CAP. II

CONFLITTUALITÀ SOCIALE

E LOTTA ARMATA NEL CASO ITALIANO

 

 

 

1. Incubazione dei tratti salienti del caso italiano

Tenteremo di dare ragione delle cause specifiche che hanno fatto, per molti versi, così particolare la manifestazione dei conflitti sociali in Italia; e che hanno visto in Italia, unico paese dell'Occidente capitalistico, la presenza di una originale, prolungata e significativa esperienza di lotta armata. Spingeremo la ricognizione fino alla zona di frontiera tra gli anni Sessanta e i Settanta. Quella zona in cui i primi si riversano nei secondi e i secondi restano ancora nei primi. Il tutto solo come prima approssimazione al problema, trattandosi di materia ampia e complessa. Proprio per questo, giova un preliminare inquadramento teso a isolare i caratteri principali del caso italiano.

Partiamo da una iniziale considerazione: la prima caratteristica che connota la situazione italiana è la compresenza nello stesso arco temporale della rivoluzione nazionale e della rivoluzione industriale.

L'Italia, assieme alla Germania, conquista l'unità nazionale in un'epoca relativamente tarda: soltanto nel XIX secolo. I principali paesi europei attorno al processo di formazione dello Stato moderno insediano il processo di costituzione dell'identità nazionale, a cavallo dei secoli XV e XVI.

Al punto che è proprio lo Stato uno dei principali fattori della "accumulazione originaria", della "eversione della feudalità" e della limitazione dello strapotere dei singoli capitalisti nella transizione dalla "cooperazione semplice" alla "grande manifattura", come ha esemplarmente mostrato Marx1.

Dalla fase di avvio del capitalismo fino a tutta la prima guerra mondiale, come appropriatamente rilevato da P. Farneti, particolarmente in Francia e in Inghilterra, v'è da registrare una crescente pressione della domanda dello Stato nell'economia: "lo Stato moderno è stato interventista, chiamato sempre più a risolvere le contraddizioni dello sviluppo economico e sociale"2. Nel caso italiano e tedesco, invece, continua Farneti, "lo Stato diventa l'agente principale di due processi di fondazione fondamentali: quello dell'unificazione-formazione dela nazione e quello di industrializzazione-formazione della società industriale"3.

Nel caso italiano, F. Bonelli coglie una relazione diretta tra costituzione della macchina statuale e avvio dell'ingranaggio dello sviluppo economico. Ciò ha conferito allo Stato una funzione di centro di imputazione e coordinazione dello sviluppo economico, allargando oltremodo, ribadisce Bonelli, la "presenza pubblica nell'economia", la quale "costituisce uno degli elementi centrali della "diversità" dell'Italia dai paesi dell'Occidente capitalistico"4.

Interessante è la conseguenza che Bonelli inferisce da questa "diversità". Egli fa da qui derivare due transiti decisivi: a) "l'avvento del regime democratico"; b) la "riforma e la modernizzazione delle strutture statuali". Nel primo caso: sussiste la necessità di rispondere istituzionalmente a una richiesta di mediazione quantitativamente più vasta che in passato, visto che, in potenza, "tutti gli strati sociali ne sono interessati" e che, conseguenzialmente, nuovi "centri di rappresentanza" subentrano alle vecchie "oligarchie politiche"; nel secondo: la spinta alla modernizzazione della forma di Stato, altrove avvenuta per il tramite del consolidamento della "dialettica politica", si verifica all'insegna "di una netta separazione tra obiettivi dello sviluppo e finalità di carattere sociale"5. Si può aggiungere: sono le finalità politico-sociali della sicurezza, della protezione e del controllo che fanno primato sulle esigenze proprie dello sviluppo economico, il quale rimane fortemente condizionato dalla dinamica politica dell'intervento pubblico che, toccato l'apogeo, si privatizza in funzione degli interessi più forti; come puntualmente accade nel decennio che va dalla fine degli anni '60 alla fine dei '70.

Nel caso italiano, dunque, ci troviamo di fronte, fin dall'inizio, a un modello di sviluppo politico autocentrato il quale ha modo particolarmente di manifestarsi nella fase costituzionale-repubblicana. Ma sezioniamo alcune sequenze di rilievo.

I fenomeni in base ai quali la rivoluzione industriale altrove succede alla formazione dello Stato moderno di ben due secoli, in Italia non trovano modo di concretarsi. Ritardo della formazione dello Stato moderno e ritardo della rivoluzione industriale convivono. Due processi storici alteri e separati nel tempo si trovano, così, ad insistere nello stesso orizzonte temporale. Ciò fa sì che, in Italia, la rivoluzione industriale sia destinata a divenire uno dei fuochi della formazione e del consolidamento dello Stato moderno, lungo un arco temporale che si distende per più di un secolo tormentato.

Tutti i governi post-unitari di Destra e di Sinistra, fino a quelli caratterizzati dal trasformismo di Depretis e più oltre dal centralismo autoritario di Giolitti, si sono prevalentemente mossi animati da modelli e da logiche da economia rurale, il cui asse politico rimaneva sospeso tra ancien régime e riformismo illuminato del Settecento. Il trasformismo politico6, che ha caratterizzato, sul finire dell'Ottocento, lo specifico di molte condotte nazionali, trae da qui la sua linfa. Prima di essere un cattivo costume politico, esso rimarca il mancato superamento da parte della classe politica italiana dei moduli contrapposti di ancien régime e riformismo illuminato.

Lo stesso fenomeno del fascismo, in una qualche misura, è una testimonianza di trasformismo politico. Non tanto e non solo con riferimento al destino di transfuga di Mussolini, che dalle sponde del massimalismo, con una svolta di 180 gradi, perviene all'approdo dello Stato autoritario di massa, quanto per il nucleo politico che lo anima. Primo: dall'autoritarismo illuminato di Giolitti viene espunta la dinamica che consegue al suffragio universale, con relative massificazione dello Stato e statalizzazione delle masse. Secondo: dal trasformismo storico, che annebbiava i confini tra Destra e Sinistra, viene espulsa l'indeterminatezza dei mezzi in rapporto al progetto e ai fini e la Destra, di nuovo, si situaziona come alternativa storica, politica e ideologica della Sinistra.

Se si assumono il trasformismo, l'autoritarismo illuminato di Giolitti e il fascismo come passaggi fondamentali, ben si vede come la Costituzione del '48 erediti una struttura squassata da profonde discontinuità. Se lo Stato moderno è nato come reagente alla conflittualità sediziosa delle guerre civili di religione, in Italia lo Stato repubblicano si pone come collante sul piano storico-sociale. L'unità dello Stato nazionale è ricostruita in negativo come reazione al fascismo, più che in positivo come attenzione e ricerca attorno all'evoluzione e al mutamento sociali. Il patto costituzionale avviene nella comunanza del riferimento di contrarietà al fascismo e non anche intorno al "come" costruire la democrazia avanzata. Dopo, a Costituzione fatta e, sovente, fuori della Costituzione, si insedierà la società industriale. Alla base della società industriale v'è, dunque, un compromesso politico e non già un patto sociale. Il che caratterizza, fin dall'origine, la democrazia italiana come "democrazia incompiuta".

È il compromesso politico, è la decisione delle coalizioni di governo che stabiliscono una connessione positiva con lo sviluppo industriale. È l'area della decisione politica dell'esecutivo che disegna, in un certo modo, le coordinate attraverso cui lo sviluppo industriale del paese si invera come confutazione pragmatica del liberalismo e del socialismo, dei quali pure elementi rilevanti sono presenti nel dettato costituzionale. In questo modo, viene declinato un modello di democrazia politica ad ambito ristretto e fortemente interventista nel ciclo economico.

I modelli liberali e socialisti classici sono superati sia sul piano della teoria e dell'azione politica che su quello della dottrina economica. Lo Stato prevale, sì, sul mercato, mettendo in crisi irrimediabile un principio cardine del liberalismo; ma, a differenza della soluzione socialista, le regole del mercato e dell'impresa trovano uno spazio specialmente protetto, fino al punto da originarsi un ciclo di accumulazione di cui lo Stato, attraverso l'amministrazione per Enti e il sistema delle partecipazioni statali, è il centro unitario di regolazione e il garante nella concorrenza con il sistema delle imprese private nazionali e internazionali. Non a torto, molti hanno parlato, a proposito del caso italiano, di "economia mista".

Ne è derivato che il sistema politico ha dovuto necessariamente dare luogo ad un'azione di governo in assenza di una ricerca puntuale e generalizzata del consenso sociale. Esso, per come strutturalmente era stato concepito e messo in opera, non poteva enucleare i fattori e gli elementi dell'azione di governo tra integrazione e mobilitazione: dalla ricostruzione a tutto il miracolo economico, una coltre stagnante viene calata sulla società tutta intera. Il regime politico ha saltato il problema del consenso, imponendo alla società civile il ritmo di sviluppo, le forme e i limiti della società politica.

Il sistema politico ha costituito la sua forza, fasciando in un busto di gesso la società civile. Quando la seconda ha rotto il gesso, il primo ha cominciato a smarrire la sua autoreferenzialità. Non gli è rimasto che tentare di ricostruirla, spostando il centro verso sinistra: dalle coalizioni di governo centriste e neocentriste si è passati al centrosinistra. Il regime politico ha centralizzato di più, espellendo di meno, lasciando invariata l'impalcatura di fondo.

2.

Blocco del sistema politico e limiti della domanda sociale negli anni Sessanta.

Il modello di società pensato dal compromesso politico è una società a conflitto zero. La struttura della Costituzione dà spazio al conflitto e, anzi, pone dei vincoli in capo agli stessi diritti ruotanti attorno alla proprietà privata. Non altrettanto può dirsi per il sistema politico. L'opposizione di sinistra, nel mentre trova una piena cittadinanza costituzionale, viene politicamente messa ai margini, attraverso la conventio ad excludendum. L'integrazione dell'Italia nel circuito politico-economico internazionale impone questo prezzo. Il processo integrativo parte col piano Marshall e può dirsi concluso col miracolo economico. In larga parte, coincide con la piena industrializzazione del paese. L'Italia, da paese eminentemente agricolo, si trasforma in una nazione industriale tra le prime del mondo occidentale. Il paesaggio sociale, economico, culturale, politico e dei costumi risulta scompaginato. La formazione della classe politica di governo, in buona misura, ruota attorno alla costituzione di una moderna cultura industriale e ai valori politici dell'atlantismo.

Per un gioco di simmetrie, la classe politica di governo ritiene che la società industriale, così come aveva integrato l'Italia nel ciclo politico-economico internazionale, fosse capace di integrare nella società politica il conflitto sociale. In questo approccio, è la società industriale che occupa per intero lo spazio della società civile. Obiettivo primario dell'azione di governo è la messa in valore politico, è l'ottimizzazione politica del ruolo dell'impresa. La riduzione della società civile a società industriale configura il conflitto sociale nei puri termini di conflitto industriale, la cui posta in gioco non può esorbitare dal campo della contrattazione su aspetti marginali della condizione lavorativa. Il conflitto viene abbassato alla soglia di contrattazione, di volta in volta, attivata e circoscritta intorno a problematiche locali, largamente secondarie a confronto della corposità dei processi in corso. Attorno a questi modelli di azione politica e a queste culture politiche prende luogo quella invadenza tutta italiana della società civile da parte della società politica.

È vero che la debolezza della società civile italiana è un fenomeno storico di antica data e, per così dire, fisiologico7. Ma è altrettanto vero che a questa debolezza strutturale non si è mai posto rimedio politico. Anzi: sulla debolezza della società civile i partiti hanno costituito e costruito lo sviluppo della loro propria forza, facendo di essa aggio. Se risponde a verità che le società democratiche contemporanee si sono organizzate grazie all'esistenza e all'intermediazione dei partiti, è pur vero che la democratizzazione della società non è risolvibile con la democratizzazione del sistema politico. La decisione politica non può essere un luogo chiuso, un ambito che insiste su se stesso, come il cane che si morde la coda. È anche raccordo, apertura e messa in comunicazione dello spazio politico con quello civile e sociale. È (o meglio: dovrebbe essere) il perno di una configurazione dei diritti di cittadinanza in dialogo con le strategie e le funzioni del sistema politico.

Se il modello di società pensato è la società "a conflitto zero", la strategia messa in campo è quella dell'integrazione senza corrispettivo. Il corrispettivo è univoco e di natura universalizzante: il progresso industriale e la modernità. Ciò fa sì che l'ideologia consumistica svolga un ruolo di integrazione e coagulante sociale.

Questo modello di azione politica, questo modulo di decisione politica hanno un'indubbia presa sulla realtà, pilotando enormi trasformazioni nell'economia, nelle culture e nei costumi della società. Inoltre, frammentano e vanificano l'opposizione politica e l'opposizione sociale, a lungo incapaci di ristrutturare la loro azione. La mobilitazione collettiva stenta a ritrovare la propria identità e le proprie ragioni. I soggetti che per l'innanzi l'azionavano vanno scomparendo; i valori sui quali si dava l'aggregazione vanno estinguendosi. La società industriale è urbanesimo spinto; è concentrazione delle decisioni politiche e della vita sociale in pochi e grandi agglomerati urbani, dal Nord al Sud del paese; è esodo di massa dalle zone di sottosviluppo nel paese; è, per riprendere i termini di un celebre dibattito dei primi anni Sessanta, disaggregazione del tessuto sociale nazionale in "zone di fuga" e "zone di attrazione"8. L'ingresso dell'Italia nel novero dei paesi maggiormente industrializzati ha fortemente penalizzato le popolazioni meridionali, le loro tradizioni e le loro risorse. Il paesaggio meridionale è risultato letteralmente sconvolto: isole di industrializzazione e di modernità convivono con un vero e proprio deserto sociale. Intere province, se non intere regioni, versano in uno stato di completo abbandono. Abbandono che fa contrasto con i messaggi dell'opulenza e dell'integrazione che, grazie allo sbalorditivo progresso dei mezzi di comunicazione di massa e in special modo della televisione, pervengono fin nei più sperduti casolari del più isolato paese di montagna. Lo stridore tra l'opulenza trasmessa e incoraggiata dal messaggio dei media e le emarginate condizioni di vita che persistono nel Meridione alimenta in grosse fette di popolazione meridionale processi di frustrazione, i quali conducono inevitabilmente a rimpiangere tempi antichi, se non remoti, in cui si era immessi in un ciclo e in un ritmo di vita più stabili e meno estranianti. Per quelle quote di popolazione meridionale per le quali il passato non è presente come rimpianto, il futuro altro non è che la civiltà industriale, la quale ha valori portanti e gangli vitali nel Nord del paese. Il Meridione pare schiacciato tra il polo della nostalgia e il polo della fuga. Quasi che fosse una terra, ormai, senza radici e senza presente a cui, per questo, un futuro di emancipazione non può che essere negato. L'integrazione dell'Italia nel circuito internazionale, conclusasi col miracolo economico, ha una polarità in luce e l'altra in ombra: da una parte, la solarità del regime di "piena occupazione", presente nel programmi governativi; dall'altra, il rovescio oscuro dell'emigrazione meridionale9.

Il processo della transizione dalla società arretrata alla società avanzata è avvenuto nel silenzio pressoché integrale della mobilitazione collettiva. Al punto che le teoriche dell'integrazione10, riferimento della classe politica di governo, parevano aver completamente esaurito il panorama della discussione politica. Il fatto è che la transizione in corso disegna una geografia di soggetti sociali, una base motivazionale dell'azione collettiva, orizzonti interpersonali e comunicativi di difficile decifrazione. Si pensi al secolare processo di differenziazione dei soggetti, di mutamento delle credenze e delle opinioni e di cambiamento delle mentalità che ha accompagnato la secolare transizione dal feudalesimo al capitalismo. Qualcosa del genere, con i debiti distinguo, è accaduto in Italia dal 1945 ai primi anni Sessanta, con una concentrazione nel tempo e nello spazio di inaudita intensità. Le reti dell'azione collettiva ne sono risultate traumatizzate. Il trauma della modernità ha, per una lunga fase, paralizzato l'azione collettiva.

L'aggregazione delle nuove figure sociali, mano a mano che procedeva la disaggregazione puntuale delle vecchie, faticava a delinearsi. Un largo schieramento sociale pro-emancipazione stentava, così, a coagularsi.

L'industrializzazione compiuta del paese è un momento di formazione di una nuova classe operaia, non più imperniata sulla professionalità e sulla specializzazione, ma sulla scomposizione e sulla rotazione delle mansioni, caratterizzate da un tasso di alta semplificazione tecnico-manipolativa. La ristrutturazione del processo produttivo e del ciclo lavorativo, secondo i modelli più avanzati dello sviluppo capitalistico, ha un grosso effetto aggregante sulla forza-lavoro: riducendola alla misura comune di operazioni parziali intercambiabili, la si riunifica ben dentro il "cuore" del processo produttivo. Sta qui la debolezza di fondo del ciclo taylorista-fordista. Quanto più procede questo modo del produrre, tanto più si alimenta il potere di aggregazione e contrattazione della classe operaia. Raniero Panzieri è il solo a leggere questa tendenza e a porsi seriamente il problema della rielaborazione della teoria e della politica a favore della classe operaia11. P.zza Statuto e le lotte dei metalmeccanici nelle tornate contrattuali del 1962-63 e 1965-66 aprono un nuovo ciclo storico della mobilitazione collettiva, a forte egemonia operaia. Contraddittoriamente: la società avanzata è il teatro della debolezza progettuale e della crisi della società politica e della forza della nuova classe operaia.

La società avanzata, perché questa è, ormai, la società italiana al tornante dei primi anni Sessanta12, reclamava una democrazia avanzata. Al contrario, sistema politico e classe politica di governo rimangono attestati al modello della democrazia incompiuta. All'ordine del giorno, ora più che mai in passato, è un patto sociale avanzato, da cui ridisegnare l'asse e le forme del compromesso politico. Ma tutto ciò richiedeva la preliminare rimozione dei partiti dalla loro posizione di centralità e di dominio. Sostiene efficace mente G. Pasquino che la posizione di potere dei partiti in Italia dipende dalla circostanza che essi controllano e guidano i "processi di trasformazione della società"13. Con Farneti, possiamo definire questa prima e lunga fase della democrazia italiana come decennio (1948-58) del primato dei partiti politici14. In questa fase, precisa Farneti, al "dominio dei partiti sul Parlamento" corrispondono le "teorie della partitocrazia"15. Intorno a questo capovolgimento del rapporto tra Parlamento e partiti sono nate le fortunate teorie della "ditta-tura della maggioranza". Ciò determina effetti di polarizzazione politica, tema caro a Farneti, poiché i partiti dell'opposizione "mobilitano ampi settori del movimento operaio contro queste scelte, e si cristallizza così la polarizzazione politica e sociale che definisce sicuramente gli anni Cinquanta"16.

Su questo complesso di processi si innesta, continua Farneti, la fase del decennio (1958-68) del primato della società civile. È il "periodo in cui lo sviluppo economico e le trasformazioni della società civile operano mutamenti profondi nella condizione socio-economica, nelle scelte di vita e negli atteggiamenti della base sociale, dei partiti, che si rifletteranno prima nelle subculture poi sui partiti tributari delle subculture italiane"17. Il centrosinistra non può far altro che registrare mutamenti già avvenuti, secondo quella tesi classica che recita che "il capitalismo produce sviluppo".

La posizione e le motivazioni da cui il PSI si fa partecipe della coalizione di governo sono proprio date dall'impegno politico di "accompagnare i mutamenti", per aprire "nuovi spazi di libertà". Da questa angolazione, a tutt’oggi viene argomentata una difesa enfatica del centrosinistra, poiché avrebbe aperto quell'arena entro cui hanno fatto irruzione i movimenti pre-Sessantotto e il Sessantotto medesimo. La tesi si appoggia sul seguente postulato: col centrosinistra, per la prima volta, la società civile trova una possibilità di espressione politica18. Lo schema teorico di riferimento, al riguardo, è quello del "coinvolgimento" approntato da A. O. Hirschmann19.

Diverso è il taglio e lo spessore della celebre autocritica di G. Ruffolo, certo più rigorosamente fondata e condivisibile. Secondo Ruffolo, il centrosinistra è storicamente e politicamente debole e sfasato rispetto all'orizzonte delle trasformazioni sociali in atto. Ciò perché: a) prevede al suo interno la presenza di un "blocco sociale" antiriformistico; b) rimane condizionato dalla politica dei due tempi: prima l'espansione e dopo le riforme; c) è schiacciato dalla esiguità della sua base sociale; sarà proprio l'insieme di questi fattori di crisi a determinare il ristagno economico-politico degli anni 1964-6820.

Il processo di democratizzazione della domanda politica caratterizza tutte le società industriali avanzate21, fino al punto da essere temuto e sofferto come ingorgo dei processi decisionali22. A proposito del biennio 1968-69, Farneti sostiene: "le nuove forme di aggregazione e mobilitazione politica, da quella dei gruppi spontanei e studenteschi a quella operaia e sindacale, hanno incrinato, se pure attraverso molteplici contraddizioni, il monopolio di aggregazione e mobilitazione politica dei partiti politici (ma anche di certe strutture della società civile)"23.

Altrove, con maggiore precisione, Farneti suggerisce di interpretare la mobilitazione del 1968-69 come "la chiusura di un cinquantennio di grandi in-vestimenti ideologici iniziatisi con la prima guerra mondiale"24.

Vediamo di rappresentare schematicamente questo passaggio da un orizzonte all'altro: a) peso crescente degli effetti dovuti allo sviluppo economico, originatosi nel secondo dopoguerra; b) dispiegamento di complessi e profondi fenomeni di mobilità sociale e di mutamento della geografia dei soggetti sociali; c) espansione crescente della domanda di beni e di risorse; d) crisi definitiva di tutte le culture e le subculture della tradizione unitaria e post-unitaria; e) disagio e ritardo del sistema politico a confronto dell'emergente nella società politica25. Il primato della società politica si ribalta in primato della società civile26. Qui si innesta, continua Farneti, la questione cruciale di "una centralità delle istituzioni rispetto alla realizzazione collettiva degli "interessi" nella società civile"27.

Il complesso assai ramificato di queste dinamiche, ridotto all'osso, altro non è che estrema evidenziazione della "crisi di rappresentanza"28 che il biennio 1968-69 suggella e porta alle estreme conseguenze. I movimenti collettivi proliferano, assumendo un'aperta caratterizzazione anti-istituzionale, tentando di veicolare la loro domanda di beni e di autonomia contro il sistema della rappresentanza dato. La contestazione del sistema della rappresentanza è a pioggia e l'autonomia di senso della mobilitazione collettiva si apre a raggiera. Contestazione e autonomia divengono critica della cultura vigente e dell'autorità; critica della organizzazione del lavoro e del complesso delle relazioni industriali; critica al sistema di vita e ai costumi dell'epoca. Ma l'indebolimento dei partiti che ne consegue non si converte in un rafforzamento della società civile30. Lo iato tra società politica e movimenti convive con quello tra movimento e società civile, il cui primato non si riverbera in riassetto istituzionale, in profonda modifica dell'organizzazione e del funzionamento delle istituzioni31. Ciò provoca un'occlusione politica, poiché, come aveva ben visto Farneti, la crisi del sistema politico e la contestuale crescita della società civile impongono drammaticamente e urgentemente la centralità della "questione istituzionale", attraverso la quale soltanto può procedere la rigenerazione del sistema politico. La critica della mobilitazione collettiva e della domanda sociale al sistema politico-istituzionale è su questo decisivo piano che conosce una grave caduta di tensione. Esse si trovano ad essere, per metà, la reazione al precipitato di una crisi di sistema e, per l'altra metà, l'approssimazione incipiente, ma sufficientemente stagliata, di valori e comportamenti chiaramente innovativi. Mobilitazione collettiva e domanda sociale, nel biennio 1968-69, si trovano sospese a metà strada tra l'essere un prodotto della crisi e un agente parziale di un riassetto del sistema politico. Fattori di residualità si cumulano inestricabilmente con fattori di mutamento. Questa ambivalenza e questa ambiguità originarie segneranno molte scon-fitte dei movimenti degli anni Settanta, fino alla loro crisi definitiva.

Si trattava e si tratta di recuperare la dinamica istituzionale a una dinamica democratica avanzata (verrebbe di dire: democrazia complessa). La democratizzazione della domanda politica e la proliferazione di domande sociali sempre più evolute, linea di volta della pressione sociale nella società complesse, solo modificando il funzionamento e la decisione istituzionale possono strappare la società politica al suo delirio di onnipotenza. La critica delle istituzioni è, pertanto, anche richiesta di nuove istituzioni, di nuove organizzazioni istituzionali, allo scopo di fissare e legalizzare, non solo legittimare, punti di non ritorno nel mutamento sociale; in vista di conquiste di emancipazione e di libertà, la cui rimessa in discussione non sia agevole; nella prospettiva di avanzamento di nuovi diritti e nuove garanzie, il cui carattere inerziale non li faccia rifluire nel vuoto e nell'oblio.

Su questo versante problematico, specificamente politico-istituzionale, il biennio 1968-69 si trova a disagio, oscillando tra una sottovalutazione del problema e un atteggiamento ipercritico nei confronti della "questione istituzionale". Cerchiamo di ispezionare meglio questa "linea d'ombra" del Sessantotto.

In realtà, il Sessantotto prese inizio nel 196732: a Berkeley, alla Sorbona, al Quartiere Latino, a Nanterre, a Pisa, a Trento, a Palazzo Campana a Torino, all'università cattolica di Milano, alla Kommune I di Berlino. Si sprigiona nell'ambiente studentesco e si costituisce come critica dell'autoritarismo, con deviazioni che nel tempo si allungheranno sino a Pechino e Praga. Un altro dei detonatori essenziali è l'intervento americano nel Vietnam e la lunga guerra che ne segue: il grido di battaglia di Che Guevara "Uno, due tre, molti Vietnan" risuonerà in tutte le piazze del mondo. È in questione il rapporto tra lo sviluppo e le generazioni nate dopo il secondo conflitto mondiale, a medio-alto tasso di scolarizzazione e fruizione delle risorse. Sul tappeto è la relazione disagevole, se non aspramente critica, tra lo sviluppo e i suoi "figli" diretti. Ciò indica che la posta in gioco è il presente e il futuro della società. Messo in luce è il divario tra l'orizzonte del contingente e l'orizzonte del possibile; di quel possibile reso attuale proprio dall'accumulo di forza produttiva e forza culturale garantito dallo sviluppo capitalistico. Affiora una sproporzione impressionante tra il piano della domanda sociale e la risposta di basso profilo delle istituzioni politiche, economiche, culturali e sociali, ancorate su orizzonti anacronistici e angusti.

Non pare, certo, casuale che la critica dell'autoritarismo metta in discussione "l'irrealismo della società reale", punto focale di quella che il movimento situazionista della Università di Strasburgo, ancor prima dell'esplosione studentesca (e sulla scia del testo di Guy Debord, "La società dello spettacolo"), definirà la "società dello spettacolo"33.

Contro l'irrealismo dello spettacolo, uno degli slogan più urlati ed emblematici del Sessantotto sarà: "Siamo realisti, vogliamo l'impossibile". Dicono i situazionisti di Strasburgo: "Nello spettacolo, immagine dell'economia regnante, il fine è niente, il processo tutto... Lo spettacolo sottomette gli uomini nella misura in cui l'economia li ha totalmente sottomessi"34. Ciò, osservano ancora: "conduce ad uno slittamento generalizzato dell'avere in sembrare, da cui ogni effettivo "avere" deve ricavare il proprio prestigio immediato e la sua funzione ultima"35. Non resta che, essi affermano, reintrodurre la "verità", attraverso "l'autoemancipazione" della classe sfruttata: "Questa missione storica di instaurare la verità nel mondo, né l'individuo isolato, né la folla atomizzata, sottomessa alle manipolazioni, possono compierla, ma lo può ancora e sempre la classe che è capace di essere il dissolvimento di tutte le classi"36.

Le posizioni dei situazionisti di Strasburgo costituiscono una delle migliori elaborazioni teoriche di alcuni temi del Sessantotto europeo. Temi che ritroviamo nel "Manifesto per una università negativa" della facoltà di sociologia di Trento, redatto nel novembre del 1967. Per la verità esso risulta attestato ad un più basso livello di elaborazione teorica e dimensionato in un più angusto contesto politico. Secondo il "Manifesto": "Il movimento per l’università negativa deve quindi porsi come immediato obiettivo l'elaborazione di una teoria del mutamento che permetta, nella prassi, una reale contestazione antagonista, all'università italiana"37. La funzione della contestazione antagonistica, si osserva, è quella della "formazione (stimolazione) di un movimento "rivoluzionario" delle classi subalterne"38.

Diverso è l'approccio e diversa la prospettiva politica delle cosiddette "Tesi della Sapienza" di Pisa, risultato dell'occupazione dal 7 all'11 febbraio 1967 del Palazzo della Sapienza. La mobilitazione studentesca è ricondotta a due fattori e temi fondamentali: "la lotta antimperialista" e "le lotte sindacali". Alla base, un analisi della società che la intende come "società a capitale socializzato". Di questa lo snodo essenziale è ritenuto il "piano": "inteso come centralizzazione dello sviluppo e predeterminazione di esso a lungo termine"39. Conseguentemente, si afferma che: "La scuola si configura, a questo livello, come il luogo di produzione della forza-lavoro qualificata e rientra come costo sociale nel ciclo di riproduzione allargata del capitale"40. Pertanto, lo studente viene ritenuto una "figura sociale interna alla classe operaia"41. Il 20 febbraio 1967, proprio sulla scorta dell'impianto politico delle "Tesi della Sapienza", si costituisce il gruppo "Potere operaio pisano", uno dei nuclei embrionali della futura "Lotta continua". La saldatura studenti-operai e l'egemonia del "punto di vista operaio" possono dirsi definitivamente sanciti.

Intanto, nello scenario europeo si registrano due eventi che lasceranno larga e vasta eco. Il 2 giugno 1967, in una manifestazione di protesta contro una visita dello Scià di Persia, a Berlino Ovest la polizia uccide Benno Onnesborg. Dal 15 al 30 luglio 1967, si tiene a Londra il Convegno "Dialettiche della Liberazione"42. I relatori al Convegno londinese sono il meglio dell'intellettualità liberal e di sinistra europea e americana. Qualche nome, a titolo indicativo: H. Marcuse, G. Bateson, P. Sweezy, R. Laing, D. Cooper. Nel "Manifesto" che suggellò il Convegno si afferma: "La cultura è contro di noi, I'educazione ci rende schiavi, la tecnologia ci uccide. È nostro dovere contrapporci a tutto ciò"43.

La critica all'autorità e al sistema della rappresentanza e della delega mette fortemente l'accento sulla categoria della partecipazione, intesa nel senso più lato e non nell'accezione meramente politica. Luigi Bobbio, uno dei leader del movimento degli studenti torinesi e futuro dirigente di "Lotta continua", sintetizza efficacemente: "Partecipare al movimento significa cambiare la propria vita, anche nella dimensione quotidiana, trasformarsi"44. L'idea e la prassi della partecipazione, che in alcuni gruppi del tempo diviene riscoperta della "azione diretta" del comunismo consiliare e dell'anarco-sindacalismo degli anni Venti, rende possibile il superamento delle posizioni di estrema spoliticizzazione della Kommune I di Berlino, secondo cui la "rivoluzione" è rivoluzionamento del proprio Sé e della sfera delle relazioni soggettive e intersoggettive; così mettendo in comunicazione tra etica e politica i nuovi stili di vita, nuove preferenze, nuove opzioni di solidarietà, un nuovo quadro di disponibilità al giusto, alla giustizia e alla parità nelle relazioni interpersonali e tra sessi. Tra etica e politica, il bene democrazia viene posto in connessione con il bene felicità. Già nello sciopero del 6 dicembre 1966, gli studenti di Berkeley scrivevano: "Potere studentesco è felicità". Un'eguale messa in contestazione la subisce il sistema produttivo, di cui si confutano rigidità, discriminazioni, alienazione, nocività, pesantezza di carichi di lavoro, bassi livelli remunerativi. Nel marzo del 1968, alla Pirelli di Milano si costituisce il primo comitato unitario di base. In estate, alla Montedison di Porto Marghera si costituisce l'Assemblea operaia che riesce a imporre un obiettivo storico: aumenti salariali eguali per tutti.

Il risveglio della classe operaia, per la verità principiato già con l'affacciarsi degli anni Sessanta e sviluppatosi con continuità fino alla esplosione dell'autunno caldo, accredita ancora di più quelle teorie politiche, secondo cui avviare il processo rivoluzionario voleva dire dare soluzione alla questione della "direzione operaia". Cosicché i temi strettamente politici finiscono col mettere in ombra e in secondo piano i temi e gli interrogativi culturali di cui il Sessantotto era specificamente portatore. Si ha come una biforcazione. Da un lato, l'impegno civile e istituzionale negli oscuri recessi dell'emarginazione e della devianza, il quale produce esperienze di lotta, di mobilitazione e trasformazione di grande significato, sul fronte delle istituzioni totali e della salute mentale. F. Basaglia pubblica, per i tipi di Einaudi, la sua fondamentale "L'istituzione negata" proprio nel 1968. Dall'altro lato, I'impegno politico che sceglie come suoi interlocutori e referente i soggetti forti: la nuova classe operaia e i giovani scolarizzati. La proliferazione di organizzazioni e micropartiti a sinistra del PCI avviene su questo secondo binario45. Si tratta di formazioni, in vario modo, concentrate sul "lavoro politico" intorno alla fabbrica e alla scuola. Si tocca qui con mano uno dei tanti paradossi del Sessantotto. Pur nati nell'ondata del "nuovo", i gruppi della sinistra extraparlamentare assumono come riferimento teorico-politico tradizioni antiche e, ormai, consunte46. Si va dal terzinternazionalismo al trotzkismo, dal leninismo al maoismo, dal luxemburghismo al consiliarismo, dal marxismo-leninismo allo stalinismo. Nuova Sinistra e vecchia teoria e vecchia politica della Vecchia Sinistra, insomma; segnatamente, quella maggiormente critica verso il bacillo infettivo del revisionismo, da Bernstein fino a tutto Togliatti e tutto Brez-nev.

Due avvenimenti traumatici segnano il dicembre del 1968 e quello del 1969, i cui effetti possiamo ancor oggi misurare:

1) il 2 dicembre 1968, ad Avola la polizia spara sui braccianti in lotta, uccidendo due uomini;

2) il 12 dicembre 1969, a Milano esplode una bomba alla filiale della Banca dell'Agricoltura, causando la morte di 16 persone.

Ciò accentua oltremodo il carattere anti-istituzionale dei movimenti e rende definitivamente irrecuperabili alla dialettica parlamentare tutti i gruppi organizzati alla sinistra del PCI. Nel contempo, dilata l'azione di centrifugazione ed emarginazione che il sistema politico opera contro il flusso della domanda sociale. Due universi paralleli si irrigidiscono e contrappongono, incomunicabili l'uno all'altro. L'unico linguaggio che li accomuna è il reciproco disconoscimento e la reciproca azione di rigetto. È come un dialogo tra sordi e un guardarsi tra ciechi.

Le nuove realtà sociali col loro quadro di potenzialità inedite, i nuovi bisogni e le nuove aspettative espressi dai soggetti sociali, i nuovi attori e le nuove identità soggettive e collettive disegnano i contorni di un nuovo e possibile patto sociale, assolutamente non recepito dalle istituzioni e dallo Stato. L'invocata mutazione delle regole di produzione, di soluzione e sanzione del conflitto rimane senza risposta alcuna. Si profila una doppia emergenza. Quella che sale dal basso della società e dei processi di immane trasformazione che la vanno mutando dalle fondamenta. Quella che cala dall'alto che, pur non accogliendo le richieste della prima, non manca — contro di essa — di mutare e deturpare il paesaggio sociale e istituzionale. L'ordine si scontra col conflitto e nessun anello di congiunzione e di mediazione li riannoda. Di fatto, collidono due costituzioni materiali: quella dello Stato e quella della società. Tra le due si vanno progressivamente smarrendo i canali di comunicazione e i punti di incrocio. Lo Stato tende qui a costituzionalizzare se stesso come emergenza, anziché costituzionalizzare l'emergente sociale, lasciandosi modificare e rinnovare per le parti dovute. La debolezza della società civile e la forza della società politica pervengono ad un punto morto: società civile e società politica non comunicano più. Qui lievita la crisi della rappresentanza. Qui la crisi di legittimazione dello Stato si avvia a toccare lo zenit.

Il torto della Sinistra sta nel non essersi resa consapevole di questo processo perverso, estrema ratifica del tracollo dell'ipotesi riformista. Il riformismo italiano sperimenta l'impossibilità di riconciliare il programma politico col progetto costituzionale, poiché tra i due il compromesso politico fa da cuneo di interdizione. Non è chiaro nel modello riformista che, diversamente dalla passata fase storica, il punto non è più riconnettere, regolare e mediare politicamente lo scambio tra capitale e lavoro; bensì tra Stato e società. L'intervento riformista non è limitabile alla gestione dell'economia, attraverso la programmazione e il ricorso alla leva rappresentata dalle funzioni pubbliche. È esattamente su questo territorio minato che la SPD, con Bad Godesberg, rompe non tanto e non solo con i paradigmi marxisti della lotta di classe, ma anche e soprattutto col riformismo classico e col costituzionalismo weimeriano47. La Spd realizza Bad Godesberg, allorché liquida la "Grosse Koalition", manda all'opposizione la Cdu e governa per più di dieci anni con i liberali. Con Bad Godesberg la Spd rompe il "bipartitismo imperfetto" tedesco. Suo problema attuale è diventato quello di ricostituire le sue culture di governo, le sue pratiche di mediazione e le sue capacità di contrasto della stabilizzazione sociale, a fronte e dopo la crisi del Welfare.

La contraddizione tra politiche statuali e appropriazione privata è un arcaicismo concettuale di cui la Sinistra, soprattutto nel Sessantotto e nella fase immediatamente successiva, non riesce a liberarsi. Altrettanto deve dirsi della concezione della "sovranità dimidiata" ipotizzata tra Stato democratico e potere economico, la quale non fa rilevare quanto lo Stato democratico fosse stato partecipe e interno allo sviluppo economico. Evidenza, quest'ultima, che fornisce direttamente la misura della quota di mutamento con cui lo si deve investire. Uno dei tarli che ha maggiormente corroso l'ipotesi riformista è stata la contraddizione non risolta tra la variabilità del programma politico e l'invarianza e univocità del progetto della trasformazione, ancorato staticamente al quadro costituzionale. Ora, proprio la non verificazione applicata di quest'ultimo finisce col depotenziare e disarmare il programma politico, facendolo girare a vuoto.

I gruppi della sinistra extraparlamentare, dal canto loro, hanno completamente sottovalutato il momento del rafforzamento della società civile, omettendo di proiettare la loro critica istituzionale in assemblaggio di nuove istituzioni. Una ipervalutazione politicista li ha fatti convergere contro il sistema po-litico, smarrendo progressivamente alle loro spalle il contatto rigeneratore con la società civile. Ciò li ha velocemente condotti nel collo di bottiglia del muro contro muro con le istituzioni. Pur essendo il prodotto dei processi della differenziazione sociale e della fine del monopolio politico nella società; pur essendo interni alla più intime fibre dei nuovi comportamenti collettivi, delle nuove scelte di vita e di costume, i gruppi della sinistra extraparlamentare risultano paradossalmente essere gli ultimi eredi di quella centralità del ‘politico’ che le società avanzate estinguono e del cui tempo perduto la società politica è alla caccia. L'uso estensivo della politica è una delle ragioni fondanti della crisi del sistema politico. Ebbene, contro questa crisi e per un suo possibile "uso rivoluzionario", i gruppi della sinistra extraparlamentare pongono mano e danno luogo proprio all'ennesimo e improponibile uso estensivo della politica. Quale atroce equivoco e drammatico inganno! Politica reazionaria, da un lato, e politica rivoluzionaria, dall'altro. In entrambi i casi, la fine del monopolio del ‘politico’, tratto peculiare e fondante delle società complesse, non è avvertita. Questo circolo vizioso costringe a ripensare ‘politico’ e trasformazione sociale e a far ritorno a quella biforcazione originaria in cui l'impegno civile-istituzionale è andato disgiungendosi dall'impegno politico-sociale, spaccando in due l'anima del Sessantotto.

Il Sessantotto ha con tutti fissato un appuntamento storico. Quasi tutti, chi più chi meno, I'hanno mancato. Qualcun altro l'ha combattuto; e lo combatte ancora. Non per questo, ne ha tratto giovamento. Anzi: si ritrova nel bel mezzo di un dilemma senza vie d'uscita. Già ripensa di progettare un prossimo decennio di sviluppo senza conflitto, desiderando e fortemente volendo riproporre l'illusione integrazionistica degli anni Cinquanta. Eppure oggi non v'è l'ausilio di un piano Marshall; non v'è l'espansione scalare del ciclo dell'accumulazione; non v'è la congruità della compagine statuale alle ragioni dello sviluppo; non v'è il predominio indiscusso della leadership americana. Eppure il quadro delle discriminazioni sociali si va allargando; I' area della esclusione dalla cittadinanza politica si amplia; le zone di emarginazione sociale e di "nuova povertà" si ampliano. Eppure sono sotto gli occhi di tutti i guasti provocati da quel titanismo tirannico, consistente nel voler estirpare il conflitto dalla società, per totalmente amministrarla dall'alto. In forza del quale titanismo tutti i filtri sociali sono stati rimossi oppure ostruiti. Fino al punto in cui la società politica è diventata immemore della società civile e reciprocamente. Una sorda, cupa e inestinguibile ostilità si è andata accumulando nel tempo tra società politica e società civile. Questa base di reciproca delegittimazione ha svolto la funzione di piattaforma di lancio per improvvise e intensissime folate di conflittualità sociale.

In queste condizioni, come il caso italiano sta a comprovare, la soglia stessa del conflitto è suscettibile di essere valicata, surclassata fino alla teorizzazione e alla messa in pratica dello scontro armato. Quanto meno si riconosce piena cittadinanza politica al conflitto, tanto più incombe la minaccia che dal corpo sociale fuoriescano soggetti, figure, gruppi che pongono la costruzione della loro propria identità al di là della mediazione politica, in termini assoluti di inimicizia. È a fronte della riduzione dei margini del conflitto che qui viene teorizzata la guerra che, in questa ipotesi, surroga il conflitto, svolgendo nei suoi confronti una funzione vicaria perversa.

Eppure la crisi del ‘politico’ contemporaneo non prevede e non ammette l'estinzione del campo di tensione del conflitto. Al contrario, rende sempre più indifferibile l'elaborazione di una teoria del conflitto, della cittadinanza e delle istituzioni nelle società complesse. Insomma, una teoria della sovranità, dei beni, della rappresentanza e del mutamento che tenga conto dello specifico storico-sociale della società complessa. Il Sessantotto ha inoltrato questa massa di domande, alle quali non ha saputo fornire le risposte. E una risposta queste domande l'attendono ancora.

Riportarle alla luce vuole dire strappare il Sessantotto dal silenzio e ricercare da qui di porre rimedio al muro di incomunicabilità che ha separato e opposto società politica a società civile. Strapparlo dal silenzio significa, perciò, pure rivisitarlo criticamente, alla ricerca di nuovi codici politici, nuovi mondi espressivi e nuovi linguaggi comunicativi. Definitivamente oltre la cortina di ferro dei blocchi e dei limiti politici di questi ultimi 20 anni. Come ripeteva Ingeborg Bachmann: "Nessun mondo nuovo, senza una nuova lingua".

3.

Scommessa sul futuro, puntata sul passato: la nascita della lotta armata

Allo scopo di gettare luce su alcuni degli interstizi più caldi della zona di frontiera tra anni Sessanta e Settanta, reputiamo utile riflettere sui luoghi di nascita della lotta armata.

Circoscrivere la natura precipua della lotta armata impone di indagarla come forma politica. La categoria terrorismo e la carica di disvalore che l'accompagna mal si conciliano con una lettura politica.

Leggendo nell'albero genealogico e dottrinario della lotta armata, il discrimine col terrorismo appare netto e di lunga data. Spicca la critica leniniana agli "amici del popolo", uno dei fenomeni di terrorismo politico più significativi dell'Ottocento48. Risalendo ancora più indietro nel tempo, la stessa tradizione comunista, dal "Manifesto" di Marx ed Engels alla Prima Internazionale, si costituisce (anche) come confutazione oltrepassante del metodo terroristico e dei mezzi della cospirazione e della congiura49.

In Italia, la lotta armata non si distacca da questa costellazione teorico-politica. Semmai, ne tenta una traduzione non riuscita e poco legittima, sul piano storico e quello politico. Essa, a fronte della crisi del ‘politico’, rappresenta un inedito tentativo di messa in teoria e in prassi di una figura della guerra dove l'hostis non è il nemico esterno, ma l'antagonista interno5O. Questa particolare figura di guerra, per teorizzarsi e legittimarsi storicamente, non abbisogna del clima e delle condizioni della guerra civile. Anzi: è preparazione e organizzazione proprio della guerra civile.

La prima conseguenza politica è rilevante. L'unità del patto costituzionale, su cui si riannoda l'identità nazionale, viene rotta con un'operazione di delegittimazione interna che procede in direzione del rovesciamento dell'ordine dato. Unità costituzionale e identità nazionale vengono sottoposte a radicale contestazione, poiché ritenute profondamente discriminatrici, oppressive e lesive degli interessi, dei bisogni e delle condizioni di vita delle classi sociali meno abbienti.

Per esprimersi in termini più strettamente teorici e riferiti alle origini greche del pensiero politico occidentale, qui disconosciute sono la polis e la sua ar-chitettura, in virtù di cui il rapporto di cittadinanza giammai implica l'intromissione della guerra civile. Il progetto moderno della Rivoluzione, pertanto, ancor prima della specifica ipotesi marxiana, si configura come critica della polis. Esso ipotizza e agisce la guerra civile e non semplicemente la subisce ed a essa reagisce, in vista del ripristino dell'ordine statuale vulnerato. Questo discostamento operato dal Moderno a confronto della polis, vero e proprio intreccio di guerra civile e rivoluzione, si corona con le grandi Rivoluzioni del Settecento e dell'Ottocento51. Con esse l'Occidente porta a compimento il proprio destino e, in una qualche misura, tradisce le proprie origini.

Nessuna forma di terrorismo si pone obiettivi così alti e radicali. Il terrorismo politico, in tutte le sue espressioni, non si finalizza allo scardinamento dell' identità nazionale in funzione di un mutamento integrale delle fonti della sovranità e dell'assetto della società. Esso aggredisce la figura, non già l'organismo, della sovranità, lasciando impregiudicate le sue forme sociali e le sue regole normative. Questo anche nel caso di terrorismo tra Stati. Se una genealogia del terrorismo si vuole cercare, è al tirannicidio e alla monarcomachia che si deve pensare.

La genealogia del terrorismo è di tipo ipersoggettivo: sovradimensionate sono tanto la figura singola del despota che quella del sovvertitore. Corollario è la restituzione dell'ordine civile alla giustizia messa in mora. Il diritto di resistenza medioevale può essere considerato, al pari del romanticismo anarchico a cavallo tra i due secoli, una delle espressioni emblematiche di questo approccio all'ordine politico e al conflitto.

Per contro, la genealogia della lotta armata è iperfunzionalista: progettazione, azione e strategia sono finalizzate alla delineazione di una nuova forma di società e di un nuovo modello di ordine politico, passando per la puntuale messa in crisi e dissoluzione della società borghese, delle sue funzioni politiche, economiche e istituzionali. Se una genealogia remota si vuole ricercare, nel caso della lotta armata deve guardarsi a quegli enunciati della prima filosofia greca che inquadrano la politica come "vita buona" e "ordine felice" e ai riformatori utopistici in prima fase del Moderno. Del resto, questa linea genealogica è il riferimento di tutte quelle posizioni di progresso ed emancipazione che si collocano tra epoca moderna e contemporaneità.

La posta in gioco della lotta armata è, pertanto, stata tremendamente elevata. La sua parabola, avendo mancato traumaticamente l'orizzonte teleologico di riferimento, si è risolta in tragedia. Ciò ha fatto sì che la sconfitta della lotta armata, per i suoi militanti, abbia assunto il segno e il senso del dramma, esponendoli alla tentazione e alla furia di mangiare le proprie carni, stravolgendo completamente o azzerando le motivazioni causali e le ragioni etico-politiche a base della loro esperienza.

Un sovraccarico simbolico straneante, in guisa di bombardamento semantico, ha concentrato il fuoco contro il corpo, ormai, sfatto della lotta armata, dissacrandola e mitizzandola in negativo come sindrome delle tecniche polemologiche. Gli effetti di ridondanza della spettacolarizzazione funerea di un fenomeno politico presentano oggi i "terroristi" come degli esseri allucinati, povere creature, tristemente e miserevolmente errabonde: svuotati cerebralmente e politicamente; minorati, emotivamente.

Per converso, ieri "i terroristi" erano evocati con immagini di forza generante timore.

Ieri e oggi, l'atteggiamento di rimozione di fondo è il medesimo. Con una differenza: ieri i "terroristi" incutevano paura e, dunque, "rispetto", poiché nell'immaginario collettivo incarnavano l'immagine dell'"Angelo della vittoria" e della "vendetta"; oggi ispirano disistima e disinteresse e, dunque, rivalsa e fastidio, poiché vengono associati e schiacciati alla immagine stessa della sconfitta e della debolezza. È un rituale antico della psicologia politica e dei comportamenti di massa, oscillante tra la demonizzazione e il cerimoniale esorcistico.

La grandissima parte delle letture della lotta armata, anche a sinistra (anzi: in certi casi, soprattutto a sinistra), non sfugge alla carta moschicida di questa griglia impoverita, di estrema spoliticizzazione e di depauperamento simbolico del fenomeno. Strappare la lotta armata allo status, al corpus e al telos che politicamente le competono equivale a ridurla a fatto criminale tout court. In tal modo, essa viene fatta letteralmente scomparire come problema politico, come interrogativo politico e come riflessione politica sulla società. Per dirla con Rawls, così facendo, si ingigantisce il "velo di ignoranza" che caratterizza l'azione e il pensiero dei singoli e della collettività, delle istituzioni e dei poteri.

Dove comincia la lotta armata, dunque? E perché?

È sufficientemente lecito ipotizzare che la lotta armata si collochi al culmine di due eventi storici. Il primo: l'esaurirsi dell'onda lunga dell'espansione capitalistica originatasi col secondo dopoguerra e che aveva annodato in un unica processualità produzione di serie, consumi di massa e Welfare. Il secondo: il momentaneo ripiegamento dell'anima più viva del Sessantotto.

Per quanto riguarda il primo punto, va osservato che la breve congiuntura favorevole del 1967-68 non valse a invertire la tendenza alla crisi, di cui la recessione del 1963-64 era stata il primo minaccioso presagio. Proprio in questa fase, i paesi dell'area Ocse conosceranno il forte decremento del tasso di crescita annua del Pnl che, dal valore del 5% relativo al periodo 1961-69, scenderà al valore del 3,6% del periodo 1969-79. Entro questo trend negativo si inscriverà la vera e propria depressione del 1973-74, accompagnata dal primo shock petrolifero.

Per quanto riguarda il secondo punto, si deve rilevare che la convergenza segnata nell'autunno caldo tra mobilitazione studentesca e giovanile e mobilitazione operaia settorializza le motivazioni più profonde del Sessantotto, con uno sbilanciamento eccessivo verso la critica del "sistema della riproduzione allargata". La centralità della "questione operaia" nella mobilitazione collettiva di quegli anni è anche evidenziata da quel dato che vede il conflitto condurre ad una crescita del salario reale dei lavoratori dipendenti, relativamente al periodo 1969-72, oltre la misura del 50%.

La lotta armata si autogiustifica direttamente come soluzione della crisi. Soluzione che prevede:

1) come suo approdo teleologico il comunismo: il "regno della libertà", dell'abolizione dello Stato e dell'estinzione delle classi, della felicità individuale e collettiva, della giustizia politica e sociale;

2) come strategia adeguata ed efficace la guerra di lungo periodo; insediata nella sua prima fase come "propaganda armata"52.

E ancora. La lotta armata si autorappresenta segnatamente come superamento dell'impasse sia dell'anima civile-istituzionale che di quella politico-sociale dei movimenti.

L'impegno civile-istituzionale è criticato come una forma camuffata di integrazione socialdemocratica. Quello politico-sociale dei gruppi della sinistra extraparlamentare è bollato come manifestazione di economicismo politico e spontaneismo organizzativo, mille miglia al di qua del nodo gordiano della "questione dello Stato" e della conquista del "potere politico"53.

V'è un'ulteriore e non secondaria determinazione alla base della teorizzazione del passaggio alla lotta armata. Secondo i fondatori delle Br, con la strage alla filiale della Banca dell'Agricoltura a P.zza Fontana già lo Stato era sceso sul terreno della lotta armata; non rimaneva, dunque, che dimensionarsi al nuovo livello e secondo le nuove condizioni dello scontro in atto54. In questo contesto di precipitazione autoritaria della democrazia politica, le Br drammatizzano oltre il lecito i tentativi di golpe più o meno striscianti e più o meno istituzionali che, tra gli anni Sessanta e Settanta, si succedono con regolare puntualità55.

Tutte le tendenze di quello scorcio temporale, secondo le Br, convergono verso la militarizzazione del rapporto di potere tra le classi:

1) così sul piano economico-sociale: dove l'accumulazione capitalistica, con un rimando specifico alla teoria delle crisi di Marx, si ritiene approdata alla soglia della crisi strutturale56;

2) così sul piano politico-istituzionale: dove la crisi della democrazia parlamentare e del corrispettivo sistema della rappresentanza si ritiene pervenuta a irreversibili forme di autoritarismo reazionario;

3) così sul piano culturale: dove la crisi delle teorie dell'integrazione si reputa proiettata in una delegittimazione culturale categorica del flusso dei bi-sogni sociali; di quegli anni, difatti, sono le teorie della crisi come "scarsità delle risorse" che leggono le recessione del 1963-64 in termini di contrazione del quadro delle compatibilità politico-sociali.

Di fatto, con la sua costituzione, le motivazioni che la sostengono e la prospettiva che la definisce, la lotta armata comunica il messaggio secondo cui il Sessantotto era ormai morto e che, nel contempo, essa — la lotta armata — ne era l'erede autentico e più legittimo. Una fase storica, per le Br, si era chiusa e un'altra necessitava aprirne, se non si voleva soccombere sotto i colpi di uno Stato particolarmente autoritario e di un "fronte borghese" compattamente ed esasperatamente antiproletario. Secondo le Br, era quanto mai vitale uscire dal bozzolo del Sessantotto, rompere col piano prospettico delle sue finalizzazioni. La possibilità della rottura, a parere delle Br, era giustappunto fornita dalla lotta armata, con la quale faceva la sua comparsa un nuovo "linguaggio"; il "discorso" e il "linguaggio" scaturenti dall'intreccio di politica e guerra, garanzia di quella soluzione rivoluzionaria altrimenti non approssimabile e mai attingibile.

Su questo tornante, analisi socio-economica, teoria, politica, strategia e programma nelle Br si stringono indissolubilmente. Uscita dalla crisi e uscita dai limiti del Sessantotto convergono, per le Br, nel luogo e nel momento di fondazione della lotta armata.

In primo luogo, i "limiti del capitale" costituirebbero la possibilità e la necessità del comunismo57.

In secondo, i "limiti della democrazia" fonderebbero la possibilità e la necessità della guerriglia nella metropoli58.

In terzo, i "limiti del Sessantotto" imporrebbero come nuova forma del processo rivoluzionario la lotta armata per il comunismo.

Lo spettro sufficientemente largo di questa impostazione consente alle Br di rivolgersi a una base sociale, in quel tempo, relativamente ampia. Su questa area sociale e su questo potenziale di aggregazione esse giocano la propria scommessa e puntano il loro progetto politico.

Secondo le Br, il conflitto non è risolutivo delle contraddizioni sociali. Anzi, finisce col subirle, concludendosi con i morti in piazza e il supersfruttamento alla catena di montaggio. Per le Br, il conflitto è sempre ricondotto all'ordine dato, sempre da esso manipolato e regolato. Pertanto, urge alludere, esse sostengono, ad una nuova forma di ordine politico che dica della pensabilità e della fattibilità di un'altra società possibile. La lotta armata, dal punto di vista delle Br, è il nuovo ordine politico in farsi costruttivo: la sua progettazione politica e le sue prassi sociali costituiscono la nuova società in fieri, i nuovi valori della "comunità reale" in azione59.

L'insediamento della lotta armata operato dalle Br assume la forma di un riflesso restituito da uno specchio deformato. Il rapporto con la storia, nelle Br, non è messa in relazione col reale; bensì ricostruzione che della storia dava l'ideologia politica. Lo specchio deformante della ideologia politica non restituisce all'occhio lembi e territori di realtà, ma catene causali predeterminate di processi definiti in vitro. La storia, i processi sociali e il destino degli uomini sono visti con gli occhiali di una filosofia della storia universalizzante, a mosse precostituite, il cui gioco è già fatto sotterraneamente. Si tratterebbe soltanto di portare alla luce questo gioco e inserirvi dentro le mosse richieste. Secondo le Br, la storia inoltra una incomprimibile istanza di liberazione e la violenza politica che trascorre in lotta armata è la "forma svelata" di questa catarsi liberatoria: equivocando e svilendo il discorso di Marx intorno alla "critica delle armi", assumendo le sembianze della lotta armata, la violenza politica viene ridotta a "fatto automatico"6O.

Le Br è con presupposte invarianti storiche, non già con l'accadimento storico e la sua processualità, che entrano in dialogo. Le costanti di invarianza, del resto, sono il prodotto epistemologico e gnoseologico delle scienze sociali dell'Ottocento; in particolare, delle fortunate parabole dell'evoluzionismo e del positivismo che traccia cospicua lasceranno nella stessa elaborazione marxiana. È noto che per Marx ed Engels la dialettica storica ha un andamento conforme a leggi, vere e proprie regole del suo movimento; regole che, nella sostanza, precostituiscono la storia come divenire della "lotta di classe"61. Le Br trasportano meccanicamente questa posizione nella realtà delle società industriali avanzate e, in determinazione ulteriore, la sottopongono ad un'operazione che è di disossamento teorico-politico e, insieme, di enfatizzazione guerrigliera. In Marx ed Engels, la violenza politica non si sostituisce al processo della rivoluzione; né assurge mai al rango di strategia politica.

È ben vero, però, che innovazioni e svolte andavano determinate nelle teorie della trasformazione sociale. Ma a partire dalla presa d'atto coerente che le società a struttura semplificata (come nell'Ottocento) e quelle a struttura industriale di primo grado (come tra i due conflitti mondiali e poco oltre) sono, ormai, un retaggio del passato. È ben vero che proprio intorno a questi nodi irrisolti si consuma la crisi delle teorie politiche e dei modelli culturali della Sinistra, più in generale62. La transizione alla società complessa era attualità storica.

È questa transizione che sfugge completamente al campo di analisi delle Br. È questa transizione che le Br adattano alle invarianti storico-filosofiche della loro Weltanschauung fondamentalista.

Le Br si trovano al bivio storico della crisi della politica, della crisi della Sinistra; della crisi del modello di accumulazione uscito dal secondo conflitto mondiale; della crisi delle teorie dell'integrazione sociale. Si trovano al bivio dei primi ripiegamenti delle culture e dei comportamenti più vivi del Sessantotto. Stanno anche collocate al bivio della crisi della guerra come mezzo strategico di ridefinizione della geografia delle relazioni internazionali e dell'ordine imperiale mondiale: col chiudersi dei primi due conflitti mondiali, questa funzione strategica della guerra viene meno e prendono luogo conflitti regionali e guerre civili locali63. Esse non leggono questa enorme e tremenda "massa critica" in maniera conseguente e puntuale.

Alla crisi del ‘politico’ rispondono con la messa in codice del primato della politica rivoluzionaria. Alla crisi della guerra rispondono con la teoria-prassi della lotta armata, creando il teatro di senso inedito in cui la politica rivoluzionaria è omologata alla lotta armata e la lotta armata innalzata a strategia fondante del progetto rivoluzionario. Alla crisi delle teorie dell'integrazione sociale rispondono con la teoria della superiorità ed egemonia culturale della progettazione sociale rivoluzionaria. Al primo deperire delle culture, dei valori e dei comportamenti più vivi del Sessantotto64 le Br rispondono con la riproposizione di culture e valori rientranti in uno spazio simbolico e in un ambito storico tipici di società più arretrate.

Di fatto, le Br sono tra coloro che più subiscono gli effetti di questa crisi multipla. Tra coloro che meno agiscono questo pluriverso critico, per la determinazione di un passaggio di superamento. Ne sopportano il carico e ne tentano l'uscita, volgendo l'occhio e il passo al passato. Tra la Modernità capitalistica e la Tradizione della Rivoluzione scelgono la seconda. Inquietanti domande di fondo rimangono eluse.

Quale rapporto, quale nesso critico instaurare tra Tradizione e Modernità? E tra Rivoluzione e Complessità, Complessità e Democrazia?

Quale connessione ridisegnare tra continuità e superamento, tra ordine e mutamento?

Quale spazio specifico e congruo aprire, per dare accoglienza alla mole di nuovo che scuote la società dalle fondamenta? Di fronte a questi interrogativi possibili, le Br arretrano. Alla problematicità della ricerca di risposte effettualmente nuove, alla "incertezza" di una esplorazione in terre vergini preferiscono la "sicurezza" dell'adesione ai valori e alle culture della Rivoluzione ridotta a mito, a categoria ideologica. Esse rinserrano la dimensione culturale nella gabbia dell'ideologia, spingendo la dimensione politica verso un cortocircuito. E si tratta di un cortocircuito diverso da quello che imputano alle politiche borghesi, a quelle della Sinistra e a quelle dei gruppi della sinistra extraparlamentare.

Secondo le Br, solo il nesso tra politica e guerra può squarciare l'effetto di padronanza che fa sì che l'ordine disegni sul conflitto e sulla società una robusta camicia di forza. Per le Br, l'ordine nelle società democratiche avanzate si assolutizza e totalizza. È la rottura di questa totalità politica che legittimerebbe la lotta armata come unico terreno praticabile da parte dell'opposizione politica e dell'opposizione sociale; unico piano a partire dal quale è definibile e costruibile l'alternativa sociale e politica. Come dire: proprio perché le società democratiche non assicurano sbocchi di apertura al conflitto, il conflitto si trasforma ed è trasformabile in guerra civile. Ora, per le Br, il raggio di incidenza della guerra civile sfugge ai localismi delle aree periferiche e si insedia come "disarticolazione" degli avamposti dell'impero capitalistico mondiale.

Contro il Leviatano non sono possibili mediazioni: ecco in estrema sintesi la teoria politica dello Stato delle Br, una sorta di Hobbes capovolto. Alla dominanza, tipicamente hobbesiana, dello stato sul ‘politico’ subentra il primato del ‘politico’ sullo Stato. Anzi: è il monopolio del ‘politico’ declinato sul versante della guerra civile che ha qui ragione dell'assolutismo statuale. Qui le Br, inconsapevolmente, rovesciano specularmente uno dei passaggi fondanti del Moderno. E, diversamente dal caso rappresentato da C. Schmitt65, non è la relazione di inimicizia amico/nemico che fonda il ‘politico’, definendone il criterio, l'orizzonte di sovranità e lo spazio di decisione. Le Br mettono in codice non una contrapposizione di figure o di soggetti; bensì una collisione inestinguibile tra due forme di società alternative l'una all'altra: l'atto della società borghese contro la potenza della società comunista. È questo contrasto irriducibile che fonda, per le Br, la guerra civile rivoluzionaria per il comunismo. Possiamo aggiungere: legittima la contrapposizione come contrasto tra potenza e atto, con buona pace di Aristotele. Ciò che qui va letta non è l'autonomia del ‘politico’ tout court; ma della Rivoluzione che diviene categoria, evento, possibilità e necessità politico-militare. Questa forma di autonomizzazione passa letteralmente sopra a quanto di rilevante accaduto nel XX secolo; particolarmente, all'accaduto storico del ventennio 1948-1968.

Per mettere in immagine: il percorso teorico-analitico fondamentale delle Br resta fermo alla sequenza Hobbes/Marx. Quanto verificatosi da Marx in avanti, in termini di teoria politica e analisi economico-sociale, trasformazione delle strutture sociali e delle forme di governo politico rimane inesplorato. Una teoria politica monopolista, se così può dirsi, intende aver paradossalmente ragione di forme sociali e assetti politici che si andavano costituendo come rottura di ogni tipo di monopolio, a partire dall'ambito politico e da quello economico. La società borghese, già con la "democrazia di massa" e la crisi dei regimi democratici che consegue al primo conflitto mondiale, aveva rotto il monopolio politico dello Stato e della politica nella società.

Col Sessantotto si spezza il monopolio della stessa mobilitazione politica imputata tradizionalmente al sistema dei partiti. Il monopolio disegnato dal le-game di coappartenenza tra ‘politico’ e guerra, tipico delle Br e nuova forma politica assoluta e totalizzante, sospinge indietro questa nuova orizzontalità storica. L'orizzonte politico-sociale delle Br è quello dell'uniformità e della regolazione, della trasparenza e semplificazione di tutte le forme e le relazioni sociali. Quello della storia, invece, parla delle differenze e della differenziazione sociale, della complessità e della variazione, della pluralità del senso e della multiversalità degli spazi comunicativi, dello sfondamento del tetto dell'amministrazione e pianificazione politica universale degli universi sociali. Questa soglia di senso inedita, più ricca ed emancipante, riceverà negli anni Settanta prime e parziali traduzioni dalla mobilitazione collettiva. Non certo casualmente, saranno le prassi politico-istituzionali e quelle dell'azione combattente i fattori più estranei, negli anni Settanta, a questo nuovo insediamento di senso. Limiti ed ambiguità interni e un'azione a tenaglia dall'esterno strozzeranno i cicli dei movimenti degli anni Settanta. L'area a cui si rivolgono le Br, ha, sì, una "base di massa", ma trattasi di una base residuata come prodotto di vecchie linee di tendenza e di superati processi sul piano storico-sociale. Una base che, sotto l'urto dei nuovi fenomeni in corso, è in rapida obsolescenza. Su tutto quanto l'orizzonte della loro azione, del loro progetto, della loro strategia e del loro radicamento, le Br scommettono sul futuro, puntando sul passato. È un vero e proprio dramma, intenso ed enorme.

 

Note

1 K. Marx, Il Capitale, Libro primo, Roma, Editori Riuniti, 1970.

2 P. Farneti, Dimensioni della scienza politica, "Teoria politica", n. 2, 1985, p. 82.

3 Ibidem, p. 82.

4 F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia Einaudi, Annali, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 1250, 1252.

Su una linea di interpretazione affine, cfr. A. Caracciolo, Stato e società. Problemi dell'unificazione d'Italia, Torino, Einaudi, 1960.

Ultimamente, ha ripreso e allargato l'intera questione, riconducendola ad una delle sue fonti classiche [Lipset-Rokkan (eds.), Party Sistems and Voter Alignements, New York, 1967], S. Fabbrini, Il riformismo alla prova, "Democrazia e diritto", n. 1/2, 1987, pp. 111 ss.

5 F. Bonelli, op. cit., p. 1254.

6 Sul trasformismo cfr., da ultimo, le acute note di V. Mura, Il trasformismo: fenomeno specifico o costante del sistema politico italiano?, "Teoria politica", n. 1, 1987, pp.37-60.

7 Sulla debolezza della società civile italiana fondamentali: G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia. dalla caduta dell'impero romano ad oggi, Torino, Einaudi, 1974; G. Pasquino, Partiti, società civile e istituzioni, in G. Pasquino (a cura di), Il sistema politico italiano, Roma-Bari, Laterza, 1985.

Da questo dato G. Galli deriva anche quella debolezza tutta italiana del capitalismo e della borghesia liberale (I partiti politici, Torino Utet, 1974), alla base, secondo la sua fortunata formulazione, del "bipartitismo imperfetto" (Il bipartitismo imperfetto, Bologna, Il Mulino, 1966).

8 Si tratta degli interventi di L. Gallino e F. Compagna al Convegno "Gli squilibri regionali e l'articolazione dell'intervento pubblico", Saint Vincent, 37 settembre 1961. L'intervento di Gallino ha per oggetto "Problemi inerenti alle zone di fuga". Sull'argomento, cfr. le note anonime "Zone di attrazione" e "zone di fuga", "Cronache meridionali", n. 4, 1961, pp. 13-16.

9 Nel periodo 1946-1960, l'emigrazione meridionale verso i paesi transoceanici ammonta a 1.070.433 unità. Nel 1960, l'emigrazione ammonta a 400 mila unità, tenendo in conto la Francia, la Svizzera e la Germania occidentale. Secondo un calcolo di P. Sylos Labini del 1954, l'immigrazione dal Sud al Nord del paese procede ad un tasso di 70 mila unità all'anno. Sempre secondo il calcolo relativo al periodo 1950-60, l'immigrazione meridionale verso il Centro-Nord ammonta a circa 800 mila unità. Tirando le somme, nel decennio 1950-60, secondo gli stessi calcoli ufficiali, circa 2 milioni e 200 mila cittadini meridionali sono costretti ad abbandonare la loro terra. Cfr. A. Fontani, Il rovescio del "miracolo": l'emigrazione meridionale, "Cronache meridionali", n. 4, 1961, pp. 3-13.

10 Per un esaustivo excursus sul punto si rinvia a P. Almondo, Integrazione sociale (voce), in Politica e società (a cura di P. Farneti), Tomo 9° de Il mondo contemporaneo (a cura di N. Tranfaglia), Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 463-481.

11 Su "Quaderni Rossi", Panzieri pubblica nei primi anni Sessanta due contributi assai importanti: Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo e Plusvalore e pianificazione, il quale compare nello stesso numero della rivista (il numero 4) che ospita la prima traduzione italiana del "Frammento sulle macchine" dai Grundrisse di Marx (la traduzione è di R. Solmi). Questi due testi sono stati, poi, raccolti in un'antologia di testi del secondo periodo panzieriano, curata da D. Lanzardo, La ripresa del marxismo-leninismo, Milano, Sapere, 1972. Qualche anno dopo, i testi fondamentali di questo periodo vengono raccolti da S. Mancini in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Torino, Einaudi, 1976. Alcuni temi della riflessione panzieriana sono presenti, ma in un altro contesto teorico e in una cornice politica divergente, in M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966.

12 Cfr., sul punto, G. Amato, Come governare la società avanzata, Relazione al Convegno del Psi "Quale Riformismo", Bologna, 22-24 febbraio 1985, successivarnente in "Mondoperaio", n. 5, 1985, pp. 64-71; A. Melucci, L'invenzione del presente, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 100 ss.

13 G. Pasquino, op. cit., p. 3.

14 P. Farneti, Il sistema politico italiano, Bologna, Il Mulino, 1973.

15 Ibidem, p. 26.

16 Ibidem, p. 3

17 Ibidem, p. 26.

18 Questa è la posizione non solo di alcuni settori del Psi, ma anche di G. Pasquino, op. cit., p. 4.

19 A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 1983.

20 G. Ruffolo, Riforme e controriforme, Bari, Laterza, 1974, pp. XV-XVII, XVIII-XX-XXVIII. Sulla stessa linea interpretativa, D. Gambetta-L. Ricolfi, Il compromesso difficile, Torino, Rosenberg & Sellier, 1978, pp. 37-39, 41-42.

21 P. Farneti, op. cit., pp. 26-27.

22 Emblematiche, in proposito, le teorie di N. Luhmann: Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979; Potere e codice politico, Milano, Feltrinelli, 1982; Teoria politica nello Stato del benessere, Milano, Angeli, 1983.

23 P. Farneti, op. cit., pp. 26-27.

24 P. Farneti, Introduzione a Politica e società, cit., p. 10.

25 Ibidem, p. 10.

26 Ibidem, p. 11.

27 Ibidem, p. 11.

28 Sul problema, in veste di tema teorico, cfr. A. Parisi (a cura di), Mobilità senza movimento, Il Mulino, Bologna, 1980.

29 Sul punto, cfr. G. Pasquino, op. cit., p. 7.

30 Ibidem, p.7.

31 Su quest'ultimo aspetto acutamente insiste S. Veca, Alcune congetture sull'insorgenza della contestazione, "Teoria politica", n. 3, 1986, p. 153.

32 Questo convincimento antico è stato, recentemente, ribadito da F. Mussi, Il '68 era gia cominciato, "l’Unità, 22 novembre 1987. Organicamente, il "Supplemento sul '68" de "il manifesto", gennaio 1988 è interamente dedicato alla contestazione studentesca europea e americana del 1967.

33 Stralci significativi di questo documento sono reperibili in "l'Espresso '68", supplemento a "l'Espresso", 25 gennaio 1988, pp. 62-63.

34 Ibidem, p. 63.

35 Ibidem, p. 63.

36 Ibidem, p. 63.

37 Ibidem, p. 67. Stralci più ampi di questo documento sono pubblicati nel supplemento citato de "il manifesto" a p. 20; il Supplemento, inoltre, ospita alle pp. 18-21 un intervento di R. Curcio che dell'esperienza dell'Università negativa fu una figura di rilievo.

38 Ibidem, p. 67.

39 Ibidem, p. 60. Stralci delle "Tesi" sono pubblicati anche nel Supplemento citato de "il manifesto", gennaio 1988, pp. 22-23; nel Supplemento compare anche un articolo di R. Gagliardi, L'impossibilità di essere normali. Adriano Sofri e l'occupazione di Pisa, pp. 21-23.

40 Ibidem, p. 61.

41 Ibidem, p. 61.

42 Per la ricostruzione dei due eventi, da ultimo, cfr. A. Bolaffi, Non è stato che un inizio, "l'Espresso '68", cit., p. 18.

43 Citato da A. Bolaffi, op. cit., p. 18. La traduzione integrale del "Manifesto", ad opera di G. Jervis, comparve nei "Quaderni piacentini", n. 32, 1967 e si trova riprodotta nel "Supplemento sul '68" de "il manifesto", gennaio 1988, p. 6.

44 Citato da A. Bolaffi, op. cit., p. 22.

45 Ecco come A. Bolaffi ha velocemente ricostruito questa genealogia:

tra l'autunno del '68 e quello dell'anno successivo, nascono tutti i gruppi a sinistra del PCI. Il primo fu in ottobre quello dell'Unione, seguì nel dicembre Avanguardia operaia. Il I maggio 1969 è la volta de La Classe che nel settembre si trasforma in Potere operaio. In giugno poi Il Manifesto. Per ultimo toccò al Ms di Milano. Ma il vero grande fatto sarà quello della costituzione di Lotta continua, cioè dell'unico gruppo che in qualche modo fu in grado di salvaguardare ed esprimere alcuni dei bisogni più profondi del movimento del '68, dando voce al suo spontaneismo e all'idea di un agire politico fortemente connotato in senso esistenziale, dove la militanza fosse anche legame personale ed esperienza di gruppo. Nacque ai cancelli di Mirafiori come intestazione dei volantini distribuiti tra il maggio e il giugno dall'assemblea operai-studenti. Il I novembre esce il giornale, espressione di un progetto di organizzazione nazionale (op. cit., p. 22).

Sulle lotte operaie del 1968 è utile la consultazione del "Supplemento sul '68" de "il manifesto", marzo 1988, in cui è reperibile una esaustiva bibliografia ragionata curata da P. Vimo.

46 Su questo paradosso e sulle sue causali ha con acume insistito M. Perniola, Simulacri del potere e potere dei simulacri, Relazione letta a Mantova il 21-10-78 al Convegno "Pratiche dell'immaginario, Pratiche del reale"; successivamente raccolta in La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1983, pp. 79.

47 Sul punto, cfr. A. Bolaffi-G. Marramao, La socialdemocrazia tedesca oggi: ovvero i paradossi della gestione operaia, "Laboratorio politico", n. 3, 1981, pp. 104-131.

48 Cfr. Lenin, Chi sono gli "amici del popolo", Roma, Editori Riuniti, 1971. Lenin fissa ad un più alto livello teorico la critica ai narodniki in Che fare?, Roma, Editori Riuniti, 1968.

49 In particolare, Marx ed Engels polemizzano con il paradigma della clandestinità e del "colpo di mano" che caratterizza i primi movimenti rivoluzionari europei antiborghesi: dalla "Congiura degli Eguali" di Babeuf al blanquismo fino alle organizzazioni clandestine che si formano nei moti nazionali. Si confronti, al riguardo, tutta l'attività pubblicistica e di militanza di Marx ed Engels che va dalla "Lega dei Comunisti" alla Prima Internazionale.

50 Sul posto occupato dalla guerra nel pensiero politico antico ha acutamente insistito U. Curi, Alle origini delle categorie di guerra e pace nel pensiero antico, "Critica marxista", n. 1/2, 1984; successivamente in Pensare la guerra, Bari, Dedalo, 1985. Si veda ancora U. Curi-A. Stragà, Pace/guerra (voce), in G. Zaccaria (a cura di), Lessico della politica, Roma, Edizioni Lavoro, 1987.

Per una ricognizione sul posto occupato dalla guerra nel pensiero politico moderno si veda U. Curi (a cura di), Della guerra, Venezia, Arsenale Cooperativa Editrice, 1982. Per una densa rassegna sul concetto si veda U. Gori, Guerra (voce), in N. Bobbio N. Matteucci (a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet, 1976. Si veda, sul punto, anche l'approfondita voce di N. Bobbio, Pace, in Dizionario di politica, cit.

51 Sulle vicende dello Stato moderno si rinvia essenzialmente alla puntuale ricostruzione di P. Schiera, Stato moderno (voce), in Dizionario di politica, cit.; dello stesso autore è da consultare Stato (voce), in Lessico della politica, cit.

Sul progetto moderno della rivoluzione cfr. le fondamentali opere di R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino, 1972; Futuro passato, Genova, Marietti, 1986.

Sulla rivoluzione in ambito moderno e contemporaneo cfr., oltre alle citate opere di Koselleck, le dense e fini osservazioni di G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma, Editori Riuniti, 1983. Dello stesso autore è una intensa rassegna sul tema della sovranità, Sovranità (voce), in Lessico della politica, cit. In tema di rivoluzione risultano di rilievo G. Pasquino, Rivoluzione (voce), in Dizionario politico, cit.; S. Veca, Ragione e rivoluzione, in Questioni di giustizia, Parma, Pratiche Editrice, 1985; G. Fiaschi, Rivoluzione (voce), in Lessico della politica, cit.

Sull'intreccio di guerra civile e rivoluzione, oltre ai citati lavori di Koselleck, fondamentale R. Schnur, Rivoluzione e guerra civile, Milano, Giuffrè, 1986. Pregevole il saggio introduttivo a questo lavoro di Schnur di P. P. Portinaro, Preliminari ad una teoria della guerra civile.

Sulla concezione, infine, della guerra come "presupposto del politico" d'obbligo è il rinvio a C. Schmitt, Il criterio del ‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972.

52 Ciò è, fin dal principio, particolarmente chiaro nell'elaborazione teorica e nella prassi delle Br. Si vedano la Autointervista del 1971 e la Autointervista del 1973, reperibili in Soccorso Rosso, Brigate rosse, Milano, Feltrinelli, 1976.

53 Cfr. Ie due Autointerviste citate.

54 Ibidem.

55 Oltre alle due Autointerviste, sul punto, è da vedere anche la Risoluzione della Direzione Strategica, aprile 1975. Sui "limiti della democrazia" italiana in quest'ultimo ventennio fondamentale il pregnante excursus di F. Cazzola, Appunti per lo studio della democrazia in Italia, "Teoria politica", n. 2, 1985.

56 L'insistenza su questo aspetto della posizione marxiana e la sua messa in connessione con la crisi del capitalismo in atto non è prerogativa esclusiva delle Br. Era quello uno dei temi di dibattito politico-culturale più vivi in quel tempo all’interno della Sinistra. Basti pensare alla fortuna che in quasi tutti gli anni Settanta ha la celebre antologia C. Napoleoni-L. Colletti (a cura di) Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo?, Bari, Laterza, 1970.

57 Come è noto, il luogo meglio specificato teoricamente di questo leitmotiv marxiano è la 3ª Sezione del 3° libro de Il Capitale, cit.

Le Br approfondiscono, dal loro punto di vista, questo tema specifico nel documento Crisi e rivoluzione, allegato alla Risoluzione dell'aprile 1975. Risoluzione e documento sono pubblicati in "Contro-Informazione", n. 7/8, 1976.

58 Si risente qui un misto di influenza che va dalla guerriglia latino-americana alla resistenza. È soprattutto la prima produzione teorica delle Br che accoglie un ibrido di motivi neoguerriglieri e neoresistenziali che, assieme alla critica del revisionismo mutuata dalla rivoluzione culturale cinese, rappresentano il referente da esse privilegiato.

59 Nemmeno le Br si sottraggono al potere di fascinazione dalle esperienze di guerriglia che nel periodo si affermano nel mondo. Del resto, la letteratura storica e politologica sull'esperienza guerrigliera, per articolazione qualitativa e quantità, è all'epoca di assoluto rilievo. Fa spicco su tutti l'interesse per Che Guevara, i Tupamaros e Giap.

Altrettanto rilevante è l'attenzione sul Black Power e sulla rivoluzione culturale cinese. Alla Raf, invece, la pubblicista del tempo dedica un'attenzione minore.

60 Su questo punto, cfr. A. Chiocchi, La violenza politica e il suo codice: il caso delle Brigate rosse, "Il Tetto", n. 133, 1986.

61 I luoghi canonici di questa teorizzazione sono sin troppo noti: dall'"Ideologia tedesca" al "Manifesto del Partito Comunista"; dalla "Prefaione" a "Per la critica dell'economia politica" al "Poscritto" alla seconda edizione de "Il Capitale"; dall'"Antidhüring" alla "Dialettica della natura".

62 Cfr. le penetranti osservazioni di G. Marramao, op. cit., pp. 169-86. Si veda altresì, A. Bolaffi-M.Ilardi, Intervento dei curatori, in Fine della politica?, Roma, Editori Riuniti, 1986.

63 Decisivo, sul punto, il contributo di R. Koselleck nelle due opere citate. Si veda anche A. Chiocchi-R. Marrone, L'etica tra pace e guerra, "Il Tetto", n. 145, 1988.

64 Su ciò che di vivo e ciò che di morto è rintracciabile nel '68 si veda il breve, ma interessante, articolo di S. Maffettone, È vivo e morto, "Il Mattino", 3 marzo 1988.

65 Cfr. C. Schmitt, op. cit.