CAP. VI

LA FASE AGONICA DELLA CRISI:

1990-1995

 

 

 

1.

La sospensione del 'politico': potere politico e potere giudiziario nella crisi di sistema

Esaminando lo stadio terminale delle "forme della crisi" della politica e del 'politico', così come si configurano nel caso italiano, l'intreccio che si offre immediatamente all'analisi è la contestualità, non certo accidentale, tra l'agonia del sistema politico-istituzionale della prima repubblica e l'escalation dello scontro violento tra i poteri nel biennio 1992-93.

L'analisi dell'intreccio urta immediatamente contro alcuni "luoghi comuni" divenuti, ormai, un leitmotiv rituale sia nell'elaborazione politologica che nelle quotidiane costruzioni e comunicazioni dell'informazione da parte dei media.

Dalla tela di questi luoghi comuni occorre estrapolare la scala temporale e le corrispettive classificazioni storiche e politologiche.

Esistono modi tanto canonici quanto fuorvianti di interpretazione della democrazia, dello Stato, delle istituzioni, del conflitto sociale, della violenza e dell'organizzazione del consenso che hanno accom-pagnato la nascita e lo sviluppo della prima repubblica.

Del pari, assistiamo al proliferare di modelli interpretativi della agonia del sistema politico-istituzionale della prima repubblica quanto meno semplificatori, spintisi, in non rari casi, fino al punto da equiparare l'azione del pool dei magistrati di "mani pulite" all'asse intorno cui ruoterebbe la "rivoluzione italiana".

Non si vuole qui denegare il ruolo positivo giocato da "mani pulite" nell'individuazione e nel sanzionamento degli illeciti, delle corruzioni e del racketing generalizzato posti in essere dalla classe politica di governo (ma, in qualche non isolato caso, anche di opposizione). Tantomeno, si intende passare sotto silenzio l'eccesso di inquisito-rialità ed afflittività che ha costituito uno dei tratti essenziali di "mani pulite"; soprattutto, spicca l'impiego sistematico del carcere quale pressione funzionalizzata alle "chiamate di correità" interminabili: produzione di carcere a mezzo di carcere è il paradigma punitivo che qui trionfa.

Piuttosto, si vuole semplicemente sottolineare che è assoluta-mente fuorviante parlare di una rivoluzione per via giudiziaria, diversamente da quanto assunto da alcuni stessi protagonisti, dalle manipolazioni dei media e da certa "politologia" innamorata delle apparenze. Per via giudiziaria, non si fanno le rivoluzioni: al massimo, si assestano i poteri forti; oppure si apre un fuoco ad "alzo zero" contro oligarchie putrescenti, restie ad abbandonare il campo.

Nei punti di crisi terminale, il potere giudiziario, da arbitro, si eleva a decisore, allorché il conflitto tra élites politiche non riesce a fornire soluzioni adeguate alle questioni dell'assetto dello Stato, alle forme della rappresentanza, alla ridislocazione dei poteri. Laddove, come nel caso italiano, questo punto/termine è raggiunto, il conflitto politico e interpartitico va procedendo per "colpi di mano" di una oligarchia contro l'altra, in un'estenuante "guerra di posizione", in cui ogni gruppo di potere intende difendere con le unghie e con i denti il proprio "territorio" e le proprie prerogative di comando, di autorità, di prestigio sociale e di status economico.

I modelli anticonflitto e statocentrici messi a punto nel secondo dopoguerra, sviluppati e "perfezionati" fino all'ossessione emergen-zialista degli anni '70 e '80, hanno avuto una incidenza politica che è andata sdoppiandosi su due piani temporali:

a) nel breve-medio periodo, hanno agevolato le contrattazioni periodiche tra la classe politica per l'assegnazione e la spartizione del potere;

b) nel lungo termine, hanno oliato i meccanismi di precipitazione catastrofica della crisi di sistema.

Cosicché, se negli anni '70 e '80 la magistratura, quale attore e gestore principale dell'emergenza, si è trovata a svolgere una fun-zione di supplenza del potere politico, tra la fine degli anni '80 e il principiare dei '90, si autoinveste del ruolo di fattore di ricambio del potere politico.

Il conflitto magistratura/classe politica (di governo) ha inizio nella seconda metà degli anni '80, allorché il potere di supplenza della prima va urtando contro l'intangibilità di comando della seconda. Di fronte ad un sistema politico inabissato in una crisi comatosa, la magistratura cerca di trasformare il suo proprio potere supplente in potere autonomo, tentando di affrancarsi da una storica dipendenza dai partiti politici, che ne controllavano tutti gli inputs e outputs.

La risposta della classe politica non si lascia attendere: viene lanciata una vera e propria strategia di delegittimazione della magi-straura, che ha, probabilmente, nel referendum del 1987 sulla "re-sponsabilità civile dei giudici" il suo punto alto. Va, comunque, rico-nosciuto che, al di là di strumentalizzazioni e conflitti di poteri, le mobilitazioni in tema di "giustizia giusta" colpiscono le patologie inqui-sitoriali della magistratura e della giurisprudenza dell'emergenza, particolarmente esemplificate dal "caso 7 aprile", dal "caso Tortora" e dagli innumerevoli processi per "fatti di terrorismo ed eversione dell' ordine costituzionale".

Successivamente, nel 1991-92, il contrasto trova la sua massima espressione istituzionale nell'accesissimo conflitto tra il presidente della repubblica Cossiga e il Csm. Ma si tratta già degli ultimi "colpi di coda" di una classe politica che non riesce più a convertire la sua occupazione delle istituzioni e della società in legittimità e costruzione del consenso, manifestando al suo interno prime significative crepe proprio intorno all'operato di Cossiga nell'ultima fase del suo mandato presidenziale.

A fronte della crisi dei poteri politici e a misura in cui essa va esplodendo ed evidenziandosi, il potere giudiziario, reclamando la sua autonomia, si propone come unico potere funzionale e funzio-nante. Legittima la sua azione sulla base della conquista dell'auto-nomia; esercita la sua autonomia contro il sistema di illegalità che si incardina, a guisa di bubbone, nel cuore del sistema politico. In tal modo, si pone non solo come unico potere funzionale e funzionante; ma, soprattutto, come unico potere legale e legittimo. La legalità e la legittimità gli vengono direttamente dalla rilevazione dei gradi di illegalità e illegittimità dell'essere e del fare del sistema politico. La magistratura, nelle sue linee generali, fa della persecuzione dell'illegalità del sistema politico l'effetto coerente della sua autonomia e dell'autonomia la chiave di volta della messa a nudo dell'illegalità e illegittimità del potere politico.

Diversamente dalle "campagne" di delegittimazione della magi-stratura promosse dal sistema politico, le "campagne" di delegitti-mazione della classe politica attivate dalla magistratura colpiscono nel segno, poiché non si basano esclusivamente su oggetti ideologici o simbolici; bensì su fatti di violazione della legalità, su casi nume-rosissimi di corruzione, su illeciti penali particolarmente gravi e inquietanti.

Quello che le inchieste di "mani pulite" fanno emergere è il grado di inaffidabilità morale della classe politica. In un cono d'ombra restano, però, il suo basso profilo democratico e le puntuali strategie di sospensione del garantismo costituzionale da essa elaborate e attivate. Il sistema dominante, scoperto in flagranza di reato, viene consegnato al ludibrio generale, poiché immorale e predatore; la qual cosa ne moltiplica all'infinito anche la delegittimazione simbolica.

Il profilo prevalentemente etico-pubblico della sua azione con-sente alla magistratura di ottenere un immediato e amplificato im-patto. La ricaduta di consenso sociale si va progressivamente dila-tando, anche per la non lieve difficoltà della controparte di giusti-ficare condotte innominabili e indifendibili. La linea di sfondamento della legittimità e della legalità del potere politico riesce, così, a so-lidificarsi intorno all'asse dell'etica pubblica, laddove negli anni e nei mesi precedenti aveva fallito sul piano più specifico dell'iniziativa politico-costituzionale. Si pensi, a quest'ultimo riguardo, solo per fare qualche esempio, ai depistaggi e agli insabbiamenti che costellano i processi per le stragi (da P.zza Fontana e P.zza della Loggia all’ Italicus e ad Ustica); si pensi, ancora, al coro di polemiche e di resistenze elevato contro le inchieste giudiziarie sulle strutture e sui programmi di "Gladio".

Nella critica dei poteri, il piano politico risulta totalmente disattivo: lo spazio politico viene ad essere integralmente occupato dalla mimetizzazione. Questo avviene:

a) tanto per quel che concerne l'iniziativa della magistratura; cosa, in sé, non sorprendente e nemmeno illegittima;

b) quanto per quel che riguarda i soggetti organizzati della sinistra politica e sociale; cosa assai diversa ed emblematica del loro grave stato di crisi.

La critica si converte in mimesi politica: il cambiamento viene recitato più che agito. Ora, recita e mimesi costituiscono, fisiologica-mente, il terreno di coltura ideale per trasformismi culturali e politici miranti a modifiche e assestamenti in senso conservativo dei cardini istituzionali ed extraistituzionali del sistema sociale. Il ricambio di potere, in tal modo, viene giocato simbolicamente su categorie etiche e politicamente secondo coordinate di ingegneria istituzionale di stampo conservatore che si autorappresentano surrettiziamente come "rivoluzione", "rinnovamento", "cambiamento", ecc.

Sulla base delle analisi condotte nei capitoli precedenti, possiamo approssimare la seguente periodizzazione.

Nella prima repubblica, l'evoluzione delle forme della politica e l'allocazione dei poteri sono andate procedendo secondo una succes-sione di questo tipo:

a) la fase di incubazione e organizzazione della democrazia: 1944-1947; l'elemento statuale si va sovrapponendo all'elemento po-litico, in quanto la costruzione dello Stato repubblicano viene ritenuta questione politica dirimente dal ceto politico antifascista;

b) la fase di maturazione: dal 1948 fino al '68; l'elemento statuale assorbe l'elemento politico, all'insegna della conquista dello Stato da parte del ceto politico di governo;

c) la fase della crisi: dal '68 alla prima metà degli anni '80; il siste-ma dei partiti sussume sotto di sé lo Stato, le istituzioni e la società;

d) la prima articolazione della fase agonica, 1990-1993: l'elemento giudiziario tenta di procedere alla messa in mora, per via extrapo-litica, del sistema politico-economico dominante;

e) la seconda articolazione della fase agonica: la reazione parti-tico-telemediatica all’opera di riequilibrio dei poteri tentata da "mani pulite" che principia nel 1994 col governo Berlusconi e che — prima, dentro e presumibilmente dopo Ulivo e Bicamerale — attrae nelle sue orbite significative fazioni (nel Pds e in An, soprattutto), per l’innanzi schierate pregiudizialmente a favore della magistratura.

Le quattro fasi e le loro articolazioni sono organate da un asse comune: la sospensione del 'politico' a vantaggio, prima, dello Stato; dopo, del sistema dei partiti; poi, del potere giudiziario; infine, del potere partitico-telemediatico che va rielaborando e ridislocando le sue architetture genetiche. Il dato precipuo del caso italiano, che nella crisi di sistema tocca vertici "sublimi", è che il 'politico' non viene mai ripensato; bensì costantemente rimosso e aggiogato ai ceppi dei poteri.

Il sistema di azione e comunicazione di "mani pulite" si è retto sulla sospensione del 'politico', non tanto nel senso, in sé banale e scontato, che non spetta alla magistratura proporre il ridisegno poli-tico della società. Piuttosto, in quello che il potere giudiziario, nella crisi di sistema, si è posto come ri-regolatore sociale, come metapo-tere normativo che tutto sottopone alle proprie sfere di azione e sanzione.

L'azione di legalizzazione portata avanti dal potere giudiziario è stata, in un certo senso, stimolata dalla cristallizzazione del vuoto di progettazione politica esistente in tutti i sottosistemi della politica e che a cavallo degli anni '80 e '90 tocca l'apice. I governi di pentapar-tito sono stati la ratifica formale della cristallizzazione di questo vuoto: la pura e semplice sopravvivenza del regime è divenuto l'unico principio ordinatore della decisione politica e del processo di governo. Ed è proprio qui, tra il 1990 e il 1992, che il disegno craxiano entra in crisi irreversibile; crisi, in un certo senso, ratificata dall’esecutivo Amato e, poi, resa irreversibile dal governo Ciampi.

Accanto ai motivi di delegittimazione endogena passati in ras-segna ve ne sono altri, non meno dirompenti, di natura esogena.

Con "le rivoluzioni del 1989" e il crollo del muro di Berlino sono venute meno le ragioni internazionali del carattere escludente della democrazia pluralista italiana, tutta proiettata in funzione antisovie-tica. Se l'antifascismo costituisce la cerchia selettiva attraverso cui il Pci viene integrato nel dispositivo costituzionale, l'anticomunismo, ben presto, diviene il discrimine qualificativo del processo di governo e della collocazione dell'Italia nello scacchiere internazionale. Come abbiamo avuto modo di vedere, sin dalla fine degli anni ’40, nell' ordine internazionale bipolare scelta atlantica e pregiudiziale antico-munista divengono, fino alla "solidarietà nazionale" degli anni '70, una delle sorgenti primarie della formazione dell'identità del sistema politico e dei singoli partiti (non solo di governo). Con il crollo del bipolarismo, coevo alla dissoluzione del sistema imperiale sovietico, il processo di formazione dell'identità del sistema politico e dei singoli partiti entra in una crisi profonda. L'anticomunismo e l'atlantismo non possono più funzionare come collante ideologico-simbolico; né come quella ineludibile fonte primaria a cui i partiti democratici pluralisti, in Italia, riconducono la necessità della loro costituzione e della loro azione.

L'avanzare di questo processo a scala internazionale depriva il sistema politico italiano e tutti i partiti di governo di alcune delle loro ragioni sociali fondanti: le fonti di identificazione, ormai, restano drammaticamente ancorate ad uno spazio/tempo storico-sociale estinto. Tale vuoto esogeno si somma a quello endogeno, generando una situazione di autismo politico senza precedenti. Il "vuoto politico" che corrisponde a tale situazione si esplicita come crisi irreversibile dei regolatori sociali della vita comunitaria e del legame sociale corrispondente al patto costituzionale. In questo "vuoto politico", la magistratura ha potuto progressivamente investire la propria auto-nomia, mettendo fuori gioco tutti i soggetti del potere potenzialmente capaci di contrastarne l'ascesa.

Quanto più in profondità, per le ragioni endogene ed esogene prima analizzate, si è spinta la sospensione del 'politico', tanto più è stata alimentata la crisi di sistema; tanto più si sono costituite le premesse per il progetto di autonomizzazione del potere giudiziario e tanto più il potere politico è andato colando a picco sotto i colpi di "mani pulite".

Da questa angolazione di osservazione, "tangentopoli" è il punto di incrocio terminale:

a) del carattere deficitario e spoliatorio della democrazia italiana;

b) della colonizzazione politica della società;

c) dell'incapacità della classe politica non solo nel governo della complessità in termini di crescita della democrazia; ma, addirittura, nell'autoriforma del circuito delle sue proprie funzionalità;

d) della sindrome di regolazione autoritativa che ha, da sempre, occupato i luoghi e le culture del "fare politico" e gli interstizi di tutte le giurisdizioni del potere.

Per tutte queste motivazioni messe insieme, l'emersione di "tan-gentopoli" si profila come elemento di un assolutamente inedito salto di regime.

2.

La struttura dei poteri: dall'unità alla dissoluzione

Alla svolta degli anni '90, la crisi di sistema "lavora" ad un salto di regime politico.

I caratteri e i contenuti della crisi diventano virulentemente au-toesplicativi. Non altrettanto può dirsi dei conflitti che, nel passaggio di regime politico in questione, si ingenerano e disseminano. Anzi, quanto più chiaramente precipita la crisi di sistema, tanto più "oscure" divengono le ragioni e le sequenze dei conflitti. Nel senso che, mentre la crisi si offre nella sua nudità, il conflitto e i soggetti del conflitto stentano a trovare collocazioni di senso congruenti e condotte intelligibili nel teatro dell'azione politica.

Sul potere giudiziario ricade un doppio ordine di conseguenze:

a) da un lato, esso va sempre più assumendo le funzioni di ca-talizzatore del dissenso in funzione del cambiamento politico; ciò spiega anche l'incondizionato e massificato "favore popolare" che in una prima lunga fase lo circonda;

b) dall'altro, è l'antagonista (e, dunque, il bersaglio) principale di quei sogggetti e quei poteri che temono la dissoluzione delle loro sfere di autorità e di comando.

Sicché mentre il conflitto sociale trova una sua surroga nell'opera di legalizzazione portata avanti dalla magistratura, il conflitto interpartitico e tra i poteri si oscura totalmente: diventa sordo e terribile.

Surroga del conflitto sociale nell'azione del potere giudiziario e oscuramento del conflitto tra i poteri sono i due elementi cardine che contestualizzano la prima articolazione della fase agonica della prima repubblica. Un contesto, si tratta di aggiungere, largamente inedito, nonostante addentellati e legami di continuità, non ininfluenti, con trascorse fasi politiche; come vedremo.

Procediamo con ordine.

Se si vuole definire in termini concettuali la cruda sostanza del caso italiano, si può, certamente, dire che esso rappresenta l'in-carnazione esemplare di un paradigma così enunciabile: crisi palesi, conflitti oscurati. Questo paradigma lo inveniamo all'opera in tutte e cinque le fasi storiche della prima repubblica che abbiamo in precedenza tipicizzato.

Si sbaglierebbe, però, nel supporre che siffatta costante para-digmatica produca invarianze nelle forme, nelle strategie e nelle tattiche, nei progetti e nei programmi, nelle finalizzazioni a breve e a lunga durata del "fare politico" della classe politica di governo. I modi e le strategie con cui questa ha proceduto all'oscuramento del con-flitto risultano estremamente diversificati, a seconda del momento politico, dell'antagonista da neutralizzare o colpire, dell'interesse interno e internazionale preminente per la sopravvivenza dello schie-ramento coalizionale. Addirittura, nella fase agonica la classe politica di governo non solo agisce, ma subisce l'oscuramento del conflitto.

Il primo elemento che occorre evidenziare è che nelle prime due fasi della prima repubblica, vale a dire per tutto il ciclo storico che dal 1944 si distende fino al '68, la classe politica di governo ha, di fatto, detenuto il monopolio della politica e del potere. Qui è proprio il monopolio della politica e del potere la forma palese della crisi che oscura il conflitto. L'oscuramento del conflitto qui significa diretta-mente il silenzio di qualunque altra voce della politica e di qualunque altra forma del 'politico' che non siano la voce e le forme codificate dalla classe politica di governo. Il sistema politico che ha voce è il sistema dei partiti di governo. I soggetti e gli attori che non vi coinci-dono sono sospinti ai margini della politica e della rappresentanza: sono soggetti e attori senza voce; in questo senso, i conflitti di cui sono portatori risultano oscurati. Ora, tale contesto è palesemente rivelatore tanto della sindrome di onnipotenza che anima la classe politica di governo quanto dello smarrimento della classe politica di opposizione.

Con l'insorgenza del '68 e dei cicli decennali di lotta sociale che ne conseguono, il sistema politico coalizionale perde il monopolio della politica: nuovi soggetti sociali e nuovi attori irrompono prepotente-mente sulla scena, rivendicando apertamente la partecipazione diretta alla politica e al potere, per un mutamento qualitativo e un arricchimento delle forme della democrazia. Se nelle due fasi storiche precedenti la classe politica di governo oscura il conflitto, impe-dendone il farsi voce, ora, di fronte alla "presa di parola" dei movi-menti e dei soggetti sociali, deve togliere voce al conflitto, per oscu-rarlo.

La "presa di parola" del conflitto non soltanto strappa il monopolio della politica alla classe politica di governo; del pari, toglie dalle mani della classe politica di opposizione il monopolio della critica. Per un verso, si crea una rotta di collisione tra conflitto sociale e classe politica di governo; per un altro, si incunea uno scarto non irrilevante tra conflittualità sociale e classe politica di opposizione. Se la classe politica di governo ha lo scopo precipuo di togliere voce al conflitto, la classe politica di opposizione si pone l'obiettivo dichiarato di destrut-turarlo e delegittimarlo, in primo luogo sul piano simbolico e culturale: la solidarietà nazionale degli anni '70 costituisce la precipitazione politica di questo atteggiamento culturale. La nascita della sinistra rivoluzionaria, con i suoi molti e gravi limiti e i pochi ma non lievi meriti, è, insieme, effetto ed interpretazione lucida di questo stato di cose. L'ammutolimento coattivo e la delegittimazione culturale delle voci del conflitto fungono quali canali di emarginazione dei soggetti del conflitto: da questa emarginazione prende piede l'avventura della lotta armata.

Le strategie anticonflitto della classe politica di governo non vengono puntualmente rilevate dalla classe politica di opposizione. Tanto che non trascurabili fette della sinistra di opposizione:

a) per un lunga fase iniziale, imputano agli anarchici e a Valpreda la strage del 1969 di P.zza Fontana;

b) riconducono sistematicamente l'"azione di contrasto" della "strategia della tensione" alla lotta contro gli "opposti estremismi", nel cui paradigma conflittualità sociale e insorgenza eversiva vengono fatte disinvoltamente convivere.

La crisi palesa l'autoreferenzialità asfissiante del sistema politico dominante. Questo, vistosi apertamente attaccato dal conflitto so-ciale, lo contrasta duramente: prima, criminalizzandolo e, dopo, de-stabilizzandolo con politiche di neutralizzazione sociale. Tra la cri-minalizzazione e la neutralizzazione si inserisce la "strategia della tensione", avente lo scopo dichiarato non solo e non tanto di im-pedire al conflitto di farsi voce; bensì di estirparlo con una piani-ficazione politico-militare, l'attivazione dei ceti sociali conservatori e la mobilitazione del sistema politico in tutte le sue componenti.

È opportuno soffermarsi brevemente sulla "strategia della ten-sione", sia per il ruolo storico da essa giocato, sia per le l'evocazione che di essa viene fornita, di fronte al sistematico e "totale" scontro tra i poteri inaugurato dall'attentato di Capaci del 23 maggio 1992, che costa la vita al giudice Falcone, alla moglie e a tre agenti di scorta.

Non è possibile approntare una chiave di lettura congrua della "strategia della tensione", se non la si associa al fenomeno delle "maggioranze silenziose", attivate in funzione anticonflitto negli anni di efflorescenza della mobilitazione collettiva.

I poteri, sentendo vacillare la loro legittimità e avvertendo la minaccia di una soggettività sociale altera, che mette in discorso e organizza altri princípi politici e altri valori di senso, fanno entrare in scena una controinsorgenza politico-militare, strettamente irrelata alla mobilitazione delle "maggioranze silenziose", per riconquistarsi e ri-definire sul campo la propria legittimazione politica e simbolica.

La circolarità dei meccanismi della delega politica si compie per-fettamente:

a) in condizioni di normalità, le "maggioranze silenziose" delega-no la decisione al potere;

b) in condizioni di eccezionalità, il potere delega alle "maggio-ranze silenziose" la piazza — l'agorà — ridotta, ormai, a puro orpello simulatorio.

Il terribile connubio potere/paura non solo irrigidisce tutti i centri di legittimazione dell'autorità politica, ma anche la disposizione dei centri morali. L'immaginario collettivo va inclinando verso rappresen-tazioni altamente drammatizzate e antinomiche.

La "strategia della tensione" si muove secondo una triplice as-sialità:

a) regolare sul piano politico-militare e simbolico il conflitto;

b) mobilitare la "maggioranza silenziosa" in funzione anticonflitto;

c) assestare l'intero sistema politico su prospettive di ordine e stabilità.

Nella mobilitazione della "massa", essa ricorre ad una prassi atta a produrre terrore, oltre la soglia del puro e semplice perturbamento. Il suo scopo non è unicamente quello di impedire che la "presa di parola" del conflitto diventi comunicazione dialogante delle sue ragioni e dei suoi fini; ma anche e soprattutto affossare un dialogo sociale che inizia a ricoprire le voci del potere, mostrandone im-pietosamente i limiti e i lati oscuri.

A questo livello di oscuramento del conflitto, la riconferma e lo sviluppo delle strategie antimutamento richiedono l'immolazione della massa come "agnello sacrificale", per poterla scuotere ed eteromo-bilitarla. Nella sua prima fase, la "strategia della tensione" è stata questo elettroshock. Non possiamo dimenticare, in proposito, che per P.zza Fontana tutti i poteri (a partire dalla suprema carica dello Stato) indicano a lungo la "pista rossa".

Un disegno antropologico, non solo politico, governa la prima fase della "strategia della tensione", indipendentemente dal grado di con-sapevolezza dei suoi artefici ed esecutori. Lo schema antropologico è, così, ricostruibile: produrre morte nella massa, per costringere la massa a produrre la morte simbolica e politica dei soggetti della perturbazione e della conflittualità.

In una breve fase intermedia, il cui punto alto è costituito dalla strage di P.zza della Loggia (Brescia, 28 maggio 1974), la "strategia della tensione" passa ad attacchi selettivi: non più indiscriminata-mente la massa è il suo obiettivo; bensì la cittadinanza politica e sociale del conflitto. In questo modo, la "morte nella massa" si prolunga nell'operazione tendente a portare la morte nel "campo avverso". Vale a dire: la "strategia della tensione", in questo pas-saggio, si erge a rappresentante simbolico-militare della massa, in nome della quale intende eliminare l'antagonista sociale e politico.

Con la strage dell'Italicus (San Benedetto Val di Sangro, 4 agosto 1974), la "strategia della tensione" combina l'intimidazione alla cittadinanza politica e sociale del conflitto con l'attacco alla massa. Tale combinazione regola anche la strage di Bologna (2 agosto 1980). La sconfitta della classe operaia alla Fiat nell'autunno del 1980, dopo i "35 giorni" e la "marcia dei 40.000", rende obsolete le pianificazioni e la necessità stessa della "strategia della tensione".

Accreditati filoni di storiografia e politologia di sinistra hanno sempre postulato che la motivazione fondante della "strategia della tensione" sia la seguente: impedire lo spostamento a sinistra del quadro politico italiano. Secondo questo punto di vista, la "strategia della tensione" è assimilabile a niente più che ad una sottoespres-sione armata della "conventio ad excludendum" a carico del Pci. Secondo questa classificazione, la "strategia della tensione" finisce con l'essere una costante politica illimitata nel tempo, senza alcuna soluzione di continuità e priva di cesure interne.

Il postulato, pur richiamandosi a non secondari processi storici e politici, appare troppo semplificatorio: la sua vigenza si incardina su non lievi forzature.

Vediamone le più rilevanti:

1) Va segnalata, in primo luogo, la riduzione della "strategia della tensione" alla elaborazione e all'azione dei gruppi della destra ever-siva, ritenuti in mano ai poteri occulti, con l'appoggio-copertura dei servizi segreti e l'imprimatur dei settori più retrivi del potere politico-economico-finanziario.

2) In secondo luogo, è reperibile lo schiacciamento dell'intero apparato categoriale-programmatico della "strategia della tensione" alla propaganda e ai piani dell'eversione di destra: dal convegno dell'Istituto Pollio sul tema de "La guerra rivoluzionaria" (hotel "Parco dei Principi": Roma, 3 maggio 1965) alla produzione ideologica dei gruppi eversivi maggiori (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Fronte Nazionale, Mar, ecc.).

3) Continuando, va rilevata la mancata intelligenza della com-plessità ideologica, politica e, financo, organizzativa delle ragioni e degli schieramenti che sottendono alla "strategia della tensione". Nello svolgimento di essa, al contrario di quanto postulato, sono proprio i gruppi dell'eversione e gli apparati di sicurezza dello Stato a giocare un ruolo di seconda fila rispetto alla struttura complessiva dei poteri palesi e dei loro vincoli sovranazionali.

4) Ma, soprattutto, risalta l'incomprensione totale di uno degli assi pianificatori principali della "strategia della tensione": non già inibire lo spostamento a sinistra del quadro politico; al contrario, recuperare e attivare le forze della sinistra in un disegno politico di normaliz-zazione politica della società, secondo strategie hobbesiane di regolazione autoritativa del conflitto. Da questo lato, la distanza tra la situazione di "pluralismo centripeto" e i governi dell'emergenza (da un lato) e la "strategia della tensione" (dall'altro) è meno pronunciata di quanto normalmente si è disposti a concedere. È in questo quadro che diventa intelligibile quell'evidenza empirica che vede naufragare il "Piano Solo" e i ricorrenti tentativi di "colpo di Stato" e non già il centrosinistra (prima) e la solidarietà nazionale (dopo).

5) Tra i risvolti di base del postulato che si sta sottoponendo a critica, va, infine, rilevata l'omessa distinzione, culturale prima ancora che storica e politica, tra eversione di destra e conflittualità sociale. Costituisce, questo, il presupposto in forza del quale tutto ciò che fuoriesce dalle compatibilità date della razionalità democratica e non è contemplato nei codici ufficiali della critica alla democrazia viene interpretato come una variante di "sinistra" di un progetto sostanzial-mente reazionario di eversione dell'ordine. Gli attacchi ai movimenti sociali (a partire dall'accusa di "provocatori" agli operai di P.zza Statuto) e lo stravolgimento interpretativo dell'ideologia e dell'azione della lotta armata (si vedano i discorsi ricorrenti sulle "cosiddette Brigate rosse" e sulla loro presunta eterodirezione da parte di potenze straniere e/o servizi segreti e/o poteri occulti) costituiscono la su-perfetazione paradigmatica di questo deficit culturale e di questa mistificazione politica.

6) Conseguentemente, il postulato in questione ammette un co-rollario, particolarmente in auge nella pubblicistica e nella propa-ganda politica di sinistra, così esemplificabile: nella prima repubblica, regolatore del nesso crisi/conflitto sarebbe stato il "convitato di pie-tra". È, questo, il paradigma del "Grande Vecchio" in una delle sue più rigide declinazioni. Questa sorta di Moloch onnipresente, invi-sibile, onnipotente e proteiforme, a seconda delle convenienze e delle circostanze, ora avrebbe mosso i fili del "terrorismo nero", ora quelli del "terrorismo rosso", ora quelli della criminalità organizzata e ora li avrebbe miscelati e ricombinati, in un gioco a "parti scambiabili", ma a "copione fisso" e secondo una "regia unica". Con tutta evidenza, il limite principale di siffatto paradigma indiziario, al di là delle dosi di suggestione fantastico-congetturale che lo inquinano, riposa in questa circostanza: i processi storico-sociali e le relative responsabilità politi-che (non già dei poteri occulti, ma di quelli palesi) restano invaria-bilmente sullo sfondo, finendo, così, con l'essere sottratti all'azione di una efficace e risoluta critica.

Nella ricostruzione della "strategia della tensione" e, ancor più, delle "disavventure della democrazia" nel nostro paese non è dato proporre scenari di confliggenza diarchica tra uno Stato legale e palese e uno Stato illegale e occulto. Nel senso che, in Italia, non è esistito un doppio potere, ma una struttura di potere unica, estrema-mente complessa e ramificata nel "sociale". Non si dà, insomma, la clonazione di un potere segreto nel cuore del potere manifesto; all' opposto, lo Stato è fatto di facce in luce e lati oscuri che sono, co-munque, riconducibili ad una struttura di comando unitaria.

Già dopo la caduta dell'assolutismo monarchico dell'ancien régime, lo Stato non è una struttura compatta senza alterità interne, al di fuori della fronda, del complotto e della sedizione segreta. Al contrario, raccoglie al suo interno una molteplicità di interessi, i quali disseminano una articolata rete di poteri, lungo la quale prendono corpo conflitti talora anche virulenti. Non è il potere occulto che confligge contro quello legale; bensì interessi diversi accedono all' area del potere e trovano rappresentanza nel reticolo statuale, entro il quale debbono raccordarsi ad interessi divergenti, con i quali sono in una relazione di competizione/conflitto/associazione. Va, infine, ag-giunto che nelle democrazie avanzate i poteri occulti non sono, poi, tanto "occulti", trovando regolare modo di manifestarsi e organizzarsi in "gruppi di pressione" e "lobby", di norma rappresentati nelle isti-tuzioni elettive. Lo Stato repubblicano italiano non sfugge a questa evoluzione; anzi, ne invera un modello perspicuo.

Nella prima articolazione della fase agonica della prima repub-blica, salta in aria, per linee interne, proprio la struttura unitaria dello Stato e dei poteri. Gli interessi e i poteri che prima confliggevano all'interno della compagine statuale, ora si dissociano, non trovando più un punto di intesa unitario sui "tipi" e sulle "forme" del governo; sul "modello di società" e sulle strategie del "controllo sociale"; sull' appropriazione e redistribuzone delle quote di autorità e di ricchezza. Né sono più gli equilibri dell'ordine internazionale, in quanto tali, a poter fungere quali vettori sostanziali degli accordi e delle spartizioni di potere. La dissoluzione dell'unità statuale dei poteri fa da premessa ad una furiosa lotta per la riconquista dello Stato, che passa per la rimozione a tappe forzate del ceto politico che ne aveva monopo-lizzato il possesso.

Come sempre, la rottura dell'unità statuale evoca "scenari di guerra". I poteri confliggono in maniera più aperta che mai. Rimane occultata la posta in gioco del conflitto: il possesso dello Stato. Si combatte una guerra interna allo Stato del tutto particolare: è possibile vedere con precisione le battaglie e i caduti che esse comportano; oscurate e inconfessabili rimangono le ragioni che modellano questo particolare tipo di guerra.

Il processo di disvelamento di "tangentopoli" è uno dei portati della dissoluzione dell'unità statuale. La sua forza sta nel sottolineare il grado di illegalità e illegittimità della preesistente unità statuale; la sua debolezza sta nell'impossibilità di porsi, con le sue uniche forze e a prescindere dalle sue vocazioni e preferenze politiche, come centro di irradiazione di una nuova compagine statuale.

Ancora una volta, sono il ritardo della politica e il silenzio del 'po-litico' a rendere incandescente la situazione e problematico il crudo conflitto per la conquista del possesso dello Stato che si va consu-mando nell'agonia della prima repubblica.

La paralisi della politica e del 'politico' è acuita da un triplice ordine di motivazioni:

a) per la prima volta nella storia della prima repubblica, la classe politica di governo subisce l'asprezza del conflitto interstatuale;

b) la classe politica di opposizione non si pone il problema della "trasformazione sociale", limitandosi a invocare il ricambio della lea-dership del sistema; col che delega lo stesso salto di regime all' azione di ri-legittimazione e ri-legalizzazione portata avanti dalla magistratura;

c) la mobilitazione collettiva non riesce ad andare oltre il, pur giusto, appoggio a "mani pulite".

Il combinarsi di tutti questi elementi rende poco allettanti gli esiti possibili del conflitto di potere in atto. Niente e nessuno garantisce che il salto di regime politico incubato nell'agonia della prima repub-blica non rechi con sé nuove e più perverse forme di autoritarismo politico e discriminazione sociale; anzi. Del resto, cosa mai ci si può aspettare, in termini di reale e duraturo potenziamento della demo-crazia e degli spazi di libertà, sino a che il cambiamento non ha tra i suoi fattori il protagonismo delle masse e della mobilitazione collet-tiva?

3.

Il salto di regime: il punto zero del rientro della violenza inter-statuale

Tutti i problemi di democrazia e di giustizia accumulati e non ri-solti dalla prima repubblica vengono letteralmente azzerati. Il pas-saggio di regime politico in corso, a cavallo degli anni '90, si costituisce sulla cancellazione dei nodi della prima repubblica: quello che si ricerca non è un punto di svolta; bensì un punto zero, da cui far ripartire la marcia, senza politicamente far i conti col passato. La volontà politica dominante, con rare eccezioni, è presto disvelata: rinviare sine die l'assunzione delle responsabilità politiche. C'è un codice simbolico che, involontariamente, tradisce l'indisponibilità dei soggetti politici della prima repubblica ad assumersi ognuno la responsabilità storica e politica che gli compete. Ci riferiamo alla sequenza pres-soché infinita della "ricostruzione" di nuove formazioni politiche at-traverso l'autoscioglimento e la rimodulazione delle vecchie, di cui il paradigma "rinnovare senza rinnegare" (del Pppi) costituisce la coniugazione teorico-programmatica esemplare.

Ora, l'azzeramento della responsabilità politica e delle "questioni di democrazia" ereditate dalla prima repubblica, mentre ha sovrali-mentato la violenza interstatuale, conserva in circuito tutti i soggetti e tutte le strategie anticonflitto che, dal secondo dopoguerra in avanti, hanno cooperato a fare dell'Italia una democrazia dimezzata e controllata. In altri termini, si dissolve la vecchia unità della compagine statuale; ma non per questo i poteri che la costituivano abbandonano il campo. Ciò non solo ha reso il salto di regime una specie di calvario; ma ipoteca pesantemente e complica i futuri assetti interstatuali e istituzionali.

Il lento maturare e, successivamente, il deflagrare di questo processo, in qualche modo anomalo, hanno ridisegnato gli scenari dello scontro e del confronto politico. Poteri confliggenti ma uniti, ora si dividono, entrando in una competizione violenta tra di loro. I termini possibili dell'accordo sono ora "mediati" e comunicati dallo scontro aperto, dai rispettivi colpi che gli uni contro gli altri vanno assestando.

Gli scenari di guerra entro cui si va consumando l'agonia della prima repubblica non sono riconducibili allo schema duale "pro" o "contro" il mutamento; né al "ricatto armato" per mantenere la ge-stione delle vecchie fette potere; né ai "colpi di coda" dei presunti po-teri perdenti.

In linea generale, i poteri della dissolta struttura unitaria dello Stato partono dalla consapevolezza che si deve cambiare; che il cambiamento è necessario; che occorre rideterminare gli assetti endorganizzativi dello Stato e le sue funzioni politiche, sociali e simboliche. Sono in guerra, esattamente perché nessuno vuole essere tenuto fuori dal mutamento; perché ognuno vuole determinarne forme e contenuti, lasciarvi la sua impronta e riallocarvi la sua presenza.

Con l'apertura degli anni '90, lo scontro violento tra i poteri cresce in sistematicità e intensità.

Le tappe visibili di questa escalation sono:

a) la strage di Capaci (23 maggio 1992);

b) la strage di Via D'amelio (24 luglio 1992), in cui perdono la vita il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta;

c) le autobombe di Via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e di Via Georgofoli a Firenze con cinque morti (27 maggio 1993);

d) le autobombe nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 a Via Palestro a Milano con cinque morti e a S. Giovanni Laterano e S. Giorgio al Velabro a Roma.

Lo svolgimento delle tappe successive dipende dai modi con cui, da ora, si va preparando la nuova miscela unificatrice dei poteri. La mediazione politica risolutiva della violenza interstatuale passa per la ricostruzione del dispositivo endorganizzativo dello Stato, dei suoi apparati e delle sue funzioni pubbliche. Effettivamente, le "riforme istituzionali", in questo senso, sono necessarie. Il loro significato politico essenziale, nemmeno troppo riposto, risiede proprio nella riforma dei poteri, nella variazione della loro mappa e della loro presa sulla società. Quanto più procede con lentezza la ristrutturazione dei poteri e delle cerchie della loro riassociazione e ricomposizione, tanto più si approfondiranno e prolungheranno nel tempo le spirali della violenza interstatuale. Ciò che, da questo lato, viene richiesto è una soluzione che sposti il conflitto di potere più avanti e, per questo, ricomprenda in sé la violenza interstatuale, intercomunicandola nelle forme del conflitto non guerreggiato. Il rientro della violenza interstatuale è la prospettiva politica su cui si enuclea il salto di regime. A misura in cui ciò si verificha, non è dai poteri via via emarginati che occorrerà guardarsi; ma, al solito, dai poteri forti: quelli che integrano l'unità della compagine statuale.

Il precisarsi progressivo di tale processo ha ridotto la portata del progetto delle "riforme istituzionali". Fino alla prima metà degli anni anni '80, indipendentemente dalle varie soluzioni proposte, nel dibattito politico-costituzionale esse hanno figurato come il grande disegno della realizzazione della "democrazia compiuta" e dell'"alternanza". Ora, invece, sono costrette a fare i conti con la regolazione della violenza interstatuale, a cui debbono opporre/fornire un progetto politico, per ricondurla nell'alveo istituzionale: a partire dalla composizione del "conflitto guerreggiato" tra potere giudiziario, da un lato, e potere le-gislativo ed esecutivo, dall'altro.

Il recupero della violenza interstatuale, in costanza della labi-lizzazione delle sfere della responsabilità politica, rappresenta quel punto zero di cui le forze e i poteri più forti e attenti sono alla ricerca, per impiantarvi sopra il salto di regime, contenendo e calibrando gli "strappi" rispetto alle responsabilità del passato. Liberare il ciclo politico dalle pastoie del passato, omettendo di farvi i conti sino in fondo, mentre consente di buttare a mare i poteri e gli attori politici più compromessi, ripropone nei nuovi contesti in formazione i non districati nodi politici della prima repubblica. Con questa si realizza una relazione di continuità/discontinuità, in cui:

a) la discontinuità è ridotta al livello minimo necessario e assume, quel che più preoccupa, una connotazione politica apertamente conservatrice-tecnocratica;

b) la continuità è ricoperta ed occultata con la simulazione del "nuovo" nelle faglie di superficie della comunicazione sociale e del-l'immaginario collettivo.

Il carattere di conservazione politica e restaurazione culturale che dimensiona il salto di regime è acuito proprio dalla necessità di recuperare la violenza interstatuale. Due sono le soluzioni possibili della violenza interstatuale:

a) il riassetto dei poteri in termini di stabilizzazione autoritativa e ordinamentale;

b) la svolta verso un modello di organizzazione sociale ispirato ai princípi della solidarietà, dell’eguaglianza e del rispetto delle differenze.

Ognuna delle due soluzioni vale, altresì, come vanificazione del-l'altra: il riassetto autoritativo dei poteri scongiura e riprogramma la svolta; e viceversa.

Il salto di regime in corso, su queste basi, rielabora ad un livello ancora più alto e sofisticato la sospensione del 'politico', approfon-dendo ed estendendo le strategie di oscuramento del conflitto so-ciale. È proprio con l'eredità culturale delle lotte sociali degli anni '60 e '70 che la ricomposizione dei poteri in atto intende procedere alla "resa dei conti". "Resa dei conti" giocata come uno degli elementi portanti di una riunificazione della struttura di comando dello Stato non più obbligata a passare per la "strategia della tensione" o suoi equivalenti. La destrutturazione centrista e moderata di gran parte della vecchia sinistra di opposizione e il silenzio dei movimenti agevolano oltremodo questa progettualità di smemoramento culturale. Impressionante, già oggi, il caos semantico-interpretativo con cui le nuove generazioni (s)memorizzano i conflitti degli anni '60 e '70.

Il buio steso sulla memoria storica, politica e culturale costituisce il siero velenoso che inocula il montaggio/smontaggio/rimontaggio di identità artefatte e mutilate, irreparabilmente scisse dai contesti che le hanno formate, di cui smarriscono le necessarie soglie di consapevolezza. In queste condizioni, ritrovare una criticità di pensiero e di atteggiamento diviene un rompicapo di ardua soluzione. Non solo. La cosa ben più grave è che la critica individuale e il dissenso sociale implodono e si vanno orientando verso la rottura della dialogica della solidarietà, secondo le pulsioni degli egoismi gruppuscolari. Costituisce, questo, un elemento di sostrato tra i più rilevanti del profilo culturale ed etico del salto di regime in corso, le cui conseguenze letali avvertiamo più gravosamente nella stessa quotidianità dei comportamenti individuali e collettivi. Il secessionismo e razzismo leghisti trovano in ciò il loro ideale brodo di coltura.

È a questa soglia profonda che si organizza la deriva di senso di quelle etiche della libertà e di quelle culture dell'agire collettivo che costituiscono il sigillo e la traccia del passato che occorre recuperare e rielaborare integralmente; mentre, invece, assistiamo alla loro eclis-se definitiva, in una sorta di secessione simbolica, etica e culturale. Il successo del politicismo etnico reazionario di forze come la Lega parte da qui; da qui parte, in Italia, l'implosione di senso in cui sono precipitate le sinistre.

 

4.

Verso l’oscuramento totale

Il salto di regime in corso dichiara esplicitamente il proprio scopo: lavorare al riassetto autoritario di tutti i poteri, per ristrutturare e riordinare le trame del comando politico e del controllo sociale.

In assenza di una iniziativa chiara e conseguente da parte delle forze della sinistra, sul piano del mutamento culturale e politico, i per-corsi di "mani pultite" hanno finito con l’essere la "spalla" involontaria, ma efficace, di un disegno di restaurazione politica, sociale e culturale. L’autonomia dal potere politico che la magistratura ha fortemente rivendicato per sé ha mancato di un vero interlocutore a sinistra, sia sul piano politico che su quello sociale.

Chi più intensamente ha messo a frutto e ha lavorato sul dopo tangentopoli sono state le culture e le prassi della conservazione, non già quelle della trasformazione; a queste prassi si sono progressivamente uniformate le stesse forze della sinistra.

Chi ha saputo meglio riorganizzarsi e riorganizzare, nella voragine che gli esecutivi Amato e Ciampi hanno scavato tra il sistema politico-istituzionale e le classi sociali più deboli e i ceti medi emarginati e nell’immensa distesa di delegittimazione istituzionale creata da "tan-gentopoli", sono state le forze della conservazione e della restaurazione. La destra vecchia (Alleanza nazionale), quella nuova (la Lega) e quella seminuova (Forza Italia), non casualmente, si affermano nelle elezioni del 27-28 marzo 1994. Vincono, prima ancora che per i loro meriti, per i demeriti e i ritardi culturali e politici di quel che rimane delle sinistre italiane, dopo decenni di "cultura dell’emergenza", di "ossessione del centro", di abbandono dei "luoghi", degli "attori" e delle "culture" della socialità e della socializzazione. Paradossalmen-te, ma non troppo, la stessa vittoria elettorale dell’Ulivo alle amministrative del 1995 e alle politiche del 1996 reca il sigillo di una recessione traumatica dalle culture e dai luoghi della sinistra, abbandonati precipotosamente, senza alcun ripensamento e alcuna rielaborazione all’altezza dei tempi. Il governo dell’Ulivo approfondirà ulteriormente tale cesura.

Tra i tanti torti delle sinistre italiane, prima e dopo le elezioni di marzo del 1994, forse, quello più grave è l’aver posto al centro del loro programma politico la cattura del voto conservatore. Così ridu-cendo, di fatto, il loro referente elettorale:

a) alle aree sociali e ai soggetti ideologicamente motivati ed elettoralmente fedeli;

b) ai ceti sociali non ancora risucchiati nei buchi neri della crisi economica.

Le sinistre hanno cercato di amministrare il consenso elettorale già disponibile, quando si trattava di forzarlo e moltiplicarlo a sinistra, elaborando teorie e prassi inedite. Siffatta strategia di conquista rassicurante del consenso: (i) nelle elezioni del 1994, si è rivelata rovinosa, se non autolesionistica; (ii) nelle elezioni vincenti del 1995 e del 1996, ha fatto da presupposto per una paurosa caduta di tensione progettuale e programmatica.

In una situazione di grave crisi economico-sociale e in un quadro di delegittimazione galoppante dei poteri dominanti, più che in altre occasioni, è vitale dialogare con gli strati sociali più oppressi e i ceti medi emarginati:

a) per dare risposte credibili e fattibili alle loro domande di reddito, di lavoro, di servizi, di giustizia, di equità;

b) per dare soluzioni democratiche ai vuoti di legittimità e legit-timazione.

Le forze della destra, con i loro codici demagogico-autoritari, non hanno avuto paura di dialogare con le masse, cavalcando e manipolando il malcontento diffuso esistente contro i "luoghi" e gli "uomini" del potere: sta qui una delle motivazioni del loro successo elettorale nel 1994 e della loro persistente e minacciosa presenza in aree significative della "società civile", nonostante la sconfitta elettorale del 1995 e del 1996.

Nel corso delle elezioni politiche del 1994, sia l’agorà politica che quella elettronica sono state occupate dalle destre. Le sinistre hanno tentato la "conquista del governo", saltando la mobilitazione politica, sociale e culturale dell’agorà. Sicché profonde pulsioni anti-sistema hanno trovato canalizzazione e visibilizzazione a destra. Il passaggio da massa a movimento non ha trovato additivi; ma occlusioni. Quello che è più grave, però, è che si è insediato il percorso inverso: da massa a maggioranza rumorosa e intollerante. Diversamente dalle fasi alte della lotta operaia e delle lotte sociali degli anni ‘60 e ‘70, la "maggioranza" ora non è più silenziosa, ma vociante, se non assordante; silenziose, più che mai, sono le minoranze, soprattutto l’oppo-sizione politica.

Il successo di Berlusconi nel 1994 è indicativo del fatto che i poteri si vanno riorganizzando entro nuove gerarchie di comando e riguadagnando una capacità di consenso sociale perduta, se non apertamente screditata. "Vecchio" e "nuovo" si mescolano e ricombinano: attraverso l’espulsione della leadership del passato, gli "interessi forti" di sempre ridisegnano una mappa del potere che ripropone ed esalta il profilo culturale e politico fortemente anticonflittuale della prima repubblica. Se le elezioni del 27-28 marzo del 1994 sono il "prolun-gamento con altri mezzi" di "mani pulite", la seconda repubblica appare come la continuazione della prima, con altri e peggiori attori. La fase politica aperta dall’Ulivo non ha saputo invertire questa tendenza; al contrario, l’ha ulteriormente e talora più intelligentemente assecondata. Basti qui richiamarsi alle "finanziarie per l’Europa", aventi il carattere spoliatorio tipico della prima repubblica, e al sostanziale vuoto assoluto in termini di politica di intervento a favore dei lavoratori, degli emarginati, dei disoccupati e delle fasce sociali più deboli. Al punto che, in prossimità del ballottaggio per l’elezione del sindaco tra i due candidati confindustriali Fumagalli (Ulivo) e Albertini (Polo), l’1 maggio del 1997 a Milano, le forze riunite del "Polo delle libertà" hanno potuto agitare la parola d’ordine antigovernativa: "Meno tasse e più lavoro".

È il calco originario dello Stato post-unitario che ritorna di atttualità, ricodificato e alleggerito dalle varianti apportate dalla costituzione repubblicana; costituzione che, essa stessa, da tale "calco" non ha mai saputo e voluto affrancarsi.

La fase apertasi con gli anni ’90 si è caratterizzata come compresenza di due sotto-espressioni politico-costituzionali:

a) l’una avente carattere immediato: uso sistematico dei contenuti regressivi della Costituzione, in un costante gioco di anticipo e smobilitazione delle sue istanze progressive;

b) l’altra di carattere mediato: preparazione del terreno per un cambio di costituzione, in senso apertamente autoritario.

I lavori della "Bicamerale" del 1997, fortemente voluta dalla coppia D'Alema-Berlusconi, segnano proprio il punto di preminenza del mediato sull’immediato, con le proposte di riscrittura autoritaria e plebiscitaria della "legge fondamentale". Le strategie costituzionali del centrismo e del neocentrismo, per non parlare di quelle attivate nel periodo dell’emergenza, non solo appaiono pienamente recuperate, ma soprattutto possono finalmente trovare un coerente sbocco for-male.

Ricordiamo i frutti essenziali della Bicamerale al 30 giugno 1997:

  1. Federalismo:

- Repubblica costituita da Comuni, Province e Regioni;

- potere legislativo alle Regioni (inclusa la legge elettorale regionale), ad esclusione degli Esteri, della Difesa, del governo della moneta, della Giustizia e altre materie esplicitamente ri-servate;

- autonomia fiscale delle Regioni;

- le funzioni pubbliche che vengono svolte dai privati, lo sono "in quanto non più adeguatamente svolte";

  1. Presidente della Repubblica:

- eletto a suffragio universale (non più dal Parlamento), con possibile ballottaggio al secondo turno;

- età minima richiesta 40 anni (non più 50);

- durata del mandato di 6 anni (non più 7);

- potere di nomina del primo ministro, sulla base dei risultati delle elezioni per la Camera;

- rieleggibile una sola volta;

- potere di scioglimento del Parlamento nei seguenti casi: dimissioni del primo ministro, negazione della fiducia da parte della Camera, approvazione alla Camera della mozione di sfiducia, elezione presidenziale successiva a quella della Camera; la Camera, però, non può essere sciolta nel primo an-no di legislatura e negli ultimi 6 mesi del mandato presiden-ziale;

  1. Parlamento:

- Camera di 400 membri (non più 630), eleggibili a 21 anni (non più 25);

- Senato di 200 membri (non più 315), eleggibili a 35 anni (non più 40); compiti prevalentemente di garanzia; funzioni esclu-sive in ordine alla nomine di: Csm, Corte costituzionale, Autho-rity; al suo interno è prevista la "Commissione delle autonomie" mista, composta da senatori, Presidenti delle Regioni, rappre-sentanti dei comuni e delle province;

- esame unico alla Camera della maggior parte delle leggi;

- deputati e senatori, eletti a suffragio universale, rimangono in carica per 5 anni;

3) Legge elettorale:

- doppio turno di coalizione: (i) al primo turno viene assegnato il 55% dei seggi con metodo uninominale e maggioritario e il 25% dei seggi col proporzionale; (ii) al secondo turno viene distribuito il restante 20% fra liste bloccate di candidati delle due liste che hanno ottenuto più voti al primo turno: la lista che vince il ballottaggio conquista tutti i seggi assicurandosi la maggioranza assoluta;

- per l’accesso alla Camera ogni forza politica deve ottenere almeno il 4% o il 5% dei consensi;

4) Giustizia:

- magistrati soggetti solo alla legge;

- funzioni distinte per i giudici e i pm, le cui carriere, però, non vengono separate;

- parità tra accusa e difesa;

- divisione del Csm in due sezioni, una per i giudici e l’altra per i pm;

- possibilità concessa ai cittadini di ricorrere direttamente alla Corte Costituzionale;

- abolizione della giurisdizione contabile, di quella tributaria e di quella militare in tempo di pace;

5) Europa:

- sancito nella Costituzione il principio della partecipazione alla Ue;

- gli indirizzi della politica comunitaria sono definiti dal Parla-mento;

- indipendenza della Banca d’Italia sancita dalla carta costitu-zionale.

Come si può evincere da questo pur sintetico schema, rimaniamo nel solco dell’ingegneria costituzionale autoritaria che ha nella forma-zione dello Stato unitario alcune sue causali fondanti.

I codici dell’ordine, dello Stato e degli interessi economici forti si sono sempre posti, fin dalla formazione dello Stato unitario, come depuratori "violenti" della democrazia, della giustizia e dell’equità. In Italia, l’organizazione dello Stato e le forme di governo hanno sempre costruito e potenziato i soggetti della sovranità attorno ai baricentri dell’autoritarismo, del paternalismo, dell’esclusione, della spoliazione e dell’intolleranza culturale.

Le forze uscite vittoriose dalle elezioni del marzo 1994 incarnavano, allo stato puro, questi paradigmi politico-culturali, i quali non mancano di addensarsi nella stessa costituzione repubblicana e nell’ ordinamento statuale che ne è conseguito. L’appello a una sovranità forte e a soggetti sovrani forti (presidenzialismo etc), elitari, antidemocatici, antiegualitari e, in più di un caso, scopertamente razzisti, è il propellente che ha integrato in un contesto unitario e articolato Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale e che ha reso possibile l’ac-cordo elettorale con cui hanno chiesto e ottenuto il voto degli italiani nell'aprile 1994. Non a caso, "buon governo" e "miracolo economico" sono tra le figure mitopoietiche che più ricorrono nella loro comunicazione simbolica; figure che, è appena il caso di ricordare, hanno avuto coniugazioni politiche altamente conservative, quando non addirittura reazionarie; come abbiamo potuto rilevare nei capp. I e II.

Siffatte figure veicolano nell’immaginario collettivo la metafora di una forma compatta di sovranità, in grado di gestire l’ordine economico-sociale, attraverso ordinamenti politici funzionali ed efficienti, capaci di garantire prestazioni di alto livello, in virtù di doti carismatiche. Nelle elezioni del 1994, del resto, il ruolo carismatico del capo è fin troppo visibile nella Lega (Bossi) e in Forza Italia (Berlusconi); indiretto e surrogato in Alleanza nazionale, in cui Fini è la "maschera" di Mussolini; carente in Occhetto (Progressisti).

La "manovra strategica" che, nelle elezioni del 1994, Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale hanno operato è stata quella di ricondure brutalmente il discorso politico-costituzionale all’humus dell’ordigno statuale post-unitario, utilizzando poteri, mezzi e strumenti assai più potenti, sofisticati e mobilitanti di quelli a disposizione dei loro antenati dell’Ottocento. Si è trattato e si tratta di una "rottura" che è, insie-me:

a) una regressione, in quanto tenta di cancellare lo specifico dell’ esperienza democratica che, per quanto viziata da gravi e insanabili limiti, rappresenta una conquista storica a confronto della società post-liberale e della dittatura fascista;

b) una continuità, in quanto esalta l’ordigno autoritativo-afflittivo presente nella carta costituzionale e ipertrofizzato dalle prassi politiche e aministrative della società politica democratica.

c) una innovazione, in quanto l’humus originario viene ritradotto nelle condizioni della "complessità sociale".

Proprio il mix di regressione, continuità e innovazione rende la "manovra strategica" di Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale un che di assolutamente originale e "moderno", non un puro e semplice desiderio nostalgico di ritorno al passato; e ciò indipendentemente dalla durata del loro accordo elettorale. Quello di Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale è, nel 1994, un serio discorso sul presente e sul futuro; un discorso di organizzazione del presente e del futuro. La seconda repubblica da loro vagheggiata azzera la prima, assimilan-done, però, la sostanza dispotica e riorganizzandola in un dispositivo apertamente oppressivo, mediante procedure di innovazione politica e simbolica autoritaria. Non può meravigliare che Forza Italia abbia fatto la fortuna di molti "riciclati" del vecchio regime e che molti "riciclati" del vecchio regime abbiano fatto la fortuna di Forza Italia, a partire proprio dal "capo carismatico"; nella stessa formazione post-fascista di An abbandonano i "riciclati" Dc.

Alle elezioni dell'aprile 1994 le sinistre sono state sconfitte anche sul terreno delle strategie costituzionali e della comunicazione simbolica: hanno comunicato un messaggio di piatta adesione alla costituzione data; quando, invece, si trattava di proporne il superamento democratico ed egualitario. Il loro riformismo inconseguente è stata cagione della loro sconfitta: solo "Rifondazione", per quanto in un universo di senso ancora troppo indigente, ha tentato di lacerare questa camicia di forza.

Hanno avuto paura di comunicare e costruire il consenso intorno alle ragioni di una rivoluzione democratica radicale; lasciando, addirittura, che di rivoluzione parlassero Bossi e Fini e di cambiamento democratico Berlusconi, i quali sono stati, puntualmente, premiati da-gli elettori.

Nel corso della campagna elettorale del 1994, in una situazione di grande fluidità sociale, di delegittimazione completa dei poteri, di condizioni di vita intollerabili, se non disperate, per grandi masse di cittadini, il sottodimensionamento delle proposte politiche non è stata, da parte delle sinistre, prova di lucidità; bensì professione di irresponsabilità politica, manifestazione di lontananza stellare dai nuclei profondi delle esigenze della gran massa della cittadinanza. Non si governa, cercando di tranquillizzare i poteri forti in campagna elettorale; ma "si tratta" con i poteri forti, da posizioni "di forza", conquistando il governo, attraverso la mobilitazione e l’organizzazione di forze, ener-gie e risorse collettive.

Se quanto finora argomentato ha un senso, è meno singolare di quanto, a tutta prima, possa apparire che al processo di ricostituzione del comando unitario dello Stato e del riassetto autoritario dei suoi poteri partecipi per tutta la durata del governo Berlusconi:

a) la Lega, dichiaratamente antistatalista e anticentralistica;

b) Alleanza nazionale, messa ai margini del circuito costituzionale della prima repubblica;

c) Forza Italia, combinazione ad alto livello di densità di interessi vecchi e "personale nuovo".

Nel 1994, sono state queste tre forze (insieme e non una di esse in ordine sparso) a saper capitalizzare:

a) la crisi della prima republica;

b) l’abbandono delle pratiche e delle culture della socialità da parte delle sinistre;

c) il progressivo risolversi e pervertirsi delle pratiche politiche in ingegneria istituzionale dal forte profilo elitario, a partire dalle "campagne referendarie".

In un certo senso, però, la vittoria elettorale delle destre è stata anche la sconfitta politica della Lega Nord che ambiva a disarcionare da sola la prima repubblica e a gettare i picchetti della seconda, sentendosi investita del mandato di élite politica rivoluzionaria ; da questo grumo profondo si ingenerano le contraddizioni con Forza Italia e Alleanza nazionale che, sul finire del 1994, condurranno alla caduta del governo Berlusconi. Questa sconfitta della Lega è stata una delle ragioni interne della vittoria delle destre e una delle ragioni interne del crollo di Berlusconi.

Lega, Forza Italia e Alleanza nazionale non hanno costituito un mero "cartello elettorale", né si sono unite per meri scopi elettorali. Per istinto di sopravvivenza e per un ancestrale senso del potere, hanno avvertito che solo dalla combinazione delle loro forze poteva derivare la vittoria. Ciò ha dato luogo non ad una sommatoria algebrica, ma ad un composto inedito che ha:

a) mitigato il comunitarismo politico ed ideologico della Lega;

b) recuperato il post-fascismo del Msi, ribatezzatosi, in fretta e furia, Alleanza nazionale;

c) fatto di Berlusconi l’ago della bilancia dei nuovi schieramenti politici in formazione.

È questo composto inedito che, in assenza di un organico partito delle destre, ha riassunto in sé il "fronte" della conservazione autoritaria e si è visto imputato del ruolo e delle funzioni di soggetto forte della sovranità. Del partito unico delle destre, tale composto voleva essere la forma storica transitoria: il parto originario. Nel corso del cammino, molti degli equilibri interni al "polo delle libertà" si modificano. Forze interne saranno centrifugate; forze esterne saranno centripetate. È di fronte alla messa in opera di questi processi che "Forza Italia" e Berlusconi sono venuti meno, rivelandosi tremendamente inadeguati rispetto al ruolo storico che pure erano riusciti a individuare. La sconfitta elettorale dell'aprile 1996, dopo un anno di interregno Dini, non è che l'esemplare risultanza di questo deficit. Non casualmente, il fronte dell'Ulivo, già all'indomani della vittoria elettorale, riprende tra le mani proprio il progetto di riorganizzazione conservatrice della forma Stato, occupando più razionalmente ed efficacemente quei ruoli politici decisionali e quelle funzioni di me-diazione rispetto cui l'esecutivo Berlusconi si era flagrantemente mostrato carente. Da questo punto di vista, il "governo dell'Ulivo" si rivela il continuatore dell'opera che l'esecutivo Berlusconi, per inca-pacità e inadeguatezza, non era stato in grado di portare a termine: destrutturazione autoritaria della forma Stato, riduzione degli spazi di democrazia, contrazione dei diritti di libertà.

Il progetto di potere e di ricomposizione dei poteri che, nemmeno troppo velatamente, era sotteso alla proposta politica originaria del "polo delle libertà" è, così, enunciabile: liberarsi, il più in fretta possibile, della "zavorra" leghista e post-fascista, acquisendone, beninteso, la forza elettorale e la rappresentatività sociale, per potersi successivamente aprire al "centro". Già, nel 1994, in piena campagna elettorale, Berlusconi gioca la competizione politica e l’alleanza virtuale sull’asse Forza Italia/Ppi. Ma nemmeno quest'operazione riesce in pieno: due anni dopo, il "Cavaliere" si dovrà accontentare della poco significativa diaspora dei Cdu di Buttiglione.

Con un’operazione di distorsione semantica, Berlusconi rinomina la ricompattazione delle destre attuali e di quelle future con il termine/ concetto meno compromesso di "polo moderato". D’altronde, un’ eguale e simmetrica distorsione semantica, sul fronte opposto, fanno le sinistre, ribatezzandosi "progressisti" nella campagna elettorale del 1994 e "democratici" nella campagna elettorale del 1996.

La rimozione, da parte degli attori politici, dei nomi propri dalla scena dell’azione e della comunicazione politica è il sintomo chiaro di un irrisolto rapporto con la propria identità culturale e i relativi percorsi di trasformazione. Tale deficit di memoria e di radicamento culturale è subitaneamente rimosso e giocato "aggressivamente" contro alleati ed avversari:

a) agli alleati si cerca di far dimenticare le proprie origini, il cui patrimonio, in un certo qual senso, inquieta;

b) agli avversari si cerca di imporre etichette, nella definizione della propria quanto dell’altrui identità.

Ne consegue un gioco simulatorio che non giova a chiarire i ruoli, le proposte e le prospettive delle parti politiche in conflitto, finendo con il sottoporre ai cittadini immagini confuse e distorcenti che, anziché favorire l’opzione elettorale, la complicano tremendamente.

Tuttavia, la simulazione del gioco politico e la costante messa in ombra dei problemi sociali e politici fondamentali avviluppano il teatro della scelta politica con un forte potere intimidativo-fascinatorio, il quale esercita una suggestione che condiziona in eccesso le opzioni degli elettori.

Riferendosi alle elezioni del 27-28 marzo del 1994, si deve rilevare che anche (qualche osservatore ha precisato: soprattutto) il terreno della fascinazione ammaliante dell’elettore ha visto primeggiare nettamente le destre. Da questo lato, Forza Italia è stato, certamente, l’attore che più e meglio ha occupato la scena della comunicazione politica e simbolica. Essa si è giovata non solo e non tanto dell’uso sapiente e innovativo di puntuali strategie di comunicazione e penetrazione diffusionale del messaggio politico (che, sia detto tra parentesi, non sono il puro e semplice rifesso del rapporto di comando esercitato sulle reti Fininvest); ma anche e soprattutto dell’aretratezza delle strategie di comunicazione del messaggio politico praticate dalle sinistre.

Nel caso di progetti di restaurazione sociale, politica e culturale, i processi di distorsione semantica rivelano una tremenda forza d’urto e di persuasione occulta, quanto più sono manipolati e gestiti da tecniche, strategie e politiche ad alto coefficiente di intelligenza elaborativa e realizzativa. Per i progetti di trasformazione sociale, politica e culturale, la distorsione semantica, al contrario, sprigiona effetti controfattuali; anche per questo, Rosa Luxemburg diceva che la verità è rivoluzionaria.

Nelle elezioni del 1994, le sinistre sono state la vittima eccellente ed esemplare del boomerang della distorsione semantica:

a) non sono riuscite a comunicare la visibilità dei loro progetti;

b) non sono state capaci di/e non hanno veramente voluto "lavo-rare" ad una presa di contatto con le loro radici, le loro storie, le loro identità, le loro responsabilità storiche e politiche (passate, presenti e future).

I due fattori, cumulandosi e combinandosi, hanno loro inibito e tuttora inibiscono una presa di commiato critico dal loro passato e, nel contempo, una rigenerazione valorizzante del loro patrimonio. Il che, ancora una volta, ha dilazionato, a sinistra, l’indifferibile approntamento di strumenti culturali e codici politici finalmente all’altezza della complessità dei problemi di una democrazia avanzata e pienamente rispondenti allo spettro articolato e multiforme della domanda sociale. L’insussistenza di queste premesse ha reso e rende arduo il rapporto delle sinistre con la società e gli strati sociali che fungono quale loro base elettorale reale e potenziale. Conseguentemente, soprattutto in scadenze elettorali a forte carica di mobilitazione politica, le loro azioni e strategie politiche non possono che risultare inefficaci, se non controintenzionali e, comunque, a bassa soglia di rendimento.

Ma i processi di distorsione semantica del messaggio politico è su un altro versante che rivelano i loro effetti deleteri più corrosivi. Essi sono, difatti, non solo fattori di assecondamento, ma di trascinamento dello smemoramento delle identità e della mimetizzazione delle ragioni e dei soggetti del conflitto. Anche per questo, la seconda repubblica si pone come il punto zero e non il punto di svolta della prima. L’oscuramento della memoria, delle identità e del conflitto che ne deriva è totale, in uno scenario post-moderno in cui l’autoritarismo è eguagliato solo dalla spoliazione culturale e dall’alienazione sociale.

Nella fase immediatamente successiva alle elezioni del 1994, di questo oscuramento gli emblemi più caratterizzanti sono stati:

a) la trasmissione televisiva della prima puntata di "Combat film" (5 aprile 1994), nella quale si mettono tendenziosamente sullo stesso piano ragioni dell’antifascismo e ragioni del fascismo; in piena "era dell’Ulivo", del resto, il Presidente della repubblica e il Presidente della Camera si sono ripetutamente fatti paladini di una "pacificazione nazionale" che, di fatto, pone sullo stesso piano i militanti della Resistenza e quelli della Repubblica sociale di Salò;

b) la sentenza della seconda sezione della corte di assise di Roma (16 aprile 1994) che assolve la P2 dal reato di "cospirazione politica".

L’ultimo prodotto, in ordine di tempo, di questo profondo processo di distorsione e smemoramento è:

c) la decisione del gip Maurizio Pacioni (27 giugno 1997) di mantenere aperta l’inchiesta sull’azione del comando Gap del 23 marzo 1943 a via Rasella; l’azione viene classificata come "atto illegittimo di guerra", al pari della strage delle "Fosse Ardeatine"; anzi, la natura illegittima dell’azione di via Rasella starebbe proprio nell’aver funzionato quale causale dell’eccidio delle "Fosse Ardeatine"; come si vede, la strategia di porre sullo stesso piano il nazi-fascismo e la resistenza segna un impressionate passo in avanti, fino a spingersi a formulare l’equivalenza Priebke = partigiani.

In gioco sono questioni calde e delicatissime, intorno alle quali sono andati dipanandosi i fili della memoria e dell’identità della debole democrazia repubblicana.

5.

Le ombre del passato e del presente: memoria smemorata

Quale il destino della costituzione repubblicana di fronte a tale processo di oscuramento?

È possibile formulare in questi termini la domanda angosciosa che nel 1994, non senza un forte alone di drammaticità, le sinistre (si) vanno ponendo insistentemente nel dopo-elezioni; domanda che, in un certo senso, anticipa le inquietudini che, da parte delle forze maggiormente legate al dettato costituzionale, accompagnerà la fase poli-tica della Bicamerale del 1997.

Dietro l’interrogativo, molte sono le questioni che si trincerano e nascondono, a partire da quelle sul passato e sul presente del fascismo.

L’operazione culturale di revisione storiografica del fascismo, in Italia, è stata strisciante e capziosa e, in un certo senso, parte dalle reinterpretazioni di R. De Felice. Non si è specificata, come è accaduto dal 1986 in poi in Germania a proposito del nazismo, in un precipuo "dibattito storico pubblico".

Ma la presenza del fascismo nel nostro paese, dopo il secondo conflitto mondiale, è stata costante, in termini di:

a) sopravvivenza di modelli culturali: si pensi solo al ruolo giocato da culture gerarchiche e autoritarie nei processi di regolazione sociale e decisione politica;

b) modulazione normativa: si pensi solo alla vigenza dei codici Rocco;

c) organizzazione politica: si pensi solo alla fondazione del Msi e all'accesso dei post-fascisti di An nella compagine di governo presieduta da Berlusconi e nella Bicamerale presieduta da D’Alema.

Di ciò il dibattito pubblico e la ricerca storico-politica (sia quella "accademica" che quella "impegnata") non hanno mai dato adeguato conto. E intanto, soprattutto dopo la caduta del "muro di Berlino" e con l’affermazione di scala delle politiche della "globalizzazione", sono andate affermandosi nuove "forme popolari" di insediamento culturale e politico delle destre e del fascismo; non solo nel nostro paese.

Ora, l’internità del fascismo, come dato antropologico-culturale e politico-istituzionale prima ancora che come entità politica organizzata, alla storia, ai "luoghi", ai simboli e alle immagini del potere della prima repubblica segnala tre fatti macroscopici, interrelati tra di loro:

a) la debolezza dei processi di unificazione democratica;

b) la carenza dei meccanismi socio-culturali costitutivi dell’identità nazionale;

c) la labilità dei percorsi della memoria collettiva.

I tre fatti segnalati possono essere sintetizzati in questa con-siderazione politica: la costituzione e la democrazia della "prima re-pubblica" non hanno saputo e voluto portare fino alle estreme conseguenze la rottura avverso la dittatura fascista. Da qui promanano alcuni dei loro limiti principali.

Rischia di essere, ancora una volta, perdente, richiedere la pura e semplice conservazione della costituzione repubblicana: se non è bastata ieri, per intenzionare una rottura radicale e coerente col regime fascista, tanto più non è sufficiente oggi, per contrastare l’insor-genza delle nuove destre e dei nuovi fascismi. Anzi, saranno proprio i nuovi poteri e i nuovi fascismi al potere a far uso intenso e autoritario della costituzione repubblicana, sino a quando non l'avranno formalmente cancellata.

Ecco perché una discussione sui limiti culturali e sulle responsabilità storiche e politiche delle sinistre in Italia è indifferibile. Altrimenti non resterà che il gioco di rimessa, in una sterile rincorsa delle mosse dell’avversario, in difesa di un presente che, comunque, è destinato a cambiare in misura rilevante.

Purtroppo, dalla sconfitta elettorale del 1994 al dopo-elezioni nel 1996, il dibattito delle sinistre sulla costituzione e sulla liberazione dal nazifascismo apppare viziato da queste cospicue incongruenze. I limiti della prima generazione antifascista si presentano in tutta la loro drammatica radicalità; con il sovraccarico che l’intelligenza, la memoria storica, l’impegno civile e le battaglie politiche di quella generazione hanno cessato d’essere un patrimonio collettivo.

Nella storia democratica del nostro paese, le linee della memoria e dell’identità si sono spezzate. Queste linee, spezzandosi, hanno sedimentato, nel corso del tempo, dei veri e propri vuoti. La storiografia, di tali vuoti, fornisce una stratigrafia mobile che viene, poi, modellata e rimodellata dalla comunicazione simbolica e dal flusso dei messaggi politici. Cosicché, a seconda delle circostanze e delle necessità, la storia della prima repubblica viene scritta e riscritta: non è mai la stessa e sempre più si allontana dalla verità.

Se non si risale alle origini di questi processi di sradicamento e di manipolazione, per indicare e inverare un percorso di reinterpretazione, ricostruzione e trasformazione profonda dell’identità democratica e di rigenerazione della memoria collettiva, la giusta battaglia politica e culturale contro i fascismi rischia di capovolgersi in una sterile retorica della resistenza.

I nuovi fascismi non sono semplicemente il passato che non passa; più congruamente e pericolosamente, sono il passato che ritorna e si fa presente. Più esatto è definirli: il passato che, modificandosi, ritorna e tenta di rifare il presente. Se le cose stanno così, occorre rilevare che è sempre un presente a richiamarli e suscitarli. Non ci si può, allora, limitare ad evocargli ed organizzargli contro un passato che non riesce più a farsi presente e che, anzi, dal presente è sospeso ed offuscato. La resistenza del passato può essere recuperata e fruttuosamente giocata solo se si parte dalla riorganizzazione dell’ identità del presente, ognuno a cominciare dalla propria.

L’antifascismo storico, sia detto con tutto il rispetto e la sensibilità che l’argomento merita, cumula un doppio limite:

a) non perviene alla identificazione dei nuclei duri della presenza del fascismo storico nella costituzione materiale della prima repubblica;

b) si approccia alla lettura dei fascismi metropolitani, omologandoli al fascismo storico.

Oggi come ieri, rimane bloccato al palo della difesa conservativa della costituzione esistente; mentre l’avversario, oggi come ieri, manovra altrove. Le conseguenze, sul piano delle strategie e delle risultanze politiche, sono esiziali; come è agevole intuire.

Per l’antifascismo storico, la questione della costruzione e della rappresentazione comunicativa dell’identità ha nell’avversione al fascismo non uno dei suoi fondamenti originari, ma il suo nodo dirimente. L’identità qui si scioglie per intero nell’antifascismo; il che spiega, anche da questo lato, il contesto di consociativismo culturale e politico su cui si è retta la costituzione repubblicana e gran parte della storia della prima repubblica.

Una variante estremizzata di siffatta posizione è reperibile nell’ antifascismo militante dei gruppi della sinistra extraparlamentare, alla fine degli anni ‘60 e nel corso dei ‘70. Entro quest’ambito, fanno eccezione solo quei settori dell’Autonomia Operaia, che incardinano i processi costitutivi dell’identità non sull’antifascismo; bensì sulla lotta contro lo Stato del "compromesso storico" e della "fabbrica diffusa". Anche se, in quest’ultimo caso, è ravvisabile una maggiore lucidità politica e una più viva e vivace presenzialità storica, i paradigmi fondativi dell’identità permangono, comunque, deboli e unilaterali, mancando il dialogo con la "complessità sociale" e il groviglio della "que-stione democratica" in Italia.

Le elezioni del 27-28 marzo 1994 hanno portato impietosamente in superficie gli anacronismi di queste impostazioni; le elezioni del 21 aprile 1996 li hanno aggravati.

Ma è vero che il risultato elettorale del 1994 ha disvelato una controrivoluzione contro "mezzo secolo di grande associazionismo di sinistra"?; controrivoluzione iniziata negli anni ‘80 con "il craxismo e il logoramento delle forme di aggregazione della sinistra e di organizzazione del Partito comunista". Ed è, poi, vero che la "vittoria" alle elezioni del 1996 ha fatto rientrare questa controrivoluzione, controbilaciandola?

Presupposto politico-culturale del giudizio appena riferito è che il fascismo sia una corrente sotterranea della storia italiana che riemerge a cicli alterni, come una sorta di movimento carsico affiorante in situazioni in cui, all’interno del teatro delle opzioni politiche, le alternative collidono intensamente e drammaticamente. Secondo la De Grazia: "Adesso il problema fascismo è di nuovo in scena, riemerge come alternativa possibile, presente nel tessuto nazionale, alla liberaldemocrazia. Riemerge con le sue idee di uno stato forte, ripulito, non più corrotto, sottratto agli interessi di partito; e di un mercato come regolatore sociale "puro". Stato forte e libertà di mercato, senza più gli intralci dell’associazionismo di sinistra e del sindacato. Senza movimenti di massa tra i piedi".

Questo colpo d’occhio, pur legittimo sotto molteplici punti di vista, presenta due inconvenienti tra di loro collegati:

a) suppone il fascismo come "movimento" e "corrente culturale" statici, riemergenti ciclicamente senza sostanziali mutamenti di forma e di qualità, unicamente come causa e riflesso della contrazione dell’ associazionismo di sinistra;

b) costruisce l’alternativa surrettizia fascismo/liberaldemocrazia, quando, invece, i nuovi fascismi hanno costruito la loro vittoria elettorale, esaltando proprio le virtù della liberaldemocrazia.

Ne consegue che al fascismo, per definizione, non viene riconosciuta alcuna possibilità di metamorfosi e nessuna capacità di interpretazione e organizzazione del "nuovo". Ma se così fosse, non vi sa-rebbe ragione alcuna di temerlo! Se, come giustamente osserva la De Grazia, il fascismo è un passato che non passa , esso non passa esattamente perché muta e si relaziona continuamente alle forme del mutamento sociale, al fine di creare (o, più semplicemente, di sfruttare) le condizioni favorevoli, per padroneggiarlo e curvarlo in una direzione di senso fortemente autoritaria. Questo significa che, nella storia degli italiani, la coscienza antifascista è un tratto somatico irrinunciabile e irremovibile. Ma significa anche e soprattutto che siffatta co-scienza deve essere continuamente ricostruita, all’interno di un ben più generale processo di elaborazione di nuove e più cogenti identità singole e collettive, in grado di spostare e "rifondare", a sinistra, l’oriz-zonte della democrazia, della libertà, dei diritti e del patto sociale nel nostro paese.

Quanto più i problemi dell’identità e della memoria vengono risospinti nell’ombra, tanto più ciò che non è contemporaneo si "contem-poraneizza" in maniera distorta: non sopravvive; bensì vive, afferrando, stritolando e rimodulando nei suoi tentacoli ciò che vive ed è attuale. Ma da questo abbraccio, il contemporaneo del non contemporaneo riceve inarrestabilmente linfa nuova e subisce riassetti di forma e qualità. Si crea, così, un composto organico esplosivo: passato e presente si sovrappongono e interagiscono, dando luogo a dei veri e propri cortocircuiti simbolici e comunicativi, sui quali viene eretto un processo di formazione ed eterodirezione del senso comune.

La riaggregazione e riorganizzazione dei poteri forti si reggono anche sullo smemoramento della memoria così ingenerato. È, così, che i valori e i messaggi (vecchi e nuovi) delle destre si affermano e circolano come senso comune, producendo processi identificativi di massa e fornendo risposte "convincenti" alla richiesta di identità fortemente strutturate che circola nel sottosistema politico-elettorale, soprattuto in tempi di grandi lacerazioni sociali e politiche. Ancora una volta, le sinistre si fanno trovare spiazzate su un punto di cruciale rilevanza.

Questi profondi limiti sembrano condizionare ancora vistosamente le alleanze "uliviste" di centrosinistra, a partire dalla vittoria alle amministrative del 1995 fino a quella alle politiche del 1996. Il contrasto della destra viene portato sul terreno della destra: lo smantellamento e/o la destrutturazione, in chiave minimalista ed escludente, di alcuni princípi cardine dello Stato di diritto e della costituzione. La questione degli immigrati e il moderatismo conservatore che (dalla caduta di Berlusconi al sostegno attivo al governo Dini fino al governo Prodi) strangolano lo schieramento di centrosinistra sono alcune delle car-tine di tornasole che meglio evidenziano il processo. Il "desiderio di normalità" dei gruppi dirigenti del Pds e di ampie fette del centrosi-nistra si incontra qui:

a) sul piano politico, col minimalismo costituzionale: strategia e tecnica di controllo, già ampiamente sperimentate e collaudate dalle classi dirigenti negli anni '50 e '60 e fatte esplodere con l’emergenza degli anni ’70 e ‘80;

b) sul piano sociale, con i modelli di intervento anticonflitto, tipici dell'azione di governo partoriti nel secondo dopoguerra, progressivamente rielaborati ed ampiamente applicati negli anni '60 e '70 e sublimati dai codici e dalle politiche dell’emergenza degli anni ’70 e ‘80;

c) sul piano economico, con le strategie iperliberiste e monetariste del Fondo monetario internazionale.

Il nodo critico maggiore è che, all'interno dello schieramento ulivista, su tutti e tre i livelli, si vanno determinando arretramenti peggiorativi e riconiugazioni qualitative restrittive rispetto alle già negative esperienze del passato.

6.

L'irruzione telemediatica e la smemorizzazione della politica

L’aumento del peso specifico dei media (soprattutto, del mezzo televisivo) nella competizione politico-elettorale in Italia va associato alla modificazione subita dal sistema elettorale. Siamo passati, dal sistema proporzionale puro, al sistema elettorale misto che prevede il 75% degli eletti in quota maggioritaria e il 25% in quota proporzionale.

Il passaggio dal proporzionale al maggioritario ha comportato l’inevitabile personalizzazione della competizione politica. Circostanza che ha funzionato come acceleratore e dilatatore della pluri-incidenza del mezzo televisivo nella comunicazione politica. Meglio: la comunicazione politica tende sempre più a risolversi nella manipolazione mass-mediatica della politica. Il nuovo sistema elettorale è stato inaugurato proprio dalle elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994 che hanno visto la "discesa in campo" di Berlusconi e il successo del "Polo delle libertà".

Intorno al condizionamento politico esercitato dal medium televisivo si sono affermate due scuole di pensiero:

a) quella affermante l’assoluta preponderanza del mezzo televisivo nell’economia del risultato elettorale di uno schieramento e/o di un candidato;

b) quella che tende ad attenuare il peso specifico del mezzo televisivo nella comunicazione politico-elettorale.

È un fatto che con le elezioni politiche del 1994 la televisione abbia risolto entro il proprio ambito ristretto la campagna elettorale e la competizione politica. Al punto da inverare, in maniera sin troppo brutale, il passaggio dal medium freddo della comunicazione di massa del "villaggio globale" mcluhaniano al medium caldo della telecrazia .

Non si vuole qui (del resto, non si può) demonizzare il medium televisivo come "disvalore in sé"; più precisamente, si vuole porre l’accento sulle funzioni specifiche da esso espletate nel sistema comunicazionale dato e sul ruolo di induttore/trascinatore di trasformazioni da esso giocato in tutto l’ordito sociale. Con ciò vogliamo significare che il medium televisivo ha una sua autonomia poietica che non soggiace passivamente al flusso di controllo attivato dagli altri poteri; anzi. Intendiamo, altresì, indicare che il profilo del medium televisivo come non è linearmente ed ontologicamente repressivo e mutilante, così non è sorgivamente e irreversibilmente democratico e liberante. La poiesi e la cifra di senso del medium televisivo si giocano sempre al confine tra libertà e schiavitù, democrazia e dispotismo, genio e banalità, verità e menzogna, rivolta e assimilazione. Non resta, quindi, che esaltare i contenuti di liberazione e di libertà espressiva insiti nella sua struttura di senso e dislocare una puntuale critica dei suoi caratteri oppressivi e alienanti. Non di semplice "uso" del me-dium televisivo, dunque, si tratta; né di una pianificazione democratica del suo sviluppo. Al contrario, si tratta di rispettare ed esaltare la libertà poietica del medium televisivo (cioè: la sua carica di trasformazione/liberazione), senza coartarne le strutture e i potenziali di senso.

Ora, in linea generale, l’impalcatura complessa dei codici comunicativi e dei saperi trasmissivi della telecrazia fa del medium televisivo la fonte principale (tendenzialmente l’unica) di comunicazione e di legittimazione delle opzioni politiche. In un sistema (seppur misto, ma) sbilanciato fortemente verso il maggioritario, il mass media system, con al centro il medium televisivo, diviene il circuito referenziale preferenziale attraverso cui passano i processi di comunicazione e legittimazione della politica. Il mass media system (ormai, dotato di sistemi di controllo ed espansione satellitari), però, non si limita ad essere la cassa di risonanza del messaggio politico. Anzi, tende esso stesso a influenzare e controllare la decisione politica, autoinvestendosi di un potere di indirizzo tanto delle scelte dell’elettore che delle opzioni dell’attore politico.

Non ci troviamo, insomma, di fronte alla pura e semplice insorgenza di un "quarto"/"quinto" potere a difesa di limitati interessi economico-politici e di specifiche cointeressenze finanziarie. Siamo, piut-tosto, al cospetto di un potere invasivo e pervasivo che, incidendo sulle forme e sui linguaggi dell’"essere sociale" e della politica e gravando su tutte le forme di relazione, tende a sussumere sotto la sua signoria simbolico-culturale ogni sfera dell’umano agire. I fenomeni di concentrazione e semplificazione lessicale, di saturazione e superfetazione simbolica, di sublimazione e virtualizzazione della realtà, di derealizzazione della vita tipici del mas media system e dell’uso che questo fa del mezzo televisivo assumono il significato terribile di veicolare e imporre "sistemi di vita", "sistemi educativi" (nel senso più largo del termine), "modelli culturali", "modelli di agire" e "modelli di decisione" a decrescente articolazione di complessità e di senso. Entro questo quadro, la proliferazione dei mezzi e dei segni elettronici frantuma i contenuti del messaggio, subordinandoli a gerarchie di valore e di senso unilineari e narcotizzanti. Anziché assistere al miglioramento della qualità della comunicazione, della democrazia e della vita, proprio a fronte della scomposizione, frammentazione e straneazione estreme dei segni/simbolo della virtualità elettronica, ci troviamo a registrare una paurosa caduta di tensione della comunicazione e della democrazia come valore e come prassi.

Dobbiamo, dunque, concludere che le elezioni politiche del 1994 hanno contribuito a porre in scena ciò che fino ad allora era andato agitandosi e maturando nel retroscena. In questo rovesciamento di posizione sono rinvenibili mutamenti sia di quantità che di qualità; ad un tempo, vanno rilevate profonde ridislocazioni del messaggio politico e dei suoi mezzi comunicazionali. Per poter lumeggiare con maggiore puntualità il fenomeno, c’è bisogno di illustrarlo nel suo itinerario trasformativo. Ovviamente, qui lo faremo in maniera sintetica e allusiva.

Come fatto osservare da C. Marletti, in tutto un lungo ciclo iniziale (1955-1975), in Italia, la televisone si rivolge direttamente ad un pubblico di massa illetterato: cioè, pervenuto alla fruizione del medium televisivo, senza essere stato preliminarmente ammesso alla "frui-zione letteraria", come invece avvenuto in tutti gli altri processi di formazione dello Stato nazionale. Ciò, tra l’altro, ha comportato un processo inevitabile: il dualismo funzionale tra stampa e televisione. Da un lato, la stampa si è occupata di politica, ma lo ha fatto con un linguaggio iniziatico e rivolgendosi a ristrette élites; dall’altro, la televisione non si è occupata di politica, ma ha impattato immediatamente un pubblico di massa. Da qui due ulteriori conseguenze: (i) la simbiosi tra stampa e sistema politico; (ii) la sistematica censura politica in televisione.

Allora, ancor prima che si innescasse un effettivo processo di mediatizzazione della politica, il sistema politico italiano mancava di adeguate strutture di comunicazione politica; meglio: raggiungeva e conquistava la "base elettorale" non in termini di opinione, ma di propaganda. In breve: l’attore politico, in Italia, non informava e non comunicava; si limitava ad essere soggetto di propaganda politica. Altrettanto dicasi per la stampa. Il complesso di questi fattori ha finito col predisporre e accumulare nel tempo un’ulteriore causa endogena per il primato della televisione nello stesso campo della comunicazione politica; primato che le elezioni politiche del 1994 hanno suggellato e, insieme, avviato verso una nuova fase. Non solo: il fenomeno è stata tra le motivazioni primarie della progressiva obsolescenza delle strutture di informazione, comunicazione, propaganda e proselitismo dei partiti di massa che, già sul finire degli anni ’60, si vanno affidando al marketing pubblicitario, per la creazione, comunicazione e diffusione del messaggio politico.

I movimenti degli anni ’60 e ‘70 hanno preso di mira anche il basso tasso di informazione e comunicazione del sistema politico e dei mezzi di comunicazione di massa. Prima vi hanno opposto la controinformazione; in seguito, la produzione di comunicazione alternativa . Al di là di limiti intrinseci ed estrinseci, essi hanno dato il là anche ad un "Sessantotto della comunicazione creativa" che, con le "radio libere" ed il ’77, è successivamente esploso ad un più alto livello di proliferazione espressiva, le cui tracce ancor oggi sono ben visibili.

Le elezioni politiche del 1979 e quelle amministrative dell’anno successivo segnano il primo punto di svolta: con esse, la Tv inizia ad intervenire in maniera decisa e decisiva nella competizione elettorale. In tutti gli appuntamenti elettorali degli anni ’80, la tendenza andrà progressivamente intensificandosi; come vedremo nel capitolo successivo. Il processo di mediatizzazione della politica, attivato negli anni ’60, si va compiendo, dando luogo al fenomeno inedito della politica spettacolo che tanta fortuna riscuoterà fino a tutti gli anni ‘90.

Ora, politica spettacolo non significa mera concessione/interdi-zione della facoltà di accesso ai media; e nemmeno, banalmente, svuotamento mediatico-spettacolare del conflitto politico. Ma, piuttosto, che i media (e quelli elettronici, in particolare) costituiscono l’habitat in cui la politica non può fare a meno di vivere ed esprimersi. Il mondo dei media si fa mondo dell’esistente umano-sociale e, dunque, della politica. Come l’esistente non può prescindere dai media, così la politica è catturata e manipolata dai media.

Che i media siano l’habitat della politica significa ora che lo spettacolo mediatico si fa vita politica; significa che la vita politica, per avere uno statuto compiuto e un’identità sviluppata, deve obbligatoriamente passare attraverso il filtro germinatore dei media. Così, l’ identità della politica conosce un processo di dimagrimento e, contestualmente, si dilata l’identità dei media. Conseguentemente, l’iden-tità della politica tende a perdere memoria di sé; viceversa, l’identità dei media conosce un inarrestabile processo di politicizzazione, nel senso che diviene cifra ineludibile dell’essere, dell’agire e del comunicare politico.

Il processo di produzione e comunicazione della politica ha ora tra le sue matrici fondanti la memoria e l’identità dei media. L’esserci espressivo e comunicativo dei media condiziona l’esserci espressivo e comunicativo della politica. Non per questo, una politica al servizio del potere dei media può avere presa; così come senza prospettive è un sistema dei media al servizio della politica.

Vale a dire: come è senza futuro il partito mediatico (Fininvest prima e ora Mediaset), così è senza futuro il medium partitico (o partitocratico). Nel primo caso, anche così si spiega l’insuccesso berlusconiano alle amministrative del ’95 e alle politiche del ’96; nel secondo, è a tutti evidente come, con la caduta del regime politico incardinato sulla centralità della Dc, in coma profondo e irreversibile siano precipitate la comunicazione e l’informazione di partito, sotto tutte le latitudini, a destra come a sinistra e al centro.

In Italia, mass media system e sistema politico debbono fare i conti, ognuno per la sua parte, con vizi congeniti e anacronismi che si trascinano penosamente nel tempo. Anche se, a dire il vero, ben più pesanti e carichi di conseguenze sono i limiti del sistema politico.

Tra i limiti costitutivi del sistema politico italiano c’è l’incapacità di cogliere le valenze poietiche e l’effettualità creatrice e liberante dei "nuovi media". Le forze e gli attori politici oscillano da un asservimento totale alle logiche del mass media system ad una critica demonizzante nei suoi confronti. Finiscono, in un caso e nell’altro, nello scomporne indebitamente l’identità complessa, assoggettandolo euristicamente al codice binario Sì/No.

La combinazione dei ritardi del mass media system con gli anacronismi del sistema politico fa da luogo natale di una miscela politico-mediatica velenosa che rende vuota e litigiosa la competizione politica e di basso profilo la comunicazione politica. È, così, potuto accadere che l’irruzione telemediatica abbia fatto da veicolo alla smemorizzazione della politica. Incapace di fare i conti con la complessità cognitiva, poietica e sociale dei "nuovi media" , la politica è rimasta ammutolita, perdendo totalmente la sua relativa autonomia di senso. Con ciò, finendo esposta non tanto e non solo alle "virtù" dei media, quanto e soprattutto ai loro (peggiori) vizi.

La pretesa dei "nuovi media" di produrre la realtà e gli eventi a loro immagine e somiglianza, in una opera di riscrittura permanente del vero e dell’immaginario, non ha impattato un’adeguata massa critica. Il loro "delirio di onnipotenza" ha, così, fatto velo sulle componenti di senso interne positive che, pure, concorrono ad elaborarne la complessa trama di senso. Di nuovo, si è messo in scena uno spurio spettacolo: di qui "apocalittici" e di là "integrati". Il circolo vizioso della politica ha alimentato il circolo vizioso del mass media system e viceversa, dando luogo una catena infinita di effetti sempre più perversi. E anche questo ha fatto e fa spettacolo.

Una politica smemorata va sempre più smarrendo i suoi attributi poietici, non riuscendo a convertire i processi di dimagrimento che l’hanno investita in una salutare presa di distanza dalle pulsioni titaniche in forza di cui ha lungamente colonizzato la società. L’effetto di smemoramento fa il paio con un sordo quanto accanito e diffuso disegno di stabilizzazione conservatrice della società, di cui, per ora, la "Bicamerale" è stato il frutto più maturo.

Un disegno di stabilizzazione che cerca affannosamente di materializzare, per ora senza riuscirvi, quel punto zero del salto di regime, da cui far ripartire il presente senza fare adeguatamente i conti col passato e il carico delle sue problematiche irrisolte e inevase. Un disegno in cui, fatte salve le inevitabili differenze e tenuto conto delle ben poche eccezioni, vanno riconoscendosi e sciogliendosi tutti gli schieramenti e gli attori politici in campo. Un disegno che si scontra con l’opposta manovra di stabilizzazione portata avanti dalla magistratura che, per difendere l’autonomia e il potere intanto accumulati, non cessa di premere con la leva giudiziaria contro la "classe politica", accusata genericamente di essere inaffidabile e poco incline al rispetto del "principio di legalità".

Quando e come l’aggrovigliarsi delle contraddizioni e dei conflitti della fase 1990-95 troverà soluzione è difficile a dirsi. In questo capitolo, della fase abbiamo soltanto tentato di mettere in scena le variabili principali e la dinamica di movimento. Esiti, tempi e luoghi di tale movimento sono, allo stato, impredicibili. Così è sempre, del resto, quando si fa storia del presente. Pur con questo limite fondamentale, tuttavia, fare storia del presente rimane esigenza imprescindibile.