CAP. VII

LA TRANSIZIONE BALBETTANTE.

PRIMI ELEMENTI DI ANALISI

 

 

 

 

Come è noto, con il DPR n. 533 del 1993 (nuove regole per le elezioni dei senatori) e la legge n. 277 del 1993 (nuove regole per l’elezione dei deputati) il sistema elettorale italiano viene ripensato e riscritto in senso maggioritario. Dal sistema elettorale proporzionale si passa al sistema elettorale misto, per il 75% maggioritario e il restante 25% proporzionale.

Come già ricordato nel capitolo precedente, le nuove regole vengono tenute a battesimo nelle elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994, che hanno nella "discesa in campo" di Silvio Berlusconi e nel successo del "Polo delle libertà" il contrassegno più autentico.

In questo capitolo, non analizziamo gli immediati processi generatori di questa operazione di "ingegneria istituzionale" . Piuttosto, ci occuperemo delle trasformazioni strutturali, per questa via, indotte nel sistema politico italiano e delle interazioni differenziate tra sistema della politica e mass media system, incentrando particolarmente la nostra attenzione sulle nuove funzioni svolte dal medium televisivo.

1. DAL PROPORZIONALE AL MAGGIORITARIO

1.1. Razionalità e legittimazione della riforma elettorale

Il dibattito politologico intorno alla crisi del sistema elettorale italiano ha preso vigore con l’aprirsi degli anni ’80 e, nella fase terminale, è andato procedendo intrecciandosi strettamente con i temi della governabilità e della stabilità politica. Dalla seconda metà degli anni ’80, infatti, da più parti veniva imputato alle carenze insite nel sistema proporzionale il deficit di stabilità politica che fisiologicamente caratterizzava la "forma di governo" democratica in Italia. La riforma elettorale è stata, così, pensata e declinata come il rimedio efficace ai mali del proporzionalismo.

In una fase iniziale, il dibattito sulla riforma elettorale si è andato concentrando sui poteri e sulle procedure di elezione del capo dello Stato, con una contrapposizione via via più netta tra il modello della "repubblica presidenziale" e quello della "repubblica parlamentare"; col passare del tempo, il campo della discussione si è allargato, investendo la "struttura portante" del sistema elettorale.

La discussione sulla riforma elettorale, in questo modo, è stata progressivamente finalizzata al mutamento delle forme della rappresentanza, inserendo con forza nell’agenda politica il tema del passaggio dalla democrazia rappresentativa "proporzionalista" alla democrazia rappresentativa "maggioritaria".

Attori politici, soggetti istituzionali e costituzionalisti si sono progressivamente convinti che questa fosse l’unica soluzione capace di tracciare una netta linea di demarcazione nei confronti dei limiti del "pluralismo polarizzato", del "bipartitismo imperfetto", del "plurali-smo centripeto" e del "fazionismo eterodiretto", in virtù dei quali il sistema politico italiano si era andato caratterizzando per l’incapacità di autogenerare l’alternanza e il ricambio delle classi dirigenti nella gestione del potere.

Il punto di svolta qui prefigurato è, così, riassumibile: dal vizio della democrazia bloccata (democrazia senza alternanza) alla virtù della democrazia dell’alternanza. Il proporzionalismo viene concepito come fattore di ingovernabilità; conseguentemente, la forma di governo che gli si fa corrispondere è la "democrazia ingovernabile". Per parte sua, il sistema maggioritario è assunto come veicolo di stabilità; in piena coerenza, la forma di governo che gli si fa corrispondere è la "democrazia governante". La possibilità e l’effettualità della governabilità si vanno direttamente incardinando sulla sussistenza dell’alter-nanza. Se l’alternanza è la condizione base ineliminabile della democrazia, la democrazia governante diventerebbe garanzia dell’opera-tività dispiegata dei princìpi democratici .

Con ciò, il dibattito politologico è andato prefigurando un passaggio di tendenza: dal "bipartitismo imperfetto" al "bipolarismo perfetto". La realizzazione di tale tendenza, nell’auspicio dei promotori di tale processo, avrebbe dovuto segnare l’entrata in scena nella competizione elettorale e nell’agone politico di due schieramenti politici internamente coesi, in alternativa l’uno dell’altro. Le cose non sono andate perfettamente così e, a tutt’oggi, restano nel sistema elettorale misto così disegnato cospicue tracce di multipartitismo e frazionismo politico.

Per la piena realizzazione delle nuove tendenze maggioritarie, l’azione politica è stata tutta giocata in funzione della mobilitazione delle risorse politiche in senso bipolarista, con speculari effetti smobilitanti nei riguardi del multipartitismo proporzionalista. Il fatto è che si intendeva anche assecondare segno e senso di atti della dinamica elettorale italiana che principiavano a entrare in rotta di collisione col modello della democrazia senza alternanza. Come hanno notato P. Corbetta, A. Parisi e H. Schadee, nel 1979 si apre un processo di "smobilitazione elettorale" nei confronti del modello del "bipolarismo tradizionale"; successivamente, alla smobilitazione nel modello ha prontamente fatto seguito una smobilitazione del modello. Questo processo inarrestabile di smobilitazione ha condotto al "terremoto elettorale" delle elezioni alla Camera del 1992, in cui la preferenza unica ha fatto la sua prima timida comparsa.

Abbiamo già avuto modo di rilevare come il processo di riforma del sistema elettorale abbia avuto una inevitabile ricaduta sulle forme di democrazia e sulle forme di governo. Dobbiamo ora aggiungere che, nella specificità del "caso italiano", la tendenza al bipolarismo costringe a riscrivere le stesse teorie e i codici definitori della "classe politica", sia quella di governo che quella di opposizione.

Nella nuova realtà all’orizzonte, la classe politica di opposizione cessa di essere una forza anti-sistema, con l’eccezione assoluta della Lega e quella parziale di Rifondazione comunista; la classe politica di governo, invece, perde quella prerogativa di inamovibilità dal potere che l’aveva per l’innanzi caratterizzata. Il processo di alternanza è sempre e tutto all’interno del sistema politico dato, il quale si va appropriando di quegli strumenti di modifica e autotrasformazione che gli consentono il passaggio da una coalizione di governo ad un’altra di segno opposto, senza patire turbolenze catastrofiche. Anzi, proprio il ricambio organico delle coalizioni dovrebbe permettere al sistema di rigenerarsi e di innovarsi, mettendo a disposizione dell’elettore l’opzione costante del cambiamento.

Se resta indubbio che permane una differenza cogente tra "partito dell’area di governo" e "partito dell’area di opposizione", va osservato che il secondo non finalizza l’opposizione a se stessa; bensì, dall’op-posizione, tende a costruirsi e ricostruirsi come "partito di governo". L’opposizione extrasistemica scompare dall’orizzonte del conflitto politico, di nuovo con le eccezioni del secessionismo leghista e dell’an-tagonismo di Rifondazione comunista; l’opposizione intrasistemica occupa per intero lo spazio espressivo e comunicativo del conflitto interpartitico. Questo significa che i diritti della minoranza si prolungano e rielaborano in necessità/possibilità dell’opposizione. I meccanismi istituzionali e politici ora riconoscono espressamente all’opposi-zione il diritto di organizzarsi come governo possibile. Altrimenti detto: tra "opposizione come funzione" e ’"opposizione come organizzazione" viene nettamente privilegiata la seconda. Tendenza che, in Italia, non appare inficiata dal modello semipresidenzialista partorito dalla Bicamerale, non conferendosi qui al presidente della repubblica poteri paragonabili a quelli presenti nel modello americano e nel modello francese.

In un sistema politico bipolare il governo, non già il potere, diventa l’aspirazione strategica suprema del partito di opposizione. Il governo diviene, così, una risorsa strategica la cui titolarità perde i requisiti della certezza e della invariabilità, ma va puntualmente legittimata e (ri)conquistata sul campo.

Gli schieramenti contrapposti, ancora con la sola eccezione del separatismo leghista e dell’antagonismo di Rifondazione, tendono a distinguersi e confliggere non già sulle forme di governo e sulle regole del gioco, che assumono un carattere universalistico (in questo alveo vanno inseriti i lavori della Bicamerale); bensì sulle modalità, sulle finalità e sulle risultanze dell’azione di governo, intorno cui si misurano le differenze tra soggetti politici e coalizioni. Come l’attore governo razionalizza compiutamente le sue scelte e i suoi atti, così l’attore opposizione interiorizza il comportamento razionale come modalità pre-cipua del suo agire tattico e strategico.

Ritornando dagli attori politici alle forme di governo, va rilevato che il progressivo affermarsi del "principio maggioritario" segna la metamorfosi del modello di governo parlamentare: dalla "repubblica dei deputati" (governo non maggioritario) si passa alla "repubblica dei cittadini" (governo maggioritario). Nel modello di governo parlamentare maggioritario, "chi vince prende tutto"; il che dovrebbe conferire stabilità e durata all’azione di governo.

In linea di previsione teorica e programmatica, qui la crisi endogena è resa di difficile attuazione, se non ridotta al "grado zero", dalla compattezza interna e dal "premio di maggioranza" che vanno a gratificare la coalizione di governo. Qui il carattere remoto e/o improbabile della crisi endogena attribuisce forza all’azione di governo: la governabilità, da parola d’ordine ed imperativo categorico, si fa attività, operatività, quotidianità.

Nella realtà empirica, a dire il vero, le cose non stanno esattamente come prefigurato dal modello teorico. In Italia, esempi recenti quali la caduta del governo Berlusconi, per il dissenso interno della Lega, e la crisi (successivamente rientrata) del governo Prodi, per il dissenso interno di Rifondazione comunista, smentiscono l’univocità ed irrevocabilità di questo assunto. In Francia, per rimanere ad un arco temporale a noi vicino, le elezioni anticipate volute e perdute dal presidente Chirac hanno dimostrato che una maggioranza coesa non esita a sciogliere se stessa, per un calcolo politico di natura endogena (poi, rivelatosi errato), teso all’ottimizzazione delle condizioni e delle azioni di governo. Si obietterà che quello italiano è un caso di "mag-gioritario imperfetto", largamente immaturo e incoerente per la presenza di elementi proporzionalistici; che l’evento francese appena ricordato costituisce un fatto straordinario, di norma non reiterabile. Purtuttavia, gli esempi richiamati dimostrano quanto il modello teorico (qualunque modello teorico), pur congruo e legittimo, sia esposto al rischio della smentita e alla prova della verificazione.

Infine, va fatta un’ulteriore e decisiva osservazione. Non bastano, di per sé, la coesione e la forza di un governo a rendere efficaci, efficienti, operative ed eque le disposizioni legislative. Si deve, in ogni caso, interpretare l’aspettativa/e sottoporsi al giudizio della cittadinanza che, attraverso le più svariate forme della protesta e della mobilitazione, può sempre esprimere il proprio dissenso. Ed è proprio qui che nella politologia democratica neo-maggioritaria manca un passaggio di previsione e di prassi: il profilo della "repubblica dei cittadini" omette di coniugarsi come democrazia dei cittadini.

Solo questa coniugazione è garanzia effettiva del superamento definitivo del "regime partitocratico" e del potere di condizionamento delle oligarchie ad esso connaturate. Solo in questa versione la democrazia assicura il "diritto di critica" alle forme politiche della rappresentanza e alle modalità stesse del pensiero politico.

1.2. Effetti di sistema della preferenza unica

La preferenza unica ha avuto il suo battesimo alle elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992 che segnano il definitivo tracollo del vecchio quadripartito e, ancora di più, del regime politico democratico uscito dal secondo conflitto mondiale.

Si è lungamente — e a ragione — insistito sull’indubitabile sconvolgimento della "geografia elettorale" italiana determinato dalle elezioni politiche del 1992. Ma, dopo il 5 aprile 1992, non ci muoviamo soltanto in un ambito di destrutturazione del mercato elettorale; siamo anche in presenza di spostamenti significativi degli assi del sistema politico.

Il primo "dato politico" che, con l’introduzione della preferenza unica, resta da esaminare è la mutazione organica del rapporto partito/ candidato, coalizione/eletto.

È unanimemente considerato che la preferenza multipla sia stata la materia prima che ha contribuito a caratterizzare il "mercato politico" in termini di "mercato clientelare", con i ben noti fenomeni del "voto di scambio" e delle "cordate elettorali". La preferenza unica, con l’inevitabile personalizzazione dell’opzione elettorale e della competizione inter/e intrapartitica, non scardina completamente la relazione clientelare su cui, in buona parte, si era per l’innanzi conformato e stabilizzato il sistema politico. L’analisi dei risultati delle elezioni del 1992 dimostra che il voto unico di preferenza residua ancora, in dosi più o meno rilevanti, fenomeni di clientelismo.

E tuttavia, una novità va registrata. Nelle nuove condizioni, comunicazione e scambio elettorali vengono intermediati non tanto dalle "macchine di partito" e/o delle "frazioni organizzate" interne ai singoli partiti quanto dalle capacità di mobilitazione e organizzazione del singolo candidato. È possibile rilevare tangibilmente lo spostamento del centro di gravitazione del "fare politico" dall’organizzazione di partito all’organizzazione del candidato, il cui peso dentro gli equilibri interni dei singoli partiti e/o delle singole coalizioni tende ad essere sempre più rilevante. La perdita definitiva da parte dei partiti del ruolo di centro motore, organizzativo e comunicativo della politica segna l’irreversibile crepuscolo dei "modelli di partito" della tradizione proporzionalista.

Il vecchio modello di partito, in base al quale tra organizzazione di partito e candidato si dà una relazione gerarchica di comando della prima sul secondo, subisce notevoli modificazioni. Il candidato tende non solo ad affrancarsi dalla dipendenza ferrea dal partito di appartenenza, ma anche e soprattutto a condizionarne le scelte, le strategie, le politiche, le forme di insediamento e le modalità di organizzazione e consolidamento del consenso.

Più frequentemente, ancora, il candidato è al di fuori delle "logiche di appartenenza": non riassume in sé le caratteristiche della vecchia figura di "militante politico"; bensì esprime orientamenti politici di massima, inscrivibili nella "tavola dei valori" delle coalizioni di riferimento in termini non, certo, rigorosi e assolutamente coerenti. La "macchina elettorale", con i suoi modelli, le sue forme di razionalità e le sue imprescindibili esigenze, tende progressivamente a prevalere sulla "macchina politica" in senso stretto e il candidato (prima) e l’eletto (dopo) tendono a costruirsi come "figure politiche" autonome. Il "mandato di rappresentanza" viene, così, esaltato in modo nuovo: il candidato e l’eletto tendono sempre meno a rispondere alle logiche di schieramento dei partiti e delle coalizioni e sempre più direttamente agli elettori. La qual cosa costituisce anche — e in negativo — la base per pericolosi fenomeni di "populismo di massa" a forte intonazione conservatrice che dislocano un perfetto punto di intersezione tra "forme plebee" di mobilitazione e "forme oligarchiche" di gestione del potere.

Il secondo dato politico che delle elezioni politiche del 1992 dobbiamo esaminare trova espressione nel seguente interrogativo: la "mobilità elettorale" registrata tra le elezioni del 1987 e quelle del 1992 in che misura e qualità ha mutato funzionamento e strutture del sistema politico?

L’alta percentuale di elettorato mobile registrata nel 1992, di per sé, ancora prima dei suoi effetti e delle sue connessioni sistemiche, richiama i partiti ad una maggiore flessibilità ed elasticità, in rapporto al territorio e alle sue problematiche, nel definire e proporre la loro "offerta politica". L’offerta politica universalistica si trova spiazzata, perché incapace di recepire e interpretare adeguatamente la "do-manda politica" locale. La radice prima del successo elettorale della Lega Nord alle elezioni 1992 riposa in questo "fatto elementare". La rideterminazione in senso localistico dei meccanismi dell’offerta e della domanda politica spinge il sistema politico nel suo complesso ad atteggiarsi diversamente nei confronti dell’organizzazione del consenso. Se prima le strategie di conquista del voto erano principalmente modellate su motivi/valori di ordine ideologico e dai meccanismi dello scambio politico, ora le "appartenenze" ideologiche e quelle politiche vengono destabilizzate per linee interne, dimostrandosi "an-core di salvataggio" altamente controfattuali, sul piano del rendimento politico ed elettorale.

Con il che entrano in crisi anche tutti i meccanismi classici della raccolta del "voto di opinione". La crisi del "voto ideologico" e del "voto di scambio" pone irrimediabilmente ed inevitabilmente in crisi anche il "voto di opinione". Nelle nuove condizioni che si vanno determinando, la pressione simmetrica del "voto ideologico" e del "voto di scambio" viene meno. Non si dà più, dunque, la delimitazione di quel punto medio di convergenza che, in ribellione sia al "voto ideologico" che al "voto di scambio", costituiva lo spazio politico specifico di maturazione e crescita del "voto di opinione".

Gli universi simbolici e materiali dell’opzione elettorale conoscono un’evidente contrazione, tendendo a coincidere con gli universi simbolici e materiali delle "problematiche della cittadinanza", le quali non possono che avere il "locale" come loro stella polare. La tendenza si esprime anche nelle competizioni elettorali politiche che, per definizione, hanno come riferimento l’orizzonte della "globalità politica", poiché soprattutto nel mercato politico nazionale vengono ora immessi inputs di natura locale.

La globalità cessa di essere un "valore in sé"; ma diviene il risultato di una interazione complessa e difficile tra le domande dei localismi diffusi e le offerte dei globalismi istituzionali. Ne consegue, con tutta evidenza, che "contesto", "testo", "attori" e "posta in gioco" dell’ azione politica subiscono una vera e propria mutazione genetica. Il "fare politico" è costretto a cambiare sia al "centro" che alla "periferia" delle istituzioni. L’offerta politica, per parte sua, deve specializzarsi: saper differenziare l’attore politico locale da quello globale e, nel contempo, non perdere mai, sul piano della decisione politica e dell’azione di governo, i fili di collegamento tra gli inputs globali e quelli locali.

Le elezioni politiche del 1992, sviluppando ulteriormente questo asse di ragionamento, appaiono come il risultato del lento maturare di due processi di "lunga durata" e che, in parte, abbiamo provveduto a descrivere nei capitoli precedenti. Il primo di carattere esogeno: il "crollo del muro di Berlino" e la crisi irreversibile del "sistema sovietico"; il secondo di carattere endogeno: la crisi di tutte le subculture politiche italiane. Il voto del 5-6 aprile del 1992 ha offerto a questi elementi un teatro unico per una deflagrante messa in scena.

Concludendo quest’opera di interpretazione, possiamo prudentemente dire: le elezioni politiche del 1992 hanno portato a compimento la "secolarizzazione politica" della società italiana, costringendo, seppure in ritardo, il sistema politico a fare duramente i conti con i problemi e i temi della complessità e della differenziazione. Da qui l’emergere prepotente del regionalismo e del localismo che tutti gli attori politici della "seconda repubblica", per il loro semplicismo politico ed anacronismo culturale, hanno ostinatamente bistrattato, regalandoli su un vassoio d’argento alla "mobilitazione leghista".

2. VERSO UNA NUOVA TRAMA COMUNICATIVA

Dobbiamo ora prendere in esame i patterns comunicativi entro cui va modellandosi la mobilitazione elettorale e politica nel processo di spostamento dal proporzionale al maggioritario. Nuove discipline comunicative dell’azione politica e della propaganda elettorale sono andate progressivamente formandosi. L’intervento di disciplina istituzionale della materia era fermo ai decenni precedenti: si è trattato, anche in questo campo, di colmare un vuoto.

Possiamo considerare la legge n. 515 del 1993 il primo intervento organico di risistemazione della materia che ha provveduto, contestualmente, a revisionare e aggiornare la legislazione previgente. In una seconda fase, i "decreti-legge Gambino" (1995, governo Dini) hanno integrato e completato gli indirizzi disciplinatori, introducendo variazioni non irrilevanti.

L’insieme di questi fattori consiglia di prendere unitariamente in considerazione la legge 515/93 e i "decreti-legge Gambino" del 1995.

2.1. Lo schema della legge 515/93

Ricostruiamo l’architettura della legge, facendo esclusivamente riferimento alle norme che riguardano più da vicino il nostro oggetto di indagine.

2.1 a). L’art. 1

L’art. 1 della legge regolamenta l’accesso ai mezzi di informazione.

Il primo comma dell’articolo impartisce prescrizioni all’emittenza pubblica, tese a garantire, in "condizioni di parità", gli idonei spazi di "propaganda elettorale", a livello nazionale e su scala regionale. Inoltre, a tutti i partiti e i movimenti presenti nella competizione elettorale vengono assicurate la "parità di trattamento", la "completezza" e l’"imparzialità" dell’informazione.

Il secondo comma si rivolge specificamente ad editori di quotidiani e periodici, ai titolari di concessioni e di autorizzazioni radiotelevisive (in campo nazionale e locale) e a tutti coloro che, in qualunque ambito, intendono diffondere o trasmettere, a qualsiasi titolo, propaganda elettorale nei 30 che precedono la data delle votazioni. A tutti questi soggetti è fatto obbligo darne tempestiva comunicazione sulle testate edite oppure entro l’ambito della programmazione televisiva, allo scopo di consentire ai singoli candidati, alle liste, ai gruppi di candidati a livello locale, ai partiti e ai movimenti politici a livello nazionale l’accesso, in condizioni di parità, agli spazi dedicati alla propaganda elettorale. Inoltre, tutti i soggetti prima elencati sono tenuti a garantire l’assoluta "parità di trattamento" anche nei programmi e nei servizi di "informazione elettorale". Infine, viene prescritto che la comunicazione debba essere effettuata secondo "modalità e contenuti" stabiliti dal "Garante per la radiodiffusione e l’editoria".

Il comma 3° definisce il campo di intervento del "Garante per la radiodiffusione e l’editoria". Egli formula le regole a cui i soggetti interessati (di cui al comma 2°) debbono attenersi per la concreta attuazione del "principio di parità" e per il pieno conseguimento delle finalità perseguite dalla legge. Inoltre, stabilisce i "criteri di determinazione" e i "limiti massimi" delle tariffe che regolano l’accesso agli spazi della propaganda elettorale.

Al comma 4° viene indicato il campo delle azioni che il "Garante per la radiodiffusione e l’editoria" demanda ai "comitati regionali per i servizi televisivi", in applicazione della legge 1990/233 (art. 7). Inoltre, viene precisato che i "comitati regionali per i servizi televisivi" verificano il rispetto: a) delle disposizioni dettate per le trasmissioni televisive dalla "Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi; b) delle disposizioni emanate dal garante, secondo quanto previsto dai commi 1° e 3° della presente legge.

Il comma 5° fa espresso divieto che candidati, partiti, movimenti, membri del governo, delle giunte e consigli regionali e degli enti locali siano compaiono in trasmissioni televisive, se non negli appositi spazi dedicati alla "propaganda elettorale".

2.1b). L’art. 2

L’art. 2 regolamenta la propaganda elettorale a mezzo stampa e radiotelevisiva.

Il comma 1° prevede che, nei trenta giorni precedenti la votazione, è espressamente vietata la campagna elettorale a mezzo di: inserzioni pubblicitarie (su quotidiani e periodici), spot pubblicitari e ogni altra forma di trasmissione pubblicitaria televisiva. Fanno eccezione al divieto: a) annunci di dibattiti, tavole rotonde, conferenze e discorsi; b) pubblicazioni o trasmissioni destinate alla presentazione dei programmi delle liste, dei gruppi di candidati e dei candidati; c) pubblicazioni o trasmissioni di confronto tra più candidati.

Il comma 2° fa espresso divieto di qualunque forma di propaganda elettorale successivamente alla chiusura della campagna elettorale.

Il comma 3° stabilisce che le disposizioni dell’art. 1 e del medesimo art. 2 non si applicano agli organi ufficiali di stampa e radiofonici dei partiti e dei movimenti politici, alle stampe elettorali di liste, gruppi di candidati e candidati impegnati nella competizione elettorale.

2.1c). L’art. 5

L’art. 5 fa assoluto divieto di propaganda istituzionale

Il suo unico comma, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa, vieta tassativamente a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, quantunque inerente alla loro attività istituzionale.

Fanno eccezione al divieto le attività di comunicazione istituzionale assolutamente necessarie per l’efficace assolvimento delle funzioni proprie alla pubblica amministrazione.

2.1d) L’art. 6

Con l’art. 6 viene stabilito il divieto di sondaggi.

Il comma 1° prescrive che, nei 15 giorni precedenti la data delle elezioni e fino alla chiusura delle operazioni di voto, è fatto divieto di rendere pubblici o diffondere i risultati di sondaggi demoscopici, aventi per oggetto l’esito delle elezioni e gli orientamenti politici degli elettori.

Il comma 2° statuisce che la diffusione e la pubblicazione, anche parziale, dei sondaggi devono essere corredate dall’indicazione: a) del soggetto che ha realizzato il sondaggio e delle eventuali collaborazioni di cui si è avvalso; b) del committente e dell’acquirente; c) del numero delle persone interpellate del relativo "universo di riferimento"; d) delle domande rivolte; e) della percentuale delle persone che hanno risposto a ciascuna domanda; f) dei criteri seguiti per l’individuazione del campione; g) della data in cui è stato realizzato il sondaggio; h) del metodo di raccolta delle informazioni e dell’elabo-razione dei dati.

2.2. I "decreti Gambino"

La normativa in vigore prima del ’93 prevedeva criteri di "tratta-mento differenziato" per i leaders di partito che prendevano parte alle trasmissioni di propaganda elettorale ("Tribuna Elettorale").

Tra il 1963 ed il 1975, difatti, l’assegnazione degli spazi televisivi dei diversi partiti e movimenti politici si effettuava in proporzione alla rispettiva forza parlamentare.

Come abbiamo visto, il legislatore nel ‘93 elimina la disparità di trattamento tra le forze concorrenti.

Il criterio del "trattamento differenziato", però, è ripristinato dai "decreti-legge Gambino", i quali hanno nuovamente proposto l’asse-gnazione diseguale degli spazi televisivi ai diversi partiti.

Secondo la "normativa Gambino":

1) nei collegi uninominali, i raggruppamenti a "presenza nazionale" possono usufruire di spazi e tempi televisivi (pubblici e privati), in proporzione diretta alla loro quota di rappresentanza in Parlamento;

2) in tutti i 155 seggi destinati alla Camera col metodo proporzionale, i partiti già presenti in parlamento usufruiscono di spazi e tempi in misura eguale;

3) ai nuovi partiti e movimenti politici è garantito il puro e semplice accesso ai media.

Se il fine precipuo della 515/93 è quello di garantire la "parità di trattamento" (par condicio) ai soggetti della competizione elettorale, i "decreti-legge Gambino" intendono dare risposta ultimativa all’esi-genza di precisare le forme di attuazione della propaganda e della pubblicità in corso di campagna elettorale, a seconda dei diversi generi radiotelevisivi. A questo titolo, non solo reintroducono il criterio dell’accesso differenziato (come abbiamo appena visto), ma operano una distinzione fondamentale tra "propaganda a titolo gratuito" e "pubblicità a pagamento".

Se consideriamo unitariamente la 515/93 e i "decreti-legge Gambino", ci accorgiamo che la nuova disciplina delle campagne elettorali tende a fornire risposte efficaci alla domanda di comunicazione telemediatica che proviene dalla politica e dagli elettori.

Il media televisivo, pienamente coinvolto nella competizione elettorale, è progressivamente trasformato nell’unica "fonte di informazione" e nell’unica "finestra" efficacemente a disposizione del leader politico. L’affermazione del genere telepolitica mette in crisi i princìpi dentro cui si erano per l’innanzi mosse le campagne elettorali:

1) completezza, imparzialità e non tendenziosità dell'informazione politica diffusa dai media;

2) trasparenza e identificabilità della comunicazione propagandistica e pubblicitaria.

I soggetti della telepolitica (medium e attore politico massmediato) tendono a fagocitare l’ambito complessivo della comunicazione politica, sottraendo ai cittadini le possibilità di un’opzione razionale meditata e informata. Le videoinformazioni fornite agli elettori non intendono concorrere alla formazione della "scelta razionale" sul voto; bensì intendono, piuttosto scopertamente, "impressionare" l’elettore.

Il linguaggio della telepolitica è oscuro come quello della politica, seppure in un modo completamente diverso. Tanto quello è involuto e criptico quanto questo è impressionista ed aggressivo; tanto quello è vacuo e reticente quanto questo conferisce materialità e concretezza al "virtuale".

La conseguenza più rilevante dell’entrata in scena e della proliferazione della telepolitica non sta nell’assunzione da parte del mezzo televisivo di un "potere di persuasione" indiscutibile che, peraltro, riposa in larga parte su eventi ed elementi di scenario contingenti che, in quanto tali, sfuggono al controllo di qualunque medium. Piuttosto, sembra risiedere nella sottrazione al cittadino del diritto di appropriarsi delle fonti e degli strumenti necessari per operare una scelta elettorale in condizioni di consapevolezza e compiutezza. Ed è proprio in questo punto focale che convergono il linguaggio criptico della politica e gli incantesimi affabulatori della telepolitica.

La potenzialità del medium televisivo, come chiarito efficacemente da A. Abruzzese, sta nell’essere l’insostituibile mezzo per "es-sere nel mondo" e parteciparvi.

Se applichiamo questo paradigma alla telepolitica, ben ci accorgiamo come tutto l’enorme potenziale del medium venga letteralmente distorto e dilapidato. La telepolitica non consente all’utente di "essere nel mondo" (della politica); bensì gli dà l’illusione di immetterlo. Lo spettacolo della telepolitica consta precisamente in questa simulazione originaria che mette in crisi le enormi potenzialità creative e democratiche pure insite nel medium televisivo.

Qui non è in gioco l’artificialità del dispositivo televisivo; anzi, come ben chiarito da Abruzzese, proprio il carattere "artificiale" del medium televisivo può consentire un rapporto più intenso, di "immede-simazione" partecipata con la realtà. Al contrario, sono in ballo la democraticità dei linguaggi e delle modalità con cui il mezzo qui si "offre" all’utenza, consentendole in maniera appropriata di effettuare le proprie opzioni. Nel caso della telepolitica questa fondamentale e insopprimibile esigenza di democrazia appare ancora più pressante, costituendo il nodo ineludibile per una moderna e corretta videoinformazione.

2.3. Le modernizzazioni asimmetriche

Si deve, senz’altro, osservare che i processi di personalizzazione e spettacolarizzazione della competizione politica che si registrano nella campagna elettorale delle politiche del 1992 segnano la conferma di una "linea di trasformazione" che si era andata già affermando nel corso delle ultime tornate elettorali.

Nondimeno, con l’introduzione della preferenza unica avvenuta nelle elezioni del 1992 qualcosa di nuovo avviene: (i) al livello della struttura di funzionamento del sistema politico, come abbiamo visto; (ii) al livello della comunicazione politica, come abbiamo iniziato a vedere.

Del resto, non poteva essere diversamente. Le linee di trasformazione della razionalità politica messe in evidenza dall’introduzione della preferenza unica non potevano non produrre effetti sul piano della comunicazione politico-elettorale. Ciò anche in virtù del rilevante motivo che sono (anche) i verificatisi mutamenti delle tipologie della comunicazione politica a figurare come concause profonde del progressivo ridisegno in senso maggioritario del sistema politico italiano.

Che la preferenza unica abbia determinato consistenti trasformazioni sul piano della comunicazione politica è rilevabile dalla palmare evidenza che la quantità di TV elettorale mandata in onda nelle elezioni del 1992, sia sulle reti nazionali (pubbliche e private) che sulle reti locali, supera di gran lunga quella registrata nelle elezioni del 1987. Già in quell’occasione, l’offerta e la domanda di TV elettorale saturano il mercato della comunicazione politica.

Con la preferenza unica, il medium televisivo diventa lo strumento principe (se non unico) della comunicazione politica, riassorbendo in sé due funzioni classicamente distinte: quella di veicolo di circolazione delle idee politiche e quella di vero e proprio agente induttore del- l’opzione elettorale. La tendenza, embrionalmente affermatasi nelle elezioni del 1992, nel corso della competizione elettorale del 1994 si è andata implementando su una scala massima.

Accanto a questi, va colto un ulteriore elemento non meno rilevante e specifico della situazione italiana. Dal livello nazionale a quello locale, l’introduzione della preferenza unica ha rafforzato e moltiplicato le "reti di collusione" tra media e politica, in forza di cui le emittenti televisive si sono sempre più strettamente legate, direttamente e/o indirettamente, alle varie parti politiche in competizione.

Tra gli elementi strutturali prima indicati e quest’ultimo appena segnalato è stata, in linea generale, letta una contraddizione, per il fatto che il medium televisivo avrebbe abdicato al proprio potere nascente a favore del potere residuale della politica. In particolare, ciò ha fatto parlare di "sistema televisivo immaturo".

Indubbiamente, la rilevazione coglie un dato reale. Tuttavia, va fatto osservare che il "sistema televisivo" italiano presenta anche indubbi e rilevanti segni di "maturità". Alcuni fanno, anzi, osservare che quello italiano è, senz’altro, da annoverare tra i sistemi televisivi più avanzati.

Come si vede, siamo in presenza di due ipotesi estreme e a nessuna delle due fanno difetto "elementi di verità"; nondimeno, entrambe non appaiono convincenti, forse proprio per il loro "estremismo". Crediamo che sia necessario approntare una "chiave di lettura" più elastica, che sappia cogliere sia gli elementi di maturità che quelli di immaturità presenti nel sistema televisivo italiano, per ricondurli dinamicamente ad un contesto unitario.

In linea prioritaria, va ricordato che il medium televisivo, in Italia, ha svolto funzioni di socializzazione che non gli erano/e non gli sono proprie. Come abbiamo già avuto modo di segnalare nel capitolo precedente, i processi di acculturazione, diversamente che nelle altre società avanzate, si sono incardinati sulla diffusione del messaggio televisivo, piuttosto che sulla capillare e decennale opera delle istituzioni. La televisione si è vista, così, sovraccaricare di funzioni supplettive di socializzazione culturale che hanno cooperato come fattori decisivi e insostituibili della modernizzazione della società italiana.

C. Marletti, in via analogica col noto paradigma del "bipartitismo imperfetto" di G. Galli, ha parlato, a proposito dell’Italia, di "moder-nizzazione imperfetta". Dall’imperfezione della modernizzazione della società Marletti mutua l’"imperfetta modernizzazione" della "co-municazione elettorale". A corollario del teorema interpretativo, egli sostiene che il non moderno uso dei media da parte del sistema politico costituisce una delle ragioni fondanti del carattere imperfetto della modernizzazione italiana.

Non è, questa, la sede per la discussione organica di queste tesi. Qui avanziamo solo alcune riserve di "metodo" e di "merito".

Per quel che concerne il "metodo", Marletti deduce il modello della "modernizzazione italiana" a mezzo di accostamenti "in negativo" con modelli sociologici di taglio universalistico, anziché da analisi di campo capaci di delimitare "in positivo" le linee della complessità e specificità della "modernizzazione italiana".

Con riguardo al "merito", nel discorso di Marletti il sistema televisivo appare completamente sprovvisto di autonomia, costantemente sotto il tiro degli inputs del sistema politico e, in quanto tale, ritenuto incapace di auto-modernizzarsi. Nella realtà, dobbiamo registrare il contrario: il sistema televisivo è assai più moderno del sistema politico: non ha aspettato che questo lo modernizzasse, ma si è modernizzato per sua propria autopropulsione. Basti qui porre mente a quanto l’entrata in scena delle Tv private (in particolare, la Fininvest di Berlusconi) abbia modernizzato il sistema e il mercato televisivi italiani, sottraendoli al monopolio pubblico.

Volendo caratterizzare il rapporto tra sistema politico e sistema televisivo, dobbiamo osservare: (i) che siamo in presenza di due processi di modernizzazione che, pur interagendo e condizionandosi reciprocamente, procedono asimmetricamente; (ii) che la postazione più avanzata è costantemente occupata dalla modernizzazione televisiva. La preferenza unica e la TV elettorale, più di ogni altra fenomenologia politica e comunicativa, ci mettono per l’appunto di fronte a due modernizzazioni asimmetriche.

Le dinamiche che hanno condotto all’affermazione crescente della TV elettorale trovano nei processi storici che abbiamo sommariamente descritto una base di ancoraggio e, insieme, un motivo di accelerazione. È vero che il sistema televisivo e il suo "messaggio elettorale" si trovano costretti a ruotare intorno a "centri" e "interessi" precostituiti; ma è altrettanto vero che essi, in parte più o meno rilevante, concorrono attivamente alla ridislocazione dei centri dell’azio-ne politica e degli interessi intorno cui mobilitare il consenso.

Lo stesso processo di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, lanciato in grande stile con l’introduzione della preferenza unica, non avrebbe potuto verificarsi e non potrebbe reggersi, se il sistema televisivo non fosse in possesso di una relativa autonomia e non fosse caratterizzato da contrassegni di modernità e maturità.

Del resto, il profilo di "pubblicità impressionistica" che con la preferenza unica ha preso a contraddistinguere la propaganda politica rivela il prevalere, sul piano del "messaggio politico", del medium televisivo sul medium politico, la dipendenza crescente della realtà politica dalla virtualità televisiva. Intorno a queste fenomenologie si sono ulteriormente sviluppati e consolidati gli elementi di modernizzazione, di maturità e autonomia del sistema televisivo italiano.

Questo non significa, semplicisticamente, che il medium televisivo, in quanto tale, determina gli esiti elettorali. Più esattamente, si vuole indicare che le strategie comunicative della TV elettorale hanno una "natura" loro propria e che, per il loro carattere avanzato, esigono competenze e qualità specifiche. In tema di TV elettorale, si richiedono manipolazioni e usi conformi alla complessità del medium, dei suoi codici multidimensionali e dei suoi linguaggi cognitivi. Solo la corrispondenza degli "usi" del medium televisivo alla complessità dei suoi "codici" garantisce buoni rendimenti elettorali.

Non sempre il "candidato unico" e la politica si rivelano all’altezza di questi compiti; anzi. Da qui le ricorrenti giaculatorie contro il mezzo televisivo, ritenuto la causa principale (se non unica) della propria disfatta e, specularmente, del successo elettorale dell’avversario. La circostanza, una volta di più, disvela l’asimmetria esistente tra "mo-dernizzazione politica" e "modernizzazione televisiva", manifestando impietosamente il ritardo del sistema politico nei confronti del tele-media system.