bipolarismo ottimale", si trova spiazzata e messa a nudo dall' immane crisi del "centro" intervenuta nella compagine sociale e in quella politica che abbiamo appena sommariamente descritto. E si tratta della crisi sia del centro di governo che del centro dell' opposizione. È la stessa possibilità del passaggio da un "centro" all'altro che si estingue: molteplici sono ora i "centri" che si dise-gnano nella struttura di classe, nella composizione sociale, nella geografia degli assetti socio-economci, nel medesimo sistema politico e nelle culture e subculture che lo sostengono. Ma perdita di centro del sistema politico è anche perdita della centralità del sistema politico nella società civile; che è pure perdita di rappresentanza e rappresentatività.

Già nel corso del biennio 1968-69, il sistema politico italiano perde il monopolio della rappresentanza. Un potenziale di mobilitazione e un carico di esperienze di mutamento rimangono deprivati di rappre-sentanza politico-istituzionale. Il Sessantotto apre un ciclo lungo di crisi della rappresentanza e della cittadinanza politica, chiusosi col Settantasette e dintorni immediati, a partire da cui la crisi della rappresentanza ha conosciuto nuove forme di espressione.

La latitanza, il ritardo e le incapacità dei partiti e delle istituzioni di dare risposte valide; il carattere destrutturante, se non apertamente repressivo, delle risposte hanno fatto sì che negli anni Settanta si aprisse una paurosa forbice tra istituzioni e movimenti. A fronte di ciò, la proliferazione dei movimenti ha finito con l'assumere un accentuato carattere anti-istituzionale, ben al di là della natura loro propria.

Quella lanciata dai movimenti alle istituzioni è stata una sfida di cambiamento per una diversa idea e prassi della modernizzazione; sfida, però, non di rado solcata da venature arcaicizzanti che ne hanno limitato fortemente la portata. Tale sfida non è stata raccolta dal sistema politico-istituzionale. Da qui un paradosso esiziale: i movimenti hanno indebolito il sistema dei partiti, senza rafforzare la società civile. Senza il ricambio istituzionale, la società civile è destinata a rimanere compressa dallo schiacciarnento e dall'invadenza normativa delle istituzioni politiche. La debolezza dì proposta strategica e di cultura propria dei partiti, sino a che non si traduce in rigenerazione e rinnovarnento del sistema politico, è destinata a pesare negativamente, qualche volta catastroficamente, sull' emancipazione della società.

Ma vediamo, ora, più dappresso il complesso dell'intervento isti-tuzionale durante gli anni Settanta.

Appare chiaro che il ciclo della mobilitazione aperto. dal Sessantotto sgretola e "disintegra le capacità di governo". Lo Stato, costretto a confrontarsi con tale ciclo, espande, innova e "riforma" le sue politiche sociali. Secondo C. Donolo, le politiche sociali approntate dallo Stato negli anni Settanta hanno avuto il fine precipuo di "ridurre la complessità" delle domande formulate dai movimenti. Per E. G. della Loggia deve, invece, parlarsi di una generale rifunzionalizzazione della spesa pubblica allo scopo di riassorbire i conflitti sociali.

Quello che rimane certo, in tutti i casi, è che la mappa dell'intervento istituzionale è quanto mai rilevante, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo. Proviamo a fissarne gli snodi essenziali:

a) Statuto dei Diritti dei Lavoratori (1970);

b) Nuovo Rito del Lavoro (1973);

c) Divorzio (1971-75);

d) Riforma del diritto di famiglia (1975);

e) Riforma penitenziaria (1975);

f) Voto ai diciottenni (1975);

g) Legge sull'occupazione giovanile (1977);

h) Aborto (1978);

i) Consulte femminili (1978);

l) Parità dei sessi nel rapporto di lavoro (1977);

m) Riforma sanitaria (1978);

n) Abolizione dei manicomi (1978).

L'insieme di questa manovra fa sì, come è stato fatto giustamente osservare, che gli anni Settanta siano un "punto di svolta nella defi-nizione nazionale della cittadinanza".

Non appena si indaga con attenzione maggiore la processualità dell' intervento statuale, appare subito chiaro come esso abbia avuto funzioni ed effetti smobilitanti. Nel loro rimpiazzare i partiti assenti, le politiche sociali recuperano alla dialettica politica un'ampia gamma di soggetti in lotta. Il recupero, esercitandosi sul terreno più squisitamente istituzionale che politico, non concorre a risolvere la crisi della rappresentanza; sem-mai, l'accentua ulteriormente. Ma è un'altra la dinamica più perniciosa riscontrabile: la distribuzione di "benefici nuovi ai soggetti mobilitatisi" ha innescato un processo di "destrutturazione dei movimenti" e delle domande che essi avevano inoltrato.

Attraverso le politiche sociali, l'attore istituzionale ha raccolto di-rettamente la domanda sociale, divenendo l'interlocutore privilegiato dei movimenti collettivi. Così stabilendo ipso facto l'obsolescenza delle forme di organizzazione autonoma che la mobilitazione collettiva si era data. Esempio: la legge 285 sull'occupazione giovanile ha un effetto di smo-bilitazione e destrutturazione delle liste e delle leghe dei disoccupati; eguale cosa può dirsi dei consultori pubblici a proposito del movimento delle donne.

Tuttavia, la centralità tentacolare di questo tipo di intervento istitu-zionale è stata spiazzata, in grande parte, dal fatto che il senso e l'immaterialità dei temi della mobilitazione collettiva si sono sottratti all' abbraccio dell'integrazione soffocante. A essere evocate sono state nuove qualità del vivere sociale e, perciò, modificazioni consistenti del sistema politico-istituzionale nel suo rapporto con la domanda sociale. Il quale rapporto non può limitarsi a fungere come terminale di raccolta e riassorbimento selettivo dei conflitti e deve ammettere e prevedere la messa in discussione delle fondamenta su cui si reggono le regole del gioco. In altri termini: la ridefinizione del tema e del problema storico della cittadinanza è qualche cosa di più e di diverso dall'assorbimento istituzionale dei conflitti. Senso e qualità della cittadinanza, così come implicati dalla mobilitazione degli anni Settanta, importano un nuovo senso e una nuova qualità nell'agire e nell'essere dell'attore istituzionale. Una nuova cittadinanza ammette e richiede un nuovo rapporto tra sistema e ambiente, società e istituzioni, istituzioni e movimenti collettivi. Il prototipo di un nuovo cittadino che non soggiace all'apatia di massa e nemmeno alle regole più convenzionali e logore del fare politico è, al tempo stesso, "prototipo" di una nuova società e di un nuovo sistema po-litico.

Nell'intenzionare la caduta dell'autorità politica, della sua legitti-mazione e della sua legittimità, sta il nucleo forte della mobilitazione collettiva degli anni Settanta. Nell'incapacità di aggregare nuovi e larghi schieramenti politici e di promuovere nuove regole relativamente al funzionamento del sistema istituzionale sta la debolezza principale di quella mobilitazione. Il recupero istituzionale non solo ha condotto alla smobilitazione dei movimenti, ma anche confermato il rigetto istituzionale delle tematiche del rinnovamento e del cambiamento. La destrutturazione dei movimenti di lotta operata dalle istituzioni ha strutturato nuove e più profonde rigidità e preclusioni del sistema politico nei confronti della domanda sociale e delle istanze di trasformazione. La crisi di legittimità dello Stato, cagionata dal premere della mobilitazione collettiva, ha allargato la base sociale del consenso di cui hanno goduto per una lunga fase i movimenti. Ma, nonostante la diffusione del consenso, essi non sono stati capaci di destrutturare il funzionamento istituzionale, finendo col disperdersi e soccombere al suo cospetto.

Ora, i benefici legati alle politiche sociali non hanno avuto sem-plicemente un effetto redistributivo della ricchezza sociale, con relativo accesso alla cittadinanza delle figure trainanti della mobilitazione. È che quella coniugata dai movimenti è stata una cittadinanza assente: ha delegittimato la controparte, ma non ha strutturato se stessa. Ancora più esplicitamente: la mobilitazione collettiva degli anni Settanta non è stata capace di incidere qualitativamente sul sistema italiano di Welfare che proprio in quegli anni ha toccato i suoi livelli di massima implemen-tazione.

2.

La razionalità politica del sistema di Welfare italiano

Il Welfare rappresenta una forma specifica dell'organizzazione del capitalismo contemporaneo, dal modo di produzione agli assetti della rappresentanza politica fino ai meccanismi socio-istituzionali. In quanto tale, è una forma di mutamento del capitalismo e del corrispondente sistema politico. Il Welfare italiano, a sua volta, costituisce uno specifico vettore dello sviluppo del capitalismo italiano e della società politica nella generale evoluzione delle società avanzate.

Fino a tutti gli anni Cinquanta, la densità delle politiche di assistenza riguardo all'assicurazione sociale si collocava, per il numero delle forze di lavoro interessate, all'ultimo posto dei paesi europei occidentali; assai poco sviluppato era il sistema pensionistico e ancora meno sviluppato era il programma di tutela della disoccupazione. Già nel 1970, l'Italia colma l'handicap che la divideva dalla maggioranza dei paesi europei: soltanto i paesi scandinavi, la Gran Bretagna e l'Olanda risultavano avere un sistema di Welfare più avanzato. Più precisamente ancora, l'Italia entra nel modello continentale di Welfare (Belgio, Francia, Lussemburgo e Olanda), principalmente caraterizzato dal trasferimento rnonetario dei redditi, a differenza del modello socialdemocratico e di quello delle demo-crazie nord europee, in cui la nota caratterizzante è costituita dall'offerta pubblica di servizi. Nonostante la differenza tra il continental pattern e lo scandinavian pattern, nel ciclo 1949-1977 Svezia, Olanda, Danimarca, Italia e Norvegia fanno registrare il maggiore incremento europeo nella spesa sociale.

Scorporando la spesa per la sicurezza sociale nei suoi comparti costitutivi (Previdenza, Assistenza, Sanità), meglio emerge la specificità del sistema di Welfare italiano:

a) all'interno dei programmi pensionistici, il peso maggiore viene rive-stito dalle pensioni di invalidità e non da quelle di vecchiaia;

b) i programmi di sussidi alla disoccupazione recitano un ruolo secon-dario (circostanza solo parzialmente corretta nel corso degli anni Settanta dall'intervento a pioggia della Cassa Integrazione Guadagni): al 1977, costituiscono il 2,2% della spesa sociale contro il 4,8% europeo;

c) al 1977, il 48,2% della spesa sociale interessa la voce pensioni, di contro a una media europea del 36,5%;

d) sempre al 1977, soltanto il 25,3% del totale di spesa interessa la sanità, contro una media europea del 30,3%;

e) ancora al 1977, il totale di spesa relativo all'assistenza sociale è del 5,2% contro il 9,2% europeo.

Con riferimento all'area Ocse, secondo le stime di A. Maddison, la spesa sociale nel 1980 ha toccato il 29,9% e quella pubblica il 44% del prodotto lordo.

Tutto ciò per quanto attiene agli indicatori di tipo quantitativo che gli stessi ricercatori hanno definito "assai superfíiciali", per quanto "im-portanti": "A livelli equivalenti di spesa i diversi sistemi di sicurezza so-ciale possono infatti presentare caratteristiche tra dì loro molto diffe-renti".

Spostando l'analisi sugli indicatori qualitativi, non si può trovare migliore definizione di Welfare di quella suggestiva fornita da Fede-rico Caffè: sistema di solidarietà terrena; valutando, beninteso, il fenomeno da un'ottica squisitamente di sinistra. Secondo Ruffolo, le ragioni del successo del Welfare State stanno nella declinazione politica democratica del paradigma economico di Keynes: attraverso il sistema di Welfare, "con un solo strumento (la spesa pubblica) si conseguivano due obiettivi: la promozione dello sviluppo e la redistribuzione del reddito. Keynes aveva sottolineato questo nesso, tra politica di sostegno della domanda effettiva e politiche di redistribuzione: una condizione ideale, dunque per la prosperità e il consenso sociale".

Ora, da un lato, la precoce crisi del Welfare ha impossibilitato la traduzione politica del paradigma economico di Keynes. Dall'altro, l'offensiva neoliberista, particolarmente virulenta dalla fine degli anni '70, conseguita proprio alla crisi dello Stato sociale, ha assunto come suo bersaglio privilegiato il sistema di Welfare concepito come sistema di solidarietà sociale terrena: l'ondata ha toccato l'apice con le politiche reganiane di "supply side" e di "deregulation" ed è proseguita in Gran Bretagna con le politiche mercatistiche selvagge della signora Thathcher. In Italia, dal 1° governo Cossiga (4 agosto 1979-primavera 1980) al lungo governo Craxi, ha trovato forme di attuazione soft.

Manovrando la leva della spesa pubblica, tutti i sistemi di redi-stribuzione della ricchezza sono stati inceppati e invertiti di senso e segno. L'offerta politica del sistema si è irrigidita, di contro al progres-sivo elasticizzarsi e complessificarsi della domanda sociale. L'offensiva neoliberista non ha preso di mira tanto le dinamiche pro-inflazione alimentate dai programmi della spesa sociale, quanto l'inflazione politica delle aspettative che tali programmi avevano evocato nel sistema della cittadinanza. È quest'ultima la variabile politica che si è inteso neutralizzare e ricondurre sotto il controllo statuale. L'aspetto sostanziale di que-sta riassunzione di comando sta nella deflazione politica della dinamica delle aspettative e delle preferenze sociali, attraverso la contrazione e l'irrigidimento dei programmi della spesa pubblica. Tanto più questa politica neorestauratrice ha destrutturato il sistema di Welfare, quanto meno la mobilitazione collettiva degli anni Settanta è stata capace di prolungare e trasformare l'inflazione delle aspettative nella rideter-minazione del rapporto tra autorità politica e conflitto. Tanto più la destrutturazione si è stratificata in profondità, quanto più le politiche di Welfare italiane hanno perseguito l'obiettivo del riassorbimento fagocitatore del conflitto sociale.

Cosicché tutte le trasformazioni degli anni Settanta, quando hanno eccezionalmente avuto un carattere positivo, si sono qualificate per la loro bassa soglia, la loro estrema vulnerabílítà e la loro reversibilità politico-sociale. Da questo lato, esatta pare quella diagnosi che legge il sistema di Welfare italiano come pattern a effetti non egualitari e non redistributivi, avente il dichiarato scopo di conservare e riprodurre lo status, le discriminazioni, gli squilibri sociali e gli assetti di potere acquisiti e consolidati.

La subordinazione delle politiche di sviluppo alle politiche di controllo è una delle tare originarie della forma di Stato in Italia; e nella costruzione del sistema di Welfare ha trovato un ulteriore momento di verifica e di crescita perversa. Da questo punto di vista, lo stesso fascismo costituisce un transito essenziale. Il Welfare italiano, più che democratizzare il capitalismo, si è rap-presentato come il tentativo esponenzialmente crescente di subor-dinare la crescita della società civile ai vincoli del sistema politico dato. Tutti i meccanismi chiave dello sviluppo e della costruzione della cittadinanza sono risultati fortemente politicizzati e partiticizzati pregiudizialmente e pregiudizievolmente. Il modello della democra-zia italiana si è andato progressivamente connotando come autorità fondata sul controllo, anziché sul consenso. La traduzione politica dei paradigrni keynesiani, più che rivestire un significato democratico in senso stretto, ha integrato il caso di una democrazia viziosa dimez-zata, a metà strada tra pluralismo e corporatismo. Una democrazia che dal pluralismo ha estrapolato l'arte della mediazione politica degli interessi (più forti); e dal corporatismo, il decisionismo più sfrenato. Col che i due elementi sono stati riassorbiti in forme e formule ibride. Anche questo spiega il rigoglioso proliferare di fenomeni quali il trasformismo e il clientelismo, i quali hanno letteralmente imperversato negli anni Sessanta e Settanta, risultando tuttora ben vivi e operanti; nonostante la decantata transizione dalla "prima" alla "seconda" repubblica.

3.

Libertà senza cittadinanza

Stato e sistema politico dominante hanno operato come allocatori dello sviluppo e della crescita economica, rimpiazzando e pervertendo le dinamiche del ciclo economico. Quello che è un passaggio classico dalla democrazia liberale a quella rappresentativa, dalla società agricolo-contadina alla società industriale, nel caso italiano avviene come sotto-dimensionamento e sussunzione del 'politico' alle ragioni del controllo statuale: una sorta di Hobbes modernizzato. In altri termini: Stato e sistema politico, più che fungere quali fattori politici riallocativi della cittadinanza, hanno operato come maglie selettive nella prospettiva della riduzione e predeterminazione politica della domanda sociale, secondo uno schema di controllo di tutti gli inputs e outputs del sistema sociale.

La segmentazione e frammentazione della società italiana sono state costantemente ridotte al silenzio: al silenzio politico. L'attrazione verso il centro del sistema è stata la forma costante e privilegiata di tale tacitamento di massa. Siffatto processo rivela la forza e la debolezza della mobilitazione collettiva. Ciò non vuole indicare che un sistema politico autocentrato e centralizzatore sia stato in Italia capace di governare prima lo sviluppo e dopo la complessità, controllando con efficacia e razionalità la società; come, p. es., hanno creduto le Br con la teorica dell"'attacco al cuore dello Stato" e la prassi della "dìsarticolazione del Partito regime Dc". Più precisamente, vuole indicare che l'impu-tazione dei diritti di cittadinanza a un sistema politico selettivo e ríduzionistico ha costituito la tendenza di lunga durata, attraverso passaggi di fase e mutamenti di forme, della formazione e dello sviluppo in Italia dello Stato moderno. Il che ha costantemente riprodotto una dinamica disgiuntiva tra il grado di cittadinanza re-cepito e accolto istituzionalmente e la densità storica che alla cittadinanza concerneva. L'intervento politico-istituzionale ha riaggiustato in negativo la domanda sociale, ristrutturando in termini restrittivi se stesso.

Il pregiudizio del centro, vera e propria legge bronzea del sistema politico italiano, ha conferito un massimo di libertà distorta alle aspettative sociali più evolute. Nel senso che le ha lasciate "libere", senza rappresentanza: libere di crescere solo su se stesse. Si è, perciò, sempre trattato di una libertà perversa, una libertà condizio-nale: a misura in cui non era integrabile nelle regole di funzionamento sistemico dell'assetto politico e istituzionale, veniva evirata e relegata nelle cerchie dell'emarginazione ribellistica e nella deriva della marginalità. Si è trattato di una libertà senza cittadinanza, cui sono state appiccate via via catene più pesanti. Sta qui il limite più profondo dell'opposizione declinata dalla mobilitazione collettiva: non esser riuscita ad affrancarsi da queste catene.

L'allocatore istituzionale ha allocato, tendendo all'allargamento del Centro; l'allocatore armato ha allocato, perseguendo la destrut-turazíone del Centro; l'allocatore movimento, nelle forme più svariate, si è autoescluso dall'allocazione politica, finendo col porre se stesso come Centro escluso. Alla luce di questa complessa dinamica andrebbero rivisitate e aggiomate le, peraltro, interessanti analisi di Otto Kirchheimer sul declino delle opposizioni nelle società capitalistiche avanzate e sul "partito piglia-tutto" che finiscono col viziare il funzio-namento del sistema politico.

I fallimenti dell'allocazione politica misurano l'incapacità e/o la non volontà politica di intervenire a monte dei meccanismi che partori-scono il sistema delle discriminazioni sociali. Decisione e finalità dell'allocazione, onde evitare lo scacco, debbono costantemente commisurarsi con il nodo duro dei processi della differenziazione sociale. L'autorità politica del decisore non è il portato dell'accordo imperativo tra la risposta di governo e i "valori imperativi" della società.

Dato che l'attribuzione dei valori imperativi struttura un campo di discriminazioni sociali all'interno del sistema in cui interviene, non può essere l'assegnazione egualitaria di tali valori a rettificare le diseguaglianze che si registrano a livello della fruizione dei diritti e delle risorse. L'autorità politica, in un sistema aperto al cambiamento e alle ragioni della libertà, ha esattamente il compito e il problema opposto: spezzare quel circuito perverso moltiplicatore di discrimi-nazione ed esclusione sociale, particolarmente all'opera nella società complesse. Qui si innesta la necessità di andare oltre le forme eguali della democrazia codificate dai paradigmi della tradizione, montando l'esigenza di coniugare eguaglianza con differenza.

Se il paradigma democratico per eccellenza: autorità contro con-senso, può avere e ancora ha una validità, uno dei passaggi obbligati sta nel disingabbiamento della risorsa autorità: dal consenso attorno agli effetti occorre ricondurre l'autorità al consenso attorno alle cause. Dal consenso attorno alla "cosa" è necessario transitare al consenso intorno ai "perché", per parafrasare un importante passaggio della critica aristotelica alla metafisica platonica. Ancora di più: si tratta di orientare la ricerca del consenso verso le direttrici del "verso che cosa", verso le interrogazioni intorno a "quale società" e a "quale cittadinanza". Un paradigma possibile è qui quello della libertà con cittadinanza. Autorità del decisore e cittadinanza della mobilitazione non debbono essere, ognuna per la sua propria parte, intervento ex post, a cose fatte; ma anche incardinamento, ognuna per la sua propria parte, alle cause primarie.

È fondamentale analizzare la regolazione delle tensioni di do-manda cui ogni sistema politico quotidianamente e prospetticamente dà luogo. Soprattutto, se quel sistema non soddisfa sul piano dell' equità e quello delle libertà; soprattutto, se quel sistema, per questo, è degno di essere sottoposto a un profondo rivoluzionamento. Studiare le 'leggi' e i processi che contestualizzano un sistema dato rimane, pertanto, una grande e seria lezione che ci viene da Marx.

Il mutamento di sistema, provando provvisoriamente a stringere gli argomenti, pare posizionabile come una tensione rivoluzionaria a cui il sistema viene sottoposto dall'ambiente e dalla cittadinanza in libertà a cui risponde, ritematizzandosi e mutando statuto sociale. In linea prioritaria, ciò implica che tutte le variabili ambientali e si-stemiche debbono essere cointeressate a una mutazione genetica della loro struttura semantica. Su questo cammino, è possibile ricer-care i preliminari di una teoria della rivoluzione e della trasformazione nelle società complesse.

Il potenziale di risposta dei sistemi politici è enorme; ma non ha soltanto una valenza di assestamento dinamico dello status quo. L'ambiente medesimo ha un potenziale di risposta rilevante. Le tensioni di libertà che solcano le azioni conflittuali della mobilitazione collettiva portano anch'esse in dote un significativo potenziale di risposte positive. Sistema, ambiente e cittadinanza conflittuale, in-sieme seppur diversamente, hanno in sé stessi un "potenziale uto-pico" e un "potenziale di mobilitazione" e trasformazione che gli anni Settanta italiani hanno abbondantemente dimostrato e su cui, con tutta evidenza, la Sinistra non ha mai riflettuto adeguatamente.

Se esaminiamo la pluriarticolata rete di interazioni/contraddizioni tra la razionalità sistemica dell'impresa e la dinamica complessa dell'azione conflittuale, le inadeguatezze e le specificità tutte italiane, che siamo sin qui venuti individuando su un versante prevalen-temente storico e politico-istituzionale, emergeranno meglio nella loro portata sociale e culturale. Del pari, sarà palese che, diversamente da quanto invalso nella pubblicistica corrente, l'impresa (segnatamente: la "grande impresa"), in Italia, ha avuto (sempre) un ruolo assoluta-mente rilevante, per non dire strategico. Ciò non solo e non tanto nella elaborazione e definizione dei modelli di politica industriale; ma nella messa a punto delle politiche di controllo ed esclusione sociale. In Italia, lo spazio materiale della cittadinanza e il campo di espres-sione e rapresentazione dei diritti sono stati, in gran parte, sacrificati e compressi sull'altare degli interessi delle grandi concentrazioni industriali e delle corrispettive élites finanziarie, politiche e culturali. "Tangentopoli", tra le altre molte cose, ha mostrato di quali e quanti privilegi e sostegni pubblici abbia goduto l'industria italiana; privilegi e sostegni che non trovano assolutamente riscontro negli altri paesi dell'area Ocse.

4.

Dalla democrazia alla crisi della democrazia: ovvero la nascita dell’emergenza

È nel contesto storico-politico che siamo venuti tratteggiando che, negli anni ‘70-80, è andato maturando il processo di costituzione e sviluppo dell’emergenza

Già nel corso degli anni '80, la semantica del termine emergenza è andata profondamente mutando. Tra i primi, lo ha rilevato Stefano Rodotà: "La parola "emergenza" sta, dunque, cambiando significato. Non indica più una situazione eccezionale e transitoria: l'emergenza si consolida, si fa realtà permanente, produce le sue regole, organizza le sue istituzioni. Oggi (varie) situazioni, all'origine eccezionali, vengono unificate sotto l'unica etichetta dell'emergenza, che serve a giustificare tutto e il contrario di tutto. Ma questa è soltanto la facciata. Dietro la quale, da tempo, sono in corso processi profondi di trasformazione degli apparati pubblici. Sarà l'emergenza la vera madrina della riforma istituzionale?".

L'emergenza, dunque, come trasformazione profonda del tessuto istituzionale. Ovverosia: emergenza come astuzia della trasformazione istituzionale e punto di svolta indietro del quale non è possibile fare ritomo e con cui non si può omettere di confrontarsi.

Vediamo di verificare, in prima ipotesi, il rapporto di interdipendenza tra crisi della democrazia ed emergenza. Come abbiamo, a più riprese accennato nei capitli precedenti, esiste un ampio e diversificato filone politologico, definibile in senso lato neodemocratico, che tende a leggere la degenerazione dei poteri come relazione e portato dei paradossi e degli effetti perversi della democrazia. Da questo filone, più o meno esplicitamente, si estrapola qui un quadro di lettura che ipotizza l'emer-genza come paradosso e, insieme, effetto. La verifica di questa ipotesi, in sostanza, costituisce l'applicazione degli strumenti concettuali messi a disposizione del filone politologico individuato, per saggiarne dall'interno la possibilità o meno di farne un uso cognitivo congruo e produttivo.

Secondo la costellazione teorica e politica che si intende sottoporre a verifica, come è noto, i paradossi della democrazia sono fondamental-mente tre:

a) democrazia chiede sempre più democrazia;

b) più democrazia significa più burocrazia;

c) più democrazia vuole più tecnocrazia.

È per lo meno a far data dal secondo conflitto mondiale che la democrazia ha dovuto imparare a far fronte alla democrazia. Più che svuotarsi la "democrazia formale" e limitarsi la "democrazia sostanziale", è mutato il significato della democrazia; è mutata la sua forma storica di esistenza. Il primo che ha concettualmente indagato questo fonomeno, seppur a lato della riflessione sul nazionalsocialismo, è stato Fraenkel; sulla sua scia, in epoca a noi più vicina, si è mosso Wolfe. Nell'analisi di Fraenkel e Wolfe, lo Stato, invece che limitarsi a svuotare di valore la "democrazia formale" (soluzione di "destra") oppure impegnarsi a realiz-zare le mancate promesse della "democrazia sostanziale" (soluzione di "sinistra"), riscopre la forma della diarchia. Una faccia: "democratica, cercando di guadagnare consenso all'ordine pubblico"; l'altra faccia: "cinica e ambiziosa come Cassio, sarebbe stata liberale (nel senso classico), responsabile dell'accumulazione del capitale e della protezione delle agenzie che realizzano l'accumulazione".

La diarchia qui categorizzata è tra legittimazione (avente una valenza democratica) e accumulazione (recante un segno liberale). Disaggre-gando ulteriormente la rete dei poteri e delle interdipendenze, ci accor-giamo che il dualismo si dipana tra due coppie polari: da un lato, legit-timazione/consenso e, dall'altro, accumulazione/profitto. Politica è la prima coppia; economica, la seconda. Politica (e anche politica economi-ca) dello Stato ed economia politica del capitale si mantengono, così, strettamente funzionalizzate, conservando ognuna il necessario grado di autonomia.

Secondo questo modello, lo Stato non sarebbe altro che visibilizza-zione politica dell'invisibile governo economico. La diarchia rappresenta giustappunto il raccordo necessario tra i due poli. Non solo giustifica, ma rende necessaria la mutazione delle "regole del gioco" messe in codice dalla democrazia classica. La crisi del polo accumulazione/profitto non consentirebbe più di canalizzare il consenso nelle forme della legittimazione democratica classica. "Regole del gioco" e forme proprie della legittimazione democratica sarebbero inapplicabili

In una società troppo democratica, allora, la democrazia non fun-ziona più, poiché non riesce a padroneggiare la crescita economica e lo sviluppo sociale. Tra democrazia e crescita si instaura un rapporto di sproporzione: mentre la prima si è allargata, la seconda vede restringersi i propri margini di valorizzazione. Da qui in avanti, con-tinuando, la democrazia funziona, riducendo la democrazía.

Il corollario dei tre paradossi della democrazia è proprio questo. Proprio qui nasce l'emergenza. Ne viene, portando alle estreme conseguenze l'approccio, che l'emergenza è lo "sviluppo" della democrazia; o, altrimenti detto: la forma della democrazia moderna. Sennonché il modello convenzionalmente defìnìto neodemocratico è inconseguente rispetto alle sue premesse e non perviene mai alle conseguenze estreme appena segnalate.

In ogni caso, l'approdo è stato disvelato: emergenza come ridu-zione della democrazia e come rilancio specialmente protetto e settorializzato della crescita. Ancora di più: l'emergenza è l'erede diretta della scomparsa del mito della crescita illimitata, altrimenti noto come mito del progresso. A ben guardare, gli assunti delle teoriche della "crisi della democrazia" sono la ritraduzione politico-istituzionale delle teoriche della "crisi del progresso"; con ciò si va denudando il sottostante mito economicista che le informa.

È il venir meno della linearità del progresso che sospende qui la nomialità, introducendo uno stato di eccezione tanto nel laboratorio concettuale che nel governo dell'esistente.

Crisi della democrazia per "troppa democrazia" indica una contestualità tra sovraccumulazione di capitale e sovraccumulazione di democrazia. L'emergenza è il termine medio tra questi due sovraccumuli critici. Ciò che il modulo neodemocratico particolar-mente tace è una evidenza lampante: crisi della democrazia a mezzo della democrazia — proprio come contraltare della crisi del capitale a mezzo del capitale — è indicazione forte della crisi della democrazia borghese in quanto forma; in quanto forma transitoria e storicamente determinata, come ben sapeva Marx. Qui rinveniamo, quasi allo stato puro, la crisi della forma borghese della democrazia; non già delle forme della democrazia. Qui, ancora, crolla l'universalismo delle ca-tegorie e dei concetti dell'ideologia borghese e la stessa democrazia non viene alla luce come universale metafisico, bensì come movi-mento imperituro di forme e di qualità. Movimento che non solo con-serva gli ideali inalienabili della democrazia dei moderni, ma anche i punti cardine del dialogos degli antichi; che, dunque, non può che essere alla insopprimibile ricerca di luoghi migliori per quei princìpi e quel dialogare, anche istituendone nuovi.

Ma una volta portata in superficie l'evidenza nascosta del modello preso in esame, nasce il groviglio delle domande più inquietanti e complicate. Dall’interno del modello neodemocratico altro non si può fare che risalire alla sua premessa radicale inconfessata; dal di fuori si cominciano a cercare le risposte utili. Ciò consente di mantenere un rapporto di equilibrio con tale modello: tanto nei termini della critica, quanto nell'assumerlo come riferimento. Nei suoi confronti è urgente il distanziamento; da esso si riceve più di uno stimolo.

5.

Emergenza come costante della crisi

Corre obbligo storicizzare. Nel dibattito politico e storico, la seconda metà degli anni Settanta rappresenta un delicato punto di passaggio. Le difficoltà della crescita si drammatizzano e inter-vengono metamorfosi profonde che fanno cominciare a parlare di "crisi permanente delle risorse".

Lo stato d'eccezione qui subentra col sopravvenire della crisi delle risorse e la sua permanenza costituisce il prolungamento nella sfera politica e istituzionale di tale crisi. Sotto quest'ultimo riguardo, va detto che si assiste a un caso di crisi delle risorse politiche, crisi della fantasia e dell'immaginazione del pensiero e della prassi politici, imprigionati dentro categorie e modelli anacronistici: ciò a destra quanto a sinistra. Tale è lo scenario che è possibile ricavare da quel dibattito. In un modo o nell'altro, tutti i paesi capitalistici sviluppati hanno avuto il loro stato di eccezione e sono stati costretti a predisporre la loro emergenza.

L'emergenza si configura, quindi, come una costante della crisi, la quale ha avuto forme di espressione differenti, a seconda delle diverse aree regionali in cui ha insistito. In questo senso, l'emergenza costituisce una via d'uscita dalla crisi che conserva il regime capitalistico dato, innovandolo in alcune sue nervature essenziali. Sostituisce, per così dire, lo shock rivoluzionario e, nondimeno, apporta traumi non certamente irrilevanti.

In quanto risposta eccezionale a un evento eccezionale e a misura in cui tale evento si prolunga, fissandosi nel tempo e nello spazio della vita sociale, l'emergenza diviene una struttura stabile che conosce uno sviluppo permanente: la crisi dello sviluppo ingenera il postulato dello sviluppo dell'emergenza.

Prima di tutto, l'emergenza è fisiologia delle società malate di sviluppo; condizione storico-esistenziale (che integra schizofrenia e normalizzazione) di una società che non sa più cercare e trovare rife-rimenti e tensioni oltre la sua immediatezza brutale; deriva di un sistema politico-istituzionale che riproduce persino se stesso in fore straneanti e caricaturali.

Un lungo tunnel storico ha afferrato la società in una fase di transi-zione cruciale, in cui non si sa quello che viene dopo e si comincia a perdere quello che è venuto prima. Nello smemorarsi di passato e futuro, l'emergenza si attacca a un presente orfano di tutto: la vera e più profonda e letale eccezionalità dell'emergenza sta in ciò. Nella condizione di orfana, l'emergenza fa versare "lacrime, sudore e sangue".

Uscire dall'emergenza è uscire da questo tunnel. Ogni altro modo di liberarsene che eluda tale sbocco si rivela ben presto un debole palliativo. Ma, prima ancora dell'uscita e proprio nel costruirla e tentarla, qui l'emergenza costituisce ciò che più tenacemente esiste e resiste; dunque, quello con cui resta preliminarmente da fare i conti. Altro era storicamente possibile; dunque, altro è ancora storicamente possibile: altro è sempre possibile.

Fuori del tunnel ci si troverà ancora a convivere con l'emergenza, se saranno state le sue culture e subculure, le sue prassi a guidare l'attraversamento. Allora si potrà veramente cominciare a dire che il "paradosso" dell'emergenza si è territorializzato nella società e incarnato nei comportamenti collettivi e nelle opzioni individuali.

Il rapporto che l'emergenza istituisce con l'occasione è del tutto particolare e particolarmente ambiguo. Per la sua straordinarietà, l'evento occasionale la giustifica e chiama in causa. Ma pilotando l'occasionalità straordinaria degli eventi, dominandoli, gestendoli e amministrandoli, si struttura come corpo sociale e simbolico e strut-tura il corpo sociale e simbolico. Non si limita a surrogare, sospen-dere e sostituire eccezionalmente poteri e diritti in crisi, ma si costituisce e propone come nuova forma dei poteri e nuovo centro irradiante i diritti. In quanto risposta alla crisi, delinea e tesse i pas-saggi e i paesaggi del dopo crisi. L'autorità sull'occasione, che costituisce la sua ragione fondativa e la sua giustificazione primaria, consegna all'emergenza le chiavi della sovranità illimitata sugli ordinamenti sociali e sulle strutturazioni simboliche; e ciò costituisce l'insidia più pericolosa. È qui che si prospetta quel salto promozio-nale a cui l'emergenza sommamente anela: dal controllo sulla stabilità dell'occasione al controllo sulla stabilità della processualità storica.

A questa altezza non può che assumere uno statuto ambiguo e sfuggente che ne muta radicalmente la semantica tradizionale. È forma di governo, ma anche evento storico; è opzione straordinaria, ma anche struttura stabile; è accantonamento dei vecchi poteri, ma anche conflitto tra i nuovi poteri: è Stato, ma anche società; è ecce-zione, ma anche normalità.

È questo il versante complicato e sfuggente entro cui si inscrive il confronto serrato con l'emergenza. Urge la messa a punto di proposte e soluzioni, progetti e aggregazioni che sappiano vincere le sfide della crisi della modernità a livelli qualitativamente inattingibili per l'emergenza. Riuscire dove e come l'emergenza non può riuscire: non c'è scorciatoia o uscita laterale. Cultura politica, prassi della riforma, della rivoluzione e della trasformazione debbono superare la condi-zione di orfane. Ciò è costituzionalmente precluso all'emergenza. Sospesa come è tra eccezionalità e normalità, è una sorta di figlia di nessuno che, in sovrappiù, non può aspirare a eredi legittimi.

Qui il confronto con l'emergenza tocca la radice dei problemi e si costituisce le occasioni e i contesti della riuscita. Ma proprio qui il successo non è facile; né garantito a priori. Tutto rimane da giocare.

6.

Emergenza come principio regolatore

Il taglio fin qui dato alla riflessione ha fatto apparire l'emergenza come condizione della storicità, della politica, delle istituzioni e della cultura nella crisi.

Capillarizzando di più l'analisi, salta in primo piano un aspetto dell' emergenza rimasto in penombra; quello che la fa apparire come prin-cipio regolatore della vita associata. Da qui scatta una necessità supplementare per l'indagine; non limitarsi alla relazione sccietà/gover-no/emergenza, ma soffermarsi anche sul triangolo società/Stato/emer-genza.

Come è noto, lo Stato moderno è andato costituendosi come reazione alla conflittualità permanente che emergeva nella società; come soluzio-ne delle guerre civili emerse lungo tutto quanto il XVI secolo. In quest' ottica, lo Stato moderno fin dal suo primo apparire ha avuto una funzione anti-emergenziale. Si è appalesato come centro riduttore e risolutore dell' emergenza, per la tutela dell'ordine e dello sviluppo della vita associata. Ha, così, cumulato nelle sue mani un duplice ruolo: (i) quello di strumento supremo e sintetico della regolazione della vita associata; (ií) quello di rappresentazione materiale della vita associata. Con articolazioni, finalità ed esiti differenti, è così che lo rinveniamo nei fondatori del pensiero politico moderno: Machiavelli, Hobbes e Locke. Lo Stato moderno nasce come comunità che riassorbe il conflitto nell'ordine, ponendosi in tal modo come unica comunità ordinatrice della vita associata.

Riferendosi alle ragioni primarie dello Stato moderno e al suo sviluppo genetico, si può postulare: quanto più Stato, tanto meno emergenza. Postulato che aveva pregnanza e indubbia valenza cognitiva a fronte dei processi che hanno visto la formazione dello Stato moderno. Altrettanto non può dirsi oggi. Semrnai, gli enunciati del postulato sembrano invertirsi di senso e di segno: tanta più emergenza, tanto meno Stato. Nel senso che l'emergenza non si limita a sospendere i princìpi ordinatori statuali, ma ne ripropone di nuovi, su cui va rimodellandosi la forma di Stato. Allora "tanto meno Stato" anche nel senso che lo Stato, non potendo più funzionare quale principio regolatore della vita associata, attraverso l'emergenza viene consapevolizzandosi dei suoi limiti. Da qui la novità: lo Stato non appare più come il contraltare dell'emergenza, a fronte della quale o la riassorbe o soccombe; piuttosto, il suo alter ego.

Se così stanno le cose, non appaiono del tutto convincenti quelle tesi che legano il caso specifico dell'emergenza italiana degli anni '70 e '80 — e, più ancora, tutta la storia italiana dalla formazione del processo unitario in avanti — all'assenza di un vero e proprio Stato moderno. Il fatto è che, diversamente dagli albori della modernità, tra Stato ed emergenza non si dà una relazione di esclusione e contrapposizione, bensì un rapporto di coappartenenza. Tra di loro v'è come un'aria di famiglia. L'emergenza non costituisce una deviazione dallo Stato, anche perché da un bel pezzo lo Stato di diritto si è estinto per consunzione storica e ben altre sono state le forme storiche della statualità. La crisi dell'idea e della prassi dello Stato di diritto sta già scritta tutta intera in Kant e in Hegel. Oggi crisi dello Stato, crisi della politica e virulenza dell'emergenza si in-scrivono entro cerchie materiali e simboliche completamente diverse.

È a partire, per lo meno, dalle fondamentali opere di Forsthoff e Neuman che nel dibattito politico il declino dello Stato di diritto è divenuto un'evidenza incontrovertibile. Già a cavallo della svolta rappresentata dagli anni Trenta, si può rintracciare l'incubazione incipiente dello Stato sociale, per rilevarne successivamente la crisi sul finire degli anni Settanta e al principiare degli Ottanta.

Nel passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale registriamo l'inclu-sione nella cittadinanza politica e nel governo della società anche di quelle forze e di quei soggetti che non hanno rappresentanza governativa o, addirittura, parlamentare. Gli effetti sono dirompenti rispetto alla distribuzione del reddito, all'attribuzione e all'uso delle risorse, alla composi-zione dei conflitti e alla stratificazione dei gruppi sociali, alla ridislocazione dei poteri e delle loro fonti.

Negli anni ‘80, Umberto Curi, a proposito dell'emergenza, ha felicemente parlato di "istituzionalizzazione dello "stato di eccezione""; "ricontrattazione periodica" da parte dei soggetti, individui, gruppi delle "condizioni della loro partecipazione alla vita della comunità"; fino a porsi essa medesima — I'emergenza — come "fonte permanente della norma".

Questo convincimento merita un approfondimento e, nel contempo, una verifica. Ciò è urgente anche perché consente di far scorrere l'analisi su una connessione trattenuta all'interno del triangolo società/Stato/emer-genza: quella intercorrente tra Stato e norma nelle coniugazioni sociali apportate dall'emergenza.

7.

Emergenza come forma permanente di compromesso politico

Secondo una formulazione divenuta ormai classica — e che va da Paine a Bobbio — l'irruzione democratica ha storicamente sancito l'emancipazione della "società civile" nei confronti dello Stato.

Di questa svolta si intendono qui indagare alcuni esiti attuali, con particolare riferimento a quel processo storico comunemente designato come "crisi delle norma" e che principia intorno agli anni Trenta. Con un'avvertenza: la crisi della nonna è qui assunta come indicatore delle trasformazioni della legge.

In primo luogo: la crisi della norma è l'espressione della labilità e della scarsa pervasività dei compromessi prodotti e garantiti dalla legislazione, a fronte dello spezzettarsi dei centri di potere in una miriade di interessi frantumati. A partire dagli anni Trenta, con l'intervento dello Stato nella regolazione del ciclo economico, si registrano contraccolpi nella funzione dell'attività legislativa. Il passaggio successivo allo Stato sociale introduce modifiche ancora più radicali nell'esercizio del potere normativo. È il potere legislativo nella sua interezza che va mutando; è il rapporto tra decisione e democrazia che viene in toto ricombinato.

Dalla titolarità del potere normativo è possibile risalire ai mutamenti che attengono alle fonti del sistema di formazione e produzione delle norme nel rapporto intercorrente con gli altri poteri dello Stato. Il punto è — come ritenuto da una consolidata letteratura — che nel passaggio dallo Stato di diritto allo Stato sociale la legge non espleta più il ruolo di garante nella relazione Stato/individuo, Stato politico/società civile, poi-ché non risultano più operanti quei caratteri di astrattezza e generalità costitutivi dell'idea stessa di norma.

Nello Stato sociale, l'attività normativa tende a qualificarsi come concretezza procedurale immediatamente efficace, fino a modificare gli equilibri sociali vigenti: la norma si forma in vista del governo diretto sulla società e sulla sua geografia ricompositiva. Dalla norma come forma si passa alla messa in primo piano del processo di formazione della norma.

La codificazione normativa conosce un deperimento organico. Il codice viene preso d'assalto da quella vera e propria decodificazione operata dall'intervento legislativo. L'espansione dell'intervento pubblico e lo sviluppo crescente delle politiche sociali rompono il quadro delle normalità, precipitando in crisi i criteri delle astrattezze ed equivalenze legate all'interesse generale predicato dal potere normativo. Il nuovo compromesso politico delineato dallo Stato sociale sostituisce al principio normale dell'eguaglianza e delle parità (tra cittadini e tra gruppi sociali) un principio speciale che ricalibra la forma dei poteri sulla concatenazione storica delle situazioni di eccezionalità.

Lo stato sociale fornisce le prime risposte alle domande schmittiane, malgrado Schmitt, intorno alla decisione sovrana, al chi comanda nelle situazioni eccezionali. La prima legislazione speciale in ambito democra-tico è quella dello Stato sociale con il dilatarsi dell'intervento pubblico, delle politiche della sicurezza e dell'assistenza sociale.

È con la Costituzione di Weimar che la scienza giuridica, lo Stato e le istituzioni cominciano a porsi in confronto con le problematiche connesse all'uscita dallo Stato democratico di stampo liberale, e al pericolo incom-bente della precipitazione in una forma di tirannide moderna. Con tale Costituzione si cerca di frapporre delle barriere costituzionali alla deci-sione senza limiti, in funzione della costituzionalizzazione della demo-crazia politica. Schematizzando, il passaggio alluso è quello che va dalla democrazia liberale alla democrazia costituzionale.

Che il tentativo sia tragicamente fallito è storia sin troppo nota. Nel passaggio prima evocato si intendeva sottrarre la forma della democrazia alla tirannia della sovranità e la si andava commisurando agli interessi pluralistici che erano, intanto, insorti nella società, tentando di ricondurli a unità attorno a una rielaborata nozione della giustizia. La forma costituzionale della democrazia è qui forma che costituisce e garantisce la giustizia.

Non è un azzardo, continuando, definire le forme della costituzionalità come patto sociale e, nel contempo, compromesso politico. Da qui la delimitazione di una doppia area: (i) l'inclusione nello Stato delle forze e delle aspettative che agiscono nella società (almeno come aspirazione imperativa); (ii) il governo politico della società.

Come abbiamo visto in particolare nei primi due capitoli, tale divaricazione, già a partire dalla "ricostruzione", conduce in Italia a un fenomeno tutto particolare: la sovranità della decisione va progressi-vamente smarrendo il suo fondamento costituzionale. Dalla tirannia del sovrano, per scongiurare la quale le costituzioni nascono, trascorriamo alla tirannia delle maggioranze governative. Altrimenti detto: sovrano non è chi comanda nel Parlamento; bensì chi comanda il Parlamento. Ciò induce un'ulteriore degenerazione: il restringersi del patto sociale attorno all'area del compromesso politico, fino a coincidervi del tutto nei periodi bui.

Diversamente da quanto a tutta prima potrebbe sembrare, con l'enu-clearsi di queste tendenze è l'Esecutivo — non già il Parlamento, per l'aumentato peso del potere legislativo intenzionato dalla legislazione speciale inaugurata dallo Stato sociale — a porsi come "nuovo soggetto" titolare della sovranità. La voluntas del sovrano non appare più con-dizionata da vincoli e riferimenti esterni. La dialettica aperta dallo Stato sociale tra il potere di decidere e i bisogni dell'organismo associato, nella sua complessività e complessità, si interrompe bruscamente.

Il trentennio di egemonia democristiana (1945-1975), in quest'ottica, può essere letto come manifestazione del restringimento progressivo del patto sociale all'area del compromesso politico. Costituisce, questo, il terreno più fertile e, al tempo stesso, l'antefatto storico su cui hanno potuto fecondamente allignare la legislazione speciale e i contesti dell'emergenza degli anni Settanta e Ottanta. I poteri smarriscono l'ambito della mediazione corporatista degli interessi e rispondono a mò di respingenti alle aspettative sociali nel frattempo insediatesi. Anziché innovare il patto sociale, riaprendolo alle nuove istanze e nuove dina-miche sociali, lo si surroga e cancella nel compromesso politico. La crisi del centrosinistra non viene avvertita come ammonimento. Cosicché si tende a governare l'insorgere delle nuove fenomenologie e aspettative sociali semplicemente allargando a sinistra il quadro della compagine governativa: al centrosinistra subentra il compromesso storico e a questo la solidarietà nazionale.

Lo Stato costituzionale italiano si trova stretto tra l'onnicomprensività astratta del patto istituzionale e l'esclusività concreta del compromesso politico senza alternanza. Ciò diventa particolarmente stridente a partire dal biennio 1968-69 in cui, come abbiamo segnalato nei due capitoli precedenti, entra definitivamente in crisi l'egemonia della società politica sulla società civile. Per dir così, lo Stato costituzionale italiano è stato a sovranità dimidiata. Per metà, si legittima ancorandosi a una norma astratta (la sovranità della Costituzione), da cui va progressivamente allontanandosi; per l'altra metà, si autolegittima attraverso il peso crescente assunto dalle procedure legislative. A misura in cui il territorio di incidenza della legislazione speciale si espande, lo Stato-norma (costituzionale) risulta delegittimato e viene avvertito come un limite dal quale i poteri tendono inarrestabilmente a fuoriuscire. Subentra un' ulteriore e, ormai, classica divaricazione: quella tra "costituzione formale" e "costituzione materiale". Gli anni Settanta sono il prodotto tipico dell'allargarsi all'estremo di questa forbice. È lungo l'asse di scorrimento di questa perversa tendenza che vanno misurate le responsabilità politiche precise e distinte di movimenti, lotta armata e Stato.

Una zona vuota caratterizza, seppur differenziatamente, tanto l'espe-rienza della lotta armata, quanto la cultura e la pratica dei movimenti nel corso delle onde lunghe delle lotte sociali degli anni Settanta. È il mancato aggancio ai cicli della riforma e del mutamento sociale. V'è un'eguale indifferenza, ancorché di diverso segno e senso, al problema rappresentato dal governo delle istituzioni, alla produzione di nuove regole di senso della democrazia, alle forme di soluzione dei nuovi con-flitti sociali.

Tale indifferenza si traduce in una semplificante negazione e deligitti-mazione del sistema politico, dello Stato e della società; negazione che non riesce a essere critica, riconversione e trasformazione dialogata delle "regole del gioco".

Saltano qui tutte le differenze: tra Stato e società, tra sistema politico e istituzioni ecc. Tutto viene investito da un principio negativo che rende eguale una cosa all'altra, cancellando una cosa con l'altra. Se quella dei movimenti, per qualche verso, può essere assimilata come eccitante avventura della marginalità, l'esperienza delle organizzazioni cornbattenti va assunta come disavventura rovinosa della specularità. Un cerchio fatale pare stringere tra complementarità e simmetria tutto quanto va agitandosi e muovendosi nell'arcipelago a sinistra del Pci.

Lo Stato si rivela tetragono al mutamento che va alterando le basi della società e dei comportamenti sociali, incapace di innovazione e di ammodernamento funzionali. A partire dal 1973-74, anzi, ripiega su se stesso. Tutti i processi costitutivi della decisione politica e delle strategie di governo si isolano dalle domande che salgono dalla società e le delegittimano. Così riproducendo la loro vuota razionalità.

Prende corpo un eccesso di autorità statuale, disancorata dalla trame delle trasformazioni sociali in corso e attenta alla pura e semplice riprodu-zione di se stessa. Così deturpando tutte le arnbientazioni esistenti e in formazione.

Per l'effetto combinato di queste dinamiche viziose, le forme della democrazia si contraggono sempre più e la crisi del 'politico' si esprime mistificatoriamente come blocco senza uscite.

Lavorare a questo sblocco è ancora tema dell'attualità e passa attraverso una riconversione dei canali di comunicazione tra società e Stato, movimenti e istituzioni, conflitti sociali e quadro costituzionale-normativo.

Porre in essere inedite forme di combinazione tra critica e coope-razione. Da qui discende l'attenzione rilevante che va prestata a quello che è uno dei nodi centrali del rapporto tra Stato e società e tra movi-menti e istituzioni: il diritto, l'ordinamento gíuridico-costituzionale vigente.

Introdurre modificazioni nella statuizione normativa, riagganciando il quadro giuridico-normativo a una realtà in profondo sommovimento, è impegno índifferibile. Oltre quella cultura della rivoluzione e della sovver-sione incapace di immettere strutture di mediazione articolate, reticoli di nessi funzionari tra agire rivoluzionario e agire trasformativo. In forza della cui incapacità, la rivoluzione subisce una perdita di realtà, non riuscendo a inverare esiti effettivamente trasformativi dell’esistente. Rivoluzione senza trasformazione: da questo contesto cortocircuitato occorre prendere definitivamente commiato.

Cristallizzare elementi di trasformazione vuole pure dire cristallizzare nuovi assetti normativi e nuove forme di dernocrazia politica, verso la prospettiva della costruzione di una società progressivamente più libera.

Nel presente o si sviluppano capacità di ritematizzazione del conflitto, per il trarnite di nuove strutturazioni simboliche e trascrizioni normative, oppure l'ingovernabilità della complessità sociale non può che dar luogo all'ipertrofia della forma emergenziale, quale unico e insuperabile modello di sovranità statuale e, al tempo stesso, autorità politica.

Occorre strappare dal groviglio il carico dei problemi irrisolti che hanno scatenato e drammaticamente dilatato, nel corso degli anni Settanta, la separatezza tra società e Stato, tra movimenti e istituzioni. Si tratta, in breve, di una scommessa e di una speranza: aprire il varco a politiche possibili che sappiano finalmente, interpretare il potenziale liberatorio raccolto e racchiuso nella società.

Mandando a effetto politico le argomentazioni fin qui sviluppate, non si può che arrivare alla conclusione già argomentata nel capitolo prece-dente: ancor prima che democrazia bloccata, costituzione bloccata, que-sto il paradigma dell'anomalia italiana. Qui è proprio il blocco a monte della costituzione che a valle blocca la democrazia, definendone rigida-mente limiti invalicabili. Ma l'invalicabilità, rigorosamente discutendo, si pone per la decisione politica; non già per lo sviluppo politico e il riaggiustamento funzionale dell'amministrazione, su cui la Dc ha stabilizzato le strutture del proprio potere e della propria egemonia.

La decisione politica, bloccata a monte, si capillarizza a valle, artico-landosi e decentrandosi. Da qui prende luogo un sistema amministrativo in parte riordinato e in parte costruito ex novo. Le strategie politiche centrali è come se si distillassero, riuscendo a eludere il blocco costitu-zionale, continuando così a produrre procedure vincolanti, sotto forma di provvedimenti legislativi settoriali e speciali. L'astuzia della politica prima sfugge ai vincoli posti in capo allo Stato e successivamente esalta lo stato d'eccezione. Di quest'ultimo è divenuta sovrana e lo agisce come strumento della riproduzione dei poteri. Il prezzo pagato è stato altissimo ed è sotto gli occhi di tutti.

8.

Emergenza come vincolo dello Stato

Ma la "crisi della norma", coniugandosi con la crisi dello Stato, non si converte in crisi della misura. È l'emergenza intesa come rete delle eccezionalità che si postula come nuovo criterio di misura. Le figure e gli stereotipi sociali, nel caso dell'emergenza italiana di questi ultimi venti anni, non sono lo specchio che riflette il modello della forma ideale. Concatenano, al contrario, gli strappi incessanti inferti al quadro delle normalità, divenendo tramite politico-istituzionale della riformulazione degli orientamenti legislativi, delle regole degli "scambi politici" e delle strutture delle codificazioni simboliche.

Allora, che rapporto tra emergenza e nonna?

Conviene riferirsi, in linea preliminare, a un modello a noi remoto.

Riducendo all'osso, uno dei problemi di Kelsen era quello di imbri-gliare la decisione nella (forma della) norma, allorché la prima andava debordando dalla democrazia. Riconnettendo, con ciò, la decisione alla democrazia, Kelsen introduceva il problema della durata della sovranità democratica. Normativizzare la decisione aveva proprio il senso di far durare la relazione di potere e, con essa, la sovranità legittima. Già qui viene messo in mora e superato il principio antico che vuole la norma il "fine che rende tutti eguali"; già qui la norma non lascia più alla legge la prerogativa di prescrivere decisioni vincolanti. Le tecniche di validazione normatíva sono annessione del mondo al mondo della norma. In questa annessione, il mondo diviene valido ed efficace. Tale è l'orizzonte entro cui viene calato il programma kelseníano della trasformazione del potere in diritto.

Lo Stato, interiorizzando il diritto, si razionalizza e diviene sistema normativo coerente. Il diritto, ingravidando razionalmente lo Stato, di-venta efficace e fa decidere. Il potere non riposa più sulla sovranità soggettiva, fondata da valori astratti precostituiti e preesistenti; diventa un sistema compiuto e coerente di norme razionali, atte all'assunzione di decisioni vincolanti. La decisione non è più semplicemente manifesta-zione della sovranità, distinta dalla legittimità: è uso del potere. Il quale potere è ora potere normativo dello Stato-sistema, impersonale e certo; non più Stato-persona, incerto, arbitrario e mitico. Le relazioni di potere si normativizzano e sfuggono all'arbitrio del sovrano.

Qui la crisi del soggetto e del fondamento diventa più palese; qui la rilevanza della modernità di Kelsen. Il monopolio della forza legittima, imputato allo Stato (Weber), si fa costante esercizio di sovranità legittima. La normativizzazione specializza il potere come organizzazione sociale della norma e specializza il diritto come duraturo riordinamento sistemico-razionale del potere. Col che — come esplicitamente ammette lo stesso Kelsen — il rapporto classico tra il diritto e il potere, il diritto e la forza viene semplicemente riformulato. Allo scopo, si tratta di aggiungere, di riconciliare e durevolmente ricombinare democrazia con decisione. In Kelsen lasciamo la norma come misura della decisione e il potere come vincolo della democrazia.

Il procedere della secolarizzazione del diritto e del potere ci fa incappare — in casa nostra e nel corso di quest'ultimo ventennio — nell'emergenza come medium tra sovranità e legittimità. Le norme eccezionali non costituiscono semplicemente un modo particolare dell' essere e del manifestarsi della normalità; rappresentano, altresì, la richiesta formulata dalle situazioni eccezionali di trovare un disciplina-mento e una codificazione, sia pure del tutto particolari e transitori. In tale contesto, lo Stato non fa che riprodurre all'infinito la decisione infondata e l'infondatezza della sovranità. Emergenza e Stato fanno reciprocamente uso l'una dell'altro: lo Stato come misura dell'emergenza e l'emergenza come vincolo dello Stato. La sovranità diventa questo passaggio, questa fluidificazione a doppio circuito tra Stato ed emergenza. È un potere che dura: perché vincolato dall'emergenza. È potere che muta: poiché si misura col periodico insorgere di situazioni eccezionali. Non potendosi più differenziare come norma e/o potere, lo Stato si differenzia come emergenza. L'emergenza è simultaneità di norma e potere. Non ci restituisce un potere normale; bensì un potere eccezionale legittimato a governare uno stato di eccezionalità che aveva in precedenza sospeso il potere normale. Normalità dell'emergenza è quella di riprodurre il potere sotto la forma dell'eccezionalità. Ed è a questo snodo che le istituzioni vengono asservite ai poteri eccezionali.

Qui un duplice canale di comunicazione viziosa tra emergenza e società: la prima funziona come ambito che incorpora il susseguirsi delle situazioni eccezionali e contestualmente come centro di irradiazione e diffusione di una catena seriale e mutevole di atti e decisioni eccezionali. Se presso i Greci la norma aveva un fondamento gnoseologico, presso di noi l'emergenza appare come sviluppo logico della norma nell'ímpero dell'eccezionalità., In questo senso, è rottura della "gabbia d'acciaio" we-beriana e, al tempo stesso, ne garantisce l’iterazione fondativa auto-matica. Essa rappresenta una stupefacente sintesi tra normativismo e decisionismo; dimostrando, così, una volta di più, l'inconsistenza e l'astrattezza dell'antinomia che tradizionalmente è stata insinuata tra questi due indirizzi.

Le barriere costituzionali che lo Stato non può infrangere sono squarciate dall'emergenza, la quale ricostruisce nelle forme dell'eccezio-nalità lo Stato che aveva arretrato davanti alla Costituzione. L'emer-genza diventa l'approdo estremo del disincanto; lo Stato perpetua all' estremo l'ínganno. Paradosso dei paradossi: in un sol colpo, l'emergenza tenta l'addomesticamento di Weber e Nietzsche.

È la legislazione premiale che, in particolare, porta alla luce questa polarità di disincanto e inganno, lacerando sia la cornice delle teorie retributive della pena che di quelle positiviste. Ma soprattutto: qui non esiste più valore di scambio tra pena e reato; né la norma funziona come equivalente generale e astratto delle pene. Come mix di disincanto e inganno, la legislazione premiale, più che riassorbirli, riproduce i conflitti in forme sussunte e stravolte, scindendoli irreparabilmente dai luoghi della sovranità e della legittimità. Il conflitto viene espulso dal circuito delle socialità, per lasciare il campo libero alla "modernizzazione dei poteri". Può, pertanto, dirsi: la legislazione premiale si muove nella prospettiva della costituzione di un'area di parcheggio dei conflitti più caratteristici delle moderne società complesse: quelli che premono e quelli in formazione. Il che riproduce in forme tutte nuove una delle ascendenze genealogiche che più negativamente hanno contrassegnato la storia d'Italia dall'unità a oggi.

9. Democrazia consociativa ed emergenza

Dopo aver definito il campo largo dei contesti normativi, politici e storici dell’emergenza, corre obbligo cercare di dipanare il filo della morfogenesi dell’emergenza italiana, con particolare attenzione agli anni ’70 e ‘80.

La "solidarietà nazionale" (a partire dagli antefatti del "compro-messo storico" e della "non sfiducia") rappresenta il supporto fon-dativo politico-istituzionale dell'emergenza, intorno cui costruisce un ordine discorsivo e culturale di natura altamente totalizzante, settaria e ideologizzata. "Criminalizzati" sono:

a) il dissenso interno alla compagine governativa: vedi il conflitto infraistituzionale e infragovernativo (non ancora superato) a proposito del "caso Moro";

b) il dissenso e il conflitto sociale: vedi l'intervento "manu militari" contro il "movimento del '77";

c) la rivendicazione del rispetto del sistema delle garanzie: vedi la "campagna di demonizzazione" dei difensori dei cardini costituzionali del diritto penale; campagna tuttora in corso.

L'elemento di novità più rilevante della "solidarietà nazionale" non è, di per sé, rappresentato dall'ingresso del Pci nell'area di governo; piuttosto, è dato dal complesso di strategie politico-istitu-zionali a cui il Pci ha cooperato, con un peso sociale che non ha mai trovato l'adeguato corrispettivo politico. Determinante per la legittimazione sociale della compagine governativa e uno dei suoi elementi di maggiore rigidità interna, il Pci è stato socialmente e politicamente delegittimato proprio dalla "solidarietà nazionale". È stato fonte e fattore di legittimazione esterna, a misura in cui ha proceduto alla sua propria delegittimazione interna. Da qui lo sgretolamento del suo peso politico all'interno della stessa coalizione, di cui è stato sempre più puntello sociale e soggetto/oggetto di allineamento ideologico e sempre meno agente di cambiamento e rinnovamento politico. L'allineamento ideologico e il puntello sociale garantiti dal Pci hanno fatto da precondizione per alcuni dei più consistenti e negativi processi di mutamento del processo di governo. Le funzioni ideologiche, sociali e politiche svolte dal Pci all'interno della "solidarietà nazionale" e la "solidarietà nazionale" medesima vanno inserite proprio nei mutamenti intervenuti nel processo di governo. A siffatto quadro va ricondotta la riflessione sulla "democrazia consociativa" italiana degli anni 1976-79.

Come è noto, la teorizzazione perspicua della "democrazia consociativa" si deve allo studioso olandese A. Lijpart, sul finire degli anni '60. Nell'analisi della tipologia dei sistemi democratici, Lijphart distingue tre modelli generali di democrazia:

a) democrazia centripeta: tipo di democrazia caratterizzato dalla moderazione consensuale a mezzo dell'alternanza di governo (Usa e paesi anglosassoni);

b) democrazia centrifuga: tipo di democrazia caratterizzato dalla forte polarizzazione politica e dal conseguente immobilismo (Italia, Francia);

c) democrazia consociativa: tipo di democrazia caratterizzato da accordi stabili tra élites politiche divise, ma pragmatiche (Paesi Bassi).

Fine precipuo della democrazia consociativa è, pertanto, la stabilizzazione pragmatica dell'assetto politico e, per questa via, dell'ordine sociale. In questo senso, non può non avere premesse ed esiti di conservazione politica, culturale e sociale. Rileva felicemente N. Bobbio che il programma della stabilizzazione politica, che le è proprio, rende la "democrazia consociativa" estranea alle finalizzazioni e alle progettazioni di "trasformazione sociale" proprie dei partiti della sinistra. L'osservazione ci consente di demistificare meglio il modello della "democrazia consociativa" e, alla base, di correggere la tripartizione tipologica di Lijphart. Possiamo legitti- mamente affermare che la "democrazia consociativa", più esatta-mente, è una variante della "democrazia centripeta" che alla moderazione consensuale e all'alternanza in funzione della conservazione sostituisce la stabilizzazione pragmatica. Come variante della "democrazia centripeta", la "democrazia consociativa è una risposta ai problemi e ai dilemmi della "democrazia centrifuga", senza subirne i relativi scompensi politico-sociali. Per restare ai modelli interpretativi elaborati dalla scienza politica italiana, la "democrazia consociativa" costituisce la combinazione delle istanze del "pluralismo polarizzato" (ordine e stabilità) con quelle del "pluralismo centripeto" (politiche di gestione della crisi e governabilità). I motivi dell'ordine e della stabilità, in altri termini, allargano l'area della loro incidenza e, attorno al loro centro di gravità, mobilitano pragmaticamente tutte le risorse del sistema politico che, quasi integralmente, ora si identifica col processo di governo. Il consociativismo costituzionale ha, suo malgrado, segnato l'identificazione tra "partito di governo e Stato; il consociativismo di governo, suo malgrado, segna l'identificazione tra sistema politico e processo di governo. Assistiamo alla mobilitazione totale della società nel segno e nel disegno del governo della crisi. Un disegno pragmatico di stabilizzazione politica non può, in quanto tale, pilotare la fuoriuscita dalla crisi sociale italiana. Di fronte a questa evidenza, cadono tutti gli artifici retorici e gli orpelli ideologici del governo "della solidarietà nazionale". È lo sviluppo del governo della crisi il centro attivo della "solidarietà nazionale"; il punto irreversibile di esaltazione dell'emergenza. In maniera compiuta, sistematica, capillare e dilatata, l'emergenza entra nel processo di governo: lo condiziona prima e poi lo plasma, modella e rimodella in continuazione e non lo abbandona anche dopo la caduta della "solidarietà nazionale".

Il processo di governo, nella situazione della "solidarietà nazionale", fa della coalizione il luogo specifico della produzione del potere. "Situazione coalizionale" e "situazione del potere" tendono a coincidere. La mobilitazione delle risorse politiche propria della "de-mocrazia consociativa", dopo aver circoscritto all'interno del processo di governo le sfere dell'azione, dello scambio e della comunicazione politica, tende a consegnare tutto il potere nelle mani dell'esecutivo. Quest'ultimo trascorre dai modelli del "partito-governo" a quelli della "coalizione" tra le élites politiche maggiormente rappresentative, con l'inclusione di quelle tradizionalmente espulse dal processo decisionale. Non poteva essere diversamente, visto che l'area del consociativismo costituzionale viene a coincidere con l'area del consociativismo di governo. La detenzione del potere si finalizza alla produzione del potere: la "solidarietà nazionale" è un caso paradigmatico di produzione del potere a mezzo del potere. Il potere diviene mezzo e scopo della produzione e della comunicazione della politica; vale a dire: scopo della politica e mezzo di sé medesimo. In questo modo, il problema della "trasformazione del potere" e la questione della "trasformazione sociale" vengono espunti dall'universo della politica e dall'orizzonte delle forme di governo. All'interno di questa espulsione, gli attori del processo di governo cercano esclusivamente di ottenere potere per se stessi, neutralizzando e riducendo quello degli altri. Proprio perché ridotto a "bene di possesso", il potere delimita l'arena del conflitto interpartitico in uno scambio a somma zero che intende trasferire da un attore all'altro le quote interne di potere. Il consenso coalizionale non è altro che lotta accanita per la redistribuzione del potere: quanto più gli attori coalizionali confliggono all'interno del processo decisionale, per l'acquisizione di dosi maggiori di potere, tanto più hanno la necessità di presentarsi compatti all'esterno, nel ridurre le "pretese" e le "attese" delle aspettative sociali. Ed è qui che l'apparente carattere di pragmaticità del modello di "democrazia consociativa" italiano mostra la corda; in realtà, il modello consuma e decompone l'area del consenso coalizionale in tempi estremamente rapidi.

La riduzione delle richieste formulate dai meccanismi di aggre-gazione della domanda sociale costituisce la "conditio sine qua non" del processo di coalizione modellato dalla "solidarietà nazionale". Tale riduzione rappresenta la verifica di legittimità e l'esame di abilitazione governativa di una forza politica. Ma gli attori coalizionali non sono interessati a ridurre le medesime aspet-tative sociali: ognuno, nella pur necessaria selezione, tende a salvaguardare il più possibile il sistema di richieste su cui si regge il suo peso politico e la sua forza elettorale. Ove non riesce in questa operazione di tutela, sottopone ad autodecomposizione, con i suoi processi di legittimazione, la base elettorale stessa da cui ricava consenso e forza: la sua compartecipazione al potere tende sempre più a divenire integrazione subordinata. Un fenomeno di autodecomposizione di tal fatta ha investito il Pci durante la fase della "solidarietà nazionale". Progressivamente, l'unità rispetto all'esterno non riesce a compensare la conflittualità coalizionale. I conti dell'equazione costi/benefici, su cui si regge il processo coalizionale, non tornano più. Ogni attore coalizionale, ben presto, finisce col perdere più di quel che guadagna, dopo che ognuno ha guadagnato (o creduto di guadagnare) per sé il massimo esigibile. Le stesse motivazioni che conducono alla scelta del consociativismo di governo divengono demotivazioni nel prolungare l'esperimento. In misura diversa e con ragioni differenti, tutti gli attori del consocia-tivismo di governo pervengono alla conclusione di porre termine all'esperimento; ma, ormai, esso ha profondamente e irreversibilmente segnato e deturpato il paesaggio politico italiano. Il gioco coalizionale continua, ma secondo altre forme e con altri attori: in parte, ci avviciniamo al modello coalizionale tipico del centrosinistra e, in parte, assistiamo alla riproduzione degli schemi emergenziali del consociativismo di governo. Ormai, devesi registrare la saldatura strategica tra consociativismo costituzionale e consociativismo di governo che disegna la nuova base dell'assenso-dissenso interno al sistema politico; base che organizza e mobilita, su singoli temi/questione, alleanze trasversali tanto circoscritte e limitate quanto mobili e di breve durata. Da qui il potenziamento (i) dell'effetto di paralisi del processo di governo e (ii) della natura trasversale dello scambio e del conflitto politico, i cui processi di formazione e consolidamento abbiamo precedentemente preso in esame.

10.

Crisi della sovranità e sovranità dell’emergenza

La circostanza che l'emergenza sopravviva alla crisi della "so-lidarietà nazionale", mette ancora più chiaramente in luce quanto e come essa sia divenuta unità e centro di governo. Si può dire con sufficiente approssimazione al vero:

a) la "solidarietà nazionale" è un'articolazione dei processi politici di governo della crisi;

b) sia la prima che i secondi sono forme di espressione della cultura e della prassi dell'emergenza.

Le istanze politiche di governo della crisi e le formulazioni degli embrioni della "solidarietà nazionale" si accavallano e intrecciano fin dal 1973, sotto l'impulso di pulsioni politico-culturali di natura emergenziale. Alcuni snodi storici possono rendere meglio intelligibile il discorso che si sta cercando di argomentare:

a) Berlinguer lancia nel 1973 la strategia del "compromesso storico", cui si attribuisce, per solito, il valore di base di partenza della politica della "solidarietà nazionale";

b) il parlamento approva nel 1974 la "legge Reale" e poi la "legge Bartolomei", cui si è soliti far risalire la legislazione dell'emergenza;

c) nel 1975 si sigla l'importante accordo sul "punto unico di contingenza", a cui si annette il significato simbolico-politico di grande intesa tra le "forze produttive" della società italiana per l'uscita dalla crisi;

d) nel 1976 inizia l'attrazione del Pci verso l'area di governo;

e) con la "svolta dell'Eur" del 1977-78, per portare il paese fuori dalla crisi, il sindacato assume i vincoli della stabilità economica come orizzonte delle sue politiche.

Come estrema sintesi degli argomenti addotti e degli eventi storici chiamati in causa, sia in funzione della critica che a supporto delle ipotesi delineate, si avanza la seguente tesi: nello sviluppo della crisi sociale e nello sviluppo del governo della crisi, l'emergenza diviene il luogo e la figura della sovranità. In questo senso, essa è il volto svelato della crisi della democrazia in Italia e, al tempo stesso, la risposta a tale crisi in termini di stabilizzazione conservatrice. La "democrazia consociativa" italiana del 1976- 1979 non è stata altro che una piccola e velocemente rimpiazzata ruota dentata di questo ingranaggio terribile. Nella crisi si sviluppano la sovranità della crisi e la crisi della sovranità. Altrimenti detto: la combinazione di crisi sociale e crisi della democrazia e la mancanza di volontà (e capacità) politica nell'aggredire e dare soluzione alle sue causali collocano proprio la crisi al posto del sovrano.

La sovranità è lacerata da due fratture interne tra di loro intrecciate:

a) la crisi della sovranità formale, il cui depositario è (meglio: dovrebbe essere) il popolo;

b) la crisi della sovranità materiale, il cui titolare è il sistema dei partiti.

La crisi della sovranità formale detta le movenze e i tempi di un passaggio di sovranità dal popolo ai partiti pluralisti. La crisi della sovranità materiale, per parte sua, costituisce l'antefatto dell'incubazione e della giustificazione della sovranità dell'emergenza.

Nella sovranità dell'emergenza vengono al pettine tutti i nodi della sovranità formale e della sovranità materiale. Per risolvere i problemi che da qui insorgono, prende corpo un nuovo dispositivo politico-istituzionale che:

a) strappa definitivamente al popolo la sovranità formale;

b) sottopone il sistema dei partiti alla sovranità materiale della legislazione eccezionale;

c) si formalizzza e dispone come norma e decisione del processo di governo.

Tra crisi e sovranità della crisi, l'emergenza diventa la nuova figura soggettiva della sovranità e la nuova forma oggettiva del congegno democratico. Non è più il sistema dei partiti in senso lato il sovrano; in senso proprio e stretto, ora sovrano è quel sistema dei partiti modellato dagli elettroshock a ripetizione dell'emergenza. È il sistema dei partiti dell'emergenza che guida la corrosione del tessuto democratico e la trasformazione istituzionale verso il precipizio della sospensione di alcune delle fondamentali garanzie costituzionali. Questo passaggio dal "potere dei partiti" al "potere dell'emergenza" (e, quindi, al potere dei "partiti dell'emergenza") è stato reso possibile dalla forma e dalla natura del potere nel sistema pluralista italiano. Giova, pertanto, soffermarsi su alcuni "luoghi originari".

Come osserva A. Manzella, i partiti, in quanto sistema e comunità, già nella fase del post-fascismo divengono i "soggetti costituzionali" dell'ordinamento italiano. Ogni singolo partito va ricondotto al sistema politico cui compete: la sua individualità è, pur sempre, definita nella totalità del sistema creato dalla comunità politica: "È in questo sistema il presupposto delle norme costituzionali; in esso risiede la sovranità e sembrò perfino "inadequata" una costituzione che questo non riconosce". La costituzionalità dei partiti politici italiani è confermata e ratificata da quella sorta di "Grundnorm" stabilita dall'art. 49 Cost. che così recita: "Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Quella repubblicana italiana è l'unica costituzione delle democrazie pluraliste occidentali in cui il diritto di associazione politica riconosciuto ai cittadini si coniuga immediatamente come "potere" concesso ai partiti nella determinazione della "politica nazionale" e, per questa via, nella partecipazione alla "statualità"; col che il sistema dei partiti è costituzionalmente legittimato a varcare la soglia delle istituzioni, attribuendosene progressivamente le funzioni. Nasce e si sviluppa anche intorno a quest'asse quel fenomeno che abbiamo definito consociativismo costituzionale. Nella fase iniziale, si è assistito ad un processo di istituzionalizzazione dei partiti; successivamente — ben presto, a dire il vero —, il processo si è capovolto nella partiticizzazione delle istituzioni, secondo una linea di sviluppo che abbiamo esaminato al § 3 del cap. IV. Le procedure partitiche hanno sussunto i meccanismi costituzionali, disattivando il portato di irrudicibilità alla "partitocrazia" che è, pure, presente nella carta costituzionale. All'inizio degli anni '60, A. Negri acutamente rileva che, ormai, l'unica procedura democratico-costi-tuzionale rimasta impermeabile all'invadenza del potere del sistema dei partiti è il referendum; oggi dobbiamo amaramente concludere, di fronte ai meccanismi partitici spoliatori che hanno regolato in questi ultimi anni la "pratica referendaria", che anche quest'ultima zona franca è stata occupata.

Il quadro emergenziale attivato negli anni '70 ha alle spalle questa costante e incisiva opera di corrosione della risorsa democratica e delle istanze di partecipazione che, peraltro, trova uno dei suoi principali punti di attacco proprio nei limiti e nelle oscillazioni della carta costituzionale, nel sottostante schema consociativo che la regola e governa. Uno dei vettori lungo i quali procede l'accumulo e l'esplosione della crisi sociale italiana sta nel monopolio del potere progressivamente esercitato dal sistema dei partiti. La trasformazione delle forme del potere ha modificato assetti ed equilibri politici; ma mai ha sospeso il carattere monopolistico della detenzione e della produzione del potere. Dal monopolio del potere di marca Dc siamo passati a forme allargate di potere monopolistico, di cui il consociativismo di governo ha rappresentato la versione estrema. I meccanismi sociali, politici e culturali di produzione della crisi hanno operato come riproduttori della crisi del monopolio politico. La permanenza del monopolio in crisi ha, perciò, configurato istantaneamente una situazione di emergenza: il secondo fattore è un portato imprescindibile del primo. La crisi si prolunga in emergenza, a fronte del monopolio del potere esercitato dal sistema dei partiti. Nel rapporto emergenza/crisi, l'emergenza è una costante inestirpabile, a misura in cui assoggetta la crisi al monopolio dei partiti e promuove se stessa come unità di misura e criterio regolativo permanente del processo di governo. In questo movimento viene meglio in luce la sovranità dell'emergenza: come abbiamo già avuto modo di evidenziare nelle pagine precedenti, alla "crisi dello sviluppo" consegue lo "sviluppo dell’emergenza".

La novità più rilevante, per quanto attiene alle figure della sovranità, sta tutta racchiusa nel seguente passaggio: dalla tirannia delle maggioranze di governo, transitiamo alla tirannia delle maggioranze dell'emergenza, le quali non coincidono con l'area dell'esecutivo, ma attraversano in maniera trasversale l'intero parlamento. Da questo lato, l'emergenza diviene quella risorsa politica che garantisce l'accesso subordinato al potere anche a quelle forze che ne sono formalmente e rigorosamente escluse. Il dispositivo emergenziale ha una funzione di inclusione politica indiretta e di spartizione simbolica generalizzata del potere. Inoltre — e in maniera rilevante —, disloca un meccanismo di integrazione e di mobilitazione dell'opinione pubblica che costruisce i contorni ambigui e spuri di un processo di integrazione laterale: le maggioranze dell'emergenza, ormai, ricercano il consenso e la legittimazione soltanto su temi/problemi di allarme sociale. Ecco perché i media, quasi nella loro totalità, divengono non semplicemente una cassa di risonanza delle maggioranze di governo; bensì una leva fondamentale della creazione di quel clima di emergenza permanente e generalizzata atto alla riproduzione illimitata di misure di segno eccezionale. Intorno all'emergenza si gioca il movimento dei soggetti della sovranità, anche per la non trascurabile circostanza che essa delimita il terreno di una specifica emulazione/ competizione: quella che fa coincidere gli attributi di legittimità con i contenuti dell'emergenzialità. Si apre un gioco tra forze e singoli esponenti politici a chi è più in linea con i valori e i princìpi dell'emergenza. Ciò sia per accreditarsi come la migliore incarnazione possibile della figura del sovrano, sia per catturare meglio le adesioni di una cittadinanza ad arte turbata e "terrorizzata" da campagne di panico sapientemente alimentate che, in gran parte, si reggono sulla strumentalizzazione di effettivi fenomeni di disagio e di turbativa sociale.

11.

Critica radicale dell’emergenza: ovvero limitazione radicale del sovrano

Investigare le fonti e i soggetti della sovranità, a fronte di un tale processo di crescente compressione della democrazia e della partecipazione, diviene essenziale. Ci troviamo al cospetto di una situazione storica inedita e, per molti versi, assolutamente non prevedibile. Possiamo avviarne interpretazione e spiegazione soltanto combinando alcuni strumenti di indagine teorica tradizionalmente confliggenti. Abbiamo visto, in successione, che sovrano è:

a) chi decide su cosa decidere e su cosa non decidere: da questa coappartenenza storico-empirica rileviamo la prima contaminazione teorica tra "decision-making" e "nondecision-making";

b) chi decide sullo stato di normalità e sullo stato di eccezionalità; sulla base del patto scritto e delle norme non scritte; pro-costituzione e contro-costituzione: da questa complessa "commistione" ricaviamo, come minimo, la contaminazione tra il "normativismo" kelseniano e il "decisionismo" schmittiano; tra la "teoria della sovranità " di C. Schmitt e quella di H. Heller.

Quello che qui ci preme, in particolar modo, rimarcare è l'opzione politica "anti-liberale e radicalmente democratica" di H. Heller e le sottostanti distinzioni (i) fra norme e princìpi giuridici e (ii) fra jus e decisione. Grazie a questo retroterra epistemico e politico, come fa osservare S. Mezzadra sulla scorta di un'acuta ossservazione di U. Pomarici, in Heller, la decisione sovrana, diversamente da quanto si rinviene nell'itinerario schmittiano, non elimina il conflitto a favore dell'ordine statuale; bensì è essa stessa espressione di un paradigma conflittuale. Se questo è vero, una teoria-prassi radicale della democrazia deve sottrarre la democrazia medesima alla fascinazione dell'ordine e alla cristallizzazione del concetto di popolo-unità a tutto danno del concetto di popolo-molteplicità. Altrimenti detto: occorre affrancare la democrazia dalle teorie della sovranità dominanti e la rappresentanza democratica dal gorgo degli interessi.

Una teoria radicale della democrazia, esplicitando ancora più chiaramente, deve inestricabilmente correlarsi ad una prassi radicale di limitazione del sovrano. Questa curva di ricerca non coincide in toto con la posizione helleriana; ne fa, però, propri alcuni presupposti cardine. Si tratta, sul piano strettamente teoretico, di superare alcune aporie interne al dettato helleriano, dipanando tanto il "nodo Bodin" che il "teorema Hobbes", rimasti avviluppati intorno alle "teorie della sovranità" fino a tutto e oltre Schmitt. Occorre, sì, tenere realisticamente e normativamente in conto che la costituzione è pur sempre l'espressione del reale "rapporto di forza" tra le classi e i gruppi sociali; ma anche considerare che sovranità, rappresentanza e democrazia possono e debbono anche essere funzioni del mutamento costituzionale del "rapporto di forza", a favore delle classi e dei gruppi oppressi, discriminati ed emarginati. Da questo lato, il "realismo politico" e il "realismo costituzionale" sono alcuni dei limiti principali che urge superare.

Tornando al contesto storico-politico degli anni '70, possiamo dire: "limitare il sovrano" significa limitare l'emergenza e i suoi apparati, squarciando il sistema di controllo dispotico da essa steso sulla relazione politica e sulla comunicazione sociale. Raccogliamo qui il lascito costituzionale più autentico della "gloriosa rivoluzione" del 1688 e di tutte le innovazioni e trasformazioni costituzionali che hanno fatto ad essa seguito. È stato felicemente fatto osservare: "limitare il sovrano non è soltanto una esigenza della società nelle sue molte articolazioni per preservare e accrescere gli spazi di libertà, ma è anche una necessità per il sovrano, se vuole mantenere il consenso, e un bisogno del sistema politico, se esso deve funzionare democraticamente". Come non manca di rilevare lo stesso Rescigno, ecco che, allora, siamo precipitati nel bel mezzo del dilemma cardine delle rivoluzioni costituzionali: è tanto necessaria la costituzione riconosciuta e operante della sovranità, quanto è indispensabile limitare la sovranità. L'alternativa alla costituzione della sovranità legittima è la guerra civile; l'esito di una sovranità illimitata è l'illibertà e l'antidemocraticità. L'emergenza, come sovranità illimitata, è giustappunto quell'attentato più serio alla libertà e alla democrazia che profitta della/e mette a frutto proprio la crisi della democrazia e della libertà.

Ora, nella situazione dell'emergenza, il sistema dei partiti è, sì, il sovrano senza limiti, ma è completamente svuotato della sua autonomia dai modelli e dalle logiche dell'ordigno emergenziale. Perde, con ciò, le residue capacità di autoriflessività e di elaborazione, fino alla lacerante esperienza della crescita del suo potere politico contestuale alla perdita delle sue permeabilità e duttilità sociali. Contraddizione, questa, che disegna sia i centri del potere che della crisi del sistema dei partiti. Avviare a soluzione la contraddizione vuole dire diminuire il potere dei partiti. Cosa possibile realizzando le seguenti condizioni:

a) innescare processi di "trasformazione del potere": cioè, spo-stare le cerchie della produzione, detenzione e comunicazione del potere dal sistema dei partiti alla cittadinanza;

b) assecondare, determinare e gestire processi di "trasformazione sociale": cioè, riequilibrare il rapporto tra "società civile" e "società po-litica", rendendo permeabile il tessuto istituzionale ai fenomeni del mutamento;

c) collocare il sistema dei partiti oltre il confine del loro orizzonte di crisi: cioè, attivare una frontiera costituzionale che garantisca sempre maggiori spazi di libertà al singolo e alla collettività.

Soltanto se si verifica la terza condizione, si possono ottemperare le altre due. Fuori da un passaggio di questo genere, ogni operazione di ingegneria istituzionale-costituzionale sarà l'ennesima occasione per un accordo spartitorio tra schieramenti trasversali ai partiti, con il risultato di incancrenire il dispositivo del blocco costituzionale.