CAP. I

IL SINDACATO TRA CONFLITTO E MOVIMENTI

Qualche cenno storico e alcuni nodi teorici

fino al confine del '68

 

 

 

 

0. Premessa

Siamo del parere, così come si va largamente affermando nei più recenti studi che stanno rinnovando dall'intemo la ricerca sociale e scientifica, la riflessione filosofica, l'indagine storiografica, l'analisi politica, etc., che per meglio inquadrare lo stato di attualità di ogni fenomeno occorra meglio e più partítamente riflettere sulle origini e sulla curva parabolica entro cui la sua natura è andata modificandosi e precisandosi. Riteniamo anche noi che le ragioni ultime di ogni esito critico e di qualunque risultante problematica siano scritte in fieri nella loro costituzione originaria.

Chiarire il più possibile e per approssimazioni successive le origini di un fenomeno vale, pertanto, come indispensabile chiarimento e approfondimento delle risultanze cui, di volta in volta, quel fenomeno perviene. Un discorso sugli approdi ultimi è inseparabile dal discorso sulle origini. E tutt'all'inverso.

Le vicende di fenomeni quali sindacato, conflitto e movimenti non si sottraggono a questo destino.

È nostra intenzione insistere sulla natura originaria di questi fenomeni e da lì cominciare a seguirli. Per implicito, partiamo dallo statuto opaco che li caratterizza attualmente.

Intendiamo, del pari, isolarli e trattarli anche come categorie, sviluppando, per parte nostra, primi elementi di analisi con-cettuale.

Il campo della nostra ricognizione ha un ambito ristretto e parziale, dovendosi, per ovvi motivi, rinunciare a ogni pretesa di esaustività.

La prima sollecitazione a cui riteniamo di dover rispondere è quella che correttamente istituisce una distinzione tra sindacato e movimento operaio. Per parte nostra, ne ribadiremo subito un'altra: quella tra sindacalismo e sindacati. Sucessivamente, ci occuperemo delle relazioni reciproche tra conflitto e movimenti e del sindacato preso in mezzo a questo flusso interattivo.

Il tutto a metà strada tra la riconsiderazione storica e la definizione del quadro teorico di supporto.

Un'ultima avvertenza: intendiamo concorrere a selezionare un limitato campo di problemi; non già fornire soluzioni. Formuliamo alcune domane; anzichè fornire delle risposte. Va da sé che nelle domande sono rintracciabili elementi per risposte possibili.

Per il resto, il titolo del contributo che proponiamo ci pare sufficientemente esplicativo da consentirci di esaurire qui i necessari chiarimenti preliminari.

1. Partendo da sinistra

Nella letteratura di sinistra, con specifico riferimento al filone marxista, il sindacato o è stato ricondotto unilateralmente all'interno del movimento operaio,delle sue istituzioni, delle sue organizzazioni, dei suoi fatti politici e del suo referente cuiturale; oppure ridotto a una sua articolazione politico-sociale all'intemo della classe lavoratrice. Col che, sulla base del formarsi e del consolidarsi della società industriale, veniva posta una primogenitura del movimento operaio in confronto al sindacato. Porre il movimento operaio come primo e più specifico risultato dell'industrialismo ha avuto il significato di privilegiare le occasioni politiche di riscatto che la nuova società sembrava garantire alle classi subalterne e interpretare in chiave eminentemente politica questo riscatto. È sorta, così, una ideologia che, attraverso l'emancipazione dei lavoratori dalla condizione del lavoro salariato e facendo leva sullo scardinamento politico dell'ordine sociale, mirava alla costruzione di una nuova società.

I testi chiave che hanno definito siffatta ideologia politica, nell'evoluzione storica che va dalla rivoluzione del 1848 alla rivoluzione russa del 1917, sono fin troppo noti per essere qui menzionati. Piuttosto, ci preme osservare come l'asse iper-politico di questa lettura della nascita e della formazione delle società industriali svuoti di pregnanza una forma empirica di incalcolabile portata: il lavoro, nelle condizioni nuove dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali in via di descrivere la loro inarrestabile genesi.

Con una forte ascendenza hegeliana, Marx, com'è noto, categorìzza il lavoro come mediazione sociale e attività conforme allo scopo. Ciò, già in partenza, impedisce di considerarlo come attività in sé, nelle sue articolazíoni costitutive interne e dotate di autonomia di senso; impedisce, direbbe l'approccio fenomenologico, di considerarlo come oggetto, dotato di vita reale propria e connessioni autosufficienti. Il lavoro è qui sempre e solo lavoro in funzione del plusvalore; ed è la vigenza di quest'ultimo che ne definisce la produttività o improduttività. Líberandolo da questa funzione oppressivo-alienante, lo si riscatta — secondo questa ipotesi — dal gioco di specchi della reificazione capitalistica, emancipando, del pari, la soggettività.

Non è questa la sede per approfondire l'analitica del lavoro come oggetto e come forma; di ciò ci occuperemo specificamente nel prossimo capitolo. Ma è doveroso, perlomeno, segnalare che il lavoro come forma empirica autonoma, entro l'orizzonte della civiltà industriale: (i) è rete di esperienze, attività sociale e vita simbolica; (ii) rimanda a un piuriverso di modi che associano e disaggregano la stessa soggettività operaia; (iii) ammette e richiama una mappa di espressioni associative e organizzative estremamente differentì tra di loro; (iv) è reticolo di una pluralità di interessi politici, sociali, economici e culturali; (v) condensa e disseziona al suo interno una molteplicità di culture, di ideologie e di rappresentazioni politiche.

Questa schematica sottolineatura ci consente dì affermare che non solo il sindacato nasce prima ed è cosa diversa dal movimento operaio; ma che si istituisce una distinzione tra lo stesso sindacato e il sindacalismo. Le medesime organizzazioni sindacali moderne, del resto, attecchiscono sul ceppo del-l'associazionismo preesistente: (i) i "villaggi cooperativi" di R. Owen; (ii) i "Cavalieri del Lavoro" in America; (iii) le "Bourses du Travail" in Francia. Il tutto nella metà dell'Ottocento.

Vediamo meglio.

Provocatoriamente, diciamo che il sindacalismo precede, perfino, la costituzione del sindacato modemo. La necessità da parte delle classi oppresse di difendersi ed esercitare i loro propri diritti di contro al complesso delle norme introdotte dalla società industriale si è espressa come dato immediato, insieme di pratiche e articolato di comportamenti quotidiani, ancor prima di trovar espressione organica e stabile in forme organizzativi moderne. Si è fatto uso, per così dire, delle forme associative già esistenti, forzandole e ridefinendole nel nuovo contesto storico. Ora, è proprio l'esplicitarsi di queste pratíche e di questi comportamenti che ha espresso una linea di síndacalismo ancorato quanto si vuole alle forme arcaiche, nondimeno alla ricerca di quelle storicamente nuove. Qui il sindacalísmo si riferisce all'associazionismo come forma storicamente organizzata. Tende verso la costituzione del sindacato moderno, ma è ancora privo di sindacato.

La morfologia originaria del sindacalismo ha, perciò, un carattere assai complesso, disteso tra due punti limite: (i) la reazione difensiva avverso le condizioni di sfruttamento integrate dall'industria capítalistica; (ii) l'azione posìtiva verso il mutamento della società. Questi due punti limite accompagneranno l'intera storia del sindacalismo e, ancor oggi, li troviamo a modellare, in larga parte, la genetica dell'azione sindacale.

Ma ritorniamo a un passaggio storico precedente, intorno alla seconda metà dell'Ottocento. In questa fase, il criterio su cui si ímperníano le forme di organizzazione cui tende il sindacalismo diventa, in luogo della base geografico-territoriale, quello della specializzazione professionale, aprendo quella che viene comunemente designata come epoca del "sindacalismo di mestiere". Ed è questa l'epoca che segna la vera e propria nascita del sindacato moderno.

Il "sindacalismo di mestiere" accentua entrambi i punti limite precedentemente enumerati. Il superamento definitivo del carattere di elementarità e arcaicità della vecchia "composizione di classe", assicura ora, per il tramite dell"'operaio professionale", una intemità maggiore al modo di produrre e ai meccanismi delle dinamiche sociali. La società incorpora l'operaio, così come il capitale succhia la forza-lavoro. La reazione di difesa si prolunga in una progressiva integrazione nei meccanismi della riproduzione sociale e nel sistema istituzionale che, fuori dall'impresa, li raccoglie, riorienta e canalizza. Per contro, l'azione positiva tendente al mutamento del sistema sociale, proprio in virtù di questo surplus partecipativo, si va estendendo e approfondendo.Soltanto una lettura riduttiva, fortemente viziata sul piano ideologico, ha visto nell'operaio professionale il crescere della quota di ostilità operaia nei confronti della società esistente. L'operaio professionale è, contemporaneamente, portatore di istanze di integrazione e mutamento, all'intemo di un consolidato e istituzionalizzato sistema di regole. Più che essere mitico soggetto dell'uscita dal capitalismo, è uno degli agenti della trasformazione del capitalismo. In questo senso, è aristocrazia. Qui si dà, in termini strettamente politici, l'inclusione nell'area della cittadinanza di uno strato di classe prima escluso; e uno strato di classe privilegiato. È proprio l'allargamento qui realizzato della cittadinanza che costituisce il fattore di mutamento più rilevante sul piano politico.

Lo statuto originario del sindacalismo, allora, si complica ulteriormente: (i) assistiamo al graduale assorbimento delle organizzazioni sindacali nel quadro delle regole della società costituita; (ii) le organizzazioni sindacali finiscono col trascendere il sistema vigente dei fini della società; (iii) lo stesso sistema dei fini delle organizzazioni sindacali tende ad essere trasceso costantemente dall'azione sindacale; (iv) il conflitto industriale viene alimentato e gestito dentro e fuori l'impresa; (v) quote rilevanti di soggetti vengono immesse e incanalate nei dispositivi della partecipazione politica e sociale, ampliando i fattori di integrazione a disposizione della società.

Questo spettro estremarnente largo dà meglio ragione della poliedricità semantica e funzionale del sindacalismo. Anche qui si disloca una conseguenza di estremo rilievo. Il differenziarsi delle teorie e delle pratiche, delle forme e dei contenuti dell'azione sindacale si esprime come dato costitutivo originario. Le diverse funzioni e le diverse tendenze hanno intenzionato diverse teorie, diverse dottrine e diverse forme di intervento e di rappresentanza. A suo modo, l'articolato di tali teorie, dottrine,etc. ha costituito l'auto-interpretazione che il sindacalismo ha dato di sé, nel tentativo di chiarisi riflessivamente la propria immagine e la propria identità. Beninteso, ciò ha avuto anche un carattere proiettivo, consistente nell'offrire alla società, ai vari interlocutori e attori sociali fino ai medesimi rappresentati una sufficientemente precisa e dinamica rappresentazione di se stesso.

Chi più degli altri ha analizzato l'anima proprietario-produttiva dell'operaio professionale è stato S. Mallet. Per lui, l'azione-reazíone dell'operaio professionale è di tipo proprietario: "egli difende come suo bene più caro la sola proprietà che gli rimanga, quella del suo mestire". Ma qui il diritto alla proprietà del proprio "mestiere" e dei mezzi di produzione di cui si è stati spossessati non può essere inquadrato come presupposto materiale di una ideologia gestionale di tipo socialista. Per fare emergere questa incongruenza teorica e infondatezza storica, stabiliamo una connessione con la posizione marxista sul sindacato, dalle concezioni originarie fino a quelle teniniane; e, in seconda determinazione, con l'ideologia e la prassi del sindacalismo rivoluzionario; in seguito, chiuderemo velocemente su Gramsci. Ciò ci permetterà, parimenti, di dare dimostrazione concreta di quanto precedentemente argomentavamo intorno alla molteplicità delle teoriche e delle pratiche del sindacalismo.

Come è noto, non esiste un'analisi organica e compiuta di Marx (ed Engels) sul sindacato. Nondimeno, è legittimo estrapolare dal complesso delle opere storico-politiche di Marx una ben approssimata linea di analisi e un sufficientemente chiaro punto di vista sul sindacato. La struttura della società divisa in classi è ontologicamente il contesto primario entro cui collocarce d interpretare ogni fenomeno. Non diversamente, per il fenomeno sindacale e le lotte sindacali. Ciò per Marx — e la storiografia e la sociologia che a lui hanno fatto e continuano a fare riferimento — ha l'indubbio vantaggio di delimitare un orizzonte prospettico capace: (i) di valicare il confine dell'analisi psicologico-comportamentista delle condotte operaie; (ii) di recuperare l'istanza rivendicativo-sindacale alladirezionali delprogetto e del processo di costruzione, politicamente centrata, dell'ordine sociale nuovo. Indubbiamente, l'approccio marxiano presenta dei notevoli passaggi innovativi a confronto dei filoni ideologici dell'associazionismo del suo tempo, che trovano in alcuni "socialisti utopisti" (Saint-Simon e Owen) i rappresentanti più emblematici. Ma perrnane un vizio nascosto nella struttura profonda dell'analisi. Nella gerarchia dei valori, il progetto politico della trasformazione rivoluzionaria della società assegna alle lotte sindacali e al sindacato un posto destinato a restringersi, fino all'autoconsunzione completa. Costantemente, il dato rivendicativo-síndacale è soppiantato da quello politico: il posto del secondo si allarga, erodendo quello del primo. Questa erosione si conserverà fino a Lenin, in cui — come si vedrà — assunta la primarietà del livello politico, si tenta ancora di mantenere un rapporto di equilibrio e bilanciamento comandato tra il politico e l'economico.

La posizione di Marx sul sindacato è strumentale. Nel senso che egli lo concepisce come strumento di espressione e organizzazione del momento rivendicativo, accanto ad altri strumenti. In quanto strumento, è spossessato di ogni autonomia ed è sottomesso sempre al fine politico. Soltanto la congruità e il perseguimento di quest'ulúmo dirà — dopo e a cose fatte — della sua efficacia come mezzo. Ridotto a mezzo, non appare più come ambito selettivo dei bisogni operai; è semplicemente il canale che li fa scorrere verso la loro individuazione e soddisfazione, le quali non possono avvenire che in ambito politico. L'insufficíenza del sindacato verrebbe qui alla luce in estremo grado: qui è la finalità politica dei bisogni operai che svelerebbe la misería del sindacato. Del resto, è ampiamente noto che, per Marx, la natura sociale dei bisogni ammette solo delle soluzioni politiche. E ciò è vero non —soltanto per il Marx storico e scienziato de "Il Capitale"; ma anche per il Marx "antropologo-umanista" dei "Manoscritrl del '44" e dei "Grundrisse". La stessa "rivoluzone sociale", a cui a più riprese si richiama il "Marx giovane" giornalista, conserva su di un piano retrostante un paradigma politico, il quale fa della liberazione dei bisogni in un soggetto unico, ma ricomposto — il proletariato —, il perno del rivolgimento sociale. Sussunto il momento rivendicativo in quello politico, diventa più agevole comprendere come successivamente l'evoluzione del marxismo non abbia saputo resistere alla tentazione di integrare — nella dottrina e nella prassi — il sindacato all'interno del movimento operaio.

Passando a Lenin. Assumiamo come riferimento centrale un testo chiave della produzione leniníana: il "Che fare?" Qui, più ancora che nella polemica con Rosa Luxemburg sullo scopero generale, sono rintracciabili, a parer nostro, le coordinate cartesiane del discorso leniniano sul sindacato. È noto che, per Lenin, la polemica contro gli economisti russi costituisce l'improrogabile sviluppo in Russia della lotta politica contro il revisioniamo di Bernestein, per il quale, come è arcinoto, "il movimento è tutto e il fine è nulla". In particolare, per Lenìn, si tratta di combattere quella concezione economicista che sostiene la spontaneità del passaggio della lotta economica a quella politica. Al contrario, per lui, tale sviluppo sta scritto tutto dentro la costruzione del partito rivoluzionario della classe operaia. La critica al tradeunionísmo, in Lenin, declina la teoria-prassi della costruzione del partito, concepito come avanguardia di rivoluzionari di professione. Ed è l'assiomatica della teoria del partito che costítuisce, in Lenìn, la cuspide della critica al tradeunionismo. Ciò avviene, perché nel retrostante laboratorio concettuale si dà una ricategorizzazione del rapporto econornia/politica. In proposito, si registra, a confronto del revisionismo di Bernestein e del tradeunionismo, un vero e proprio rovesciamento di paradigma: al primato dell'economia sulla politica, Lenin rimpiazza la centralità e la primarietà della politica. Ancora più in dettaglio: il passaggio della lotta economica alla lotta politica non è automatico, ma interviene solo a seguito e come effetto dell'azione politica esterna dell'avanguardia. Celebre e sintomatica è una delle tesi principali del "Che fare?": la spontaneità è solo l'embrione della coscienza. In Lenin, dunque, c'è: (i) la compresenza della lotta economica e della lotta politica; (ii) la previsione e la necessità del passaggio discontinuo dalla prima alla seconda; (iii) l'enucleazíone tanto della lotta al dominio politico esercitato dallo Stato, quan-to della lotta al dispotismo del sistema di fabbrica. Le forme della mobilitazione sindacale convivono con quelle della mobilitazione politica. Anzi. Uno degli impegni principali dell'azione dell'avanguardia è proprio la crescente politicizzazione della mobilitazione spontanea.

Senonché la, pur notevole, elasticità del modulo leniniano non regge ad alcune obiezioni di fondo. Il paradigma politico di Lenin è una sorta di "frullatore" che intende sbriciolare e reimpostare, in una nuova combinazione, elementi tra di loro irriconducibili. Non basta l'azione del partito per orientare la mobilitazione spontanea: non basta e non è dato. Il conflitto industriale attiene alle forme di funzionamento dell'impresa, alle sue regole di riproduzione e alla sua vita interna. Lo Stato, più che il "nemico", è qui l'ínterlocutore assente. Le tipologie del conflitto industriale agli inizi del Novecento — e soprattutto nell'arretrata Russía zarista — descrivono una sorta di chiamata in causa dello Stato, affinché intervenga per dare soluzione alle strozzature del "dispotismo di impresa", apprestando canali di comunicazione più recettivi tra fabbrica e società, produttori e istituzioni. Sta qui la modernità di tali conflitti, la cui posta in gioco è politicamente non la rottura del dispositivo statuale, ma la sua evoluzione innovatrice. È soltanto per un concorso di condizioni storiche, assolutamente non generalizzabili, che si arriva alle forme di rovesciamento violento del '17 russo. Ora, non si tratta di disquisire sul carattere proletario o capitalistico della rivoluzione russa del '17. Il punto in questione è un altro. Le modalità del rivolgimento e della transizione violenta — a monte — risultano politicamente determinate da un apparato statuale-istituzionale atrofizzato, bloccato e incapace di recepire e riorientare la linfa vitale che sale dalla società. Ma c'è dell' altro. Causa non meno rilevante è l'incapacità del sistema politico dominante di produrre al suo interno la nuova classe dirigente. Ne consegue che classe politica e leadership del cambiamento si formano tutte fuori econtroquelle dominanti. Il rivolgimento violento risolve il punto di crisi. Lo stesso Lenin, d'altronde, a rivoluzione da poca avvenuta, nel 1918, è costretto, suo malgrado, a farsi paladino dell’introduzione di alcune dinamiche capitalistiche avanzate, come l'organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, subordinando lo stesso apparato e le funzioni dello Stato alla razionalità delle tecniche, dell'amministrazione e dell'efficienza. Lenin medesimo non può sottrarsi alle esigenze dello sviluppo del capitalismo; ma, ancora di più, non può sottrarsi alle regole della produzione della classe politica e della leadership, così come andavano emergendo nelle "democrazie industriali" dell'occidente capitalistico.

E arriviamo al sindacalismo rivoluzionario di G. Sorel. Se in Marx il dato ontologico primario è costituito dalla struttura economico-sociale della società divisa in classi, per Sorel il perno attorno a cui costruire la "società totale" è rappresentato dall'autonomia di espressione e delle sfere vitali di cui è portatrice la classe operaia. Se in Lenin è il partito che ritraduce e riorienta, nel 'politico', le forme di espressione della spontaneità, qui la fase del riorientamento politico viene saltata a piè pari. La teoria della azione sociale della classe operaia, di cui lo sciopero generale è lo strumento catartico, fa del sindacato il depositario per eccellenza del "progetto rivoluzionario" del cambiamento. Non semplicemente in alternativa al partito rivoluzionario; bensi in contrapposizione a esso. Ma anche quale portatore di una critica radicale e azzerante del 'politico', e, da qui, del sistema politico e dei partiti. Non sorprende che questa teoria pervenga a ipostatizzare un antagonismo sociale nei confronti dello Stato, nel cui sistema istituzionale e della rappresentanza non può qui esservi posto per il lavoratore salariato. L'unica forma di rappresentanza degli interessi e dei bisogni del salariato è incarnata qui dal sindacato che, per questo, si colloca fuori del sistema politico-istituzionale esistente. Spesso la posizione soreliana è stata tacciata di pansindacalismo. Non ci sembra che la confutazione colga completamente nel segno, poiché il nucleodel sindacalismo rivoluzionario riposa altrove. La teoria dell'azione autonoma e vitale dei lavoratori salariati rileva un humus teorico e un quadro di riferimenti per i quali il sistema politico-istituzionale della civiltà industriale sarebbe aggredito da una prematura obsolescenza. Questa la ragione fondamentale che non fa apparire come necessario il ricorso alla mediazione politica, all'articolato di strategia e tattica, alle fasi intermedie di passaggio al "progetto politico", alla organizzazione politica, etc. Quasi che il capitalismo fosse stato estinto proprio dallo sviluppo della società industriale. Il sistema politico, al cui centro viene posizionato lo Stato, non sarebbe altro che il puntello che, dall'estemo, ne ga-rantirebbe forzosamente la sopravvivenza. Il terreno politico non può che essere abbandonato: sarebbe solo e sempre terreno dell'avversario. Il rapporto di forza viene, pertanto, incanalato nel sociale, perché solo qui lo si ritiene favorevole ai salariati. Appare sin troppo evidente come questo punto di vista fraintenda, quando addrittura non considera affatto, le metamorfosi che a cavallo di Ottocento e Novecento avvengono nella struttura sociale e in quella dell'impresa, nelle forme della democrazia politica e nel riassetto delle funzioni istituzionali.

lnfine, un rapido colpo d'occhio in casa nostra. Lenin non è il solo che, a sinistra, rimanga folgorato sulla strada della tecnica e delle tecnologie dell'organizzazione del lavoro sociale. Se Lenin coltiva un amore per Taylor, Gramsci nutre una passione, di non minor conto, per Ford. Concepito il fordismo come "rivoluzione dall'alto", Gramsci considera l'avvenuto processo di adattamento dell'uomo alla macchina come un fattore di emancipazione del "cervello dell'operaio", che, così, raggiungerebbe uno "stato di estrema libertà": "La meccanizzazione del "gesto fisico"" lascerebbe "il cervello libero e sgombro per altre occupazioni". Ne segue che l'intero processo di acquisizione della "coscienza di classe" conoscerebbe una razionalizzazione più matura e renderebbe gli operai meglio in grado di competere con i loro avversari. Più precisamente ancora, è la nozione di "egemonia operaia" che sostituisce quella di "coscienza di classe", in quanto è l'operaio fordista e non altri il detentore della razionalità tecnica superiore. Da cellula del meccanismo di impresa, l'operaio specializzato e professionalizzato tecnicamente diviene il nucleo vitale di un "corpo organizzato", unificato e combinato dalla razionalità di cui è portatore. Questa figura egemonica e questo tipo di razionalità esprimono la "necessità dell'ordine, del metodo, della precisione"; tanto più cresce ed è sentita tale necessità, tanto più avvertita è l'esigenza "che tutto il mondo sia come una sola, immensafabbrica". Più che la fabbrica, nella lettura politica che Gra-msci dà del fordismo, è l'operaio tecnicamente specializzato il portatore di un nuovo ordine. Il mondo come fabbrica riconsegnerebbe, così, la fabbrica del mondo al soggetto che meglio ne incarnerebbe e possiederebbe la razionalità tecnica. Ancora una volta, diversamente da quanto argomenta Mallet, non ci troviamo riduttivarnente al cospetto di una ideologia gestionaria di tipo socialista; bensì di fronte all'assunzione in mano operaia del governo della società capitalistica. Gli inevitabili mutamenti nei rapporti e delle forme di proprietà ineriscono qui alla trasformazione interna alla struttura socio-produttiva del capitalismo. Soltanto l'ideologia ha fatto istituire una dicotomia secca tra capitalismo e socialismo, configurandoti l'uno come alternativa dell'altro. Invece, è proprio a partire dalla NEP e dalla crisi delle forme costituzionali del primo dopoguerra che molti degli elementi dell'un ordine li ritroviamo nell'altro. L'incameramento, operato da Gramsci, della razionalità tecnica fordista entro un impianto politico che paga un pesante tributo al determismo economico fa del conflitto di fabbrica il passaggio cruciale del mutamento dell'ordine sociale. A questa fondamentale riduzione selettiva se ne aggiunge, inevitabilmente, un'altra: incollare il conflitto industriale alle forme della razionalità tecnico-econo-mica da cui, per differenza, vengono cavate fuori le forme della razionalità politica. Le dimensioni e le tensioni che articolano e scompongono il conflitto di fabbrica sono assimilate alla progressione scientista economia/tecnica/politica. L'ambizione è quella di porre ta modernità della tecnica e della razionalità scientifica al servizío dell'arcaico progetto del "socialismo dei produttori". Il sindacato e le lotte sindacali sono ridotti (il primo) a una istituzione della "repubblica operaia" e (le seconde) a terreno di formazione conflittuale deli"egemonia operaia", divenendo, cosi, uno dei serbatoi principali della costituzione dellanuova classe dirigente. Più che la soggettività operaia, è la tecnica che emerge qui come forza produttiva principale; e forza produttiva in senso lato. Il marxismo di Gramsci paga lo scotto al primato della tecnica che, direbbe Heidegger, costituisce la nuova "imma-gine del mondo". Anzi. La rivisitazione del marxismo proposta da Gramsci è inquadrabile come ricerca delle ragioni costi-tutive fondamentali, per così dire strutturali, dell'affermarsi del moderno primato della tecnica. Presupporre fermo il dato preesistente — in questo caso: il marxismo — fa qui perdere i più rilevanti elementi di novità delle emergenti realtà sociali, economiche e politiche.

Mantenendo l'andamento rapsodico della nostra escursione, dobbiamo ora occuparci di un tornante storico essenziale che segna il passaggio dal "sindacalismo di mestiere" al "sin-dacalismo industriale" propriamente detto, il quale vede la scomparsa progressiva dell'operaio professionale. La nuova divisione del lavoro; la segmentazione del processo lavorativo in attività e mansioni parziali e semplificate; la produzione in serie; la nuova tecnologia del lavoro sociale, tendente a incorporare in se stessa tutto il sapere sul ciclo produttivo creano e strafificano nuove figure produttive e rompono il carattere di compatezza della fabbrica capitalistica, così come fino ad allorasi era andata caratterizzando. E proprio il fordismo, negli Usa, anticipa i caratteri essenziali del nuovo fenomeno; anche questo lato della modernità del fordismo sfugge a Gramsci. Il nuovo fenomeno si afferma e consolida in tutto l'occidente capitalistico nella fase storica che va tra i due conflitti mondiali; sviluppandosi con tutte le sue potenzialità dopo il secondo conflitto, con l'introduzione su vasta scala di nuove tecnologie e l'ulteriore accelerazione della razionalizzazione. Il tutto in maniera disomogenea e tenendo in conto le specificità e i ritardi di questa o quella struttura economico-sociale nazionale.

Consideriamo l'arco delle cospicue conseguenze risultanti dai processi di trasformazione in atto nel ciclo economico e nel processo lavorativo: (i) rottura del monopolio del mestiere, operata dalle nuove tecniche e dai sistemi della razionalizzazione; (ii) emergenza di nuovi strati e figure non professionalizzati, a cui vengono estesi le tutele della cittadinanza e, i vincoli della rappresentanza; (iii) dissoluzione della cultura sub-operaia che, attorno al possesso del mestiere, cailibrava il suo orizzonte culturale di "progettazione rivoluzionaria" della società; (iv) crescita del peso e del ruolo del sindacato nella società, in concomiianza della caduta di tensione di tutte le vecchie ideologie che lo avevano attraversato; (v) sviluppo conseguente delle forme organizzate del sindacato.

Molti autori collocano all'altezza di questo passaggio storico il fenomeno di burocratizzazione del sindacato in uno con un corrispettivo processo distanziamento dai movimenti. Così non pare.

Se si vuole — e si deve — trattare il sindacato come oggetto di analisi, innainzittutto va colta l'intima complessità e, a volte, contraddittorietà delle sue funzioni e della sua evoluzione. Questa è un’esigenza di carattere storiografico e, a un tempo, una necessità teorica. Pena l'annullamento storico e teorico del sindacato come oggetto d'indagine e attore storico.

Stabilita in questi termiini la metodica dell'approccio, appare particolarmente insoddisfacente la tesi che individua nella burocratizzazione la ragione prima dello scarto tra sindacati e movimenti. L'entrata in scena di figure operaie specificamente industriali ha un doppio circuito: (i) allarga la base sociale del sindacato; (ii) include i nuovi strati sociali nella sfera della cittadinanza. In tutti e due i casi, ciò è precondizione e coefficiente moltiplicatore di una profonda rimessa in discussione delle forme date dell'organizzazione sindacale, sia sotto il profilo dell'estensione che in quello delle modalità interne. L'accentramento dei processi della decisione sindacale, con i connessi rischi di burocratizzazione, va messo in relazione a forme di azione sindacale e azioni collettive che hanno visto oltremodo ampliarsi e mutarsi il loro teatro. Nuove condotte di azione collettiva si affacciano sulla scena e ne sono titolari attori a cui per l'innanzi non veniva riconosciuto alcun diritto, relegati come erano nell'inferno dell'emarginazíone e della marginalità. L' azione sindacale si trova, così, a fare i conti con una duplice problematico:

1) per un verso, selezionare il campo delle nuove domande e tradurle puntualmente in percorsi che conducano alla formalizzazione di nuovi diritti, dotandosi di strutture politico-orga-nizzatíve centralizzate;

2) per l'altro, decentrare orizzontalmente il campo di intervento, lungo lo spettro delle figure produttive emergenti.

Questo il dilemma che fisiologiciinente scorre tra decisione e rappresentanza e che, per svariati motivi, costituisce uno specifico paradosso sindacale, costretto com'è il sindacato a muoversi costantemente tra istituzioni e movimenti, conflitto e organizzazione dei bisogni e degli interessi dei lavoratori. Il fatto è che, col síndacalismo industriale, reazione di difesa e azione positiva si complicano in sommo grado. Sembrano svaporarsi i vecchi confini tra l'azione di opposizione e quella di controllo, entro cui tradizionalmente il sindacato era andato oscillando. L'azione di tutela rivendicativo-economica si trasforma in contrattazione vera e propria; anche da qui l'esigenza di momenti più o meno centrali di decisione. L'iniziativa politica aggredisce in maniera ambivalente il tema delle riforme: (i) negli USA, l'incanalamento va verso sensibili benefici di carattere settoriale a favore dei lavoratori; (ii) in Europa, diparte una pressione verso i partiti, onde ottenerne l'appoggio per il varo di riforme aventi carattere sociale e generalizzato. Se questo è il multiforme contesto storico, non convincono quelle tesi che, per questa fase precipua, argomentano di passaggio da un "sindacalismo di opposizione" a un "sindacalismo di controllo". Dalla stessa nostra ricognizione, del resto, viene emergendo la contestualità delle funzioni di opposizione e controllo dell'azione sindacale in ogni fase di storia evolutiva del sindacato. Contestualità ad architettura mutevole; ma permanentemente presente. A fronte di ciò, vengono meno tanto le teoriche sul ruolo di integrazione del sindacato, quanto quelle che isolano le sue funzioni opposizionali-conflittuali. Su questa estrema sponda saltano, per intendersi: (i) la teoria del sindacalismo dei coniugi Webb (il cosiddetto tradeunionismo funzionalista) che assegna al sindacato la limitata funzione di difesa dei lavoratori nell'alveo della compatibilità del sistema); (ii) le teorie marxiste del sindacalismo (nelle tre versioni che abbiamo prima analizzato), per le quali il sindacato è, in ogni caso, un soggetto di integrazione sociale e, a questo titolo, lo si vuole staccare dal sistema vigente, affinché possa anticipatamente integrare i lavoratori in un diverso ordine sociale; (iii) le teorie del sindacalismo rivoluzionario di Sorel cheattribuiscono al sindacato il progetto e la funzione di catarsi rivoluzionaria; (iv) le teorie del sindacalismo americano di Selig Perlman che si disinteressano della compatibilità del sistema, concentrando tutto il loro interesse sull'azione operaia e sindacale in vista del raggiungimento del massimo vantaggio economico.

Le teorie classiche del sindacalismo pervengono qui al loro punto morto.

2. La svolta del '68

La scissione teorica che cortocircuita le funzioni del sindacato sulle lame disgiunte della integrazione e della mobilitazione appare particolarmente labile alla svolta degli anni Sessanta, a fronte della ripresa del conflitto e dei movimenti. Eppure, ha pervicacemente resistito, se studiosi e ricercatori, proprio riflettenfo intorno agli anni Sessanta sulla materia, l'hanno variamente riproposta e sistematizzata a un livello teoricamente superiore.

In breve, questa la polpa del ragionamento.

Nelle società avanzate il sindacato sarebbe nell'impossibilità di integrare il conflitto in fabbrica. Quanto meno tale conflitto è integrabile, tanto più il sindacato non può organizzare la partecipazione dei lavoratori nella società. Il conflitto industriale, per la natura della mediazione sindacale, richiederebbe di essere bloccato al di qua della compatibilità e dei vincoli dell'impresa. Ne deriva che il conflitto non esploso irrimedíabilmente in fabbrica verrebbe travasato nella società. Col che si tenta di ritradurlo in integrazione sociale. Ma, avverte Pizzorno, bloccare il conflitto vuole dire rinunciare all'accumulo della forza contrattuale possibile, creando scontento nella base dei rappresentanti. I quali ultimi finiscono, così, con l'essere portatori di un infelice paradosso: il conflitto di cui sono titolari non è mai sanabile in fabbrica e non è mai integrabile nella socíetà. In fabbrica: potrebbero ottenere di píù, ma debbono rinunciarvi. Nella società: vogliono ottenere di più, ma non possono, poiché l'integrazione li priva di forza contrattuale.

Indubbiamente questo tipo di analisi coglie, con attenzione e puntualità, una serie di dati e fenomeni reali. Il vizio sta nell' assumere la fondamentale bipolarità delle funzioni del sindacato in termini di divaricazione, per cui dovendosi scegliere tra integrazione e/o mobilitazione nessuna delle due risulta mai essere opzionabile. Il divario qui ipostatizzato tra integrazione e mobilitazione è la spia di una antinomia sedimentata in profondità: quella tra movimenti e conflitti, da un lato, e sistema politico e istituzioni della rappresentanza, dall'altro. Più chiaramente ancora: emerge il tradizionale dualismo conflitto/con-senso.

Ora, dall'impossibilità dell'integrazione del conflitto industriale nelle società avanzate non vanno ricavate soltanto sopravvivenza arcaiche. Al contrario. Si tratta di puntare qui l'attenzione per cogliervi gli elementi di novità. Come, tra i primi, ha intuito Luhmann, nelle società complesse e altamente evolute il conflitto è invariabilmente collegato al suo aumento di potenzialità. La crescita del potenziale di conflitto richiede, pertanto, l'estensíofie dell'area tematica e problematica che seleziona le scelte e le opzioni. Le cerchie decisionali vanno, sì, restringendosi, ma promanano da una regione cognitivo-opzionale in via di allargamento. Al punto che tutte le dicotomie tradizionali (ordine/conflitto, conflitto/consenso, integrazione/mobilitazione, etc.) saltano. Saltate queste dicotomie, una volta di più, il sindacato non può essere ricondotto alla parzialità di questa o quella sua funzione particolare. Una volta di più, si ritrova a fare i conti con la compiessítà della sua natura e origine. Ancora una volta, si vede costretto a lavorare a una sorta di mutazione genetica di se stesso che, se conserva inalterati alcuni presupposti di fondo, introduce significative trasformazioni. È, così, che il sindacato, sul finire degli anni Sessanta, si accinge a coniugare, in Italia, un teorema apparentemente impossibile e, fino ad allora, semplicemente impensabile:

1) consolidarsi come rappresentanza di interessi, moltiplicando i vantaggi della partecipazione al sistema;

2) rinnovare ed estendere le sue capacità di mobilitazione.

L'aumento della quota di integrazione viene messo al servizio dell'accrescimento della mobilitazione. Percorsa la strada che conduce dal conflitto al consenso, si cerca il cammino di ritorno che dal consenso riconduca al conflitto.

Lo scenario appena esemplificato, in realtà, abbraccia gli ultimi 25 anni di storia del sindacato. Si tratta ora di verificarne puntualmente la griglia interpretativa. Ricomìnciamo dal principio.

Molte e di svariato orientamento sono state le analisi sugli anni Sessanta. Tutte hanno concordato su di un punto nevralgico: il loro significato di transizione verso una nuova forma di società e di relazioni sociali. In proposito, c'è chi ha preferito parlare di passaggio da una "società arretraìta" a una "società avanzata" e chi, in maniera storicamente più assorbente, ha argomentato di "modernizzazione". Soffermarci, in questa occasione, sulle strozzature dii carattere economico-sociale, politico-istituzionale e simbolico-culturale a cui il passaggio in-tendeva dare soluzione e, ancora di più, su quelle che permangono come retaggio antico, richiederebbe uno sviluppo di argomenti che forzerebbe l'economia del presente lavoro. Preferiamo, perciò, concentrare la nostra attenzione sul Sessantotto, verificando in questa particolare zona calda della più recente storia italiana — e non solo italiana — il discorso che stiamo venendo enucleando.

Tra le tante letture date del Sessantotto ne assumiamo due come punto di riferimento. L'una ha un profilo eminentemente politico; l'altra si qualifica su di un piano generalmente culturale e ci riguarda particolarmente da vicino: la prima è di Paolo Farneti; la seconda è di Mario Perniola.

Cominciamo con quella politica. Viene ritenuto che il ciclo delle mobilitazioni del 1968-69 sia, con tutta probabilità, da interpretare come la "chiusura di un cinquantennio di grandi investimenti ideologici iniziatasi con la prima guerra mondìale". Chiusura di questi investimenti, ma anche apertura di nuove prospettive e nuovi insediamenti ideologici. Schematìcamente, così, rappresentabili: (i) peso crescente degli effetti dovuti allo sviluppo economico, originatosi nel secondo dopoguerra; (ii) dispiegamento di fenomeni spinti di mobilità geografica e sociale; (iii)) espansione della domanda di beni e risorse; (iv) crisi di tutte le culture e sottoculture della tradizione unitaria e post-unìtaria; (v) disagio e ritardo, a confronto dell'emergente, da parte della società politica.

La prospettiva in incubazione pare qui a Farneti quella della crescita, del consolidamento e dell'autonomia della società civile, che sfugge al controllo delle categorie e delle regole messe a punto dalla società politica. Salterebbe, pertanto, il primato della società politica sulla società civile. Da qui Farneti deriva l'affermazione di "una centralità delle istituzioni" in direzione della "ricerca di un adeguamento-controllo delle istituzioni rispetto alla realizzazione collettiva degli "interessi" nella società civile".

Passiamo alla lettura del Sessantotto sul piano del rapporto tra reale e immaginario, ricercando, parimenti, la faccia nascosta del Sessantotto che — a sinistra — si è sempre tentato pudicamente di occultare. Perniola, pur assumendo la centralìtà del Sessantotto nello sconvolgimento del rapporto tra reale e immaginario, politica e cultura, non lo categorizza come rivoluzione (riuscita o fallita, qui poco importa). Vi rileva la persístenza di un cono d'ombra, costituito dal ritorno di tutte le "teorie rivoluzionarie" del passato: marxismo, anarchismo, leninismo, consiliarismo. Ciò, secondo lui, avviene per effetto dì quel processo di "derealizzazione della società" in cui il Sessantotto rimane impigliato e di cui permane uno degli agenti. Viene, così, spiegato come proprio col Sessantotto l'immagine della rivoluzione torni in auge, presumendo di poter finalmente assumere padronariza della realtà data. Nello stesso modo con cui, con le avanguardie artistiche dell'ínizio del Novecento, la poesia si era pensata come praxis, la rivoluzione passa a pensarsi come realtà favolosa. Come è noto, un'anticipazione in senso lato di questa sentenza è rinvenibile in Nietzsche; segnatamente nel "Crepuscolo degli idoli", laddove si afferma che alla fine il "mondo vero" diviene "favola". L'immaginario sostituisce il reale e, ove questo gli resiste, intende soppiantarlo. Il fenomeno non era sfuggito allo stesso Marx, laddove, ne "Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte", caricaturizza come farsa il ricorso di alcuni eventi storici. Ora, nell'immaginario è possibile cogliere il reale come ricorso: il reale ricorre nell'immaginario. L'epoca classica delle rivoluzioni si chiude in Occidente col XX secolo; la rivoluzione classica, invece, si riproduce nell'immaginario a tutti i giorni nostri. Con la rivoluzione come immagine, favola, ritornano le "teorie rivoluzionarie" della tradizione sotto forma di "caricature" teoriche, costrette come sono a sostenere il loro ordito su un telaio immaginifico. Qui è la rivoluzione restaurata a divenire "caricatura". L'occhio della rivoluzione somiglia qui a quello dlella Medusa: pietrifica tutto quello che rientra nel suo raggio d'azione. Quanto di questo retaggio culturale e di questo codice simbolico ancestrale si sia cristallizzato in profondità nella storia, pure estremamente variegata e difforme, delle "organizzazioni rivoluzionarie" e dei movimenti nel decennio degli anni Settanta resta da scandagliare. Come pure tutto da indagare è il rapporto di continuità e di scarto con la struttura originaria di questo patrimonio simbolico da partedelle varie "organizzazioni combattenti" che hanno operato negli anni Settanta e in questo scorcio degli Ottanta.

Questi i riferimenti essenziali con cui ci accingiamo a leggere il Sessantotto. Sovente, cercheremo di intrecciarli. Altre volte, Ii svilupperemo nella loro autonomia su campi specifici e circoscritti. Altre ancora, li terremo fermi implicitamente, facendo ricorso a uno strumentario concettuale proveniente da altre fonti, che non mancheremo di indicare.

Il dissidio che Farneti pertinentemente isola tra società politica e società civile, come effetto ridondante della mobilitazione del'68-69, in realtà, condensa in ambito politico la nuova sintomatologia dei conflitti in una società industriale avanzata. La rimessa in discussione dell'egemonia della società politica è uno dei portati più coerenti della nuova parabola, delle nuove tipologie e del nuovo carico simbolico dei conflitti sociali; dello scompaginamento delle forme fino ad allora conosciute dell' azione collettiva; dell'entrata in scena di nuovi attori sociali; del-l'obsolescenza di tutti i sistemi d identità e dei processi di identificazione collettiva fino ad allora messi in circuito e fluidificati in una fitta trama di interazioni segnico-comunicative. Natura del conflitto e costituzione materiale-simbolica dei movimenti si trovano come sospesi nel vuoto, avviandosi a rilevanti e dilaceranti percorsi di metamorfosi. Il conflitto industriale e le condotte operaie non sfuggono a questo "fato" necessario. Tale fiumana di novità investe il sindacato, rompendo ben presto tutti i suoi argini protettivi e le sue cristallizzazioni conservative. Prescindiamo qui, per comodità di esposizione, da un altrettanto immane processo di modificazione degli assetti della vita e della struttura sociale.

Le lotte studentesche del '67-68, dell"'autunno caldo" del 1969 vanno inserite in questo quadro. Diversamente da quanto è invalso nella pubblicistica di sinistra, crediamo riduttivo ìnserire queste lotte nell'ottica di contenuti presuntivamente anticapitalistici. L'antiteticità dei fini dell'azione collettiva, in quel frangente storico soggetta a una cospicua ridisegnazione, non va posta in relazione all'assoluto del regime capitalistico; bensì alle forme, culture e assetti che relativamente il sistema aveva in dote in quella congiuntura storica. Ci pare che questa interpretazione non ne smorzi la carica conflittuale-antagonistica. Tutt'altro. Più propriamente, depura dal velo di incrostazioni ideologiche quelle lotte, troppo frettolosamente catalogate.

La critica alla cultura vigente e alle forme di autorità che coniugava; la critica all'organizzazione del lavoro in fabbrica e a tutto il complesso del sistema di relazioni industriali date riproducono localmente, su terreni circoscritti, il disagio e il divario ormai irreversibile tra tutte le forme dell'organizzazione sociale e politica del sistema e le forme dell'espressività e dell'azione sociale. Per metà, i nuovi conflitti e i nuovi movimenti costituiscono la reazione contro il precipitato della "crisi di sistema" che disgrega in quell'epoca quasi tutte le società dell'Occidente capitalistico. Per l'altra metà, sono l'approssimazione incipiente, ma positiva di comportamenti e valori radicalmente innovativi, ricercanti un più flessibile e moderno sistema di fini, per la soddisfazione e la realizzazione di bisogni, interessi e opzioni più evoluti. Si trovano, perciò, sospesi a metà strada tra l'essere il prodotto di una crisi di sistema e l'essere agente di una rigenerazione del sistema. Cumulano inestricabilmente fattori di residualità con fattori di innovazione e mutamento. Questa ambivalenza originaria (irrisolta e, per molti versi, irrisolvibile) segnerà molte delle sconfitte dei movimenti degli anni Settanta, sino alla loro crisi definitiva.

Per risalire alle deficienze e alle cause della crisi dei movimenti, è necessario ripartire, riconsiderando in chiave critica i movimenti degli anni Sessanta. Da qui deve muovere l'analisi sulla ""precipitosa" e non discussa affatto crisi dei movimenti".

Se questa è la cornice storica e tali sono gli addentellati teorici più influenti, inadeguate e insufficienti si mostrano le letture dei conflitti e dei movimenti che sono state date tanto dall'indirizzo funzionalista-sistemico che da quello strutturalista-sociologico. Tuttavia, sul piano degli enunciati teorici la critica al funzionalismo, alla teoria sistemica, allo strutturalismo e alla sociologia dei movimenti richiede un'ulteriorità di approfondimenti e di verifiche empiriche. Ci limitiamo qui all'essenziale.

Certamente, è utile istituire una distinzione di partenza tra azione collettiva e movimenti sociali, ponendo il conflitto come linea di demarcazione tra la prima i secondi. Col che il conflitto viene teoricamente tipicizzato come rottura dei limiti di compatibilità del sistema. In costanza della rottura si dà qui il passaggio da azione collettiva a movimenti sociali. Questi ultimi sono, pertanto, da assumere come espressione di un conflitto e sono portatori di conflitto. Secondo questa analitica, il conflitto espresso dai movimenti sociali si distingue per rompere le "regole del gioco" e il quadro di legittimazione dei poteri. Sicché diventa possibile posizionare il campo di distinzione tra conflitto e devianza. Quest'ultima non ammette mai la rottura verso la lotta attorno a una "posta in gioco" da parte di due "attori opposizionali". Le variabili di questo modello interpretativo consentono un'ulteriore ripartizione: quella tra azione collettiva e azione conflittuale. Quest'ultima è da intendersi come condotta collettiva che, pur valicando le compatibilità del sistema, non ancora si sostanzia in contesa opposizionale intorno a una posta in gioco: insomma, non più azione collettiva, ma non ancora conflitto. Spezzata, in questo modo, la primarietà ontologica del conflitto, a cui ci avevano abituato le differenti teorie sociali della tradizione, non rimane che riconnettere il conflitto ai rapporti sociali antagonistici, transitando per una puntuale critica della nozione marxiana di "rapporti di classe". Il conflitto è qui "spiegabile in termini di relazioni sociali". Su questa base, si innesta uno sviluppo successivo: la critica alle concezioni del pensiero sociale classico che, in vario modo, ipostatizzano il "conílitto come teatro" e i movimenti come "personaggi-attori", che recitano e duplicano copioni e caratteri già prefissati. L'attore collettivo è assunto, invece, come "il prodotto di processi sociali diferenziati". Problema diventa quello di spiegare come un attore sociale collettivo, nonostante tutte le differenziazioni motivazionali, simboliche e strutturali che lo caratterizzano, si "costituisca e si mantenga in quanto unità". Un ulteriore problema per l'analisi è quello di cogliere l'eccedenza e l"'alternativa di senso" di cui i nuovi movimenti sociali sono portatori, rispetto alla stessa area della cittadinanza riconosciuta. Si perviene esplicitamente a una tesi che così recita: "i movimenti operano come segni". Dalla teoria del conflitto in termini di relazioni sociali l'incedere teorico si compie l'ino a profilare il mutamento di struttura dei movimenti: non più personaggi, ma segni che lanciano "sfide simboliche", le quali sono apportatrici, al tempo stesso, di mutazione e integrazione simbolica.

Il punto debole dell'analisi sommariamente ricostruita ci pare il seguente: Io spostamento dalla primarietà ontologica del conflitto a quella dei rapporti sociali antagonisti. Altrimenti detto: ci pare che il concepire conflitti e movimenti come "prodotto sociale" riproduca specularmente alcuni dei limiti di fondo delle teorie sociali tradizionali, pure confutate e sovente con fecondità di risultati. C'è un rovescio della medaglia, che, sul punto, appare veramente decisivo. Conflitto e movimenti non costituiscono meramente un prodotto, bensì rappresentano inestricabilmente pure un'azione creatrice: sono, per così dire, sistemi di relazioni sociali, di flussi comunicativi e strumentali che si autoriproducono in proprio in confronto ai dispositivi, alle interferenze dell'ambiente e alla "complessità sociale". Non si tratta, dunque, di isolare esclusivamente l'oggetto teorico dell'analisi; ma, più al fondo, di identificare la collocazione autonoma e la valenza poliedrica che conflitto e movimenti occupano nel volgere intricato delle realtà sociali e delle codificazioni simboliche. Questi i due corni del dilemma che si profila come una vera e propria frattura epístemologica. Più chiararamente ancora, intendiamo dire che conflitto e movimenti non sono — funzionalmente e sistemicamente — prodotto della e risposta alla complessità sociale; ma, piuttosto, realizzazione critica di complessità. Non solo incrementazione combinatoria di ordine e/o necessità funzionale della stabilità per il tramite dell' instabilítà, dell'equilibrio per il tramite dello squilibrio; bensì fattori critici della mutazione e dell'autoriproduzione sociale. Ne discende che le dicotomie stabilìtà/instabilità, equilibrio/ squilibrio non riescono più a lumeggiare la ragione d'essere di conflitto e movimenti.

Ma se v'è una connessione che collega i conflitti ai movimenti, ancora più marcatamente tra di loro si danno profonde differenze. Tale differenzazione è specificabile, insistendo par-ticolarmente sul tema dell'identità. Secondo l'interpretazione di Melucci, l'identità definisce le "capacità di un attore" di riconoscere la sua azione e gli effetti che ne conseguono come propria azione ed effetti della propria azione. Un attore sociale, dunque, si attribuisce la propria identità. Ciò indica che: (i) l'attore è auto-ríflessivo: cioè, in grado di riflettere e ripensare se stesso; (ii) l'azione dell'attore, oltre che la pura materialità, incarna una "produzione di orientamenti simbolici e di senso"; (iii) allorché percepisce l'appartenenza a se stesso, l'attore "fonda la possibilità della appropriazione"; (iv) viene, così, delineandosi una percezione e appropriazione del tempo che lega l'azione a passato, presente, e futuro.

Ma questo, per così dire, è solo lo spettro dell'auto-identifi-cazíone; manca ancora quello dell'etero-identificaione: vale a dire il riconoscimento degli altri e da parte degli altri. Quando la corrispettività del ríconoscimento si concreta, víene delíneandosi una situazione di interazione e scambio; al contrario, quando la reciprocità del riconoscimento salta, interviene una situazione agonale di conflitto. Ora, tra auto-identíficazione ed etero-identificazione si dà uno scarto incolmabile, una tensione insopprimibile. Il conflitto, dunque, interrompe la "reciprocità delle interazioni" e attori in opposizione rifiutano l'uno di riconoscere l'identità dell'altro. In questo modello, i movimenti sono attori collettivi conflittuali che si battono, invariabilmente, affinché venga riconosciuta la loro identità che resta da riappropriare di contro alle condotte espropriatrici dell'avversario.

Prescindiamo da qualunque considerazione attorno al dato evidente che anche o soprattutto in una situazione di interazione e scambio si dispiega un processo di riconoscimento, conferma e variazione della identità. Curviamo, invece, la nostra analisi verso mappe categoriali che ci sembrano più enigmatiche.

Assumendo il conflitto come rottura dell'interazione, si assolutizzano i movimenti come attori sociali collettivi fisiologicamente indisponibili allo scambio, Movimenti collettivi senza interlocutori: questo il corollario maggiormente in rilievo; questa la condanna posta in testa ai movimenti. Il fatto è che i movimenti vengono qui teoricamente ed empiricamente inquadrati come prosecuzione lineare del conflitto, in assenza del quale la loro esistenza non si darebbe. Ciò fa emergere un carattere esclusivista di marginalità, interamente spiegabile col loro essere attori conflittuali. Cosicché le nuove forme dell'antagonismo sociale vengono ricompattate sulla filigrana delle classiche teorie sociali dell'antagonismo.

I movimenti sociali contemporanei non si originano nelle pieghe dell'estrollessione dei conflitti nei comportamenti degli attori collettivi. Prima di tutto, costituiscono un'introflessione dei frantumi della soggettività nell'intimità dei mondi vitali ridotti a un'attività sotterranea bloccata e sfuggente. L'azione dei movimenti non può essere circoscritta al territorio dei "bisogni sociali" (collettivi o meno che siano); né in quello delle pulsioni che tendono all'oggetto e/o al corpo arcano del desiderio. Essa parla anche di un "silenzio indicibile" che non vuole emergere e che pure costituisce la proprietà e l'attributo di senso che più lottano per salvarsi dall'omologazione sociale. L'identità, dunque, non è l'interfaccia di scambio e conflitto. I movimenti non costituiscono i gelosi e sopravvissuti custodi del conflitto perduto e difficilmente ritrovabile.

Per la lettura di conflitto e movimenti sono insufficienti gli strumenti sociologici, sistemici e politici. Occorre complicare ulteriormente il retroscena teorico. Né, di per sé, bastevoli paiono gli arnesi linguistico-semiotici: senso e segno sono ancora troppo imparentati con le teorie sistemiche e quelle della comunicazione che ne fanno una sorta di nuova chiave di lettura universale. Tuttavia, è proprio un orizzonte di senso che va concettualmente dissodato, se si vuole — come si deve — esplorare la struttura profonda di movimenti, liberati dall'ossessione di protendere verso universali sociologici.

Allo stato attuale della nostra ricerca, complicare la bottega dell'armamentario teorico non può significare niente di diverso che riferirci inizialmente ad alcuni filoni teorici a torto, secondo noi, trascurati nelle più avanzate analisi dei movimenti sociali contemporanei. Si tratta, in breve, di quei filoni che nell'indagare le società altamente avanzate hanno privilegiato "lo spazio interiore"; Ia "rivoluzione silenziosa" contro le forme dell'unifor-mità sociale; la "resistenza al potere" inestricabilmcnte congiunta a quella di essere ridotti a "massa".

Quella dell'identità non è una geometria del riconoscimento e della comunicazione che rimane una concezione troppo físicalista. Nelle regioni dell'identità rientrano i "sé silenziosi e non comunicanti"; ma non, per questo, ineffettuali. La ribellione del silenzio dell'interiorità si fa particolarmente acuminata nell'epoca attuale della informazione e della comunicazione, in cui tutto è esposto al rischio di essere catturato negli specchi della codificazione e violentato nella visibilizzazione di una trasparenza mistificante che, invece, traduce al più alto grado l'opacità e l'indifferenza. Nel conflitto giocano molto questi elementi silenziosi e indecifrabili. I movimenti sociali sono parecchio informati da queste istanze mute. Le medesime connessioni su cui si costruisce un rapporto di solidarietà attingono a questi umori del sottosuolo.

Principio di identità e reti comunicative che non tollerano le dìssonanze, le differenze ed il silenzio risultano spiazzati. Frequentemente, sì è etichettato questo vertiginoso ed enigmatico affiorare di mondi immaginari all’interno di un paradigma etico-politico ruotante attorno allo schema interpretatìvo della lotta per "la qualità della vita". Indubbiamente, anche di qualità della vita trattasi. Ma nel senso che sono le qualità dei mondi vitali che premono dal sottosuolo in cui sono state costrette, facendo perfino del sílenzio uno "strumento di lotta". Non intendiamo ammiccare l'occhio alle "maggioranze silenziose", massificata espressione di indifferenza ed evacuazione. Tantomeno, tendiamo a modernizzare il mito del "buon selvaggio", attraverso una esaltazione acritica di riti e miti delle "civiltà selvagge"; è di un fenomeno specifìcamente contemporaneo, per quanto avente remote origini, che stiamo tentanto di parlare. Vogliamo cercare di dire dei rumori che salgono dal silenzio: non semplicemente dalla coscienza, ma dalle sfere più vitali che ognuno sente devitalizzarsí e svilirsi e alla cui perdita non sa rassegnarsi. Quante di queste tensioni invisibili si sono agitate nel movimento femminista? E quante si agitano nel movimento per la pace e contro il nucleare? Per fare soltanto esempi a portata di mano, senza entrare qui nel merito delle differenziazioni costitutive tra questi movimenti.

Nel primato della società civile sulla società politica, intuito da Fameti, crediamo che vada inserito il proteiforme processo del Sé che fa dei mondi dell’ínteriorità il suo "teatro nascosto", senza copioni e senza personaggi. Allo stesso modo di come reputiamo che nel processo di "derealizzazione della società", analizzato da Perniola, sia possibile cogliere l'irreversíbilità della crìsi dì tutti quei princípi di identità fondati sulla sepa-razione tra "foro esterno" e "foro interno" che privilegiano il primo, relegando il secondo negli angusti confini della co-scienza e dell'etica.

Le difficoltà dì delineare teoricamente formazioni stabili di identità e processi trasparenti di identificazione collettiva nascono anche dalle correnti sotterranee, per definizione inintellegibili, su cui abbiamo appena gettato lo sguardo; non soltanto dai processi della differenziazione sociale e dalla frantumazione del soggetto, i quali riducono ogni attore collettivo a un Io diviso e molteplice. Alla luce di questa circostanza, l'assioma che vuole i movimenti senza interlocutori istituzionali va ancoradi più rovesciandosi nel suo reciproco: istituzioni senza movimenti. Diventaqui chiaro che il modello in esame applica uno schema binario domanda/risposta. Ma il tasso di conflittualità non è proporzionatamente in ragione diretta dello scollamento tra domande dei movirnenti e risposte delle istituzioni. Il conflitto non è la quota díagrammata di tale sproporzione. Interazione e scambio non sono l'accordarsi delle risposte istituzionali alle domande dei movimenti. La binarietà di questo schema fa corrispondere alla marginalità dei movimenti, in confronto alle istituzioni, la rnarginalità delle istituzioni, in confronto alla società. Il conflitto non sarebbe altro che il grado di estrinsecazione e misurazione del mulinello di queste marginalità parallele.

Certamente, esiste uno scarto tra movimenti e istituzioni come tra istituzioni e società. Ma non nel senso della marginalità e della estraneità di un elemento rispetto all'altro. Il meccanismo domanda/risposta non soddísfa. Il conflitto non nasce dall'incapacità del sistema politíco-istítuzionale di fornire risposte congrue alle domande inoltrate dai movimenti sociali; c'è già príma. Non è solo "prodotto sociale"; ma anche "produtto-re" origínario in proprio. I movimenti sociali non si costituiscono e non si riconoscono come tali sul crinale di rottura dei limiti di compatibilità del sistema, per l'appropriazione e il consumo delle risorse; ci sono già prima. Non sono solo "prodotto sociale"; sono anche formazioni originarie. Una nuova teoria dei movimenti è, altresìi, inseparabile da una nuova teoria del con-flitto e da una nuova teoria delle istituzioni.

3. Storicizzando e circoscrivendo politicamente l'indagine

Torniamo a seguire più dappresso il tema specifico della nostra ricognizioe. V'è un diffuso convincimento, soprattutto nelle componenti marxíste che rientrano in quella che fu la "sinistra sindacale", che i profondi processi ristrutturativi che hanno intaccato e modificato l'organizzazione del lavoro, col principiare degli anni Settanta, siano stati la "risposta del capitale" all'offensiva dell'operaio-massa nel ciclo 1969-73. In ciò vi è, indubbiamente, una quota di verità; ma anche un'omissione: non si tiene nel debito conto la base storico-sociale su cui quel ciclo di lotte si innesta e che, in un certo qual modo, l'ha tenuto in gestazione. A frontedi tale omissione, diventa disagevole discernere i passaggi e i mutamenti, se non di ruolo almeno di funzioni, che hanno segnato la storia del sindacato in Italia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Tra tutti questi passaggi ci preme qui sottolinearne due, a nostro avviso, decisivi:

1) il sindacato, riaprendo il dialogo con i movimenti di lotta e le aspettative sociali, allarga la base della sua rappresentanza ed estende l'area della cittadinanza;

2) il sindacato viene progressivamente incluso nel sistema delle decisioni politiche come partner anomalo (politica economica, etc.), ma insostituibile.

La sua maggiore penetrazione nelle pieghe della società civile fa il paio con l'assunzìone di un ruolo politico-istitu-zionale. Dentro questa polarità, schematizzando oltre il lecito, sta scritta la storia del sindacato in questi ultimi 15 anni. Ed è proprio questa polarità che spiega come ìl sindacato nel ciclo 1969-73 sia stata l'unica "istituzione" capace di ricombinare e riconnettere socíetà civile con società politica, nella fase storica in cui andava stabilendosì tra dì loro un rapporto di separazione crescente. È nostro parere che la medesima incubazione del processo di unità sindacale, prematuramente entrato in crisi sul finire degli anni Settanta, si sia infiacchita nella polarità dispersiva appena descritta.

Da questo angolo di osservazone, quello che ci pare meno influente, pur conservando evidentemente tutta la sua significanza e portata, è ciò che, di solito, è stato maggiormente enfatìzzato:

1) democratizzazione della condizione operaia in fabbrica e controllo sull'ambiente di lavoro, ratificati nel maggio del 1970 con lo Statuto dei lavoratori;

2) flessibilizzazione e decentramento delle procedure della contrattazìone: dal livello nazionale a quello aziendale;

3) ristrutturazione delle forme della rappresentanza sindacale: dalle commissioni interne ai consigli di fabbrica;

4) attenzìone dell'interesse operaio verso problematiche sociali di carattere collettivo: mobilitazione per le riforme (casa, trasporti, salute, Mezzogiorno).

Non solo meno influente; ma, addirittura, riconducibile e spiegabìle nell'alveo delle duplicità dei ruoli civile e politico, di cui il sindacato è investito e che non lo fa più meramente etichettare come soggetto della rappresentanza di interessi economici. Per converso, ìl sìndacato, pur svolgendo un ruolo politico e istituzionale, non può organicamente farsi registratore, da un lato, delle domande dei nuovi attori sociali e, dall'altro, portatore del complesso di esigenze del sistema político-istituzionale.

La difficile e controversa storia del sindacato contempo-raneo, in parte storia anche della sua attuale crisi, parte col Sessantotto. Il sindacato non può essere movimento e nemmeno può essere istituzione. La sua profonda rigenerazione interna reca in sé il germe di questo dilemma. Tutte le teorie del sindacalismo, riproposte, prodotte o scaturìte dal Sessantotto, sono espressione di questo dilemma.

Politicizzando ulteriormente i termini del dilemma: potrebbe argomentarsi di intreccio controllato tra una funzione di sindacato-conflitto (in cui il sindacato starebbe principalmente con la faccia rivolta ai movimenti) e un altra di sindacato-scambio (in cuì il sindacato volgerebbe gli occhi soprattutto verso le istituzioni), Con l'avvertenza che solo metaforicamente istituiamo un'opposizione tra la nozione di conflitto e quella dì scambio. Il sindacato è, al tempo stesso, attore conflittuale e negoziale. Nondimeno, l'azione sindacale non può essere appiattita al livello di negoziazione dei conflitti. Non esiste un'anima contrattualistico-negoziale del sindacato in contrasto oppositivo con un'altra conflittuale, singolare incrocio tra l'antagonismo di ispirazione marxista e un rigido paradigma utilitarista di rappresentanza degli interessi. Il sindacato non è riducibile a questa o quell'anima; ma è, piuttosto, l'intersecarsi di più di una natura e di una molteplicità di funzioni mutevoli, riconducibili ad un attore che mantiene un'identità e un'unità di fondo.

La mobilitazione del '68-69 è una delle conferme più esemplari di questa verità. Ciò che è uscito mutato da questa mobilitazione non è stata questa o quell'anima, questa o quella funzione del sindacato; bensì il sindacato nel suo complesso e nella sua interezza. È con la trasformazione del sindacato che le varie componenti culture, ideologie e teorie sindacali hanno dovuto fare i conti. Il dispiegarsi (prima) e lo spezzarsi (dopo) del processo di unità sindacale si collega, per l'appunto, all'effettualità del processo di trasformazione del sindacato che, in Italia, si origina proprio intorno al 1968 e che attualmente conosce una delle più delicate fasi di passaggio.

Il confinamento del partito operaio all'opposizione e l'assen-za di un partito labour spingono il sindacato a contrattare col governo e a opporsi a esso, quale attore titolare di una strategia politico-economica alternativa a quella vigente e tendente a rappresentare gli interessi di fondo della cittadinanza, più che quelli particolaristici degli associati. D'altro canto, nella contrattazione delle condizioni di lavoro in fabbrica e sul tema degli investimenti il sindacato tende a farsi portavoce non solo e non tanto dei propri iscritti e degli occupati, ma anche dei disoccupati e di categorie deboli o emarginate (donne, giovani, anziani). L'unità sindacale si innesta come tentativo di ricondurre a un disegno globale e a un assetto politico-organizzativo ridefinito gli elementi trasformazionali, spesso dualistici, appena passati in rassegna.

Lo steccato tradizionale tra azione di opposizione e azione di controllo, sotto la spinta di grosse modificazioni sociali e dell'iniziativa dei nuovi movimenti, non trova più ragione di esistere. Obsolete sono tanto le figure del sindacato-opposizione che quelle del sindacato-controllo. Il sindacato va ripensando il nucleo vitale della sua azione e lo statuto politico della propria identità. La sua azione sociale, dalla grande impresa, si allarga lungo la fascia delle più pressanti aspettative sociali. La sua natura politica si riprecisa, ma non per questo scade al rango di "soggetto politico" che nel "mercato politico" ricopre un ruolo di supplenza, a fronte della latitanza e del ritardo del sistema politico-istituzionale.

Sul piano dell'azione sociale: l'alterità del sindacato rispetto alle istituzioni trova nuovi motivi di ispirazione e forme di espressione. Sul piano dell'azione politica: l'autonomia del sin-dacato nei confronti del sistema politico deve rídeteminarsi. Molti dei blocchi che, dall'intemo, hanno frenato e rimesso in discussione il percorso dell'unità sindacale, concepita come una tappa di un più generale processo di trasformazione del sindacato, vanno ricondottí a quelle tendenze che in maniera incrociata e speculare:

1) troppo hanno subordinato l'azione sindacale a un ruolo di "istituzione" per la risoluzione dei conflitti;

2) troppo hanno subordinato il ruolo politico del sindacato alle prioritá definite dal sistema politico o da questo o quel singolo partito.

Siamo sufficientemente convinti che molti dei problemi di articolazione sociale-organizzativa e di riorientamento delle politiche sindacali, che caratterizzano l'attuale dibattito sindacale, abbiano il loro originario luogo di formazione in quella sorta di rifondazione del sindacato registratasi nel '68-69.

L'ipotesi che ci sentiamo di avanzare esplicitamente è che la crisi dell'unità sindacale è la faccia palese di un processo di trasformazione del sindacato bloccato a metà strada; come dire: dimidiato tra le istanze al rinnovamento e quelle alla conservazione. Ma la nostra ipotesi, come qualunque altra, ha bisogno di supporti storici ed empirici. Sarà proprio questo il terreno che in seguito dovremo dissodare.