CAP. I

IPOTESI E PROSPETTIVE: IL "PROGRAMMA DI RICERCA*

 

 

 

1. Alcuni luoghi d'origine

Si può dire, con approssimazione sufficientemente vicina al vero, che il conflitto ha mediato storicamente il rapporto tra politica e società. E questo fin dai tempi più remoti.

Nella civiltà greca, p. es., che costituisce certamente la culla in cui l'Occidente si è svezzato, il conflitto è collocato nella posizione di trovare sempre una soluzione politica, secondo la prospettiva aristocratica, oligarchica o democratica. Ed è la politica, concepita come soluzione del conflitto, che qui conserva e pone in sviluppo la società. L'intreccio società/conflitto costituisce uno degli assi di scorrimento che ha definito la struttura e la cultura dell'Occidente.

Oggi, il nesso società/conflitto richiede un'indagine particolarmente densa e capillare. Non siamo più al tempo dei Greci, per quanto tutti da lì proveniamo.

Come non ci basta il modello politico di Protagora, che costituisce la formalizzazione del primo "paradigma democratico", così non appaiono più sufficienti le definizioni di Aristotele che configurano l'uomo come "animale politico".

Già il pensiero politico moderno si rende conto di questo complesso di deficienze e si fonda e costituisce come esplicita reazione alla Polis. Per parte sua, il pensiero politico contemporaneo, procedendo qui per grandi schematizzazioni, sembra incamminarsi lungo due direttrici fondamentali:

1) o tenta il recupero della Polis avverso il Moderno: è, questo, il caso esemplare di H. Arendt, E. Voegelin e L. Strauss;

2) oppure si muove verso l'assolutizzazione procedurale del "politico" che, mentre azzera letteralmente la Polis, recupera il Moderno, previa la sua riduzione a tecnica, calcolo previsionale e programmatorio; pare questo il caso del "discorso decisionista" e di tutte le teorie elitiste della democrazia, nonché dei modelli della stabilità, della efficienza e governabilità politica.

Ora, occuparsi della relazione di implicanza tra società e conflitto non può che voler, di fatto, dire "prendere posizione" sulla Polis e sul Moderno. Si tratta, con tale presa di posizione, di sfrondare il groviglio dei nodi mistificanti calati sui due termini e recitanti, col falsetto dell'ideologia, supposte dicotomie radicali e altrettanto presunte continuità lineari.

Un discorso su società e conflitto è ineliminabilmente un discorso sulla Polis, sulla Città e sullo Stato: cioè, sulle radici e sulle finalità ultime del Politico. Non solo e non tanto sulla Polis quale ci è stata tramandata dai Greci; bensì sui luoghi della Polis oggi.

Quali possono essere, oggi, questi luoghi? In che termini è corretto e possibile parlare di Polis? E di trasparenza delle decisione politica, effettivamente orientata, nella "società giusta", verso l'interesse di tutti o, perlomeno, della maggioranza?

Lungo queste prospettive, acquistano rilievo di riferimento critico quelle stesse teorie contemporanee sui "beni fondamentali", sui "diritti fondamentali", sulla "giustizia come equità", ecc.: ad un tempo, svolta e congiunzione tra Polis e Moderno.

Tommaso Moro, per saggiare la densità e lo spessore dell'utopia della repubblica platonica, "inventa" il non luogo di Utopia: la "società giusta" e la "civiltà felice" trovano, così, il loro spazio e i loro tempi nella storia.

La politica diventa estremamente produttiva e creativa nei luoghi e nei tempi non previsti dal contingente storico: la "città ideale" e lo "Stato minimo" perfetto scendono dal cielo e si pensano e si fabbricano sulla terra.

Una eguale sfida teoretica e pratica attende gli uomini e le società contemporanee. L'averla solo in parte accettata, quando non la si è apertamente elusa o tradita, costituisce uno dei problemi della condizione politica contemporanea.

2. Il campo di azione

Tuttavia, non è questo problema politico che ci proponiamo specificamente di investigare, pur esso rimanendo permanentemente situato sullo sfondo della nostra ricerca e, per molti versi, ispirandola.

Il nostro campo di azione è assai più ristretto. Assunta la "centralità" storica e culturale del legame tra società e conflitto, intendiamo procedere all'analisi del suo modo di porsi e comparire nella società italiana degli ultimi 40 anni. In questo modo, sveliamo subito uno dei nostri obiettivi precipui: cogliere e dipanare uno dei fili lungo i quali si è svolta la storia delle trasformazioni della società italiana nella fase repubblicana.

Uno degli attributi che caratterizza l'assetto e la forma di una società data, e che ci parla del suo "destino", è il suo modo di porsi di fronte al conflitto. In questione sono: (i) la soluzione di conservazione o sviluppo approntata, a confronto delle problematiche sociali; (ii) il restringimento o allargamento del campo dei diritti (singoli e collettivi) e dell'area delle libertà, a fronte del cumularsi e incrementarsi delle aspettative sociali; (iii) il proteggersi o il palesarsi dei luoghi della decisione politica, al cospetto di quella efflorescenza di iniziative e fenomeni sociali differenziati e frammentati, i quali paiono costituire lo specifico delle società contemporanee.

Ogni società soffre il conflitto; al suo interno, lo soffre, particolarmente, il sistema politico. Nelle società ad alto potenziale di conflitto, come quelle avanzate, tale sofferenza sembra stridere acutamente. Nondimeno, è attraverso il conflitto, la sua assunzione e risoluzione, che procede una storia sociale di sviluppo e di emancipazione. Il modo con cui una società affronta i propri conflitti, risolvendoli oppure, all'opposto, mortificandoli e costringendoli in strettoie senza uscita, svela impietosamente il decorso delle sue fenomenologie e delle sue patologie.

La quota di soluzione e la qualità risolutiva del conflitto rientrano tra gli indicatori principali dello stato di salute di ogni società. Una società in buono stato di salute non è, certo, quella in cui il conflitto è a "somma zero"; né quella in cui il potenziale dei poteri politici e istituzionali cresce più intensamente e più rapidamente del potenziale dei conflitti; e nemmeno quella in cui l' insorgenza conflittuale brucia e desertifica i luoghi e i tempi delle istituzioni.

Vi sono ancora altri modi attraverso cui attecchisce la rimozione del peso specifico e del posto occupati dai conflitti: la simulazione della loro assenza e/o della loro risoluzione. La società, in questo caso, si protegge dai conflitti, ritenuti elementi di turbativa che, se non è possibile estirpare, si devono neutralizzare. Si deve decidere e procedere, in altri termini, come se non esistessero. Le procedure di siffatto decidere politico risultano essere finzione. La scienza politica si fa razionalità astratta strumentale, calcolo pianificatorio che si impernia e regge su se stessa; la teoria politica, per conto suo, diviene arte di governo, basata su una tipologia decisionale che seleziona e azzera i conflitti.

In entrambi i casi, dai diritti di cittadinanza vengono espunti, per così dire, i "diritti del conflitto" ed è appiattita la conflittualità tra cittadinanza e rappresentanza politica.

La società che, in tal modo, si garantisce dal conflitto, è una società di oligarchie e gruppi tutelati e protetti dalle quote di potere che gestiscono. Una società di questo tipo fa dell'esclusione e dell'emarginazione di scala una delle sue strutture portanti.

Il complesso assai multiforme di queste dinamiche ha caratterizzato la storia politica e sociale della democrazie avanzate negli ultimi 45 anni. In tale scenografia sovranazionale va inserito il "caso italiano". Ed è in un "teatro" internazionale che intendiamo cogliere e isolare dinamicamente le fasi di sviluppo del "caso italiano".

Che la società italiana, dalla formazione dello Stato unitario, abbia particolarmente sofferto il conflitto è sin troppo noto. Tuttavia, la particolarità di questa sofferenza non ha impedito che l'Italia, dal secondo dopoguerra in avanti, compisse grossi avanzamenti ed immani trasformazioni, sul piano politico-sociale e su quello dei costumi.

Non sempre tali trasformazioni sono negativamente caratterizzabili; mentre, ovviamente, di esse non è possibile tessere l'apologia indiscriminata.

Quello italiano, ad un primo colpo d'occhio, pare un caso emblematico di sviluppo passato per le maglie di una progressiva chiusura del sistema politico nei confronti del conflitto. "Sviluppo politico" contro conflitto: si potrebbe dire, in termini neo-hobbessiani.

Senonché tale formulazione appare indebita e fuorviante. Sono stati proprio i conflitti sociali che, puntualmente, hanno messo in crisi la volontà di onnipotenza del sistema politico, costringendolo a mutare l'asse delle sue pianificazioni e la stessa tipologia dell'intervento istituzionale. Così è stato, a cominciare con P. zza Statuto, le lotte dei metalmeccanici del 62-63 e con il biennio 68-69; così coi movimenti sociali degli anni 70, fino a tutto il ‘77 e immediati dintorni.

Così più non appare con l'aprirsi del ciclo degli anni ‘80. Obiettivo della nostra ricerca è, tra l'altro, tentare di districare il nodo di quest'ultima evidenza e verificarne i contenuti di verità.

3. Cicli storici e fasi della ricerca

 

3.1. Saltando la fase propriamente della "ricostruzione nazionale", il primo ciclo che vogliamo sottoporre a scandaglio, è il periodo che sta a cavallo tra la fine degli anni '50 e l'inizio del '60, tra crisi del neo-centrismo e abbrivio dell'esperienza del centrosinistra.

È in questa fase che va maturando la gestazione del passaggio da "società arretrata" a "società avanzata", la quale esploderà in pieno nei secondi anni '60.

L'economia italiana e il corrispettivo ciclo accumulativo entrano a pieno titolo nel circuito internazionale, con il capitale monopolistico pubblico in posizione di traino.

La società conosce processi di grande trasformazione, contenuti e compressi dagli equilibri politici dati e dai meccanismi istituzionali messi in funzione.

Come ogni rilevante passaggio di trasformazione, anche questo si porta dentro la latenza di grandi e inedite forme di conflittualità sociale, di cui P. zza Statuto e le lotte dei metalmeccanici del '62-63 sono soltanto un'avvisaglia.

Il ciclo lungo dello sviluppo senza lotte, che va dal Piano Marshall a tutto il miracolo economico, può dirsi concluso.

L'architettura dello Stato repubblicano e del relativo sistema politico, fino agli stessi equilibri e squilibri tra coalizione di governo e opposizione di sinistra, conosce primi punti di frattura.

Il paesaggio sociale del paese risulta sconvolto dai fenomeni della urbanizzazione ed emigrazione; nel Sud prende origine un esodo su vastissima scala di risorse, uomini e culture con il corrispettivo trapianto dall'esterno delle forme e degli insediamenti della "civiltà industriale" su aree regionali ristrette.

 

3.2. Il secondo ciclo che isoliamo va dal 1964 al 1967 e, sostanzialmente, coincide con quello che si può considerare il canto del cigno dell'esperienza del centrosinistra. La programmazione economica, I'allargamento dell'area di governo con l' inclusione del PSI, la "via riformista" della soluzione e sanzione dei conflitti e delle trasformazioni sociali mostrano la corda.

I nuovi centri della decisione politica, le nuove prassi e strategie istituzionali non reggono il passo delle trasformazioni sociali. Soprattutto, non spezzano i vecchi "blocchi di potere" in funzione della fissazione di nuovi ambiti di unità politica, atti a rideterminare in misura efficace ed effettiva il rapporto di redistribuzione delle risorse e della ricchezza.

È all'interno dello stesso centrosinistra che si annidano le massime resistenze: (i) alla "via riformista"; (ii) al completo riassetto della dinamica della decisione politica; (iii) alla riconversione funzionale della forma di Stato e dei poteri nelle nuove condizioni storiche. La pesante eredità delle esperienze liberale e fascista, mai del tutto superata dalla fase centrista e neocentrista, fa scontare le sue estreme e negative conseguenze.

La crisi del centrosinistra irrigidisce tutte le forme della rappresentanza politica e del funzionamento istituzionale, di cui pure si erano promesse innovazione e ristrutturazione. Lo stato di disagio del sistema politico-istituzionale va letto in parallelo alla crisi del capitale monopolistico pubblico.

Il ritmo di sviluppo del "sociale" surclassa il tasso di crescita del "politico": l'offerta politica si attesta al "grado zero". Nemmeno l'opposizione di sinistra riesce a trovare risposte adeguate alla crisi del "fare politico".

A sinistra, una delle poche forze che cerca di porsi seriamente il problema dei nuovi modelli sociali dell'accumulazione e della decisione politica, fino a mettere in codice le teorie intorno al "neocapitalismo" e alle "lotte operaie nello sviluppo capitalistico", sono i "Quaderni Rossi" di Raniero Panzieri. E una vera e propria "eresia", emarginata e contestata duramente dalla sinistra politica e da quasi tutta la sinistra sociale, senza che, peraltro, si entrasse nel merito delle sue proposte e dei suoi limiti.

Questo ciclo può essere assunto come quello del ristagno politico e istituzionale.

3.3. Il terzo ciclo che sezioniamo è il biennio '68-69. Su questo biennio molto si è detto e molto si è scritto e verso di esso dobbiamo particolarmente convogliare l'indagine. Esso, difatti, è il primo punto di arrivo del dispiegarsi della società avanzata italiana come "società complessa".

Vengono meno tutti gli equilibri politici, i modelli culturali, le prassi di governo, i modi d'essere dell'opposizione politica e sociale, i costumi e comportamenti fino ad allora codificati come riferimento valorativo e retroterra ideologico.

Col biennio '68-69, la crisi di crescita della società italiana e i limiti delle istituzioni e delle forze politiche, sotto tutte le latitudini, saltano letteralmente in aria. La "società civile" si ribella alle istituzioni e alle forze politiche, cui tenta di strappare lo scettro del comando, delegittimandole sul piano culturale e simbolico, prima ancora che su quello strettamente politico.

L'autorità della democrazia parlamentare, così come messa in campo e in azione nel processo che prende abbrivio con l'esperienza tripartita del 1944-47, disvela, in più punti, la sua obsolescenza, sorpresa come è nella sua insufficienza e nel suo ritardo.

Il conflitto, con le sue reti comunicative, mette in crisi l'autorità politica. A volte, si pone dichiaratamente fuori del quadro delle legalità date, rivendicandone apertamente il riaggiustamento. L'arena dei nuovi diritti tracciata dal conflitto fa appello a un nuovo quadro di legittimità, da cui parte la pressione della domanda sociale orientata al mutamento, per una ratificazione anche sul piano formale e legale.

Il conflitto va visto come sollecitazione di nuovi contesti e nuovi modi d'essere dell'autorità, dotati di capacità di dialogo e di assorbimento critico del potenziale di trasformazione messo in gioco dalla nuova qualità delle aspettative e rivendicazioni sociali.

Il biennio '68-69 può essere assunto come la grande occasione mancata. E mancata da tutti:

1) dal sistema politico-istituzionale: si irrigidisce e drammatizza la perdita di centralità delle sue funzioni, vivendola con angoscia, in una sorta di sindrome di autodissoluzione. Tra le ragioni della sua centralità in crisi, improponibile nella "società complessa", e le ragioni dei conflitti sociali, senza esitazione, sceglie le prime;

2) dalle forze della coalizione di governo: l'autorità dell'esecutivo viene ferreamente coniugata in termini di stabilità e ordine e il conflitto, conseguentemente, è visto come variabile da espellere. Anziché interrogarsi sulle cause e sulle domande di senso del conflitto, rimettendo in questione il dispositivo che regola l'azione e la strategia di governo, si passa, senz'altro, alla risposta normalizzante e repressiva. Si omette di assumere il conflitto come una delle fonti del cambiamento delle "regole del gioco" e della stipulazione di un nuovo "patto sociale".

Il legame sociale, così, si sfilaccia e deteriora, rendendo altamente problematiche interazione sociale e comunicazione tra interessi divergenti;

3) dall'opposizione di sinistra: non recepisce il nuovo che si agita nel "sociale" e che il conflitto rende palese oltre ogni dubbio. Il suo faticoso, ma progressivo affrancamento dai modelli culturali della tradizione rimane, così, bloccato e inceppato. Il "partito nuovo" e la "via democratica al socialismo", punta di diamante del processo di revisione ideologica e programmatica del PCI, sono spiazzati e distanziati dai processi di ridefinizione delle realtà sociali e dei comportamenti collettivi;

4) dalla sinistra extraparlamentare: rompe con la società politica, la democrazia parlamentare e la Sinistra, non riuscendo a collocare la sua opposizione all'altezza dei fenomeni sociali da cui trae origine. Vive una permanente contraddizione tra il positivo dei problemi di cui è portatrice e il negativo delle soluzioni che, di volta in volta, propone. Brucia, per questo, in tempi rapidi il suo ciclo storico. Ciò complica ancor oggi un discorso sulla sua identità e sulla sua memoria. I suoi detrattori più accaniti, di ieri come di oggi (non di rado, "contestatori pentiti"), profittando di questa contraddizione, la dipingono come "terra bruciata" dalla storia, incapace di far germogliare segni e valori positivi;

5) dalla Sinistra, in generale: Pci, Psi, sinistra extraparlamentare e altre componenti di sinistra presenti nello schieramento politico e sociale, più che pensare e ripensare l'identità storica, politica e culturale della Sinistra, dentro cui ricollocarsi e rideterminare ognuno la propria posizione, si affaticano a conservare i territori conquistati, secondo una variante da "rendita di posizione";

6) dalle forze imprenditoriali: vivono il biennio in un clima di "grande paura", quasi si trattasse della riedizione dell'occupazione delle fabbriche del '20-22. Avversano tenacemente tutte le rivendicazioni operaie e lo spirito che le percorre. Tutte le concessioni che sono costrette a fare, le decidono con l'animo di chi si sente in una situazione di forte pericolo: temono per la loro identità e per l stesse sorti dell'impresa. Ciò le mette nella posizione di chi aspetta e prepara lungamente la "rivincita", per ristabilire il vecchio ordine di priorità leso e l'antico sistema regolativo tra impresa e lavoro. Il nuovo sistema delle relazioni industriali, che l'autunno caldo promuove, si porta con sé, aleggiante sulla propria testa, la cappa di piombo di questa riserva;

7) dal sindacato che, pure, si confronta positivamente col biennio: muta radicalmente il suo assetto, procedendo ad una vera e propria rifondazione che, tuttavia, di lì a pochi anni, rivelerà i suoi limiti.

3.4. Come quarto periodo isoliamo gli anni '70 nel loro complesso, pur consapevoli della accentuata non linearità che li ha caratterizzati. Nondimeno, essi sono stati attraversati da alcune tendenze di fondo che hanno avuto un ciclo più o meno decennale.

Proponiamo stringati schemi classificatori, da sottoporre a più puntuale verifica, di alcune delle tendenze principali, prescindendo, in questa occasione, da quelle strettamente economiche e politiche:

1) la tendenza alla formazione di conflitti e movimenti situati fuori delle possibilità del panorama istituzionale dato. Assai grosso modo:

a) lotte operaie contro la ristrutturazione produttiva nel periodo 1970-73;

b) lotte operaie e sociali per una nuova qualità dello sviluppo nel periodo 1973-75;

c) lotte sociali di nuovi soggetti intorno a nuovi bisogni: donne, giovani, disoccupati nel periodo 1975-76;

d) il '77 e immediati dintorni: il punto di massima tensione della confutazione che rilevanti quote di "società civile giovanile" rivol-gono alle istituzioni;

2) la tendenza del sistema politico-istituzionale a recuperare il conflitto, destrutturandone le domande di senso, lasciandole di fatto insoddisfatte. Ciò accentua la frattura tra "società civile" e "società politica", fino a produrre quella sorda impermeabilità politica delle istituzioni alle domande sociali, la quale è stata tra le cause primarie della legislazione d'emergenza, inaugurata nel '74-75 e operante fino a tutto il ciclo degli anni '80;

3) la tendenza di sviluppo della lotta armata che, nella sostanza storico-politica, si può dire abbia esaurito la sua parabola negli anni '70. Negli anni '80 sopravvive a se stessa. La curva di evoluzione della lotta armata può leggersi come esplicitazione della doppia critica da essa svolta:

a) ai conflitti e ai movimenti sociali, i quali, pur collocatisi fuori del sistema politico-istituzionale, non saprebbero, non potrebbero e non vorrebbero determinarne il rovesciamento integrale;

b) alla società politica (con al centro la Dc e includendo il Pci), considerata parte avversa degli "interessi operai e proletari" e, per di più, impossibilitata ad accoglierne e soddisfarne le "richieste minime", data la crisi delle strutture economico-produttive.

Così, la lotta armata si pone quale unico e legittimo rappresentante degli "interessi di classe" e, nel contempo, come la leva decisiva del ribaltamento del "rapporto di potere" tra le classi. Questo modello di azione politica sperimenta per tutto il decennio la sua crisi e la sua arretratezza storica e politico-culturale.

La lotta armata tenta di venire a capo di questa "massa critica", intensificando il suo modulo politico in proiezione della teoria e prassi della guerriglia, della strategia e della tattica della guerra (inizio 1978). Ed è: per lei, la catastrofe; per la società: la concatenazione intensissima di eventi terribili.

 

3.5. Quinto e ultimo ciclo che estrapoliamo, in questa sintetica schematizzazione del nostro programma di ricerca, sono gli anni '80. Su di essi dovremo iniziare a concentrarci a parte, poiché le tendenze che li caratterizzano vedono il loro trend in pieno svolgimento. Sicché non risultano agevolmente schematizzabili e analizzabili. Inoltre, qualità e senso che sembrano, a tutta prima, qualificarli come controtendenza a paragone del passato (dal piano politico a quello economico-sociale, da quello ideologico a quello dei comportamenti), vanno con più cura indagati e interpretati nella loro più autentica natura.

Carcere di Bellizzi Irpino, Luglio 1988