CAP. IV

ZONE IN OMBRA.

IL ‘68, LA SINISTRA E IL MEZZOGIORNO

 

1. STORIA, LINGUAGGI E MEMORIA: LE RISCRITTURE DEL'68

 

1.1. Il difficile varco del presente

Il 1988 è stato un anno di ripetute discussioni sul Sessantotto, che è stato, per lo più, assunto come metafora.

Si sentiva il bisogno di distaccarsene a mo' di dimostrazione cartesiana di una secessione resa in pubblico; oppure si avvertiva l'esigenza di ripensarlo dalla frontiera dell'attualità, fino a sondarlo nelle sue viscere.

Il Sessantotto è stato, così, assunto come metafora del presente. Non soltanto perché, come ci ha ricordato, L. Canfora, ogni storia è sempre storia presente; ma anche perché qui il presente è apparso ancora più incerto dell'incerto "evento Sessantotto".

Ciò riporta in chiara luce un rompicapo antico: non è possibile "esonerarsi" dal passato, sinché non ci si "esonera" dal presente. Liberarsi del passato fa tutt'uno con la liberazione del presente che dal presente prende cominciamento.

Il Sessantotto, allora, come metafora è stato, piuttosto, una metafora dell'assenza. Volontariamente e involontariamente, come una sorta dì riflesso condizionato, ha richiamato presenze antiche, in cui tempo, donne, uomini e vita sociale erano (o sembravano essere) più vivaci e più visibili. Per ritrovare il presente, si è evocato il passato, come nel cristallo di vetro dell'indovina.

È ben vero che in qualche non raro caso procedimento e ragionamento sono stati esattamente speculari. Una costante ha imparentato tutti questi tentativi: il tempo non ha risposto alla chiamata. Sia quando è stato chiamato in causa il passato e sia quando lo è stato il presente.

Chiediamoci: perché questo movimento circolare che dal silenzio approda al silenzio?

Una delle concause principali sembra essere la seguente: l'interrogazione del tempo non si è accompagnata con l'autointerrogazione conseguente di se stessi quali individui e "soggetti sociali", così come si è attualmente collocati nel tempo, predisposti politicamente nella scacchiera sociale e determinati nelle mosse intenzionali dell'esistenza, le pause, le interruzioni e le fratture del passato e del presente; così come i loro slanci più radicati in profondità sono rimasti come sospesi.

Una difficoltà di orientamento e di orientarsi nell'insorgenza pressante del tempo e nel ritorno avvolgente del passato, che ha natali lontani e di diverso tipo, ha fatto velo, quasi da impalpabile cuneo di interdizione.

I linguaggi della rammemorazione si sono ossificati e appiattiti sulle diverse istantanee dell'evento storico e del presente. Un'istantanea spezza le movimentazioni; frange le sequenze e le trasposizioni dell'immaginazione; occlude alla vista le correnti sotterranee. Ci restituisce una memoria fredda della storia, dei fenomeni, delle persone e di noi stessi.

Nel migliore dei casi, si può pervenire a un montaggio figurativo e, così, ottenere delle scene. Ma, pur sempre, il filo degli eventi, degli investimenti emotivi e passionali e della morfogenetica sociale è ridotto a una concatenazione di fotogrammi.

Non che questo non serva. Ma appare sin troppo deficitario, a paragone della complessità della nostra vita e della ricchezza di argomenti e temi del Sessantotto.

Da ultimo, ma non secondariamente, questa sproporzione per difetto interdice l'identificazione puntuale dei limiti del Sessantotto, così come del presente; e del presente di ognuno di noi, in particolare.

Memoria del presente memoria del passato: questi i corni del dilemma. Ci troviamo di bel colpo calati in un labirinto, senza che nessuna Arianna ci assista e salvi amorevolmente col suo filo. Ciò indica, molto semplicemente, che ogni ricerca deve essere l'Arianna di se stessa.

Il labirinto della memoria richiede, si, di essere esplorato nelle sue intime fibre, ma anche di essere osservato e contestualizzato dall'esterno. Nascono qui le difficoltà e gli inconvenienti maggiori. Sia l'interno che l'esterno del labirinto vedono coesistere passato e futuro.

Ma una è la consistenza dell'interno (del labirinto) e altra la consistenza dell'esterno. Si può approssimare l'immagine che un'epoca ha di sé. Ma resta sempre aperto un varco rilevante per il dubbio, poiché è sempre dalla memoria del presente che afferriamo quella del passato.

A dire il vero, si registra anche il contrario. Ciò non fa altro che ispessire i margini del dubbio. Il nostro sguardo, per quanto ci sforziamo di renderlo cristallino e penetrante, macchia sempre, in un qualche modo, i paesaggi e lo scenario con i quali entra in commercio spirituale. Soprattutto, quanto più l'oggetto della ricerca è bramato e amato.

La memoria, a volte, è come un’amante fremente e possessiva: fa del ricordo un'estasi e dell'estasi un possedimento in cui regna sovrana e incontrastata.

Il problema, invece, non si pone (o meglio: si pone in altri termini),allorché verso l'oggetto si nutre un distacco negativo e un supremo disagio, quando non un fastidio isterico ed epidermicamente generalizzato. Prima o poi, si finisce col rispondere a un comando imperativo di questo genere: capziosamente e inarrestabilmente, si va preparando la rottura di tutti i ponti con quell'oggetto.

Si tratta di allestire e aspettare il "momento buono". Che è quello in cui è, finalmente, possibile, fino al piano linguistico delle "enunciazioni emotive", trasferire tutti i torti dalla parte dell'oggetto e tutte le ragioni dalla parte di se stessi.

Che bisogno avevano quei "figli del Sessantotto" di celebrare la loro secessione proprio in occasione del ventennale, se non per dare corpo e compimento a questa strategia, ritualizzandola persino sul piano degli istituti simbolici?

Per contro, l'eccesso di nostalgia del Sessantotto, prima esemplificato come fremito possessivo, introduce una distanza zero tra presente e passato. La qual cosa vanifica la lettura dei contorni dell'ieri e dell'oggi, trasformando il tempo in una lastra di ghiaccio su cui è impossibile fare presa. E tutto ciò che non rientra nel campo dell'azione rispecchiante e rispecchiata non ha storia, non esiste e non è mai esistito.

1.2. Attraverso la massa fluida delle verità e delle falsità

Si sa, sin troppo bene, che l'interrogazione sulla storia non è meramente riconducibile nel novero delle questioni storiografiche. In gioco, al fondo, sono complicate problematiche politiche e culturali.

Non semplicemente perché il modo di dire e di rappresentare il passato è spia eloquente dell'atteggiarsi nei confronti del presente. Ma anche e sopratutto perché qui, come in altre e differenti prese di posizione, entra in circolo la socialità e la politicità dell'esistenza umana. Non solo. In gioco, in maniera assolutamente non secondaria, è pure il portato espressivo simbolico dell'esistente.

Un approfondimento delle riscritture del Sessantotto è, perciò, allo stesso tempo, un approfondimento di tipo politico, culturale, simbolico ed espressivo. Il punto è che la storia è teatro specifico dell'esperienza umana.

Nell'interpretare e reinterpretare la storia, si cela l'insidia di rifare la storia. Ogni interpretazione del testo storico è sempre un rifacimento dell'originale. Ma una cosa è tendere insopprimibilmente verso le sue verità; altra è coprirle e stravolgerle. Da un testo da decriptare si può agevolmente scivolare a un testo riscritto di sana pianta e assai poco fedelmente.

Nella memoria un evento diviene testo che deve essere successivamente interpretato, per essere riportato al piano linguistico. Là diventa ordine discorsivo razionalmente organato e normalizzato.

La frase preliminare è quella dell'immagazzinamento dei dati, delle informazioni, dei fatti, ecc. nell'archivio della memoria. Cosi, in generale, si prepara un testo. Canalizzati che si sono, i dati nell'archivio, la memoria assembla e forma il testo. Per interpretarlo, ora, si abbisogna di codici e di linguaggi.

Qui sta uno dei punti delicati: quali codici e quali linguaggi si scelgono? Quelli del passato o quelli del presente? E se si pensa a una mediazione di passato e presente, come concretamente mediarli?

Assolutamente rilevanti sono le posizioni e le oscillazioni che la biografia dell'interprete intervalla tra passato e presente. Ciò è ancora più significante, allorché il passato oggetto di ricerca figura anche come passato nella biografia dell'interprete. In tal caso, l'interpretazione diviene direttamente giudizio della propria vita e delle scelte personali che, nel corso del tempo, l'hanno modellata. Tutto quello che del proprio passato si è conservato (nella memoria) come "buono", lo si difende e ripropone; quello che, al contrario, si è consapevolizzato come "falso", lo si respinge. È, questa, una regola fissa che consente la conservazione e la riproduzione dell'esistenza e dell'esistente storico, nonché la conservazione e riproduzione del giudizio che di essi ci facciamo.

Ma se erriamo nelle nostre selezioni di "vero" e di "falso", conserviamo e riproduciamo il "falso"; assottigliamo e mortifichiamo il "vero". Ecco il rischio. Ed è questo che incombe permanentemente, poiché i confini tra "vero" e "falso" non sono rigidamente determinati, in quanto verità ed errore convivono in una zona fluida e unitaria e discernerli con precisione è quanto mai arduo e disagevole.

Nel giudizio che impegna la nostra memorizzazione della storia ne va sempre, in un modo o nell'altro, della nostra vita personale. Difficile dire cosa sia più letale, se un'errata e interessata interpretazione storica, una strumentale analisi politica, oppure lo sgretolamento degli ambiti della nostra esistenza personale. Queste tre determinazioni patogenetiche compaiono sempre indissolubilmente avvinte e variamente intrecciate, a seconda dei tempi e delle circostanze.

Appare chiaro, come sostiene Canfora, che il Sessantotto è stato una "rivoluzione culturale europea"; e, giustamente, P. Ortoleva aggiunge e precisa "planetaria".

Ora, quale margine di autonomia si dà tra queste due, pur corrette, interpretazioni? Le istantanee, di cui prima argomentavano, ci dicono che le scintille hanno infiammato la prateria del pianeta. Rimane, però, in esse impregiudicato un fatto fondamentale: di quale "planetarizzazione" stiamo parlando?

L’occidentalizzazione del pianeta, per i suoi due terzi, ha installato l'estensione dei valori europei a tutto il mondo. Questa storia di dominazione e di imperialismo culturale, in epoca moderna, si avvia con la scoperta dell'America nel 1492 e si va saturando nel corso del XX secolo.

Il Sessantotto, in Europa e in America, è stato l'esplodere della crisi di questi valori dall'interno del mondo che li aveva generati e stratificati. Possiamo, quindi, parlare di una rivoluzione culturale contro i processi di occidentalizzazione del pianeta; per un'idea, dunque, nuova di Europa e del rapporto tra Occidente e Oriente.. La violenta messa in discussione della leadership imperiale americana si inserisce in questo quadro, essendo gli Usa il custode pietrificato di quella immagine di Occidente. Più strutturalmente, si tratta di una confutazione culturale dei capisaldi "della cultura del disincantamento passivo del mondo, ereditato nel capitalismo moderno dal mondo cristiano-borghese: l'oggettivismo della calcolabilità, il significato escluso dal mondo, l'odio dei sensi, l'impersonalità dell'agire"; confutazione che ha avuto i suoi rovesci speculari nell'ordine delle culture sottoposte a contestazione.

Se si tiene fermo questo punto/premessa, meno causale e più fertile pare l'esplodere della "rivoluzione culturale" cinese, della "primavera di Praga" e della "rivolta studentesca" di Varsavia su tematiche politico-culturali affini a quelle della "contestazione giovanile" insorta in Occidente.

È vero: questa trasmissibilità è favorita, se non provocata, dal chiudersi del mondo nelle rappresentazioni del "villaggio globale". Ma esiste un rovescio poco indagato: il "Sessantotto planetario" esplode proprio contro questo tipo di globalizzazione e le sue forme. Non già contro una comunicazione globale oltre e tra i blocchi (vecchi e nuovi). Il bersaglio è una globalizzazione che, tanto ad Ovest che ad Est, assumeva la forma di una annessione: all'Est, il sistema del partito unico; all'Ovest, l'american way of life. Per questo, nella ribellione a queste forme di annessione si sono sprigionati elementi di una cultura della liberazione, ancor oggi patrimonio vitale.

Non si può dire, semplificatoriamente, che questi elementi culturali e questa liberazione abbiano vinto. Anzi, la sconfitta è stata cocente. Ma la questione sta proprio qui: nonostante la sconfitta, il Sessantotto non è stato cancellato dalla storia e alcuni suoi semi continuano a dare preziosi frutti.

Nell'antichità il "vincitore" soleva assorbire le culture del "vinto", avviandosi, grazie a ciò, a percorrere cammini di civiltà. Nell'assorbimento v'era il riconoscimento implicito delle ragioni del 'vinto' e quello esplicito della sua superiorità culturale.

Spesso, nella storia abbiamo assistito a quei fenomeni, apparentemente assai strani, che vedono il "vincitore" tentare di somigliare ai "vinti"; ma da una posizione di comando. Siamo spettatori, in tutti questi casi, di un processo di integrazione alla rovescia: il potente, per accrescere il suo potere, si integra nelle categorie e nei sistemi culturali del "vinti", riconoscendoli più evoluti. Col che il "vinto" viene espropriato, per essere maggiormente sottomesso. Ma, per espropriarlo, si è dovuto prima riconoscerlo. E lo si è riconosciuto, per meglio subordinarlo all'interno del quadro dei poteri dominanti.

Nel caso del Sessantotto italiano e delle sue sconfitte non abbiamo assistito a fenomeni di questo genere, se non in proporzioni irrisorie.

Anzi, il problema cardine del "vincitore" è stato proprio quello di disconoscere totalmente il Sessantotto e le sue culture. Mancando il momento formale del riconoscimento, s'é dato ampio corso alla neutralizzazione. Quello che è stato chiesto al Sessantotto e ai suoi figli è stato un puro e semplice voltafaccia, in tutte le figure articolate (estreme e mediane) previste. Niente altro.

1.3.

L’utopia, le gerarchie del metodo e le zone rinascenti dei linguaggi

L'utopia dell'egualitarismo è stato uno dei fuochi principali del Sessantotto. Non meraviglia se essa sia una delle immagini e delle proposte del Sessantotto ostilmente e ricorrentemente contrastate.

Strumentalmente, quando non banalmente, l'utopismo egualitario del Sessantotto è stato interpretato come trionfo dell'uniforme e penalizzazione del differente. Niente di più improprio.

Il Sessantotto è stato la ribellione nata dal differente. Il suo egualitarismo si è posto come eguaglianza dei diritti. In tal senso, è stato una grande narrazione. I diritti di accesso alle risorse, alla cittadinanza e all'esistenza simbolica e politica si incaricavano di dare voce alla massa del sommerso, del negato e del marginale, La voce del differente reclamava il suo diritto alla parola, alla felicità e alla libertà; e questo diritto se lo è conquistato. Nell'unità inscindibile di eguaglianza e differente sta il narrare in grande del Sessantotto.

Ha ragione R. Madera nel dire che il Sessantotto è stata l'ultima grande narrazione in ordine di tempo; ed è vero che chi non ha più la capacità di narrare in grande, diventa incapace di narrare.

Ma narrare in grande l'utopia e l'eguaglianza richiede eguali capacità e passione nel narrare in piccolo; non semplicemente il differente, ma le differenze. Se eguaglianza e differente hanno intrecciato il nodo dell'utopismo del Sessantotto, va osservato che qui l'utopia ha stentato a rovesciarsi.

Da sola la "grande narrazione" non è sufficiente. Deve essere accoppiata dalla narrazione piccola delle differenze. Dare voce ai diritti di eguaglianza fa tutt'uno con il dare parola ai diritti delle differenze. Questi ultimi non vanno meramente riconosciuti; ne va liberato lo spazio di autonomia e di integrità.

Il "collettivo" come non equivale a uniformità, così non è, di per sé, idoneo ad accogliere il differenziale delle individualità. Ecco perché l"'autobiografia di gruppo" può e deve incrociarsi con le biografie individuali; lateralmente al "collettivo", non soltanto dal suo di dentro.

Tra riconoscimento del differente e accoglimento delle differenze si dipana il cammino non percorso dall'utopia del Sessantotto. Ripercorrerlo, individuandolo già nei passi appena abbozzati e non ancora compiuti, riconduce meglio al suo cuore e ai suoi limiti.

Qui il lavoro di scavo e di sistemazione sulla/della memoria diviene ancora più delicato e decisivo. L'urgenza coniuga un bisogno di innovazione sul piano delle metodiche storiche. Come ben si esprime Luisa Passerini: "il metodo storico deve accettare le innovazioni richieste dall'oggetto studiato. Si tratta di innovazioni che non lo scardinano, anche se sommuovono alcuni suoi aspetti. Tra questi le gerarchie tra particolare e universale, individuo e collettivo, e le stesse ferree legge della cronologia, nel senso che si accentua il legame vitale tra passato e presente e si impongono andirivieni sia tra diverse fasi sia tra processo generale e sempre nuovi incipit locali".

Alla base del farsi di questa nuova metodica v'è un'intuizione inestimabile: quella storia non è ancora finita . La storiografia di questa storia, dunque, deve mancare di fondazione per questo decisivo motivo in più; da aggiungersi a quelli acutamente identificati dalla Passerini.

Per tale fondazione, ella precisa ancora, occorrono una "tradizione", una "lingua madre", una ridefinizione del rapporto con la morte, sapendo rielaborare, radicalmente la sconfitta. Significativa diviene la citazione di Wiliam Morris con cui la Passerini chiude il suo assai interessante articolo: "gli esseri umani combattono e vengono sconfitti, e quello per cui combattevano emerge nonostante la loro sconfitta e tuttavia non è ciò che intendevano — allora altri devono combattere per quello che essi volevano, chiamandolo con altro nome".

Sicché ricostruire la storia del Sessantotto vuole inestricabilmente dire fare la storia di questo presente. Si tratta di due compiti assolvibili, solo che, come ci esorta M. Flores, si vinca il "disorientamento" rispetto al passato e rispetto al presente. Questo approdo legittimo ci consente di demistificare, in un sol colpo, due grandi luoghi comuni: non soltanto è possibile fare storia del passato prossimo, ma addirittura del presente!

Bisogna fondare la ricerca attorno a queste assialità e mantenerla aperta, in cammino.

Ritrovare il nome proprio nel presente non può che significare partire dalla genealogia che lo ha segnato. Quella del nome è una questione cruciale: ne va della nostra identità, del nostro riconoscimento e della nostra appartenenza.

In che misura apparteniamo alle nostre sconfitte e alle nostre vittorie? E in che altra alle sconfitte e alle vittorie degli altri?

Dai linguaggi che rielaborano la sconfitta (ma anche le conquiste) si cava fuori la possibilità di nomi nuovi. Più chiare ci diventano le ragioni degli sconfitti e più chiari i loro errori; soprattutto, quando nelle schiere degli sconfitti rientriamo noi stessi. Il loro nome possiamo salvarlo solo se troviamo un nome nuovo alle loro e alle nostre battaglie, agli ideali e ai princìpi che li hanno e ci hanno guidato.

È il nostro nome che dobbiamo salvare dal grigiore impastato dalla nebulosa che tutto vuole avvinghiare ed evirare. Allora, con nuovi linguaggi dobbiamo interrogare il tempo.

Nuovi debbono essere i linguaggi con cui tentiamo di fare da gestanti ai nomi nuovi. V'è l'esigenza di calarci in quelle fessure del tempo da cui le zone rinascenti dei linguaggi possano risospingerci verso le terre vergini di una parola e di un dialogo più intimi con quelle verità dell'esistenza che sole possono fecondare la nostra vita, liberandola dai tormenti che la mutilano.

E occorre scoprire da capo queste verità in nervature dell'esperienza umana essenziali; prima mai accostate, oppure solo lontanamente intraviste. Il problema, in definitiva, è quello di ritrovare un nome proprio al nostro presente e al nostro passato e da qui avviarsi verso i nomi propri del futuro.

È in questa ricerca che si può mettere la parola fine alla storia del Sessantotto e aprire a una storia nuova. Fondare una storiografia di un passato (prossimo) vuole dire dischiudere verso un futuro di libertà la storia del presente.

Non è soltanto questione di metodica e di difficoltà epistemologiche. È che quello che, più intensamente, urge è una fondazione ontologica della libertà, diversamente orientata rispetto alla pluralità oppressiva che ci circonda e minaccia.

Anche sotto questo punto di vista, giova gettare lo sguardo sul Sessantotto: alla sua "poetica libertà di linguaggio", come ben si esprime A. Sofri.

1.4. "Parlate a chi vi sta accanto"

"Parlate a chi vi sta accanto": questo slogan, ricorda C. Castoriadis, era scritto sui muri del maggio parigino.

Parlare, finalmente; essere, finalmente, ascoltati.

Perché?

È lo stesso Castoriadis a dircelo: "La gente era animata da una comune disposizione: in negativo, un immenso rigetto della vuota futilità e della bestialità pomposa... La gente cercava la verità, la giustizia, la libertà, la comunità; non ha potuto trovare forme istituzionali che incarnassero durevolmente questi ideali. E — lo si dimentica troppo spesso — questa gente era una minoranza nel paese. Una minoranza che ha potuto imporsi per diverse settimane senza terrore e senza violenza: semplicemente, perché la maggioranza conservatrice si vergognava di se stessa e non osava presentarsi in pubblico".

Le "maggioranze silenziose" sfilano in pubblico, quando vincono il senso di vergogna che le confina e segrega nell'autismo e nella rabbia di un privato impotente; oppure quando sentono incombere su di sé la presenza catastrofica di una alterità compromettente tutto intero l'edificio dei loro valori vetusti. Nell'un caso e nell'altro, sono abilmente manipolate.

Il loro autismo è presupposto imprescindibile, affinché ampi poteri (ampi e incontrollati) vengano delegati nelle mani dei governanti. Quando questi poteri vacillano nella loro legittimità, le "maggioranze silenziose" entrano direttamente in scena, per rilegittimarli sul piano della forza e simbolicamente.

La circolarità dei meccanismi di delega si compie perfettamente: (i) in condizioni di normalità: le "maggioranze silenziose" delegano la decisione al potere; (ii) in condizioni di eccezionalità: il potere delega alle "maggioranze silenziose" la piazza, l'agorà ridotta, ormai, solo a orpello simulatorio. Il connubio terribile potere/paura non solo irrigidisce tutti i centri di legittimazione dell'autorità politica, ma anche le disposizioni dei centri morali. L'immaginario collettivo va inclinando verso rappresentazioni altamente drammatizzate e antinomiche. La genialità del ricorso gollista (nel corso del maggio) alla massa sta esattamente in ciò. "Parlare a chi sta accanto" diventa arduo, se non impossibile, quando sei, per "chi ti sta accanto", il perturbante, se non il nemico.

Un'operazione del genere tenta, in Italia, la strategia della tensione. Nel caso italiano la mobilitazione della massa ricorre a una strategia atta a produrre terrore: terrorizzare la massa oltre le soglie del puro e semplice perturbamento. Le ragioni sono molteplici. Tra le più importanti rientra, certamente, questo dato: non si trattava semplicemente di impedire che la "presa di parola" divenisse presa dialogante della comunicazione; bensì di affossare un dialogo comunicativo che iniziava a ricoprire la voce del potere, mostrandone impietosamente il lato oscuro. I meccanismi ottimali in base ai quali la piazza era delegabile alla massa erano stati disattivati: la massa era stata ricacciata via dalla piazza; attaccata e accerchiata in fabbrica, nella famiglia, nella scuola, ecc.

A questo declivio, al potere non restava altro, persistendo nelle sue strategie antimutamento, che immola la massa come agnello sacrificale, per poterla scuotere. La strategia della tensione è stata questo elettroshock.

Ed eccola la trama delle azioni intenzionali dell'elettroshock: produrre la morte nella massa, rendere presente la morte nella massa. Ciò doveva ferirla nelle sue dinamiche pulsionali e restituirla alla sua razionalità evacuante.

Questo disegno, quasi antropologico, governava la strategia della tensione. Non importa quanto e fino a che punto i suoi artefici e i suoi esecutori ne fossero consapevoli. Lo schema degli esiti finali è così ricostruibile: produrre morte nella massa, per costringere la massa a produrre la morte (deI perturbante). Tutto sommato, si tratta di strategie e meccanismi non nuovi; anzi, possiamo, senz'altro dire che è una certa primordialità a connotarli. Nuove sono le forme e le procedure attraverso cui si esprimono in quei frangenti.

In una fase seconda della strategia della tensione, le procedure si sono intrecciate ad un livello più alto di combinazione: all'attacco alla massa si è affiancato quello contro la cittadinanza politica di Sinistra. Con ciò la strategia della tensione si incaricava essa stessa di: (i) produrre morte nella massa e (ii) produrre morte nel campo avverso, agendo come massa.

Assumendo questa forma bipolare, essa non solo si schierava dalla parte della massa, ma si concepiva, rappresentava e agiva come massa. Dopo aver prodotto morti nel campo amico della massa, doveva pure produrre morti nel campo ostile dei "nemici della massa".

Così, poteva pure sublimare ed esaltare le morti fratricide che era stata costretta a seminare. Non semplicemente, come Abramo, era disposta a sacrificare il figlio; ma uccide il figlio, per potere dopo uccidere i "nemici", così vendicandolo. Essa è, ad un tempo, carnefice, giustiziere e vendicatore.

Alla furia delle implosioni riesce qui a corrispondere adeguatamente soltanto la devastazione delle esplosioni. La strategia della tensione è stata, per l'appunto, un concentrato di implosione/ esplosione ad altissima intensità. Una lucida razionalità va letta in questa strategia. Ciò non toglie che si tratta, pur sempre, di una razionalità che ha uno sfondo paranoico-tirannico, incapace di sostenere il sia pur minimo confronto critico e che avverte ogni mutamento culturale, politico e istituzionale come patologia irrimediabile. I settori che attivano la strategia della tensione e quelli che in essa si riconoscono non erano riusciti, qualche anno prima, a digerire e assimilare il centrosinistra; figuriamoci l'onda d'urto del biennio 1968-69!

Per molti versi, si può parlare di "fascismo di ritorno" e di consistenti continuità nello Stato col totalitarismo fascista. Ma non sembra questo l'aspetto principale del problema. La verità è che non soltanto la strategia della tensione è stata contro il Sessantotto; ma tutto intero lo schieramento delle forze costituzionali e non; tutto intero il sistema dei media; tutta intera la magistratura, ecc. Poche, anche se estremamente nobili e significative, le eccezioni. Tra tutti, solo il sindacato si pose il problema di aprire una dialettica col Sessantotto e l'autunno caldo.

Eppure non tutte e non sempre le richieste del Sessantotto erano estremiste. Anzi, il più delle volte, erano estremamente sensate; al di là di un lessico, spesso e volentieri, aspro oltre misura. Estremistiche e indisponibili sono state le risposte date al Sessantotto: dalle chiusure istituzionali e politiche all'indisponibilità culturale; dalla strategia della tensione alla schedatura di massa di migliaia di dirigenti e militanti della "contestazione giovanile", delle "avanguardie operaie", dei dirigenti e militanti dei partiti della Sinistra, del sindacato e dei gruppi della Sinistra extraparlamentare. Questo, e non altro, il ritratto dell'epoca.

Qui non si vuole e non si può sostenere che il Sessantotto avesse ragione su tutto. Il punto è un altro. È che il Sessantotto è stato contrastato all'estremo su tutto: soprattutto in ciò in cui aveva patentemente ragione. E si trattava di ragioni importanti, su cui poi, volente o nolente, la società italiana ha dovuto misurarsi e crescere.

Se questa era l'aria che tirava in quell'epoca, tanto più salutare appare l'effetto di liberazione e di presa d'aria che il Sessantotto ha avuto per la società civile. Per quanti difetti si possano scoprire nel Sessantotto; per quanti suoi errori dobbiamo ancora ricercare e scoprire; per quante incongruenze e contraddizioni possa aver generato, niente può eliminare il portato di libertà e di liberazione delle coscienze, degli individui e della collettività che da esso ha preso il via. Sta qui la sua incancellabilità: il suo senso estremo, ma non estremistico. Se oggi si può ancora dire, e ridirlo con parole nuove: "Parlate a chi vi sta accanto", è perché c'è stato il Sessantotto.

 

2. SINISTRA E MEZZOGIORNO TRA CENTRO E PERIFERIA

 

2.1.

Sinistra e Mezzogiorno: una crisi incrociata

Da almeno 20 anni si discute, in Italia, di crisi della Sinistra. A tal punto l'immagine e l'idea della Sinistra si sono offuscate che, qualche anno fa, è divenuto discorso alla moda teorizzare l'estinzione di tutte le differenze tra destra e Sinistra. La teoria sistemica, soprattutto nella versione luhmanniana, ha preferito postulare un discrimine tra "vecchio" e "nuovo", con gran seguito all'interno della stessa Sinistra. Di crisi del Mezzogiorno, d'altro canto, si parla da sempre e in termini che di rado sfuggono agli stereotipi più vieti di consunte tradizioni sociologiche.

Può essere assai stimolante associare nella discussione la crisi della Sinistra alla crisi del Mezzogiorno, cercando le soluzioni sbloccanti.

Partiamo da un'evidenza palmare: per quasi un decennio, a partire dal 1975, nelle più grandi città italiane è stato in opera un modello di autorità politica che ha visto al governo il Pci e le forze della Sinistra. A livello nazionale, la presenza della Sini-stra al governo si è raddoppiata con l'esperienza della "solidarietà nazionale" dal 1976 al 1979.

Si è, così, delineato un assai particolare modello di "grande coalizione" che ha visto al governo, in periferia e al centro, le forze della Sinistra assieme a forze centriste e moderate. Ma, diversamente da quanto accaduto in Germania il decennio precedente, non è stata la Sinistra ad avvantaggiarsi dalla "grande coalizione"; bensì le forze del centro moderato. Anzi, la "grande coalizione" degli anni '70 ha introdotto non pochi elementi di divisione nel campo della Sinistra, scorporando più nettamente che in passato le sue forze tra governo e opposizione. Le "giunte rosse", dall'85 in avanti, sono un po' ovunque entrate in crisi. La "grande coalizione" del '76-79 non è stata la precondizione del passaggio all'opposizione della DC, la quale, pur vulnerata nella sua egemonia, non è stata rimpiazzata nella posizione di fulcro principale del sistema politico italiano.

Le forze della Sinistra, anziché riassociarsi e differenziarsi su una nuova piattaforma tematica e una nuova problematica politica, sono rimaste irretite nei vizi strutturali e congeniti del sistema politico italiano. Il dialogo tra di loro è risultato profondamente lacerato, se non compromesso. Campo libero è stato lasciato all'imperversare di culture e modelli di azione politica chiaramente di stampo conservatore; anche se si è trattato di un particolare conservatorismo modernizzato.

Nella situazione nuova, determinatasi a cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80, hanno funzionato come spartiacque tra le forze della Sinistra vecchi elementi di divisione politica. Non si è trattato di un processo di differenziazione politica; peraltro, sommamente desiderabile. Piuttosto, di uno di contrapposizione ideologica, in cui le ideologie e gli interessi di partito hanno fatto velo sulle pressanti esigenze di rinnovo della cultura e dell'azione politica della Sinistra, in un mondo che si avviava rapidamente verso immani mutamenti culturali, tecnologici, politici e sociali.

Mantenendo la comparazione con la Germania, non è un caso che la Spd giunga alla Grosse Koalition, passando per Bad Godesberg; come non è casuale che sempre la Spd, a metà degli anni '80, pervenga a porre ulteriormente in questione i presupposti culturali della propria tradizione politica, con una piattaforma unanimemente definita "Bad Godesberg II"; fino ad arrivare al varo di un nuovo "programma fondamentale". Ora, a prescindere da un giudizio di merito su tale opera di rielaborazione e aggiornamento, un movimento di tal fatta in Italia, a Sinistra, non è stato nemmeno lontanamente approssimato. Ciò ha complicato e complica oltremodo comunicazione culturale e confronto politico a Sinistra; comunicazione e confronto che procedono tra alti e bassi e, comunque, ristagnano nelle acque basse della polemica politica di basso profilo.

Il ciclo politico apertosi col 1975, sotto grandi auspici e suscitando grandi aspettative, ha chiuso la propria curva vitale, portando a estremo compimento la crisi della Sinistra. Crisi particolarmente emblematizzata dalle difficoltà assai laceranti in cui si è dibattuto a lungo il Pci. Ovviamente, la crisi del Pci non è stata (e non è) una crisi puramente elettorale; bensì di progetto e di strategie politiche all'altezza dei tempi. Questo è, del resto, l'asse che lo stesso "nuovo corso" del partito sta tentando di mettere a fuoco criticamente e che, più recentemente, è andato maturando verso l'elaborazione e l'organizzazione di una "fase costituente" per la costruzione di una nuova "formazione politica". Non è qui il caso di addentrarsi nel cuore della rielaborazione politica attivata dal Pci. Ci interessa, invece, porre in luce come la crisi (prima) e la rielaborazione politica (dopo) del Pci abbiano abbondantemente dimostrato che il Pci non rappresenta per intero la Sinistra in Italia.

Indubbiamente tale circostanza apre a Sinistra un processo di dibattito politico e di proliferazione culturale estremamente importante e assolutamente impensabile solo fino a qualche anno fa.

Il riconoscimento di un campo poliarticolato e pluriorganizzato a Sinistra è la condizione irrinunciabile, per la definitiva presa di commiato dai modelli e dalle pratiche della democrazia consociativa; per quanto tentazioni di questo genere, qui e là, siano ancora operanti o in agguato.

Due ci sembrano i tornanti principali intorno cui deve procedere la ricognizione politica dell'autocritica della Sinistra in Italia. Il primo: l'incapacità delle "giunte rosse" di elaborare adeguate strategie di governo della metropoli e di fornire risposte congrue e puntuali alla marea montante delle nuove domande provenienti dalla cittadinanza. A gioco lungo, le "giunte rosse", nel governo delle città, non hanno saputo differenziarsi qualitativamente e positivamente da quelle imperniate sulla Dc. E passiamo al secondo tornante dell'autocritica: la compartecipazione alla "solidarietà nazionale" ha fatto toccare al sistema politico italiano il massimo livello di chiusura, lasciandolo senza opposizione virtuale ed effettuale. L'opposizione politica e sociale che andava dilatandosi, conseguentemente, è stata ghettizzata, quando non direttamente "criminalizzata". Questo esito politico richiama un altro ordine di necessità dell'autocritica: l'incapacità dell'opposizione politica e sociale di tradurre in risultanze efficaci e trasformative l'enorme potenziale di mobilitazione e trasformazione che è sceso in campo in Italia negli anni '70. Particolarmente rilevante, in proposito, pare la responsabilità della lotta armata. Ma certamente non trascurabile, anche se di rilievo qualitativamente inferiore, è quella dell'arcipelago di organizzazioni e semiorganizzazioni a Sinistra del Pci. È evidente che, all'interno di queste complesse e intercomunicanti fenomenologie politiche, ogni singola forza della Sinistra ha una sua specifica responsabilità, la quale va identificata e graduata con obiettività storica.

La ricognizione politica di cui abbiamo postulato la necessità si dà come possibilità solo ove operi una preliminare rimessa in discussione delle culture fondamentaliste che hanno plasmato le prassi politiche delle forze della Sinistra. Intendiamo riferirci alla contrapposizione centrale tra: (i) una cultura conflittualista che rescindeva traumaticamente il rapporto col sistema politico-istituzionale; (ii) una cultura statalista che faceva pericolosamente coincidere razionalità politica con razionalità dello Stato; (ii) una cultura pragmatista che faceva progressiva-mente trascorrere il governo della trasformazione nella camicia stretta della stabilità politica.

Coniugare conflitto, istituzioni, ordine politico e trasformazione in un unitario paradigma politico tanto più appare esigenza non ulteriormente differibile. Si misurano qui la ripresa e il rinnovamento della Sinistra. Attorno a questa nuova assialità a più facce è altamente augurabile la messa a fuoco di un processo di distinzione e differenziazione delle forze della Sinistra. Una Sinistra nuova è contestualizzazione e comunicazione di differenze e di identità rinnovate. Sino a che le forze della Sinistra si caratterizzeranno acriticamente rispetto ai moduli della loro tradizione, divisioni vecchie e anacronistiche le separeranno, gettandole in una posizione di settaria incomunicabilità. Rinnovarsi, avendo come riferimento il "nuo-vo", significa ricostruire l'identità della Sinistra sul "nuovo", diversificandosi intorno al campo di azione delle novità e sulle novità dando luogo ad aggregazioni politiche, schieramenti sociali e a nuovi modi di governo della società, incardinati sulla libertà, la giustizia e più aperte e puntuali forme di democrazia. Ciò, senza mezzi termini, vuole dire lavorare a una nuova geografia e a una nuova topologia della Sinistra. Una geografia e una topologia che rinnovino sia il campo della Sinistra che le singole identità che la compongono. Questa la cruna dell'ago attraverso cui passare.

 

Non più consolante appare lo stato del Mezzogiorno. È, ormai, acclarato nel più avvertito dibattito meridionalista che nell'ultimo quarantennio l'economia del Mezzogiorno si sia aperta alle dinamiche esterne, aventi nel Centro-nord e nel processo di accumulazione europeo e internazionale il loro asse nevralgico. L'economia interna del Mezzogiorno, sostenuta, dall'intervento straordinario ha dovuto fare duramente i conti con le economie esterne: spesso risultandone integrata e talaltra emarginata. Al livello dei presenti processi di mondializzazione della produzione, dell'economia, dell'informazione e della comunicazione, risulta quanto mai arduo individuare proficuamente le coordinate di azione di uno sviluppo autopro-pulsivo del Mezzogiorno. Risulta, parimenti, difficile argomentare di una riproduzione in loco dei modelli di sviluppo globale già affermatisi nei centri più altamente sviluppati.

L'integrazione dei mercati mondiali e l'integrazione dei processi di produzione, informazione e comunicazione rendono oltremodo problematico ritagliare per il Mezzogiorno isole di sviluppo economico autocentrato; come lo rendono problematico, più in generale, per l'intera economia italiana. D'altro canto, i processi di integrazione massiva in corso non hanno forme monolitiche, ma procedono per capillari differenziazioni interne ed esterne. Diseconomie interne ed esterne rendono semplicemente impensabile ipotizzare per il Mezzogiorno italiano la replicazione lineare di onde e cicli di sviluppo economico, sociale e civile affermatisi nel Centro-nord.

Basti qui solo qualche considerazione. L'industrializzazione del Mezzogiorno ha toccato i suoi massimi livelli di implementazione all'incrocio degli anni '60 e '70. Ebbene, si è trattato, nella generalità dei casi, di insediamenti industriali in settori maturi, anziché strategici: industria pesante, siderurgia, chimica e petrolchimica. La rapida e profondissima crisi di questi settori ha, in breve, gettato in una seria crisi l'economica meridionale. Come possibile via d'uscita dall'impasse il dibattito politico non ha trovato niente di meglio che sterilizzare la ricerca delle soluzioni entro la secca e ideologica alternativa tra re-industrializzazione e deindustrializzazione. Nel primo caso, si sposava acriticamente il paradigma della società industriale; nel secondo, in maniera altrettanto acritica, si celebravano i fasti del post-industrialismo.

Il quadro si è completato con l'enfasi posta sulle politiche di industrializzazione incardinate su impianti di media e piccola dimensione, particolarmente all'opera in quest'ultimo quindicennio. Qui il modello industriale sponsorizzato è stato quello della "terza Italia": la "via adriatica allo sviluppo", in questo caso, è stata reputata la scelta economico-strategica meglio adeguata alle condizioni del Mezzogiorno.

Il dibattito meridionalista non ha saputo, così, mantenere l'analisi in equilibrio strategico tra i cicli e le diseconomie dell'economia interna e i cicli e le diseconomie dell'economia esterna, privilegiando unilateralmente ora i primi e ora i secondi. Resta un'evidenza dura da scalfire: il Mezzogiorno rimane un sottosistema a bassa capacità produttiva e accumulativa, caratterizzato, soprattutto nelle ultime congiunture economiche, dalla depressione costante del tasso degli investimenti produttivi. Ciò rafforza oltremodo il quadro della dipendenza dai cicli delle economie esterne. I dati più significativi descrivono, in proposito, una situazione interna avente un saldo esterno progressivamente negativo; una crescente subordinazione alle politiche di finanziamento pubblico; una restrizione preoccupante delle potenzialità produttive; un aumento continuo e impressionante della disoccupazione.

Il concorrere di tutti questi fenomeni ha congiurato, affinché anche nel Mezzogiorno la crescita della popolazione industriale, a scapito di quella agricola, sia stata prevalentemente assorbita dai servizi. Cosicché pure il Mezzogiorno ha avuto la sua espansione del terziario e la sua terziarizzazione della società.

Le rette d'azione delle tendenze per l'innanzi schematizzate convergono in un punto/luogo che fornisce e definisce uno dei caratteri precipui della specificità meridionale: la prevalenza dell'economia basata sullo sviluppo dei consumi sull'economia basata sullo sviluppo degli investimenti. Come è stato frequentemente fatto notare, ciò conferisce particolare potere (se non "il" potere) agli istituti e al personale politico atti al controllo e alla gestione della spesa pubblica. Da qui il ruotare dei fenomeni del clientelismo attorno al baricentro rappresentato dai flussi della spesa pubblica che, nel Mezzogiorno, hanno una particolare incidenza e modalità di espressione. Ceto politico dominante e ceto che amministra la spesa pubblica si trovano a lavorare a stretto contatto di gomito, senza sistemi intercalari o articolazioni intermedie tra di loro. L'amministrazione della spesa pubblica occupa tutti gli spazi della politica e, all'inverso, la politica occupa tutti gli spazi della spesa pubblica, dando luogo a una compenetrazione di status, funzioni e competenze unica nel suo genere. Ora, questi ceti compenetrati non solo mediano il controllo e l'autorità sulla periferia meridionale, ma curano anche il flusso di relazioni politiche e socio-amministraùve con i governi centrali, elevandosi alla soglia di rappresentanza politica del Mezzogiorno di fronte allo Stato. In questo modo, la cittadinanza meridionale vera e propria viene espulsa letteralmente dal circuito della rappresentanza. Nella fattispecie, la rappresentanza diviene immediatamente e direttamente istituzione, senza passare per la società civile; e si "rappresenta" a mezzo di istituzioni autoreferenziali. Il collegamento istituzioni/società civile viene tagliato. O meglio: la società civile viene indirettamente e in posizione subordinata ammessa nel circuito della rappresentanza, a misura in cui riesce ad accedere alla spartizione dei flussi della spesa pubblica. È, così, che il clientelismo si è istituzionalizzato e capillarizzato nella società meridionale, divenendo uno dei terminali di controllo del trasferimento dei flussi finanziari e della redistribuzione delle risorse.

Considerando tutti insieme i processi e i fenomeni velocemente ricostruiti, non si può non arrivare a questa conclusione: una "grande trasformazione" ha letteralmente investito il Mezzogiorno, modificandolo profondamente (nel bene e nel male) su tutti i piani. Sono valsi a modernizzare intensivamente il Mezzogiorno più i 35 anni che vanno dal 1950 al 1985 che quasi il secolo di unità nazionale anteriore all'intervento straordinario.

Proprio a questo crocevia si celano le problematiche più insidiose e di più difficile classificazione. La modernizzazione del Mezzogiorno ha dato luogo a un particolare tipo di modernizzazione dell'economia, della società, della politica, delle istituzioni, dei comportamenti e dei costumi. Rintracciare e sistemare gli idealtipi della modernizzazione meridionale appare quanto mai decisivo. Come decisivo e importante sembra lo sforzo analitico comparato intorno alle relazioni di continuità/ discontinuità tra gli idealtipi della modernizzazione meridionale e gli idealtipi delle tradizioni culturali meridionali.

2.2.

Ridefinizione delle prospettive

Per definire e ridefinire le prospettive a Sinistra nel Mezzogiorno, a nostro avviso, si deve necessariamente partire, da due aree di incidenza politica, linguisticamente e culturalmente imparentate, ma non certamente coincidenti. Esse sono: (i) la Sinistra nel Mezzogiorno; (ii) la Sinistra meridionalista. Sinistra nel Mezzogiorno è svolgimento tematico originale della presenza della Sinistra in Italia, al livello che compete a una aggregazione politica che interviene ai piani alti dello sviluppo capitalistico e della morfologia degli equilibri e degli assetti politici. Costituisce, questo, una sorta di centro del problema. Sinistra meridionalista, invece, indica un collegamento col centro del problema, partendo da luoghi specifici della periferia meridionale.

Se così stanno le cose, centro e periferia designano ambedue sistemi e sottosistemi autonomamente propulsivi e, allo stesso tempo, fortemente interrelati. Ciò avviene sia sul piano delle economie scalari, sia su quello della formazione e trasmissione delle decisioni politiche e dei comandi autoritativi.

Affrontando il tema specifico dei sistemi politici del Mezzogiorno italiano, soglia che per la Sinistra in genere e la Sinistra meridionalista in particolare rappresenta un irrinunciabile punto di partenza, è indubitabile che si debba in premessa inquadrare la problematica della risorsa politica, così come è venuta genericamente evolvendo nella periferia meridionale. A questo livello di indagine e lungo questo crinale di scavo, vanno recuperati i fenomeni del clientelismo e del trasformismo nel Mezzogiorno italiano.

Studi sul clientelismo meridionale; sul carattere mediatorio della relazione di potere nel Mezzogiorno; sulla progressione stupefacente dell'imprenditoria politica meridionale; sull'ibridazione intensissima tra il flusso della decisione politica e l'afflusso delle risorse finanziarie nel Mezzogiorno non mancano e sono fin troppo noti per dover essere qui ricordati. Per questi tornanti, è stata creata una vera e propria sistematica storico-interpretativa. Quello che a noi preme, in quest'occa-sione, è sottoporre a torsione qualcuno dei nuclei tematici di tale sistematica, cercando di svilupparli su un terreno squisitamente politico e specificamente lungo quelle coordinate che costituiscono l'oggetto precipuo del nostro contributo.

Innanzitutto, una novità: nel clientelismo meridionale il ruolo preminente non è più genericamente del "patrono", ma del partito politico direttamente; e del partito politico di governo, segnatamente. È il partito politico che organizza l'accesso ai fondi e ai servizi regolati e disposti dall'autorità statuale. È sempre il partito politico che, poi, redistribuisce e assegna, secondo logiche clientelari orizzontali, i fondi e i servizi dello Stato. Il partito politico si dispone al centro di un fitto sistema di relazioni clientelari che organizza la mobilitazione degli interessi per linee orizzontali: la società civile viene mobilitata sul piano degli interessi di gruppi e sottogruppi che nell'accesso ai fondi e ai servizi dello Stato realizzano la loro identità.

La "mobilitazione totale" che, così, il clientelismo si assicura è costantemente pilotata e surdeterminata dall'alto. Giustamente, è stato fatto osservare che il metodo degli incentivi diffusi dal clientelismo è informato dalla ideologia della "mobilitazione individualistica" (A. Pizzorno). Ma è altrettanto vero che il tipo di "mobilitazione individualistica" che reperiamo in azione designa interessi di gruppi ("individualistici") unificati e aggregati dalla richiesta di uno specifico servizio, di una quantità precisa di fondi, in un ben definito luogo e in un determinato tempo del sottosistema meridionale. Sicché la mobilitazione individualistica delle clientele politico-sociali crea simmetricamente processi di aggregazione e processi di contrapposizione. Vale a dire: ogni clientela si aggrega in una competizione sfrenata con tutte le altre; persino, con quelle rientranti nella stessa area politica di appartenenza o di riferimento. L'uso della risorsa politica viene curvato fino all'estremo limite, affinché il meccanismo dell'inclusione/esclusione che regola la razionalità del dispositivo clientelare sia penalizzante per i gruppi rivali e remunerativo per il proprio gruppo. Il circuito della comunicazione politica viene, in questo modo, assalito da dinamiche dilaceranti ed erodenti che riducono gli spazi della socializzazione, della trasparenza democratica e involgariscono l'immaginario collettivo con figure/mito avvolte in mo-derne forme di prevaricazione e violenza.

Tipica è la figura/mito del partito-macchina, di ascendenza nordamericana e originatasi nel periodo che chiude l'Ottocento. Partito, per definizione, iperpragmatico, iper-disincantato e iper-spregiudicato. Ebbene, questo modello ha trovato nel Mezzogiorno italiano una delle sue più avanzate e particolari forme di espressione.

Il partito-macchina basa il consenso elettorale sull'organizzazione e redistribuzione del reddito, non esclusivamente per la propria leadership e i propri associati; ma potenzialmente per tutte le fasce sociali. La macchina elettorale è qui direttamente funzione della macchina per il procacciamento del reddito; e viceversa. Chiaramente, la sua metodologia e la sua pragmatica espongono il partito-macchina a ricorrenti, se non costanti, cadute nella corruzione amministrativa: come è flagrantemente dimostrato dal caso americano e quello italiano.

Letale è stato I'innesto del partito-macchina nella realtà sociopolitica del Mezzogiorno italiano, in cui più che negli altri sistemi e sottosistemi che mettevano capo all'identità nazionale era da riscontrarsi la strutturale debolezza della società civile. La classe politica di governo centrale e periferica si è sentita, per questo, autoinvestita non meramente delle funzioni della rappresentanza politica, ma del mandato imperativo di agire quale fattore dell'incivilimento. Il che ha determinato uno spostamento dell'esito americano, come è stato puntualmente fatto notare: all'americana "privatizzazione della politica" è subentrata e si è affiancata la meridionale "statalizzazione della società civile" (L. Graziano). A ben guardare, la statalizzazione della società civile meridionale esprime una variante articolata della privatizzazione della politica, in cui come interesse privato emerge l'interesse della classe politica di governo.

I meccanismi di legittimazione dell'autorità politica e di costruzione del consenso si reggono su un circuito chiuso, sempre più politicizzato in senso partitico. Il partito-macchina, nel Mezzogiorno italiano, ha costantemente teso alla costruzione di un sistema politico praticamente coincidente col sistema dei partiti. A questa prima e strategica opera di riduzione della complessità del campo del 'politico' ha fatto, coerentemente, seguito una successiva mossa restrittiva: l'elevazione del sistema dei partiti di governo come sistema dei partiti tout court. Col che tutti i processi di fluidificazione ed elasticizzazione della decisione politica e di orizzontalizzazione del dispositivo clientelare hanno creato un handicap strutturale alla formazione e all'organizzazione di opposizioni sociali e politiche, attributo fondante e fondamentale di ogni sistema o sottosistema che vogliano dirsi veramente democratici e autenticamente aperti.

La democrazia, in ogni sistema e sottosistema politicamente connotati, assume che la messa in codice dell'istituzionalizzazione e legittimazione dell'autorità politica proceda in uno con la legittimazione e istituzionalizzazione dell'opposizione. Questo il cardine principale della stessa democrazia delle differenze. Primo corollario dell'assunto è quello che recita la necessità del riconoscimento del conflitto politico e sociale, non più rattenuto e compresso nelle maglie selettive e manipolative della mobilitazione clientelare.

Rompere il dispositivo clientelare vuole, quindi, dire aprire nel Mezzogiorno una prospettiva di chiusura delle logiche di cooptazione dell'opposizione e degli oppositori, restituendo legittimazione e trasparenza alla procedura democratica. Cioè, per esprimersi con lessico dorsiano: formare una nuova classe politica dirigente meridionale, criticamente e polarmente distante dagli impieghi che della risorsa democratica hanno fatto il modello e le prassi del partito-macchina e del clientelismo. Per la Sinistra nel Mezzogiorno e la Sinistra meridionalista ciò vuole dire: proporsi, collaudarsi e consolidarsi come classe politica dirigente.

Appare sin troppo evidente che la rimessa in questione degli idealtipi della politicizzazione meridionale sia una delle premesse per il definitivo commiato dall'ipotesi frontista e del "frontismo meridionale" specificamente parlando. Non è la sommatoria della Sinistra così come è che garantisce la rottura trapassante del modello di democrazia consociativa (presente nella costituzione repubblicana) e lo smembramento della "gabbia d'acciaio" della statalizzazione privatistica del Mezzogiorno. Solo una Sinistra che cambia nel suo complesso e nelle sue componenti costitutive può intenzionare quest'opera di trascendimento e mutamento, inserendola nell'ordine del giorno della sua prospettiva politica. Una Sinistra capace di differenziarsi al suo interno e capace di differenziare le sue fun-zioni politiche, al centro e in periferia. Una Sinistra che sappia essere centro della progettazione della messa in pratica dell'esperienza dell'alternativa all'architettura esistente dei poteri, con riferimento tanto ai governi centrali dell'economia e della società quanto al governo delle problematiche locali e regionali. Una Sinistra che sappia rinnovare la sua cultura di opposizione e riscrivere la sua cultura di governo, sotto tutte le latitudini, al centro come in periferia.

Dal Mezzogiorno italiano, intorno a questi cruciali fuochi di progetto/esperienza del possibile, può venire un contributo di rilievo per il rinnovo delle culture e delle prassi politiche. Non solo per concorrere allo scioglimento di nodi culturali, teorici e politici la cui soluzione non è ulteriormente procrastinabile; ma anche e soprattutto per determinare e codeterminare una diversa gestione e una trasformazione dell'esistente politico e sociale.

Una Sinistra che rinunci o manchi di collocarsi al centro del "nuovo" e del possibile, per vivacchiare all'ombra del quotidiano e dello strettamente necessario, di Sinistra conserva solo il nome; non più l'anima e le prospettive, la tradizione e l'eredità.

Non si può dimenticare, sotto quest'ultimo proposito, che il Mezzogiorno è, sì, periferia rispetto al centro industriale, ma anche centro rispetto alla sua collocazione mediterranea. La "centralità mediterranea" del Mezzogiorno, a sua volta, è un ponte permanentemente gettato nel rapporto tra Occidente e Oriente. Nessuna analisi meridionalista può condannare al silenzio la verità storica antichissima che il Mezzogiorno italiano è stato (ed é) crocevia e crogiolo di culture stratificale e simbiotiche, nelle quali l'eco dell'Oriente non si è giammai spenta. Gli stessi divari interni al sottosistema meridionale traggono da qui una delle loro ragioni d'essere.

Se quanto precede ha un senso, ne discendono stringenti appuntamenti storici. Rivisitare il rapporto che si è dato nel Mezzogiorno tra modernizzazione e tradizione (da una parte) e Occidente e Oriente (dall'altra) postula immediatamente la seguente possibilità: fare del Mezzogiorno italiano uno dei laboratori viventi più fertilmente tesi alla coniugazione di un più avanzato ed emancipante rapporto tra tradizione e modernità (da una parte) e Oriente e Occidente (dall'altra). Su questa possibile linea di approccio tutte le alternative restrittive basate sui modelli dello sviluppo autopropulsivo, della re-industrializzazione, della de-industrializzazione, del post-indusiriale, della "via adriatica allo sviluppo", ecc. perdono la loro carica di attualità e di vigenza, già a partire da un terreno euristico-cognitivo.

Alla Sinistra meridionalista, più che a tutte le altre forze, spetta il compito principale di una siffatta riconiugazione: i fuochi tematici della ripresa della Sinistra e della ripresa del Mezzogiorno si inseriscono nello stesso giro d'orizzonte. Non v'è banco di prova probabilmente più intenso e stimolante del Mezzogiorno italiano, per tentare l'esperienza possibile della democrazia delle differenze; soprattutto, per il campo e le forze della Sinistra. Nel Mezzogiorno italiano, la democrazia delle differenze non attiene semplicemente al campo della politica o della prassi istituzionale, dell'economia o dei divari storici; bensì ricomprende le questioni decisive delle etnie, delle culture e delle tradizioni.

Il differenziale etcnico-simbolico che connota l'identità nazionale trova nel Mezzogiorno uno dei punti di sutura e, insieme, di scarto più rilevanti. Una democrazia delle differenze fondata, tra l'altro, sulla rinascita della Sinistra e del Mezzogiorno è, perciò, questione non semplicemente localistica, ma problema cruciale dell'identità dell'Italia nella scena internazionale, la cui soluzione alimenta un più alto tasso di libertà e democrazia nelle stesse relazioni internazionali.