CAP. I

LA CITTÀ MERIDIONALE:

RITO, MITO E PROGETTO NELLA MEGALE HELLÀS

(di Luisa Bocciero)

  

 

 

Una delle grandi fortune dei Greci è certamente stata quella di non essere minimamente vocati all'avventura ed alla vita di mare. Senza essere grandi viaggiatori, essi hanno fruito al massimo di ciò che il mare e l'ignoto potevano offrire alla loro fervida immaginazione, creando, al di là del modello di espansione commerciale creato da altri popoli, innanzitutto i Fenici, un sistema di approccio al viaggio ed all'alterità affatto nuovo, basato da una parte sulla creazione di un apparato rituale e mitologico apposito in tema di luoghi e popoli lontani, dall'altra razionalizzando fortemente la propria presenza e creando un modello insediativo greco all'estero, con caratteri di estrema conservazione e quasi tentando di duplicare le realtà urbanistiche e politiche di cui essi erano originari.

Tale sistema di approccio risulta del tutto peculiare alla civiltà greca, proprio perché non contempla l'accettazione del commercio e della marineria come elemento integrante della propria vita, ma soltanto come evento eccezionale, legato a manifestazioni numinose o a prescrizioni divine, oppure alla povertà ed al bisogno, come appare nella concezione esiodea del commercio: ciò non sempre corrisponde a realtà, ma i Greci fanno di tutto per non farcelo sapere, e soltanto tardi (nel V sec. a.C., con le spedizioni panelleniche organizzate da Pericle) accetteranno di passare per potenza marittima che esporta se stessa allo scopo di espandere il proprio dominio in Occidente.

Tuttavia, forti di tale concezione, i Greci non hanno mai cercato la frequentazione, cioè la conoscenza episodica dei luoghi ove essi giungevano, ma, al contrario, hanno sempre cercato di ritrovare nei luoghi stessi la patria che malvolentieri avevano lasciato: l'arrivo dei Greci quasi mai lascerà il segno di una presenza sporadica, ma spessissimo significherà cambiamento radicale, nascita o morte di qualcosa, in ogni caso un evento che lascia tracce profonde ed incancellabili.

Testimonianza di ciò può essere la difficoltà che si riscontra (e ormai oggettivamente in più di un ventennio di studi storici ed archeologici), nel rinvenire le tracce dei più antichi abitatori dei territori storicamente occupati da insediamenti e colonie greche, di quelle popolazioni indigene che quasi sempre la civiltà greca ha cancellato radicalmente come entità culturali, sia mediante assorbimento ed acculturazione, ovvero con strategie relativamente pacifiche, sia mediante la distruzione sistematica e violenta di ogni preesistenza, il che spesso ci impedisce, pur lasciandocelo sempre intravedere, di comprendere e valutare il contributo che le popolazioni autoctone hanno potuto dare alla evoluzione della civiltà coloniale, in particolar modo della civiltà magnogreca.

Il motivo per il quale ci pare opportuno soffermarci sul fenomeno coloniale greco in Italia Meridionale non è certamente la speranza di poter effettivamente contribuire al lungo e fittissimo dibattito sulla nascita della città meridionale e dei suoi rapporti con i modelli insediativi nella madrepatria (sarebbe certamente arduo e fuori della nostra portata aggiungere qualcosa a quanto illustri studiosi hanno detto in un secolo e più di ricerche), ma di tentare, se possibile, la ricostruzione di una mentalità, di un atteggiamento progettuale, forse di un grande sogno collettivo, che vide i Greci creare in terra straniera un sistema di occupazione dello spazio assolutamente nuovo, superando spesso quanto era stato loro vanto creare in patria. Ciò che ci affascina, è il fatto che un popolo attaccato al megaron ed ad Hestia (cioè al focolare domestico e cittadino) quale il popolo greco (e di quasi tutte le regioni della Grecia antica), si sia ritrovato, una volta insediatosi con le sue colonie sulle coste italiane (che d'ora in poi si chiameranno Italiote) del Tirreno e dello Ionio, ad essere orgoglioso del proprio lavoro ed a definire quanto aveva creato Megale Hellàs: come la Grecia, più grande della Grecia. Pertanto cercheremo di analizzare alcuni aspetti rituali, mitologico-religiosi e politico-progettuali di alcune fondazioni greche, in particolare di quelle di età arcaica (VIII-VII sec. a.C.), in Italia Meridionale, allo scopo di rinvenire elementi per una definizione del modello di occupazione dello spazio e del rapporto tra spazio della città e di occupazione del territorio.

LA KTISIS: PROCESSO UNITARIO O ACCIDENTALE?

Quando si parla di fondazioni coloniali, in genere si distinguono tre momenti:

I) l'oracolo di fondazione;

II) la conquista del territorio;

III) la divisione della terra.

Si tratta di tre episodi, perlopiù connessi tra loro da eventi più o meno eccezionali, che costituiscono il processo di razionalizzazione tipico dell'esperienza coloniale: l'uomo non è protagonista dell'impresa, ma soltanto esecutore materiale di programmi divini o vittima di ingiustizie politiche che il Fato ha voluto procurargli; il suo "tradimento" alla patria che lo ha nutrito fin dalla nascita non è mai veramente tale poiché egli non sceglie mai di partire, ma parte perché deve partire: ogni coinvolgimento emozionale nell'impresa è accuratamente rimosso. Il dramma della colonizzazione si svolge perlopiù in questi tre atti, regista in genere una divinità o l'oracolo di un dio e primo attore una figura eccezionale ed affascinante, il primo vero eroe umano della grecità: l'oikistès, colui che fonda, che getta le fondamenta della nuova città.

Vale la pena di soffermarsi, prima di affrontare l'analisi di alcuni rituali di fondazione di città greche coloniali, sulla definizione e sui vari aspetti della figura ecistica.

Il primo elemento che salterà ai nostri occhi sarà la discontinuità di tale figura: non esiste un modello fisico o di ecista nell'immaginario collettivo dei Greci e questo fatto è molto indicativo poiché la tendenza alla eroizzazione delle figure umane protagoniste di grandi imprese è molto forte nella storiografia e nell'epica greca.

In realtà, l'ecista è una figura di eroe-antieroe caratterizzato dal marchio della atipicità: vediamo perché.

1) L'ecista espleta funzioni rituali di grande importanza e solennità. Egli è ambasciatore sacro presso il dio della città madrepatria della futura colonia, comandante della spedizione navale che spesso raggruppa contingenti di uomini che provengono da città e regioni differenti, stratega nella guerra che eventualmente i coloni dovranno combattere per la conquista del suolo predestinato (da notare che nelle tradizioni i coloni non vanno mai alla ricerca di un territorio libero, ma vanno a conquistare quel territorio, che è già loro per predestinazione divina e dunque non è più àgnostosxènios) contro le popolazioni indigene, sacerdote della comunità, che custodisce le insegne del dio durante il viaggio e fonda il santuario poliade della città, attribuendo alla divinità stessa la sua privilegiata porzione di territorio; infine egli è legislatore, colui che fonda lo stato di diritto e gestisce le regole della proprietà e del vivere comune.

2) Nonostante l'importanza dei compiti da lui espletati, l'ecista non è quasi mai un personaggio "eroico" in senso stretto; a rigor di logica, egli non è affatto degno di rappresentare la città da cui proviene, poiché il più delle volte egli è un deviante: cacciato dalla patria dopo rivolgimenti politici, Phalantos di Sparta si reca a fondare Taranto, il gobbo deforme Miskellos fonda Crotone per volere dell'oracolo delfico, un nobile decaduto come Archias, del ghenos corinzio dei Bacchiadi, partecipa alla fondazione di Sira-cusa, un oscuro individuo, Hys di Helike, mai sentito nominare prima, guida ben tre città dell'Achaia (Aigion, Boura ed Helike) alla fondazione della più opulenta colonia magnogreca, Sibari: lo stesso Phalanthos è, alla luce dei fatti, un traditore del kosmos di Li-curgo, che si preferisce allontanare con tutto il suo seguito piuttosto che farne un eroe sopprimendolo. In qualità di deviante, l'ecista non porta con sé particolari codici comportamentali: sono noti i suoi stratagemmi, più o meno leali, per assicurarsi il possesso ed il potere sul territorio prescelto: un esempio è il fondatore acheo di Metaponto, Leukyppos, il quale chiede ai Tarantini di potersi trattenere nel territorio di Metaponto per il giorno e la notte e poi rifiuta di andarsene finché vi saranno giorno e notte, impadronendosi di fatto della città.

3) Dunque l'ecista non è, per definizione, un eroe: non è necessariamente bello e forte (vedi Miskellos di Rhypes), non è necessariamente un campione di lealtà (vedi Leukyppos), non è considerato un benefattore della madrepatria (neppure quando la città coloniale sia diventata grande e famosa) e non necessariamente è un personaggio noto nella sua stessa città. Il fattore di casualità, unito alla devianza, può forse essere giustificato con il fondamentale disagio con cui i Greci guardavano, anche a distanza di molto tempo, alla stagione delle fondazioni coloniali.

Alla luce di ciò è un po’ difficile pensare all'ecista, capo della spedizione che fonda la città, come convinto portatore di valori. L'impressione che invece se ne ha è di disarmante confusione, come se le colonie fossero state fondate da individui isolati e soltanto successivamente riconosciute e riunite in un fenomeno unitario: non è così.

Perché la storiografia e la mitografia greca, generalmente così attente a fornire carattere di legittimità, pietà ed unità a personaggi e fenomeni della storia arcaica non si sono date minimamente pensiero di trasformare questi ecisti in eroi senza macchia e senza paura, strenui difensori della entità etnica cui appartenevano e gelosi custodi di valori e nobili nelle origini? Perché la colonizzazione appare essere sempre un fenomeno proprio dei diseredati e dell'aristocrazia decaduta, nonostante l'innegabile importanza che le colonie avranno proprio nel momento in cui si forma la storiografia di regime in Grecia? Non dimentichiamoci che Atene stessa vedrà tramontare la propria egemonia dopo la sfortunata spedizione in Sicilia del 415 a.C., nata dopo la visita degli ambasciatori ateniesi nella città di Segesta (città ellenizzata del ricchissimo ethnos degli Elimi), e che Sparta coglierà alfine la sua vittoria proprio grazie alla sconfitta che il proprio generale Gilippo saprà infliggere agli Ateniesi in quella spedizione militare: il destino delle grandi potenze dell'Egeo sarà deciso dalle loro proiezioni oltremare. Se dunque vi fosse stata (come in effetti è avvenuto spesso nella storiografia antica) una revisione totale degli eventi della colonizzazione arcaica in Magna Grecia, noi dovremmo avere una serie di nomi di ecisti, tutti rigorosamente di nobile schiatta, nel ruolo di eroici condottieri portatori di civiltà (ellenica, naturalmente), con la patria nel cuore e lo sguardo verso lo splendido avvenire che essi soltanto potranno assicurare al popolo che guidano.

Esistono certamente, come chiunque abbia letto Erodoto e Tucidide sa, versioni dei fatti che hanno questo tono e questi scopi essenzialmente propagandistici, ma gli stessi commentatori antichi li hanno espunti dai propri commenti (l'unico a credere ciecamente nella onnipresenza di Atene è infatti Strabone, geografo di età augustea, affascinato dal mito del miracolo greco al punto da leggere tutta la storia greca antica in chiave atticizzante): in realtà, la propaganda di età classica ed ellenistica non ha potuto modificare tradizioni che avevano preso corpo in ambiente coloniale, traducendo ciò che i coloni sentivano di essere e cioè fuoriusciti, diseredati, avventurieri o ambiziosi commercianti stufi della dimensione limitante del piccolo quanto tempestoso Egeo. A dimostrare il carattere locale che spesso hanno le tradizioni ecistiche, sta il fatto che esse fanno spesso seguito ad una serie di culti, miti e monumenti locali, come il cenotafio di Hys, costruito non solo a Sibari, ma anche a Poseidonia, sub-colonia fondata dai Sibariti, che continuò a considerare l'Acheo quale suo fondatore.

Sarà dunque opportuno considerare originarie le più antiche tradizioni ecistiche, soprattutto quelle sugli ecisti delle colonie achee, ma soprattutto converrà guardare al fenomeno della colonizzazione greca d'occidente come al prodotto di una serie di spinte etnico-regionali, dalle diverse motivazioni contingenti, ma originate da un generalizzato momento di crisi e cambiamento nel continente ellenico.

Una prima considerazione in tal senso è la sostanziale omogeneità dei fenomeni di colonizzazione: essa si muove per campagne, durante le quali vengono fondate più città culturalmente affini o contrapposte specularmente alle contrapposizioni in atto nella madrepatria (Atene-Sparta, Argo-Micene etc.); è dunque difficile pensare a meccanismi di casualità cronologica.

Analogamente difficile è il pensare al casuale muoversi di popoli: le fondazioni achee e corinzie precedono quelle megaresi e focee etc., quasi che le singole regioni della Grecia si fossero date dei tempi e delle scadenze per le proprie proiezioni fuori dalla madrepatria; tali movimenti etnici tendono a raggruppare gli insediamenti in aree omogenee, e ciò non può essere senza significato.

 

COSCIENZA REGIONALE E CONCEZIONE DELLO SPAZIO:

IL MODELLO INSEDIATIVO COLONIALE

Noi sappiamo che una coscienza regionale fu raggiunta in Grecia soltanto alla fine dell'esperienza micenea: all'alba dell'età arcaica dopo quello straordinario quanto sconosciuto periodo che fu la "Dark Age" o "Medioevo Greco", tra l'VIII ed il VII secolo a.C., la Grecia è pervasa da movimenti di omogeneizzazione territoriale e le fonti parlano per quest'epoca dei primi fenomeni di sinecismo; è proprio in questa nuova coscienza etnica e regionale che nasce su omogeneità culturali di fatto e che prende corpo insieme con il fenomeno della nascita della città-Stato che si innesta la strategia coloniale dei Greci, i quali cercano coscientemente di ricreare lo spazio della città (che, come vedremo, non corrisponde sempre al progetto urbanistico, ma ad un atteggiamento globale di fronte all'erigendo insediamento greco) così come essi lo avevano lasciato in patria. Facciamo esempi concreti: la fondazione di Sibari, avvenuta tra il 721 ed il 709 a.C. ad opera degli Achei di Helike, Boura ed Aigai guidati dallo sconosciuto Hys di Helike. La nuova città, il cui nome corrisponde a quello di un corso d'acqua (tuttora esistente) nei pressi della città antica di Boura, sulla costa nordorientale dell'Achaia, sorge tra due fiumi, di cui uno ripete il nome della città (l'odierno Coscile) e l'altro prende il nome di Crathis (odierno Crati); quest'ultimo porta a sua volta il nome di un altro fiume dell'Achaia, nei pressi di Aigai, il quale nasce dal massiccio montuoso del Chelmos ed ha le sorgenti più alte di tutti i fiumi d'Achaia (2341mt. s.l.m.); analogamente, il suo omonimo italiota nasce dalla cima più alta della Sila (1928 mt. s.l.m.) e domina come il Crathis acheo, tutta la piana di Sibari, fino a Crotone; ulteriormente suggestivo può anche risultare il fatto che le città dominate dal Crathis acheo sono proprio Helike, madrepatria di Sibari e Ryphes, madrepatria di Crotone.

Una tale corrispondenza tra geografia e toponomastica di madrepatria e colonia non può essere un fatto casuale: essa corrisponde ad un disegno preciso, ad una scelta cosciente di insediarsi nei luoghi ove rivivesse l'entità regionale da cui i coloni provenivano; lungi dall'essere un fatto nostalgico, tutto ciò ha un preciso valore politico, poiché da ciò noi possiamo ricavare ipotesi di lavoro sul modello insediativo non più greco in generale, ma peculiare di un determinato gruppo etnico e regionale. Sull'importazione di modelli politici si è detto e scritto moltissimo, non sempre a proposito: su molte delle analisi fatte gravano gravi carenze nella documentazione e nelle possibilità di conoscere realmente il funzionamento ed il regime politico vigente nelle città madrepatria prima e durante la fondazione delle colonie stesse.

In attesa che nuovi e mirati studi forniscano dati più precisi sulla dimensione cittadina della Grecia arcaica, sarà opportuno non dare nulla per scontato e provare a ragionare come i nostri sbalorditi predecessori nel Sud d'Italia potrebbero aver fatto al loro arrivo sulle coste ioniche. Per coerenza cronologica continuiamo ad esaminare le colonie achee di età arcaica: purtroppo le vicende storiche di Sibari, distrutta fin nelle fondamenta intorno al 510 a.C., ci impediscono di verificare nell'impianto urbanistico l'apparente corrispondenza riscontrata nel suo territorio (corrispondenza che in ogni caso non avremmo potuto controllare, in quanto anche la sua madrepatria, Helike, non è più ritrovabile, poiché fu inghiottita dal mare nel 373 a.C.!); restano però le sue nemiche, Metaponto e Crotone, di cui si conoscono sufficientemente struttura territoriale ed urbana; da esse possiamo ricavare dati confrontabili con le realtà di origine.

La gestione dello spazio, negli insediamenti coloniali arcaici, ha sempre posto il problema del dialogo tra la città, vista come luogo della convivenza dei cittadini con pieni diritti, della politica e delle decisioni, ed il territorio cittadino, spesso sentito come staccato dalla città, anche se da esso le deriva il più delle volte il sostentamento; il territorio di una città è popolato da agricoltori che non sempre sono cittadini a pieno titolo, ma lavorano per conto dei proprietari dei fondi, i quali hanno ricevuto, all'atto della fondazione della colonia, il proprio klèros, il lotto di terra sorteggiato dall' ecista dopo la definizione del tèmenos (territorio recintato) della divinità poliade e dello spazio koinòn, destinato cioè all'uso comune (luoghi pubblici ove si espletano i processi decisionali e le attività commerciali come il Bouleuterion e l'Agorà). Questa presenza mista è spesso funzionale ad un progetto preciso, dove i non cittadini sono perlopiù indigeni assorbiti nel nuovo programma di sfruttamento del territorio, ai quali è stato conferito un ruolo che pur raggiungendo lo scopo dell'integrazione nel sistema economico, conserva all'elemento ellenico la possibilità di mantenere l'egemonia politica non solo nella dimensione cittadina, dove la struttura stessa della città parla greco, ma anche nel territorio, dove probabilmente essi avevano inciso più drammaticamente nella ridefinizione degli spazi, sia cancellando con la forza gli insediamenti indigeni, sia assorbendoli gradualmente.

È il territorio a condizionare maggiormente il modello insediativo e a modificare parzialmente la concezione dello spazio, a costituire cioè la misura della differenza, del distaccarsi dal modello originale ed ad influenzarlo addirittura con un effetto boomerang (è infatti indiscutibile che la forma della città greca di età classica debba molto all'esperienza urbanistica coloniale, così come soltanto in ambito coloniale si origina la teoria e la pratica dell'impianto urbano ortogonale).

A tale proposito sono due gli atteggiamenti che riusciamo ad identificare: il primo è quello di Metaponto, che pianifica l'occupazione del territorio come proiezione esatta del modulo abitativo della città, creando partizioni territoriali omogenee a quelle cittadine e reinterpretando il kleros come unità di sfruttamento terriero composta dal terreno coltivabile, da una fattoria e da unità produttive e di servizio: un modello pacificatore, ma che presuppone la piena occupazione territoriale ed una identificazione del cittadino tanto con l'agricoltore quanto con il soldato che difende la patria e la terra, pertanto un modello in qualche modo totalizzante e tipico di una città che ha rimosso con la forza le preesistenze etniche nel territorio da essa occupato.

Il secondo modello che appartiene ad una diversa origine etnica, cioè ad ambito ionico, ed è riscontrabile nella città di Siris, distrutta ancor prima di Sibari (intorno al 570 a.C.), fondata da un gruppo di Colofonii provenienti dall'Asia Minore, rifugiati politici che fuggivano la tirannide; qui i dati delle necropoli di Policoro (odierno nome del luogo ove sorgeva la città), ci mostrano qualcosa di molto diverso, una comunità mista ove gli indigeni venivano sepolti con rituale greco ed i greci raccoglievano nelle loro tombe vasellame di cultura indigena, dove non esistono separazioni ma individui di origine diversa venivano sepolti l'uno accanto all'altro; ciò è indice di un diverso modello di insediamento, dove l'interesse non è più quello di possedere il luogo e ricomporre l'unità regionale, ma quello di appoggiarsi alle preesistenze applicando un modo di occupazione più blanda; analogo atteggiamento sarà tenuto dai Focei, che fonderanno città apparentemente prive affatto di territorio come Elea (odierna Velia).

Quest'ultimo tipo di insediamento era indiscutibilmente causato da una originaria diversità di intenti; il territorio viene infatti considerato come zona di incontro e di scambio con le popolazioni indigene e la prosperità della colonia sarà qui proporzionale alla sua capacità di "piacere" al nuovo interlocutore economico, mentre il territorio come conquista fondiaria dalla quale trarre direttamente i mezzi di sostentamento sarà l'obiettivo perseguito dalle cosiddette "colonie di popolamento"; oggi si tende a sfumare queste due definizioni apparentemente contrapposte in una interpretazione più elastica, poiché non sempre le colonie cosiddette "commerciali", figlie dei grandi empori arcaici (Naucratis ed Al-Mina in Oriente, Tartessos ed Emporion in Occidente), disdegnano l'espan-sione territoriale (la stessa Taranto, nata in origine senza territorio, successivamente lotta per espandersi sia con gli indigeni che con i Greci); né colonie che hanno tutti i caratteri del popolamento rifuggono dal commercio su larga scala come mezzo di proiezione nel mondo indigeno (Metaponto e l'emporio di S. Biagio ne sono l' esempio più eclatante): ciò è sicuramente utile e corretto sul piano metodologico, anche se non toglie che sia esistita una diversità di fondo tra le diverse imprese coloniali.

Sulle possibili cause della colonizzazione sono state avanzate molte ipotesi; indubbiamente un ruolo importante deve essere attribuito a fenomeni di incremento demografico nella Grecia continentale, fenomeni che sono abbastanza concordemente riconosciu-ti proprio per il periodo che a noi interessa, ma che non vanno certamente enfatizzati oltre misura.

A questi vanno aggiunte e collegate come altre possibili motivazioni la fame di terre coltivabili, l'eterna necessità di approvvigionarsi di materie prime come i metalli, di cui la Grecia è poverissima, la naturale maturazione di rapporti "pre-coloniali" che avevano fatto sì che nuclei di Greci già conoscessero e frequentassero le popolazioni indigene di molte regioni italiche.

Tuttavia i fenomeni economico-sociali non bastano, alla luce di quanto abbiamo detto finora, a spiegare completamente il feno-meno della colonizzazione in sé, della sua disomogeneità ed in particolare non spiegano il rapporto che intercorre tra l'istituto della città e della città-Stato greca e la città coloniale: possiamo noi considerare quest'ultima come la vera ed unica città-Stato (non tanto come entità autonoma quanto come proiezione di uno Stato che esiste da qualche parte)?

COLONIZZAZIONE E CITTÀ-STATO: ANATOMIA

DI UN SISTEMA POLITICO "INVISIBILE" O DIMENTICATO

A questo punto dobbiamo porci due ordini di problemi: il primo è il tentativo, seppure massimale, di ricostruire il tipo di Stato, se ce n'è uno, dal quale siano potute partire le iniziative di colonizzazione; il secondo è quello di individuare l'apparato mitologico e rituale attraverso cui questo tipo di Stato, molto più sfuggente di quanto possiamo immaginare, si proietta e si riproduce fuori da se stesso (infine giungeremo al problema della forma della città, che allo stato non è possibile affrontare).

Uno sforzo immaginativo e poche fonti, unite alle speculazioni dei moderni sono tutto ciò che abbiamo per proporre una risposta alla prima domanda: esisteva uno Stato dietro alle colonie, e, se sì, quale Stato?

A.M. Snodgrass, nel suo fondamentale testo "The Dark Age of Greece" afferma, senza ombra di dubbio che "il fenomeno della colonizzazione implica una organizzazione statale"; la sua affermazione si fonda sulla considerazione che i movimenti coloniali greci sono opera di gruppi organizzati, di "comunità complete, distaccatesi dalla madrepatria in seguito a procedimenti selettivi su cui spesso non sappiamo nulla, ma che talvolta erano qualcosa di più di una scelta obbligata".Tali comunità avrebbero portato alle sue estreme conseguenze, cioè alla fondazione di colonie stabili, il processo di espansione commerciale di cui i Greci si sarebbero resi autori già nel periodo miceneo, spinti soprattutto dal bisogno di metalli ed altre materie prime.

Ciò è in parte certamente verosimile, ma non ci risolve una serie di evidenti contraddizioni:

1) Le società "statali" greche a noi note per il IX e l'VIII sec. a.C. sono perlopiù società aristocratiche ed ippobotiche (cioè cavalleresche), molto conservatrici e con politiche interne non tanto di espansione, quanto di conservazione del territorio: esse sono nient'altro che le società rispecchiate nei poemi omerici, dove l'alimentazione è essenzialmente carnea, il territorio è considerato importante in quanto area di pascolo e colture arboricole (soprattutto vite ed olivo) e non di colture cerealicole; inoltre il cavallo, animale totemico di queste società, costituisce il fulcro dell'organizzazione economica, sociale e militare: è il cavallo e la possibilità di allevarlo che fa il cittadino, è il cavallo che caratterizza lo schieramento dei cittadini in armi durante le imprese guerresche, è il cavallo che è rappresentato nelle realizzazioni di arte ed artigianato artistico, i suoi finimenti e talvolta il suo cadavere vengono sepolti insieme con il proprietario e qualificano il suo sepolcro come aristocratico.

Le società coloniali viceversa, tranne rare e più tarde eccezioni, sono caratterizzate da comunità che in epoca storica sono quasi tutte oligarchiche, basate sulle colture cerealicole e sul possesso fondiario, con politiche difensive legate alla pratica dell'oplitismo, che compare in Grecia intorno alla metà del VII sec. a.C..

2) I poemi omerici e le testimonianze archeologiche per le città greche dell'VIII sec. a.C. parlano di insediamenti non grandi, gui-dati da individui di grande carisma e fama, che in virtù delle proprie nobili origini sanno dare prosperità e buon governo alla città ed attirare su di essa il favore degli dèi; le città coloniali più arcaiche a noi note sono città dove l'impianto urbanistico fa pensare ad una sorta di isonomia ripartitiva, su territori abbastanza estesi e senza che le tradizioni facciano mai esplicita menzione di re o di famiglie egemoni: anche le classi aristocratiche di alcune colonie siceliote sono perlopiù indicate nelle fonti con il nome generico di Gamoroi, coloro che possiedono la terra, il che è ben diverso da quanto avviene in Grecia, dove è il ghènos (Bacchiadi, Basilidi, Pentelidi etc.), con il suo patrimonio di imprese militari ed il suo bottino di klèos, di gloria che deriva dal valore guerriero a fare la differenza tra il dèmos e gli àristoi e l'individuo che appartiene ad uno di questi ghene viene identificato non solo in quanto detentore in prima persona di privilegio e potere, ma in quanto simbolo vivente dell'aristèia di suo padre e dei suoi antenati.

3) I re omerici considerano il commercio ed il lavoro artigianale quale attività da schiavo o comunque da sottomesso; essi tengono da conto soltanto l'allevatore ed il proprietario terriero, e tra questi soltanto colui che produce vino ed olio; mai nell'Iliade gli eroi achei sono mostrati mentre si cibano di cereali o verdure, ma carni arrostite e frattaglie sono minuziosamente descritte come pasto nei momenti cruciali delle loro peripezie; gli uomini delle colonie arcaiche sono commercianti ed agricoltori, Metaponto pone la spiga di grano (o di orzo come taluni interpretano) a simbolo cittadino sulle sue monete, e la condizione dell'artigiano è di gran lunga più elevata, poiché spesso la città stessa è organizzata urbanisticamente per concentrare e promuovere la produzione e l'esportazione di prodotti artigianali.

4) La difesa della città arcaica è precipuo dovere del cittadino, che è tale in quanto soldato che si autoarma e combatte per la difesa della patria; nella realtà coloniale gli eserciti cittadini tendono a scomparire subito dopo la prima fase di insediamento per essere sostituiti da truppe ottenute mediante reclutamento e/o alleanze con gli indigeni e più tardi mediante il largo utilizzo di truppe mercenarie: i coloni sembrano molto più pragmatici e razionali nel programmare la propria difesa e preferiscono dedicarsi allo sviluppo socio-economico della loro città piuttosto che ad attività guerriere evidentemente poco gradite.

5) Le città greche arcaiche sono urbanisticamente caratterizzate da acropoli imprendibili e mura ciclopiche, mentre è ancora da dimostrare che tali fortificazioni (o qualcosa di simile che denunciasse una tendenza alla munizione pesante del luogo) esistessero in Magna Grecia, dove le città si pongono in pianura o su basse colline prospicienti il mare o il territorio (anzi, tradizioni di recinzione del territorio, anche in ambito paganico più che urbano sono proprie delle comunità indigene).

Dunque, le due società sono, alla luce di ciò, quanto di più diverso si possa concepire, sia da un punto di vista politico che da un punto di vista economico, sia in quanto a valori esistenziali: allora, se è pur giusto affermare che dietro l'impresa coloniale deve esserci stata una organizzazione statale, come possiamo noi riconoscere tale organizzazione nella città omerica, nel prodotto tipico delle società aristocratico-cavalleresche della Grecia di VIII sec., di cui conosciamo non soltanto la descrizione omerica, ma anche le tombe ed il rituale funerario, nonché i luoghi di culto?

Dobbiamo allora riformulare la domanda di quale sia stato il background politico generatore delle realtà coloniali, delle comunità complete cui facevamo riferimento con Snodgrass. In nostro aiuto possono venire ancora i poemi omerici, ma stavolta l'Odissea più dell'Iliade ed in particolare i canti che descrivono la situazione di due luoghi: Itaca e l'isola dei Feaci, analizzati con acume sin-golare da Claude Mossè.

Nella felice comparazione e contrapposizione di una realtà ritenuta immaginaria ed una realtà effettiva, lo studioso francese rinviene i caratteri della "nascita della città", dei suoi spazi pubblici e della sua organizzazione politica.

L'Odissea, essendo stata composta più tardi rispetto all'Iliade, è per noi prezioso ricettacolo di immagini di un tempo in cui gli eroi troiani non erano più un assoluto modello di vita ed in cui qualcosa stava lentamente ma inesorabilmente cambiando negli assetti politico-territoriali della Grecia micenea: questo periodo è quello definito dagli studiosi "The Dark Age" o "Medioevo Greco", ovvero due secoli (tra la fine del X e l'inizio dell'VII sec. a.C.) di storia greca che soltanto adesso comincia ad essere recuperata tra le righe di fonti, tradizioni e cultura materiale, ma che in passato si riteneva fossero stati come un lungo sonno per la civiltà ellenica, durante il quale essa aveva smesso di evolversi e di stupire così i posteri con la sua storia gloriosa.

Durante questo sonno, invece, sono successe molte cose e soprattutto si sono create le condizioni per lo sviluppo della società greca arcaica e classica, nonché, a questo punto, di quella coloniale. La società greca ravvisabile nell'Odissea (specialmente i canti III, IV, VI e VIII, che narrano rispettivamente dei viaggi di Telemaco alla ricerca di notizie del padre a Sparta, Pilo, dell'isola dei Feaci e di Itaca, la patria di Ulisse, ci forniscono un panorama completo di come gli insediamenti umani si organizzassero dopo la guerra di Troia), è certamente di tipo protourbano: non è possibile definire Itaca o Scheria (la città dei Feaci) come autentiche poleis, eppure esse hanno una serie di elementi che devono essere definiti urbani: le mura ciclopiche, il porto, luoghi comuni dove si riunisce l'assemblea del popolo e degli anziani. Nel complesso, ci troviamo di fronte a

les premières manifestations de l'apparition d'une communautè qui pour n'étre pas encore à proprement parler une communautè civique n'en révèle pas moins des traits déjà annonciateurs de ce que sera la citè grecque (...) il semble qu'on puisse dire qu'il s'agit d'une communauté humaine installée sur un territoire et s'administrant elle-mème....

Questa comunità ha un suo rapporto con il territorio, che è comunque distinto dalla città in quanto al di fuori delle mura, e ne ha una considerazione decisamente poco "eroica" e più pragmatica: la terra comincia ad essere "frugifera" ed i mangiatori di carne dell'Iliade sono vivi perlopiù nei nostalgici racconti di Ulisse, mentre siamo sempre più vicini al panorama alimentare arcaico, dove gli uomini mangiano la maza, la focaccia impastata in fretta sul posto, anche quando sono in guerra. La città fortificata, dotata di ampio porto di luoghi di assemblea e templi in pietra esiste nella realtà coloniale come modello di insediamento, ma particolare della colonizzazione focèa, più tarda di quella achea (inizia sul Mar Nero intorno alla fine del VII sec. a.C.) e legata all'utilizzo del territorio come luogo dello scambio e punto di arrivo delle merci e dei prodotti alimentari forniti dalle attività marinare (pesca e commercio), dunque, pur non essendo considerata tra i luoghi reali del racconto, ma una delle terre fantastiche visitate da Ulisse, l'isola dei Feaci rappresenta un modello di insediamento probabilmente contemporaneo all'epoca della composizione dell'epos omerico. L' Odissea veniva scritta, quando però le colonie greche della costa ionica dell'Italia erano già cosa fatta, ed i suoi abitanti hanno già da tempo superato la fase della concezione eroica della vita, diventando nausiklutoi (=famosi per le navi) e philérethmoi (=aman-ti del remo); è sull'abilità in mare che si misura oggi il valore ed i neòi di Scheria gareggiano tra loro per l'onore di condurre in patria Ulisse sulle loro navi. Tutto ciò denuncia chiaramente un cambia-mento negli assetti economici e sociali, ma nella sua fase iniziale, quando l'uomo greco non aveva ancora rinnegato del tutto l'ideale eroico ed ancora si beava nell'ascoltare le imprese degli eroi di Troia: dunque Scheria rappresenta il presente ed è per noi un terminus ante quem per la società che cerchiamo di individuare.

Dal lato opposto, nel mondo reale dal punto di vista del racconto, ma, come vedremo, in realtà molto lontane da esso, stanno le due città visitate da Telemaco: Sparta e Pilo. La Sparta di Menelao non viene descritta da Omero: essa si identifica con il palazzo del principe e dunque con il principe stesso. L'eroe, incontrando Telemaco, rimpiange di non aver potuto attuare il suo progetto di regalare ad Ulisse una città nel territorio di Argo, facendo così in modo che egli vi si trasferisse da Itaca con il suo laòs (=esercito, ma anche popolo in armi) ed i suoi ktèmata (=beni posseduti, averi); egli pertanto presuppone la supremazia di Sparta su di un vasto territorio, e l'esistenza di città soggette al dominio di questa. In realtà, al di là di quanto possiamo evincere dai poemi omerici, la situazione descritta è certamente il risultato di una sorta di collage storico: la città identificata con il palazzo del principe e la sua figura non è altro che il ricordo dell'assetto politico-sociale miceneo, sostanzialmente contemporaneo agli avvenimenti troiani; tale assetto, fondato sul palazzetto fortificato che guarda al territorio ricco di pascoli e colture arboricole e su di una società egemonizzata dal wanax, il signore del palazzo, che ha alle sue dipendenze un vasto apparato burocratico, formato da funzionari e scribi addetti allo smistamento ed alla redistribuzione delle risorse economiche (nello specifico i proventi della pastorizia e della olivicoltura).

Viceversa, la situazione prospettata da Menelao, quella cioè che lo vede in grado di attribuire il possesso di una città all'amico Ulisse, riflette una situazione molto più tarda, e cioè quella della Sparta arcaica, che governa un territorio agricolo in cui sono insediati i perieci, cittadini a metà in quanto non partecipano all'assemblea armata e pertanto non sono spartiati; i perieci saranno protagonisti, insieme alla classe servile che coltiva le terre degli spartiati, ovvero gli iloti, delle sanguinose guerre messeniche, combattute tra l'VIII ed il VII sec. a.C.. Dunque la Sparta del quarto libro dell'Odissea è una città ricostruita con elementi disomogenei, ma oltre i quali si scorge nettamente l'assenza di ogni dimensione veramente urbana. Analogamente avviene per Pilo, città della Messenia governata dal vecchio e saggio Nestore: Telemaco vi giunge nel III libro dell'Odissea e vi trova una situazione abbastanza simile a quella di Sparta, anche se la città è descritta meglio di quanto non succeda per quest'ultima. Essa è cinta da mura, il palazzo del principe è il suo luogo principale, ma pur essendo sul mare, non ha un porto né ha spazi pubblici che facciano pensare ad una assemblea di politai: dunque non è inquadrabile né nel modello "spartano" né in quello "foceo"; anche qui Nestore è arbitro assoluto dei destini della città, ma al suo fianco ha una assemblea di gerontes (=anziani), che lo aiutano nella conduzione degli affari comuni. Anche qui, l'intenzione di fondo è quella di rappresentare il wanax nel suo palazzo, ma in effetti il risultato è una sorta di ibrido submiceneo, che già anticipa alcuni importanti cambiamenti avvenuti dopo il crollo dei palazzi micenei (XII-XI sec. a. C.).

Insomma, sia il regno di Alcinoo che quello degli eroi troiani non possono corrispondere alla realtà storica del IX-VIII sec. a.C. e pertanto non ci illuminano sul sistema che stiamo cercando.

Più interessante è invece la descrizione di Itaca (libro VI): cinta da mura, agglomerato urbano nettamente distinto dal territorio, un porto, spazi comuni; esiste una classe dominante, che risiede all' interno della città definita, come le altre, sia dal sostantivo àsty (=rocca) che da pòlis (=città vera e propria) ed un dèmos, che popola sia la città che la campagna e che fruisce di una serie di strutture comuni e di una serie di diritti politici, chiaramente violati dai Proci che usurpano il trono di Ulisse. Lo stesso trono di Ulisse non sembra essere tale, se egli non è mai detto come colui che domina sul popolo, ma come colui che riceve il potere dal popolo, un popolo costituito naturalmente da aristoi facoltosi e mediamente ricchi, mentre la classe artigianale e la manodopera agricola di base non vengono considerate e si mantengono perlopiù ai margini della città: lo stesso Laerte, padre di Ulisse, è indicato come colui che, allontanandosi dalla città, ha fatto una scelta estrema e di profondo rifiuto dello Stato nascente. Potremmo dunque pensare che l'allontanarsi di Ulisse, che già governava la sua isola in maniera nettamente diversa da Menelao e Nestore, abbia significato la degenerazione del sistema politico da lui fondato, cioè una alata aristocrazia su base terriera che però non disdegnava l'esercizio della marineria e che si era dotata, per quanto riguardava la gestione delle questioni comuni, di organismi assembleari di supporto al potere centrale, ancora appannaggio del re, che però nel contempo ne limitavano lo strapotere: tale aristocrazia si è dunque trasformata, nella visione negativa fornitaci dal poeta dell'Odissea a proposito di Itaca dopo la partenza di Ulisse, in oligarchia, con l'abolizione di fatto della figura del re (lo stesso Telemaco non è considerato erede al trono, anzi, il regno andrà a colui che sposerà la regina, che è soltanto la nuora di Laerte e dunque non ha relazione diretta con la dinastia regnante ad Itaca), una più netta emarginazione del proletariato ed una paralisi effettiva di ogni fermento economico (infatti i Proci consumano le ricchezze tesaurizzate da Ulisse senza produrre nulla). Identificare tale forma di governo con quella pertinente alle pòleis greche di VIII sec. dalle quali partirono le spedizioni coloniali verso Occidente può in qualche modo aiutarci a decodificare i comportamenti sociali dei coloni stessi, fermo restando l'assunto che essi non avevano, probabilmente fin dall'inizio, intenzione di ricreare la forma di governo della madrepatria, ma semplicemente che essi erano informati di alcuni precisi criteri di gestione socio-politica di un insediamento, dai quali emergono in primo luogo il rituale di fondazione e successivamente la forma della città.

QUANDO NASCE UNA CITTÀ:

DALL'ARATRO AL FOCOLARE UNO SPAZIO PER L'UOMO

Allorché parliamo di spazio, a proposito di una città greca (...) dobbiamo tenere presenti due accezioni dello spazio, che si condizionano fra loro e condizionano la vita della polis. Alludo allo spazio, in senso territoriale, che potremmo definire lo spazio-territorio e allo spazio metaforico, inteso some possibilità dinamica, come respiro, come apertura e possibilità di consensi, quello che ora si suol chiamare spazio politico, spazio religioso e così via. Queste due diverse concezioni della spazialità, nascono e sono condizionate dall'esperienza concreta in cui ogni greco si trova a vivere, rispetto alla quale la sua ideologia dello spazio individuale e collettivo è ad un tempo condizione e proiezione (...).Per spazio religioso intenderei le porzioni del territorio che la polis riserva alle manifestazioni collettive della sua religiosità (santuari, necropoli), là dove per spazio catastale intendo il fatto che ogni porzione del territorio è misurata, registrata a catasto e appartiene a qualcuno.

Proprietà e comunità dunque: questi sono i princìpi dai quali dovremo partire per muoverci nel complesso della polis coloniale. Proprietà del dio, che ha incaricato ed accompagnato l'ecista nel viaggio periglioso lungo quelli che V. Effenterre chiama "Les chemins de la mer", proprietà dei singoli partecipanti alla spedizione, che dalla nuova terra si attendono pace e prosperità, proprietà collettiva della comunità che essi vanno a fondare, proprietà che gestiranno insieme, basandosi su criteri di solidarietà abbastanza inconsueti nella madrepatria; tale comunità potrà dirsi compiuta quando sarà stata assegnata a ciascuno la sua parte, nel contesto di un rituale che è prima riconoscimento o meglio investitura territoriale, e poi fondazione vera e propria di una città. Perché riconoscimento? Perché, ricordiamolo, alla loro partenza, i coloni non andavano verso l'ignoto, ma verso una terra loro assegnata, con tutti i particolari, dall'oracolo della divinità. Essi, come abbiamo più volte sottolineato, si premurano di partire verso il noto e non verso l'ignoto, pertanto, la prima fase del rituale di fondazione è proprio questa liberazione dal dubbio il riconoscimento senza esitazioni del luogo predestinato, l'inizio della ricostruzione di un rapporto iniziato per loro dal dio in persona, il quale, come abbiamo visto per Miskellos di Rhypes, non tollera improvvisazioni né cambiamenti nei suoi programmi (Miskellos aveva ipotizzato di colonizzare il territorio della Sibaritide invece di quello di Crotone) e riconduce con violenza ai suoi comandi il trasgressore. Investita la terra del suo ruolo fatale, gli uomini iniziano a prenderne possesso; la fine del vagabondaggio viene sancita dall'identificazione dell'area poliade, e cioè dello spazio della città mediante il tracciato di un solco, che è il simbolo dell'antropizzazione di una Eremos chora (= terra incolta, abbandonata), e che sarà in futuro il tracciato della cinta muraria, il perìbolos dell'insediamento urbano; l'altare sulla spiaggia è già una attribuzione di territorio alla divinità, ma non basta: il dio vuole che fin dall'inizio gli si riconosca il ruolo dominante all'interno della città. Ma quale città? E soprattutto, quale aspetto dare al dio (che chiaramente non è sempre Apollo)?

Abbiamo a tal proposito tre punti di riferimento esterni, cioè relativi a realtà parallele od estranee alla colonizzazione greca:

1) la fondazione della città dei Feaci (OD., VIII, 559-563);

2) la pompè rituale nel tempio di Hera ad Argo ed il mito di Kleobis e Biton (Erodoto, I, 31);

3) la fondazione di Roma.

Nel primo caso, abbiamo una logica connessione con quanto si è cercato di comprendere riguardo alla forma di governo delle città madrepatria delle colonie; la città dei Feaci, lo abbiamo visto, rispecchia in gran parte ciò che sembra essere attualità politica per il poeta dell'Odissea e pertanto essa è direttamente connessa con l'atteggiamento mentale ed i punti fissi di cui abbiamo parlato a proposito della mentalità dei coloni. Analizzando il racconto omerico delle origini di Scheria (OD., VIII, vv. 559-563), è possibile individuare 4 fasi principali:

I) Tracciato della cinta muraria, da parte del fondatore mitico Nausitoo, il quale compie l'azione in prima persona;

II) Fondazione dei templi degli dei, tra cui spicca Poseidon;

III) Costruzione delle case, e di conseguenza creazione dell'agglo-merato e del tessuto urbano;

IV) Ripartizione della terra, tra i cittadini; quest'ultima operazione, che segna di fatto l'inizio del la vita autonoma della collettività, è di specifica prerogativa dell'ecista, il quale è arbitro e garante divino dell'equità ripartitiva: tutto ciò non pregiudica tuttavia che Alcinoo sia arbitro assoluto e signore della città, pertanto dobbiamo essere sempre prudenti nell'assegnare ad una temperie democratica ante-litteram le ripartizioni territoriali che sono tipiche delle colonie.

L'episodio dell'isola dei Feaci, può essere un prezioso relitto, all'interno di un epos composto presumibilmente nel corso del VII sec. a.C., di quanto era avvenuto nel secolo precedente nel modo greco; se così fosse, noi avremmo la più antica testimonianza di un rituale di fondazione coloniale a noi giunta, testimonianza pressoché coeva alla temperie storica della colonizzazione d'Occidente.

Un utile commento a questo episodio in connessione con l'atteggiamento del fondatore di città è in un testo francese, recentemente tradotto in italiano:

Il fondatore si chiama Nausitoo, un contemporaneo un po’ oscuro della fondazione in Sicilia di Megara Iblea, così nuova in quel secolo ottavo già tanto vivace.(...) Diagramma feace per una colonia greca (...): un fondatore concepisce globalmente il piano d'insieme, lavora come un geometra, prevede la ripartizione degli spazi che consentano il funzionamento della vita civica, con la sua agorà, lo spazio pubblico, ma anche con gli dèi, il pantheon che i coloni, originari di Megara, hanno portato con sé. Dèi che sono immagini mentali, prima che statue o immagini adagiate nella stiva. Dèi dentro la testa, rappre-sentazioni mentali di potenze dell'invisibile che permettono di organizzare il mondo, di pensarlo in maniera differenziata, attraverso classificazioni, così come un modello della città costruisce lo spazio umano, il centro, il limite, i confini e i percorsi, a partire da una certa idea dell'essere e dell'agire insieme. Creando città, impiantando decine di comunità in quella che sarà chiamata un giorno Magna Grecia, i fondatori in senso tecnico cominciano dunque a forgiare dèi a misura di un progetto politico.

Nulla di più coerente con l'autonomia progettuale dell'ecista rispetto alla madrepatria: alla nuova città occorrevano divinità pragmaticamente associate a fornire supporto e protezione e pertanto, liberandosi dai vincoli mitologici, si operano suggestive associazioni di divinità in Grecia nemiche, op pure trasformazioni radicali del carattere di alcune divinità; ancora Herakles, eroe scontroso e 'razzista' per eccellenza, diviene il trait-d'union tra Greci ed indigeni nel santuario siculo-siceliota di Poggioreale. Un curioso, ma ancora una volta pragmatico pantheon coloniale, che spiega la regolare assenza di un apparato cultuale nelle colonie che sia direttamente collegabile alla madrepatria. Gli dèi delle colonie insegnano ad arare, ad impiantare attività artigianali, a rispettare selve e boschi, a temere, ma anche a ben utilizzare il mare: presso di loro sono talvolta venerati come dèi anche i grandi ingegni, come Epeios, il costruttore del Cavallo di Troia, ed Ulisse, il grande ingannatore: dunque, essi insegnano a vivere e a cavarsela più che insegnare saggezza e virtù guerriera. Questi dèi quotidiani abitano in mezzo agli uomini, al centro della città e nel territorio da cui essi traggono sostentamento ed il loro spazio costituisce uno dei poli di un tracciato che congiunge eternamente il dio e l'uomo, cioè lo stesso tracciato che troviamo nella cerimonia della pompè di Hera ad Argo.

Ci racconta Erodoto (I, 31) che ogni anno una processione rituale, guidata dalla sacerdotessa di Hera, portava di corsa, su di un carro guidato da buoi, la statua della dèa dalla città di Argo al tempio a lei dedicato; in una di queste occasioni, venendo a mancare i buoi, due aitanti fanciulli, Keobis e Bython, figli della sacerdotessa in carica, si offrirono di sostituire le bestie per permettere il regolare svolgimento dell'importantissima cerimonia, che garantiva annualmente la protezione della dèa sulle attività agricolo-pastorali della città. Dopo l'espletamento trionfale del compito da parte dei due giovani, la madre chiese alla dèa di dar loro la ricompensa più bella ed importante che un uomo potesse meritare, e la dèa, esaudendo il suo desiderio, precipitò i due fratelli in un sonno profondo, che ben presto si tramutò in sonno mortale. Gli abitanti di Argo allora onorarono i due eroi con statue (di cui abbiamo uno splendido esemplare) e li ricordarono nelle feste annuali (Heraia). L'episodio, che nel coinvolgimento dell'essere umano in sostituzione dell'animale trova la sua definitiva consacrazione simbolica, può essere letto, con il De Polignac, come la consacrazione di un rito che altro non è che una aratura collettiva, "il cui percorso processionale sarebbe il solco simbolico tracciato tra la casa degli uomini, al centro, e la casa del dio (...) ad Argo il bue lascia il campo cittadino per guidare la processione sacra degli Heraia fino al tempio".

Il rituale dell'aratura in connessione alla fondazione di una città ritorna nella saga di Romolo, fondatore di Roma, di cui abbiamo notizia nella "Vita di Romolo", scritta da Plutarco di Cheronea nel II sec. d. C.: qui, dopo il tracciato del solco che individuava l'"urbs quadrata", avviene un fatto nuovo, l'omicidio, o meglio il fratricidio da parte di Romolo contro il fratello Remo. Anche nella tradizione argiva avevamo una morte, anzi due morti, ma esse avevano il sapore del premio dato ai giusti, nel risparmiare loro le afflizioni ed i dolori della vita in favore di una vita eterna insieme agli Olimpii. Qui invece siamo di fronte ad un puro e semplice assassinio, compiuto per vendetta e per gelosia, se non, come talvolta si lascia capire, per semplice cupidigia.

L'elemento cruento nel rituale di fondazione non è affatto sconosciuto: la morte dello stesso ecista è spesso contemplata all'indomani della fondazione ed è probabilmente l'aspetto parossistico del sacrificio rituale, nel quale la spartizione delle carni della vittima, all'interno della collettività umana e divina, coincide con la fase successiva della spartizione della terra, all'interno della stessa comunità: nella fondazione di Roma, invece, non c'è spartizione, ma soltanto presa di possesso da parte di un individuo; anzi c'è il rifiuto alla condivisione, anche con il proprio fratello. Quest'ultimo particolare identifica l'estraneità della leggenda di fondazione di Roma alla mentalità coloniale greca, sebbene formal-mente essa ne riprenda alcuni particolari.

Possiamo allora, collegando la testimonianza omerica, quella erodotea, e l'aura rituale lasciata nel racconto della fondazione di Roma, concludere che l'impianto concettuale di un nuovo stanziamento, passava, per l'uomo greco, attraverso le quattro fasi che abbiamo identificate: tali fasi corrispondono ad altrettanti passi fatti verso la forma definitiva della città, una città concepita fin dall'inizio (e a differenza delle poleis greche della madrepatria), come unità urbana dove gli uomini devono vivere, riprodursi, confrontarsi e prosperare sia dal punto di vista economico che dal punto di vista etico. Tale forma (tralasciamo qui il problema dell'urbanistica a pianta ortogonale, che ci porterebbe troppo lontano e per la quale si rimanda a pubblicazioni specifiche), deve, come abbiamo visto, essere coniugata su tre elementi fissi che sono ancora una volta (escludendo qui le mura, che sono un elemento che pertiene originariamente alla fondazione come delimitazione e riconoscimento del sito e più tardi alla difesa della città stessa; inoltre esse non sono un elemento fisso nelle città coloniali) gli spazi templari, gli spazi politici, gli spazi privati.

L'idea di uno spazio per l'uomo ha le sue radici proprio nella definizione di questo equilibrio, già presente in parte nelle realtà politiche greche, ma che qui acquista significato e pregnanza particolari mediante l'aggiunta di un quarto elemento: lo spazio territoriale. Questo elemento contiene sia un aspetto pubblico (il concetto cioè di chora di una città), sia un aspetto privato (la Chora come luogo dei kleroi dei singoli cittadini); la Chora (=il territorio) è l'elemento significante della colonizzazione, il quid che determina lo sconvolgimento di tutti i modelli precostituiti della madrepatria: per essa, la sua conquista o la sua mancanza, si verificano gran parte degli avvenimenti che segnano l'esistenza della polis coloniale. Il legame ad essa, il senso di appartenenza ad un territorio più che ad una nazione, è senz'altro la caratteristica più forte e duratura, rimasta pressoché immutata nei secoli a caratterizzare la città meridionale, dove spesso non esiste unità nazionale né regionale, ma soltanto uomini e terra. La differenza concettuale di fondo tra lo status sociale del cittadino colono e del cittadino della madrepatria si ripercuote tangibilmente sull'organizzazione urbanistica della città: qui la presenza di unità produttive urbane a carattere artigianale (es. Locri Epizefiri) e la contemporanea presenza di cellule agricole indipendenti (es. le fattorie metapontine), connota fin dall'inizio una variegata compagine sociale, dove il cittadino, che non è più vincolato ad una professione oppure alla sua valenza militare, si lega non più all'idea di città o di etnìa, ma alla sua città, alle strutture, ai templi, alle bellezze che essa contiene, e prende dunque continuo e reale possesso degli spazi pubblici. Non è un caso, probabilmente, che Metaponto possieda uno dei più antichi impianti teatrali di Magna Grecia, impianto polivalente in quanto utilizzato sia per gli spettacoli che per le riunioni dell'assemblea dei cittadini; nella stessa città, il fenomeno degli argoi lithoi, cippi in pietra del tipo usato per gli òroi (=confini territoriali e divisioni inter-poderali) rinvenuti, inscritti con il nome di una divinità e conficcati in circolo in uno spazio pubblico, i cippi che dedicano a Zeus ed altri dèi l'agorà stessa, mostrano quanto stretto fosse il legame con il territorio e quanto sottile fosse il confine tra sacro, pubblico e privato (categorie che in Grecia sono autentici compartimenti stagni, almeno in età arcaica). Lo spazio pubblico è coniugazione del presente, vissuto come autorappresentazione dell'esperienza coloniale, e rigidamente articolato in forme, lettere e contesti ur-banistici greci (anche se talvolta rielaborati e rifunzionalizzati). In questa temperie, avviene anche il recupero e la valorizzazione di una coppia divina abbastanza insolita: Hestìa (=il focolare) ed Hermes. Questa coppia divina anomala, formata da due divinità che non hanno apparentemente rapporti di parentela diretta, rappresenta proprio l'organizzazione spaziale, il dialogo continuo tra famiglia e società: infatti, mentre Hestia, personificazione simbolica del Megaron miceneo, rappresenta il centro dell'universo umano, della famiglia, ed in particolare il punto fermo, l'immobilità, Hermes rappresenta la mobilità, il dinamismo, anzi l'onnipresenza; non a caso egli è garante in tutte le transazioni commerciali, è pubblico banditore, è colui che guida i viandanti, protegge i ladri e conduce le anime dei defunti all'Ade. Non vi è sede fissa per Hermes, e dovendogliene dare una, i Greci scelsero il luogo più dinamico della città, ovvero l'agorà, sede del commercio, punto di partenza per i viaggi, luogo ove si ascoltano discorsi e bandi, dove si svolgono i funerali importanti e, perché no?, luogo tradizionale per l'attività dei borseggiatori: la città coloniale ed in particolare la città magnogreca avverte molto forte il legame tra Hermes e la comunità, ed infatti uno dei cippi metapontini di cui abbiamo parlato, dedica proprio ad Hermes l'agorà ove è infisso, mentre molto diffusa è la rappresentazione del dio nella ceramica dipinta italiota. Nel contesto del nostro discorso, il focolare domestico si trasforma in altare, posto nel tempio cittadino presso l'agorà e rappresenta, nel rappresentare simbolicamente la polarità Hestia-Hermes,

(..) la tensione esistente all'interno della rappresentazione arcaica dello spazio: lo spazio esige un centro, un punto fisso, dotato di valore privilegiato, a partire dal quale si possano orientare e determinare delle direzioni, tutte diverse qualitativamente, ma lo spazio si presenta contemporaneamente come luogo del movimento, il che implica una possibilità di transizione e di passaggio da qualsiasi punto a qualsiasi altro (...) tuttavia, nel pensiero religioso, lo spazio e il movimento non sono ancora individuati come concetti astratti. Rimangono impliciti, perché fanno corpo con altri aspetti, più concreti e dinamici, del reale. Se Hestia appare capace di centrare lo spazio, se Hermes può mobilizzarlo, è che essi presiedono, come presenze divine, ad una serie di attività che concernono, certo, la sistemazione del suolo e l'orga-nizzazione dello spazio, che anzi in quanto praxis hanno costituito la cornice entro la quale si è elaborata, nella Grecia arcaica, l'esperienza della spazialità, ma che oltrepassano tuttavia di gran lunga il campo di ciò che chiamiamo oggi spazio e movimento.

Non abbiamo dunque bisogno di trovare statue e rappresentazioni di queste due divinità ad ogni angolo della città, essi sono i numi concettuali di gran parte delle attività umane nella città e pertanto essi sono astrattamente presenti in ogni casa, che è sorta sotto gli auspici di Hestìa, nel tempio, ove essa si cela nel fuoco che arde sull'altare consacrato alla divinità poliade, e poi nei luoghi pubblici, ove Hermes sorveglia, organizza, ordina il movimento. Questo stato di cose è tanto più vero nella città coloniale, in quanto, lontano dalla sacralità dei collegi virginali delle Vestali romane (che pure custodiscono il fuoco sacro di Hestia/Vesta) e delle ierài ateniesi, anch'esse votate alla castità, Hestia torna ad essere ciò che era nel mondo miceneo, e cioè il simbolo puro e semplice del focolare domestico, dell'unità della famiglia e della sua fecondità, mentre Hermes è il simbolo dell'operosa attività del consesso dei cittadini.

In conclusione possiamo riassumere quelli che sono i caratteri salienti nell'organizzazione spaziale della città meridionale antica, così come li abbiamo individuati nel corso di questo scritto:

I) La dialettica con il territorio. La città, fin dalla sua nascita, è uno spazio aperto, ove le risorse vitali fornite dal territorio costituiscono parte integrante dell'impianto cittadino e del suo rapporto dinamico con il mondo circostante. Tale rapporto può esistere soltanto a condizione che l'avvenuta ricomposizione dell'unità territoriale disciolta nel viaggio dalla madrepatria abbia reintegrato le forze concettuali dei Greci: riacceso il focolare domestico, ricollocata la divinità più adatta alle circostanze della colonizzazione, definiti gli spazi del vivere comune, essi sono perfettamente in grado di avere rapporti, di forza, ma anche di scambio pacifico, con mondi e popoli che essi non conoscono;

II) Il ruolo della proprietà privata (cioè quello "spazio catastale" che abbiamo trovato nell'analisi del Nenci). Nella realtà coloniale, a differenza di quella greca, la proprietà è davvero privata, vale a dire che (nonostante molti abbiano cercato di dimostrare il contrario) non sembra si siano applicate alle città italiote, le ferree regole del Kleros (ereditarietà, inalienabilità, legame del contadino e della propria famiglia alla terra etc.), se ciò è avvenuto, lo è soltanto nella primissima fase di vita della colonia, a scopo più che altro cautelativo, mentre si provvede subito a prevedere l'espansione della città e la nascita di nuovi cittadini che avranno diritto alla terra: per queste future generazioni si tiene da parte un cospicuo lotto di terra, che resterà inedificato nell'immediato, per poi essere distribuito a nuovi coloni giunti dalla Grecia oppure a nuove generazioni di polites; viceversa, dietro l'apparente isonomia distributiva, si cela una grande capacità speculativa, che porterà, ad es. nel Metapontino, al progressivo concentrarsi di proprietà ed al conseguente nascere di imprese agricole di grandi dimensioni, parallele alle piccole proprietà. Inoltre non sembra che il cittadino della colonia sia controllato nei suoi redditi e costretto ad armarsi in quanto tale, ma fatta salva la difesa della città in caso di attacco, egli potrà ben presto disporre di una alternativa fiscale al combattimento personale, e cioè ad un esercito professionale; ciò, lungi dall'allontanare l'individuo dalla comunità, lo integra ancora di più in essa, poiché gli sforzi comuni sono concentrati nella promozione della città stessa e delle sue forze più vive: le monete "parlanti" e la particolare abilità, ad es. dei giovani Crotoniati ai Giochi Olimpici (infatti tra la fine del VII sec. a.C. e l'inizio del V, non vi è quasi un anno che le liste olimpiche non riportino il nome di almeno un Olimpionico crotoniate), sono testimonianza di questo atteggiamento estremamente pragmatico, che le colonie dimostrano anche nella loro "proiezione di ritorno" sulla madrepatria (offerte votive nei grandi santuari oracolari e partecipazione ai Giochi Panellenici).

III) Lo spazio dell'uomo e lo spazio del cittadino. La corrispondenza tra la struttura del teatro e quella del Bouleuterion fa pensare alla normalizzazione del conflitto pubblico/privato; il cittadino coloniale si sente padrone della propria città e preferisce gli spazi aperti, porticati, scenografici, ove incontrare da privato i suoi compagni e discutere da politico le questioni comuni; su tutto regna la divinità, non a caso posta sia al centro dello spazio cittadino, dal quale come Hestia genera la direzione del movimento, che ai limiti di questo, in proiezione sul territorio, dove si riproduce il movimento nella dialettica con i popoli limitrofi e con le altre città, vale a dire altri privati, altre collettività. Analogamente le strutture pub-bliche (ginnasi, palestre, passeggiate monumentali) sono altrettanti elementi di tranquillità, evoluzione della prima, importantissima fase della fondazione, il riconoscimento del sito di cui abbiamo am-piamente parlato.

IV) La vita all'interno di un territorio regionale. È il dato più arcaico eppure più persistente nell'organizzazione insediativa delle colonie Greche in Occidente. La creazione di un'area achea, di un' area calcidese etc. non significa tanto segregazionismo rispetto al mondo indigeno o rispetto ad altre etnie greche, ma è invece la testimonianza della meravigliosa ingenuità del Greco, mai marinaio di professione e per nulla attirato dall'avventura, di fronte al suo destino di colonizzatore, il quale si crea l'impressione di muoversi in un territorio che conosce, e dove trova gente che parla la sua lingua; a riprova del fatto che non siamo di fronte ad una programmazione politica (come ormai da troppo tempo si cerca di dimostrare), ma di fronte ad una singolarissima reazione antropologica, sta il dato che le città greche d'occidente non hanno mai costituito unità politiche grecofone eccezion fatta per occasionali alleanze belliche, inevitabili per difendersi dall'attacco di genti straniere o per limitare proprio la tendenza all'egemonia di una di loro. Il rifiuto categorico a ricostituire uno Stato e l'evidente indipendenza dalle organizzazioni statali della madrepatria si spiegano pertanto in questo modo, oltre che con l'inconsistenza dello Stato greco nell'età della colonizzazione: i nostri coloni lasciavano sì la Grecia delle città, ma di città che non riuscivano più a sfamare i propri cittadini, dove al di là delle idealizzazioni esistevano ceti subalterni che non erano messi in condizione di essere pienamente partecipi della vita della città stessa, città in qualche modo isolate, chiuse in una conduzione economica e territoriale che ne impediva di fatto la crescita. Non a caso saranno proprio le colonie a stimolare le attività artigianali e commerciali di Corinto ed Atene, a promuovere l'esportazione e poi la coltivazione sul posto di viti ed olivi, a mantenere contatti commerciali anche con il mondo indigeno di Occidente Italico ed Asia Minore. Fu proprio la coscienza che qualcosa andava rivisto nel modo di vivere della società urbana a determinare il finto "salto nel vuoto" di quanti crearono la civiltà magnogreca.

Viaggio, Riconoscimento, Insediamento, Città: tappe di un grande rito sociale di età arcaica, che siamo ancora lontani dal conoscere profondamente, ma che forse dobbiamo sforzarci di ritrovare e capire al di là di storicismi irrigiditi e luoghi comuni, come quello della Nazione greca e della Democrazia coloniale, viziati probabilmente dalla speculazione platonica, che nulla può avere a che fare con le realtà arcaiche, poiché essa opera in un momento storico (il IV sec. a.C.), in cui tutto ciò di cui abbiamo parlato è praticamente scomparso o irriconoscibile, le città sono ormai tutte uguali ed il sentimento della grecità è soltanto un relitto fittizio dell'età d’oro, che in fondo lo stesso Platone rievoca e tenta di rendere attuale. Occorre quindi rimettersi al lavoro, anche sbagliando, per smantellare se possibile tutto l'apparato di interpretazioni e superfetazioni che ci hanno fatto sentire, di volta in volta, lontanissimi o eccessivamente vicini a questi nostri antenati ed hanno trasformato in noiosi fumettoni mitologici o dotte utopie politiche quella che, nonostante tutto, ci sembra ancora una storia semplice, di gente semplice, che ha trovato il coraggio di infrangere le proprie paure con l'unico progetto di creare uno spazio, uno spazio per l'uomo, per tutti gli uomini.