APPENDICE

IL POSTO DEL CONFLITTO

(Editoriale di Presentazione di "Società e conflitto"*)

 

  

Questa rivista nasce in carcere, da un'idea del Gruppo di Ricerca su "Società e conflitto", costituito nella Casa Circondariale Nuovo Complesso di Bellizzi Irpino (AV). I suoi redattori sono passati per l'esperienza della dissociazione politica dalla lotta armata.

Proponimento della rivista è quello di aprire un osservatorio costante, sul piano teorico, politico e storico-sociologico, su alcune zone particolarmente dense della formazione, dello sviluppo e della crisi degli organismi associati e dell'interazione sociale, dalle società antiche a quelle contemporanee.

Particolare attenzione sarà dedicata a queste ultime, con speciale riguardo alla geografia politico-sociale della società italiana, così come è venuta determinandosi dalla seconda guerra mondiale in avanti.

La rivista si articolerà in quattro sezioni.

Una Finestra teorica, in cui si tenterà un sondaggio attorno ai nodi teorici di maggior rilievo che caratterizzano il nesso società/conflitto, così come sono stati messi in problema dal pensiero politico classico, moderno e contemporaneo.

Una sezione per gli Approfondimenti politici, in cui si cercherà di fare luce sui modelli di intervento politico e sui paradigmi retrostanti che hanno regolato la prassi istituzionale, nelle società avanzate e in quelle a cd. "socialismo reale", in rapporto con i movimenti sociali e la struttura delle trasformazioni sociali.

Una sezione dedicata alle Ricognizioni storiche, in cui si procederà ad una classificazione dei cicli della trasformazione della società italiana dalla Costituzione repubblicana ai giorni nostri.

Una sezione per le recensioni In margine a un blocco tematico oppure a un argomento teorico o storico di particolare rilevanza.

Con una rubrica periodica, infine, si darà conto dell'attività prodotta dal Gruppo di Ricerca.

Non necessariamente tutte le sezioni troveranno spazio nel medesimo numero della rivista. Sono previsti interventi del Gruppo di Ricerca, di suoi singoli componenti e di personalità del mondo culturale e politico.

L'intendimento è quello di concorrere a determinare un anello di congiunzione tra carcere e società, proprio su quella linea di confine che vale come sbarramento e, allo stesso tempo, come prima presa di contatto. L'auspicio è che vadano riducendosi i motivi dello sbarramento e alimentandosi quelli del contatto e della comunicazione, allestendo un comune e differenziato spazio di cultura.

La scelta di impiantare un progetto editoriale sulla relazione di implicanza tra società e conflitto non appare molto in linea con parecchi degli orientamenti storiografici e politici emersi in questi ultimi anni. La nozione stessa di conflitto sembra aver perduto ogni capacità critico-ermeneutica, quando non è stata giudicata destituita di storicità e attualità. Basti pensare che in tutti gli anni Sessanta ha avuto gran corso la tesi di Ross e Hartman sul "declino secolare degli scioperi".

Non è la prima volta che devesi registrare un fenomeno di tal fatta. Tanto per rimanere in casa nostra e senza spostarsi molto indietro nel tempo, le teorie dell'integrazione sociale negli anni Cinquanta e Sessanta sono state la vera e propria moneta di scambio del ceto intellettuale più organicamente vicino alla classe politica di governo.

Proiezioni condizionanti di questo punto di vista si sono allungate anche a sinistra con le teoriche andate sotto il nome di "terzomondismo" che agivano da contrappeso alla presunta integrazione della classe operaia occidentale le lotte di liberazione dei popoli oppressi del Terzo Mondo.

Persino nell'esperienza della lotta armata in ambito europeo si riscontrano ripercussioni omologhe. La Raf passa alla teoria-prassi della "guerriglia nella metropoli", concependola come "base di appoggio" per le lotte antimperialiste dei popoli oppressi. Le Br fondano la loro teoria-prassi della lotta armata sulla presunta estinzione dei margini del conflitto nelle democrazie avanzate.

Il nostro tempo pare vivere una vera e propria rimozione del conflitto, patito come presenza ingombrante. L'ansia di sicurezza orienta il rituale e le credenze della società ufficiale e delle sue istituzioni, le quali non soppesano le contraddizioni sociali per quello che veramente sono e veramente valgono. Il conflitto è interpretato come minaccia simbolica e materiale richiamante l'ordine: il secondo compare come rimedio preventivo e antidoto del primo. In siffatto discorso e nei rispettivi linguaggi che lo codificano, i confini tra prevenzione e repressione tendono a sfumarsi. Difficile risulta discernere, quando si è in presenza di repressione e quando, invece, di prevenzione.

La repressione, in questi modelli, è preventiva, sempre meno affidata al mero impiego della forza e sempre più a quello del potere e della comunicazione simbolica. La prevenzione è repressiva, sempre meno finalizzata al recupero e all'accoglimento della domanda sociale e sempre più volta alla destrutturazione e vanificazione del complesso carico delle aspettative della cittadinanza

Da dove prende origine questo dilemma?

Come mai civiltà ad alta complessità e, dunque, a elevato potenziale di conflitto, si pensano come "società di contrattazione" e di amministrazione?

Fino a che punto il fenomeno offre in cifra tonda l'avvenuta applicazione alla politica dei paradigmi delle scienze sociali e delle scienze pure, coi loro corollari di stabilità e assiomatizzazione, e da che punto in poi, invece, è su un arcano profondo che occorre riflettere?

Per molti versi, il rapporto che la società assume col conflitto assomiglia a quello che, in genere, gli uomini intrattengono con l'ignoto. Come gli uomini temono l'ignoto, così la società teme il conflitto.

Ci ricorda Elias Canetti: "Nulla l'uomo teme di più che essere toccato dall'ignoto" (Massa e potere, Milano, Adelphi, 1982, p. 17). Si tratta di una reazione psichica e, al tempo stesso, politico-esistenziale.

La paura dell'ignoto è attaccamento al proprio con- fine. Ciò vale per tutti gli uomini e per la società. L'ignoto incute timore proprio perché pare non avere confini e contorni di definibilità. Gli uomini e la società, pensandosi gettati nell'ignoto, si sentono strappati dalla loro autodefinibilità: avvertono un pericolo immane per la loro propria identità. Uomini e società, in questo atteggiamento protettivo di rimozione, finiscono col credere che tutto è definibile e conoscibile a priori.

La priorità della definizione rende estraneo ciò che pare privo, fin dall'inizio, di una chiara definibilità. Come gli uomini ritengono che non ci siano e non debbano esserci spazi di indeterminazione dentro se stessi, così la società conclude che non possano esserci margini di dubbio, residui non chiaramente definibili dentro il suo tessuto connettivo. Nasce, in tutti e due i casi, una comune, forte e univoca disponibilità al noto, a ciò che già si sa e che, in un qualche modo, si è già esperito. E tutto finisce col ruotare nelle orbite della conferma e della stabilità.

La società si sente disposta a costruire soltanto abitazioni sicure, in cui niente sia sottoposto allo scricchiolio dello scorrere del tempo. Anche ogni singolo uomo è potentemente attratto a reticolare il proprio spazio e la sua interiorità in una dimora sicura, in cui niente sia tratto nel dubbio. Da qui quella disponibilità e quella vocazione, tanto acutamente e capillarmente investigate da Canetti, a farsi massa, in cui scompaiono persino le differenze tra sessi. Solo come massa gli uomini paiono disposti ad affrontare l'ignoto; ma per difendersene e scacciarlo. Solo come società di massa la società pare disponibile a considerare il conflitto; ma per farlo rientrare nei confini stabiliti dal proprio ordine.

Ma cosa succede, quando ogni singolo uomo stabilisce i confini della propria singolarità? E quando ogni società data fissa i confini del proprio ordine?

Tutta la storia dell'umanità grava sulle spalle di quel singolo uomo. La storia di tutte le società, a partire dalle origini, pesa e si riversa nella storia di quella società. La creazione dei confini dell'identità personale ripete il gesto preciso che ha fatto in proposito il primo uomo, attualizzandolo. La delimitazione dei confini dell'identità sociale innova il gesto primordiale attraverso cui le prime società si sono costituite come tali. In mezzo, c'è la storia di millenni.

V'è un che di primitivo e primigenio che non abbandona mai più l'uomo e la società, li accompagna nei cicli vitali e mortali della loro evoluzione e della loro trasformazione. Come ha mirabilmente mostrato Vico. Il timore dell'origine e dell'ignoto originario abiterà sempre il tempo e il corpo dell'uomo e della società. Questo arcano antropologico dimorerà in eterno nelle viscere dell'uomo e della società. Tanto più si alimenterà, quanto più i cicli storici fabbricheranno novità e aduneranno pregnanti potenziali di trasformazione, apportatori di sconvolgimento nei territori delle identità sociali e personali.

A confronto della pressione della storia, ogni uomo e ogni società avvertono l'ancestrale bisogno di sentirsi eguali a quello che già erano e si sentono morire oltre il confine dato e riconosciuto dell'identità stabilita, come presi alla gola da un laccio che li soffoca. L'uomo e la società, per sopravvivere, si difendono dall'emergente della storia sociale e della stessa storia delle passioni e dei sentimenti, quasi distaccandosene. Ma proprio il distanziamento dalle onde vive della storicità e delle disposizioni dell'interiorità espone alla morte per consunzione e inaridimento, distacca traumaticamente dal tempo e dagli altri uomini. Uomini e tempo, anzi, sono avvertiti come presenze estranee e ostili.

Ogni singolo uomo solo nel suo pari e nel suo simile tende, così, a riconoscere l'amico; il resto è mistero, ignoto da cui difendersi: il non simile è uno straniero e lo straniero può essere il nemico. Un sentimento di confuso pericolo per la propria identità personale conduce alla costituzione di una comunità di esseri pericolanti, il cui unico tratto di unione è un comune e angoscioso moto di paura. Quanto più la paura cresce all'interno, tanto più scarica aggressione e forza all'esterno. Bersaglio sono singoli non omologhi, comunità diverse, di cui si temono e disconoscono i valori, avvertiti come rovina, catastrofe per la propria identità.

La comunità sociale è un vasto laboratorio di comunità limitate, di interessi, di razze, di etnie, di aggregati, di formazioni, di gruppi, di strati sociali, ecc. i più disparati possibili. A tacere della prima e fondamentale distinzione tra i sessi.

È proprio vero che tra di loro debba esistere soltanto la "guerra di tutti contro tutti" oppure la "contrattazione" e lo "scambio"? È proprio vero che non si può uscire dall'alternativa: o guerra o contratto? Tra guerra e contratto quale il posto del conflitto? E quale segnatamente nelle società complesse?

Da questa rete interrogante è nata la presente rivista. Lungo il filo della ricerca delle risposte si snoderanno la sua storia e la sua vita.

Nella storia del pensiero politico occidentale, volendo per un attimo considerare solo l'evoluzione che si ingenera con l'epoca moderna, il conflitto ha sobbalzato da una posizione all'altra, come se fosse stato fatto precipitare in una giostra in vorticoso movimento. Si è passati dalla speciale considerazione accordatagli da Machiavelli alle valenze disturbatrici e sediziose imputategli da Hobbes. Dal particolare valore positivo che gli riconosce Rousseau alla vibrata messa in stato di accusa formulata dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre e Donoso Cortes. Dalla esaltazione in funzione di liberazione dell'umanità che reperiamo in Marx e Lenin alla tirannica demonizzazione operata dal nazionalsocialismo. Dalla tolleranza del liberalismo all'intolleranza con cui Schmitt lo fa soccombere sotto i colpi di maglio della decisione sovrana nello stato d'eccezione. Dalla integrazione delle teorie sistemiche e funzionaliste (da Parsons a Luhmann) alla espulsione messa in opera dalle teorie corporatiste. Dal recupero in prospettiva di una "teoria della giustizia" e dei "beni fondamentali" (da Rawls in avanti) al rigetto messo in atto dalle politiche neo-liberiste.

Su tutte queste stratificazioni e intorno a queste dispute, non sempre incruente, difficile risulta triangolare in un pregnante territorio di senso il nesso relazionale democrazia/conflitto/complessità. Vero pilone di sostegno di una riflessione critica e definitoria sulla condizione del ‘politico’ contemporaneo.

Conviene mantenere aperto lo sguardo su antichità, modernità e contemporaneità, se non si vogliono smarrire i passaggi di continuità e nemmeno le svolte di discontinuità. E, così, isolare nella maniera più corretta possibile i contorni di un'epoca data e i suoi concetti storici e politici. Epoca e concetti visionati e analizzati sia nella loro posizione di quiete che in quella di moto, dando ragione della complessità semantica della loro struttura sincronico-diacronica.

Quanto più a ritroso si riesce a fissare il quadro del ‘politico’ tra antico e moderno, tanto più agevole risulterà l'ispezione del ‘politico’ contemporaneo e la sua crisi. Tanto più foriera di risultati apprezzabili sarà la ricerca che si pone l'obiettivo specifico di isolare alcuni temi forti della teoria politica e il conflitto tra questi. Così impostato ed evocato, il conflitto non può che porsi come termine mediano tra democrazia e complessità. Le quali ultime costituiscono situazioni teoriche e pratiche tra di loro separate da una distanza polare.

Una riconsiderazione del conflitto, con tutto quel che ne consegue, può valere a contestualizzare una interazione comunicativa tra democrazia e complessità. Altrimenti non ci si salva dal dilemma: o il caos o l'amministrazione integrale del ‘politico’. Tenendo ben conto che, perlomeno da Luhmann in avanti, le procedure di amministrazione del ‘politico’ sono, per l'appunto, inquadrate come reazione e soluzione alla complessità sociale, dando luogo ad un curioso paradosso. La complessità sociale, in questa posizione, viene configurata come una delle cause fondanti della crisi della democrazia e, nondimeno, la riduzione della democrazia ad amministrazione si pretende abbia ragione della complessità sociale.

Ma l'amministrativizzazione della democrazia altro non è che una forma estrema della sua crisi: non è soluzione dei dilemmi e dei paradossi democratici, ma loro acuizione. La teoria amministrativa della democrazia, se è così lecito esprimersi, conferisce all'amministrazione la sovranità nella complessità sociale. Una attualizzazione riduttiva di Schmitt, come si vede.

Nella sequenza Schmitt/Luhmann la problematicità e lo spessore epistemologico della posizione di Schmitt si assottigliano paurosamente.

Luhmann fonda la sua teoria della sovranità dell'amministrazione come esplicita critica e radicale superamento della tradizione "vetero-europea". Per contro, Schmitt definisce la sua teoria della sovranità della decisione nello stato d'eccezione, riflettendo sullo Jus Publicum Europeaum e su Hobbes. Secondo il funzionalismo sistemico di Luhmann, la contingenza ambientale col suo tasso di crescita complessificatrice è la minaccia dell'ordine e della stabilità del sistema.

Ora, anche il decisionismo schmittiano ha tra la sue finalità la riconduzione dell'ordine alla sicurezza. Però, all'opposto di Luhmann, Schmitt non risolve mai l'uomo nell'ambiente, riducendo il secondo a misura del primo. In Schmitt, l'uomo con la sua decisione eccede sempre l'ambiente, nei cui confronti è situato in una posizione di insopprimibile trascendimento e, insieme, di ancoraggio.

E con Luhmann, tuttavia, Schmitt (o meglio: qualcosa di Schmitt) muore irreparabilmente. La complessità è il vero "stato di eccezione" permanente della tardomodernità, lo specifico della condizione contemporanea.

Si è alle prese con una eccedenza di continuità e discontinuità rispetto al Moderno delle origini. L'eccedenza si mantiene anche a confronto dei più significativi fenomeni della prima metà del XX secolo. Costante dei processi storico-sociali è l'ipertrofizzazione del tasso di contingenza dell'ambiente; è l'iperproblematizzazione delle aspettative della cittadinanza. Qui muoiono l'ermeneutica esistenziale della decisione e la destinalità dell'esistenza politica dell'Europa con tanta forza affermate da Schmitt.

In Luhmann, decisione ed esistenza sono corrose dal funzionalismo sistemico. Se in Kelsen è la norma a costituire le forme della passivizzazione sociale e del dominio del metodo sugli oggetti, delle cose sulla vita e del potere sugli uomini, in Luhmann è la proliferazione e la differenziazione delle funzioni sociali a ricoprire questo ruolo, all'interno di un quadro storico in cui si ritiene perfettamente realizzata la fungibilità di tutti i bisogni. Ma, a differenza di Kelsen, incardinandosi la passivizzazione su funzioni e procedure metodologiche di ottimizzazione del comando politico, non ci troviamo di fronte a un'ipotesi di normalizzazione, bensì di neutralizzazione sociale. Ciò che di decisionista rimane nel paradigma di Luhmann è strettamente avvinghiato e finalizzato alla neutralizzazione. Ed è la neutralizzazione che scalza il conflitto e si propone come medium tra democrazia e complessità.

Così, Luhmann, nonostante l'accusa di "vetero-europeismo" elevata contro le teoria politica contemporanea, rimane avviluppato nei moduli di "pace e sicurezza" che nel Seicento europeo hanno celebrato il loro massimo fulgore.

Le tesi del "declino del conflitto" occupano uno spazio precipuo e consistente nella teoria politica e nella teoria sociologica contemporanee. Il primo scossone l'hanno ricevuto intorno agli anni Sessanta con la forte ripresa dei conflitti di lavoro in tutta l'area capitalistica sviluppata. In seguito, declinanti sono parse proprio le tesi del declino del conflitto, al cospetto dell'insorgenza conflittuale di attori sociali che con la loro azione e le loro domande hanno oltrepassato i confini propri dei conflitti di lavoro.

A fronte del problematizzarsi dei conflitti nelle società avanzate, si sono fatte più problematiche le teorie del conflitto, integrandosi, da un lato, con le teorie dei giochi e, dall'altro, con le teorie del bargaining. In tutti i casi, il complicarsi e sofisticarsi delle teorie del conflitto lungo queste nuove soglie semantiche rimandano a un sostrato di ascendenza utilitarista: le teorie della decisione razionale.

È ben noto che, in questi ultimi anni, si è cercato di leggere la stessa teoria democratica in termini di scelta razionale. Con il che si è registrato un rinvio puntuale a Schumpeter e, insieme, una infedeltà smaccata ad alcuni motivi schumpeteriani di fondo. Come ha recentemente dimostrato A. Pizzorno (La ‘ra-zionalita' della scelta democratica, "Stato e mercato", n. 7, 1983).

D'altro canto, nel caso italiano il contestuale problematizzarsi e istituzionalizzarsi del conflitto trova sbocco:

(i) sul versante della decisione politica: nel modello della democrazia consociativa;

(ii) sul versante della prassi istituzionale: nel modello dello scambio politico.

Lo scambio politico specificamente declinato dal sistema politico-istituzionale italiano, dalla seconda metà degli anni Settanta alla prima metà degli anni Ottanta, ha come retroterra storico il governo di solidarietà nazionale (1976-78) e base sociale la "strategia dell'Eur" (1977-78), la quale modifica consistentemente le politiche sindacali. In particolare, la prima metà degli anni Ottanta costituisce la palestra in cui si esercitano e si collaudano questi modelli di approccio al conflitto, con l"'accordo di S. Valentino" (1984) a fare da primo cospicuo approdo.

Le lacerazioni da questi fenomeni prodotte nell'unità del movimento sindacale e della Sinistra sono evidenti.

Il fatto è che col comparire ed espandersi della complessità sociale il conflitto non è più leggibile sulla "lunga durata". Generalmente parlando, nelle società altamente sviluppate sempre meno ci si troverà di fronte a cicli lunghi di conflittualità, con esplosioni di particolare intensità; sempre più si sarà al cospetto di conflitti il cui quantum di intensità tende verso valori medio-bassi e su confini spazio temporali ristretti e la cui qualità problematica si inerpicherà verso tornanti medio-alti.

Non appare assai azzardato pronosticare che i cicli lunghi flusso/riflusso/flusso, che hanno caratterizzato, p. es., l'andamento parabolico della conflittualità sociale in Italia, non troveranno più modo di prodursi in futuro. In Italia, con gli anni Ottanta un'epoca dei cicli del conflitto sociale si è chiusa. Perciò, appare perlomeno problematico assimilare questi anni agli anni Cinquanta.

Con la titolarità soggettiva del conflitto mutano le forme di espressione della conflittualità e i suoi ritmi. Il conflitto appare meno appariscente, perché si quotidianizza, estendendosi a tutte le manifestazioni della vita sociale, individuale e intersoggettiva. Quello che a tutta prima sembra un paradosso ha, invece, una rigorosa cogenza logica. Ciò che il conflitto perde in verticalità lo guadagna in orizzontalità.

Intorno ad un vertice e a figure di vertice si era andata per l'innanzi aggregando la mobilitazione collettiva. Ora, scomparsi nella composizione sociale vertice e figure di vertice, la mobilitazione conosce un notevole potenziale di proliferazione, ma fa fatica ad aggregarsi. Troppe figure, troppi interessi, troppe reti di senso, troppe aree tematiche convivono con pari dignità. Difficile resta l'individuazione di campi di tensione che, nel clima dissonante delle differenze, riescano a delimitare un percorso comune. Difficile la definizione di una comunità delle differenze, se non si individuano i punti intorno ai quali le differenze non cessano di rimaner tali e, tuttavia, principiano a comunicare fecondamente tra di loro.

Intorno a quali teorie dei beni si danno nelle società complesse il dialogo e l'aggregazione delle differenze? E intorno a quali beni fondamentali? E con quali linguaggi? E alla ricerca di quale senso?

Ecco le questioni non da poco con cui oggi deve misurarsi una teoria del conflitto all'altezza dei tempi. Dalla cui formulazione può diventare possibile impiantare una critica della democrazia, atta a recuperarla fruttuosamente alle ragioni della complessità.

Occorre perdere l'abitudine ai grandi e sconvolgenti movimenti del passato prossimo. Le tavole fondamentali intorno cui si era data la loro mobilitazione e aggregazione non esistono più e dove ancora resistono scricchiolano sotto l'attrito con la storia. Solo l'identificazione di una nuova mappa di beni fondamentali può valere come cemento unificatore. Con la consapevolezza che ora mobilitazione e conflitto si giocano su tempi brevi e spazi ristretti. Le "onde lunghe" del passato non sono che un ricordo.

Questa incipiente tendenza ha una incalcolabile portata positiva.

Conflitti e mobilitazione collettiva si sgravano, liberandosi della zavorra paralizzante di radici teleologiche e finalismi ingombranti. Le domande di senso inoltrate dai conflitti e dalla mobilitazione collettiva reclamano risposte su orizzonti temporali brevi ed entro una spazialità locale. Nel breve tempo e nello spazio stretto la società politica è messa in questione, nella prospettiva di una più adeguata fluidificazione del tasso di complessità sociale e ambientale.

È una pressione costante, silenziosa, paziente che va sempre più allargandosi a tutti i temi della vita: dalla politicità dell'uomo alla intimità del soggetto; dalla costituzione e difesa dell'identità alla declinazione di più aperti ed emancipanti processi di identificazione collettiva; dalla differenza sessuale alla protezione dell'ambiente; dalla critica alla guerra alla cooperazione multirazziale. Occorrerebbe leggere con più attenzione tali nascenti tendenze puntiformi in questi opachi anni Ottanta, troppo sbrigativamente e univocamente catalogati come "anni del riflusso". E se, invece, di riflusso si trattasse di una caduta di tensione dei modelli di interpretazione della realtà e delle culture con cui la Sinistra aveva finora inquadrato la storia e il rapporto di padronanza da intrattenere con essa?

Di tutto l'ampio e articolato cammino tratteggiato si tentano in questo numero della rivista i primi sparuti passi.

Il Gruppo di Ricerca interviene sul nesso tra conflittualità sociale e lotta armata nel caso italiano, con la Relazione presentata all'omonimo Convegno organizzato in Avellino nel mese di novembre 1988 dal Consiglio Regionale della Regione Campania e dal medesimo Gruppo di Ricerca su "Società e conflitto". Nella Relazione il tema viene inquadrato nella specificità della cornice storica italiana, di cui si identificano in premessa gli aspetti strutturali determinanti. Viene, del pari, tentata una lettura rigorosamente politica della lotta armata, nelle cui seno i componenti del Gruppo di Ricerca hanno in passato militato.

È parso, quest'ultimo, un atto dovuto, di fronte all'imperante tentativo di investigare la lotta armata ora facendo ricorso a categorie morali, ora a categorie esistenziali, ora a categorie mutuate dall'antropologia dei costumi, per loro natura sfalsate rispetto al connotato specificamente politico del fenomeno. Non che le categorie morali, quelle esistenziali e antropologiche non abbiano una loro conformità in relazione all'indagine del fenomeno. Ma disgiunte da un substrato analitico politicamente determinato, più che restituire la lotta armata alla sua verità storica e alla critica della storia e della politica, contribuiscono a gettarla in un cono d'ombra. Possono da qui ingenerarsi sovrapposizioni improprie. La Relazione del Gruppo di Ricerca intende muoversi su quella linea di equilibrio tesa a identificare sia le continuità che le discontinuità, veramente dirompenti, tra conflittualità sociale e lotta armata. Paiono, difatti, poco convincenti sul piano teorico e poco legittime sul piano storiografico tanto l'ermeneutica che privilegia i motivi e i luoghi del continuum, quanto quella che fa del discontinuo il suo motivo ispiratore.

Un componente del Gruppo di Ricerca passa in rassegna i modelli della scienza politica italiana dagli anni Sessanta ad oggi, riconnettendoli alle loro fonti teoriche e ai loro paradigmi di riferimento. La postazione da cui questi modelli vengono investigati è quella fornita dalla relazione mobile tra interpretazione e intervento. Ciò può consentire di leggere, tra le righe, il rapporto assai forte sussistente tra scienza politica e politica. Quando l'intervento della scienza politica non appare condizionante, la sua ermeneutica pare fievole. All'inverso, non sempre la debolezza dei suoi patterns interpretativi impedisce che essa intervenga con pesantezza e con effetti condizionanti nelle realtà politiche. D'altronde, il terreno del legame tra scienza politica e politica è particolarmente suggestivo e sfuggente. Per alcuni versi, è rimasto fermo, come incantato, a quella intensa rappresentazione che ne ha fornito Machiavelli con le figure del Principe e del suo Consigliere. Indagare su questo sfuggente rapporto è parso utile, ai fini di una esplorazione di un significativo scorcio della storia italiana di questi ultimi 28 anni.

Proprio alla luce dell'avvertita esigenza di approcciarsi alla complicata trama che si dipana tra democrazia, conflitto e complessità, la sezione delle recensioni si concentra sul libro di M. Walzer, Sfere di giustizia. In Walzer, la teoria dei beni fa inestricabilmente perno con la teoria dell'eguaglianza e della complessità. Il particolare concetto di pluralismo che ne fuoriesce può essere assunto come una prima approssimazione di quel processo di arricchimento teorico e storico della nozione di democrazia oggi indifferibile. È parso, pertanto, particolarmente importante confrontarsi con la posizione di Walzer.

Nella rubrica informativa sulle attività del Gruppo di Ricerca si ospita l'intervento elaborato dal Gruppo di Ricerca per il quarantennale della Costituzione italiana, celebrato in novembre con un Convegno all'interno della Casa Circondariale Nuovo Complesso di Bellizzi Irpino. Infine, si riporta il documento che costituisce, in un certo senso, l'atto di fondazione del Gruppo di Ricerca su "Società e conflitto".

Esaurita la rapida panoramica sugli argomenti del sommario, non rimane da dire che con questo numero zero la rivista si presenta al pubblico e, nel contempo, inizia a sperimentare se stessa: chiede una verifica ed essa stessa si sottopone a verificazione. Il che non sarà senza conseguenze per gli sviluppi successivi.

Cercare una rotta di navigazione felice non è, certo, compito agevole. Mantenerla, tra i marosi del "nuovo" e i residui del "vecchio", risulta ancora più arduo. Tanto più quando si tratta di riconnettere in trama modelli culturali, paradigmi politici e svolgimento storico. Le derive e i naufragi principiano proprio da quelle tendenze, a lungo e deleteriamente diffuse e di cui Vico può ritenersi senz'altro il primo e più grande critico moderno, che spezzano il filo di questa trama; oppure che non conferiscono alla storia piena cittadinanza culturale e politica.

Gli esiti a cui questa rivista è destinata sono direttamente determinati dalla sua capacità o incapacità di mantenere aperto e palpitante il nesso dialogico tra cultura, politica e storia. Con tutto quello che segue in termini di rielaborazione della ricerca storica, culturale e politica.

Ognuno ha il suo Rubicone da guadare. Non diversamente questa rivista. Per la quale, a onor del vero, trattasi di un Rubicone non grande, ma assai localizzato, per quanto agitato e serpeggiante.