CAP. IV

AUTODETERMINAZIONE E SOCIALITÀ:

IL SUPERAMENTO POSSIBILE DEL CARCERE

 

 

 

 

0. Premessa

Uno dei punti nodali che ci preme sottolineare, fin da questa premessa, è che noi, al pari di molti altri, concepiarno il passaggio all"'altro carcere" come superamento dell'istituzione chiusa: come sottrazione della struttura segregativa alle logiche chiuse che l'hanno finora regolata; come rottura del legame univoco che lega l'area della penalità all'area della carcerizzazione.

Per noi, il passaggio alla sperimentazione di forme aperte di carcerazione non è inqadrabile nei termini di un periodo di transizione verso la estinzione futuribile del carcere. Semmai, è estinzione in progress del carcere, avente già ora una sua corposità e una sua incidenza.

Per noi, I’"altro carcere" è il non carcere: superamento del carcere attraverso una rete dislocata di rapporti con la società e la partecipazione a tutti gli effetti alle dinamiche dell'evoluzione sociale da parte dei soggetti incarcerati; reimmissione dei detenuti nel campo variegato dei fenomeni e dei processi che vanno maturando nella società.

Reputiamo che ancora per un più o meno lungo periodo storico vi sarà una convivenza difficile tra queste due forme di carcere. Riteniamo, ancora, che la questione non si riduca all'antagonismo tra il carcere e l"'altro carcere", ma che rimandi a nuove forme di governo degli ambienti e dei sistemi sociali che sappiano privilegiare gli spazi delle libertà.

Ora, questa convivenza non ci pare legittimo inquadrarla linearmente nei contesti di una "struttura a forbice" che prevede ad un polo la permanenza del "carcere duro" per un numero decrescente di detenuti e al polo opposto il "carcere normale" e la "decarcerizzazione" per un numero crescente di soggetti reclusi .

Il problema, per noi, è quello di muovere oltre il carcere, proprio partendo dal carcere. Di questo parleremo in seguito.

1.

Carcere, produzione e sistema di controllo

Già a livello di analisi occorre spezzare ogni rapporto organicistico tra carcere e mercato del lavoro . C'è un tema da verificare; e non soltanto per la cultura marxista. Tale verifica pone in chiaro che non vi è una funzionalità lineare del carcere rispetto alla struttura capitalistica, intesa quest'ultima come un contesto socio-produttivo a matrice economica. Un approccio di questo genere mette in crisi anche un altro significativo tempio della cultura di sinistra: quello in cui il diritto — soprattutto in Marx — viene ridotto a una funzione esclusivamente strutturata in ragione dell'evolversi dei rapporti sociali di produzione.

Diparte da qui una riproblemaùzzazione di due quesiti essenziali:

1) quale lo spazio del diritto nel carcere?

2) quale lo spazio del carcere nel diritto?

Da qui, ancora, un questito conclusivo:

3) quale il posto del carcere specificarnente all'interno del "sistema di controllo sociale"? E qui ci si imbatte in alcune fortne di arcaicismi modemizzanti. Intendiamo riferirci alle categorie di ascendenza foucaltiana di "codice disciplinatone" e "potere disciplinare" . Il discorso conosce una intersecazione tra "funzioni disciplinari" e "strategie discìpiinari" che rimanda, a monte, ad una concezione "diffusiva" del potere.

Ma ci preme affrontare un altro svincolo di percorso che, battendo queste strade, introduca la questione della "funzione simbolica" del carcere.

L'indirizzo strutturalista disciplinatone finisce con l'investire l'insieme delle codificazioni simboliche trasmesse dal carcere con una funzione di modello-progetto:"modello ideale di società devota e produttiva, partorito dalla cultura delle classi dominanti" a mò di ricalco e proiezione del modello costituito dalla fabbrica .

Quella che a noi interessa rimarcare è che la perdita di "centralità della fabbrica", all'intemo della produzione sociale, si accompagna con la perdita di "centralità del carcerario", all'intemo del "sistema di controllo". Questa sorta di "perdita parallela" ridisegna il rapporto carcere/città, già a fronte del processo di formazione della metropoli modema, situabile a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Nasce qui l'esigenza di indagare la metropoli oltre il "vizio assurdo" strutturalista, nei termini di concentrazione e perdita di senso niente affatto inquadrabile ed esauribile nella concentrazione di agglomerati spaziali, unità produttive e centri di potere economico-politico, istituzioni di controllo, ecc..

Si spezza qui la linea di continuiamo tra fabbrica e città. C'è chi questa rottura la interpreta come la "fine della distinzione" tra istituzione carceraria e concentrazione urbana operaia, fino ad ammettere che neppure idealmente tra i due momenti si dà più distinzione alcuna.

Occorre rompere, a parer nostro, questa ascendenza marxista. Ciò è possibile solo inserendo la medesima istituzione carceraria nel processo di concentrazione e perdita di senso che costituisce uno dei segni tipici rivelatori della situazione tardomodema.

Necessita mettere a fuoco la riorganizzazione di tutto il tempo e lo spazio storico, di tutte le esistenze individuali fino agli ambiti emotivi e sentimentali che procede in uno con la nascita dellametropoli, costituendone per molti versi il tratto distintivo. Siamo qui ben oltre gli schemi marxiani contenuti nella sequenza produzione-circolazione-riproduzione.

Più che all'estensione del tempo e dello spazio della fabbrica a tutta intera la società, al contrario assistiamo all' eclissarsi dell'autonomia totalizzante della fabbrica, la quale vede sempre più erodersi spessore e senso con la definitiva entrata in crisi della legge del valore.

La produzione di plusvalore non è più concepibile nei termini di "produzione dì merci a mezzo di denaro" (Marx); nè in quelli di "produzione di merci a mezzo di merci" (Sraffa). Ciò perchè — prima di tutto — non è più il "lavoro produttivo" fonte della creazione della ricchezza sociale e perchè — in secondo luogo — ricchezza ora nella metropoli, prima ancora che produzione di merci, è "produzione di senso".

I luoghi centrali della ricerca debbono, dunque, essere curvati verso altre direzioni. Bisogna cominciare a rispondere a nuove domande: in che termini la struttura segregativa gioca un ruolo nella generale concentrazione e perdita del senso tipica dell'attualità? come va ristrutturandosi, in questo nuovo incastro, l'intero sistema del controllo sociale?

La nascita del penitenziario moderno — databile tra il 1700 e il 1800 — è inestricabilmente connessa con il processo di affermazione del capitalismo. Le sue mutazioni sono, in parte, le mutazioni che il capitalismo ha conosciuto nella sua evoluzione. Ma l'una cosa non rispecchia l'altra e ognuna ha origini non riducibili alla sostanza comune delle forme di organizzazione dello sviluppo capitalistico.

La tensione a cui è sottoposto il penitenziario moderno nella metropoli non dipende esclusivamente da un processo di frammentazione e segmentazione dei modi del produrre che indurrebbe una corrispettiva frammentazione e segmentazione delle istituzioni e delle tecniche di controllo. Il penitenziario e le logiche meramente custodialistiche saltano in aria, prima di tutto, a fronte del loro specifico ruolo, della specificità del sistema vivente di relazioni ed ambienti che debbono ricondurre a norma, a ordine.

Il carattere sociale della devianza è storicamente mutato. La fenomenologia della devianza non è più riducibile ad una serie comportamentale monocausale e monovalente, specchio an-tagonistico della normalità. Le stesse maglie della normalità si vanno oltremodo allargando, riassumento progressivamente al loro interno comportamenti un tempo — nel bene e nel male — codificati e perseguiti come devianti.

Devianza — al positivo — é eccedenza rispetto alla nor-malità e, pertanto, uno dei suoi possibili sviluppi da sottoporre a verifiche puntuali; sviluppo e non negazione o rovesciamento. Ma, ad un tempo, è spostamento della normalità più avanti e su circonferenze più larghe. È nostra opinione che la devianza vada ripensata e riconcettualizzata anche nei termini di ricerca di un nuovo quadro normativo, di un nuovo ordine che rechi in sé impresso il gusto del "disordine" e delle aperture. La norma qui, più che statuire i confini che delimitano la legalità dall'illegalità, si designa come forma viva attenta a "ricercare le aperture del mondo". Essa diviene qui sensibile ad accogliere entro il suo seno le modificazioni comportamentali e caratteriali che intervengono in società e nelle relazioni tra gli uomini. Più che essere valore in sé — universo chiuso —, è ricerca di valori, tratto di unione e di rottura tra un contesto socio-normativo obsoleto e un altro che va faticosamente emergendo. Se è vero che il vecchio non può essere perduto ma indefessamente riacquistato, è ben vero che va costantemente rotto, superato. La norma incorpora qui in sé tanto la dimensione della continuità che quella della discontinuità; come pure — e non allo stesso modo — la devianza.

La figura del deviante non può essere assimilata a quella di "nemico della società" o "nemico dello Stato". E questo non tanto e non solo perchè sarebbe stata un prodotto della società. Piuttosto, per l'essenziale fatto che la società non può essere nemica di se stessa. Deve essere capace via via di ricondurre entro nuovi contesti relazionali tutti gli elementi della turbolenza sociale, i fattori e i soggetti della pertubazione, gli agenti in direzione della rottura dell'ordine.

Se è vero che la turbolenza sociale, per così dire, tira avanti l'assetto esistente, è pur vero che essa abbisogna costantemente di nuove strutturazioni normative e, per questa via, di un riancoraggio ad un assetto sociale riarticolato. Comportamenti devianti non sono assimilabili, per questo fatto stesso, a condotte criminali, normate da patologie penali. Non è dato omologare la figura del deviante a quella del criminale, la devianza alla criminalità. Quest'ultima è infrazione più o meno organizzata che oppone comportarnenti e regole simmetriche alla società e allo Stato, pur non ponendosi mai l'obiettivo di un loro rivolgimento. A proposito della criminalità, si potrebbe argomentare di una forma di simmetria complementare alla società e allo Stato; di una dimensione tanto "altra" rispetto al quadro normativo dato, quanto marginale e subordinata che ne costituisce il rovescio miníaturizzato e degradato. Ciononostante — anche nel caso della criminalità — un intervento esclusivamente penalistico e afflittivo si rivelerebbe egualmente non giustificato, ugualmente spuntato e inidoneo al recupero e al "reinserimento risocializzante".

Affermato che deviante e criminale sono due figure diverse, ci preme rilevare che le procedure di recupero e reinserimento sociale di queste due figure non possono in ogni caso fare perno sull'intervento repressivo-reclusorio. È, però, utile ribadire che, trattandosi di due figure non omologhe, diversificate per ognuna di loro debbono essere le procedure di recupero e le esperienze di "risocializzazione". Per schematizzare: se diversi sono stati i passaggi che hanno condotto al carcere, diversi debbono essere i passaggi che conducono all'uscita dal carcere.

Bisogna partire da qui, se non si vuole che entrambi i fenomeni abbiano il carcere come risposta unica e indífferenziata. Approntare altre risposte istituzionali, che non passino per la istituzione carceraria, diventa possibile, ove i vari soggetti non vengano tipicizzati sotto un sovraccarico sim-bolico e af'tlittivo che li rende eguali, quando eguali non sono. Il superamento della risposta reclusoria, la rottura dell'intemamento segregativo come risposta totalizzante, è possibile proprio tenendo in conto la specificità, l'assoluta alterità delle esperienze da ricondurre al recupero e reimmettere nei canali liberi della "risocializzazione". Il carcere eguale per tutti, come universo segregativo differenziante e differenziatore, è esattamente il carcere da cui mai nessuno uscirà: negatore per eccellenza di qualsivoglia esperimento di "risocializzazione" apprezzabile che, in queste condizioni, non va mai oltre una casistica indivídualizzata e, comunque, di ben scarsa entità qualitativa e quantitativa. Forme altre di carcerazione, sottratte al mero custodíalisnlo e aperte alla società, cominciano ad essere praticabili proprio risalendo alle origini e alle matrici che sono alla base dei singoli e specifici fenomenti di devianza e criminalità; praticabili solo se si riescono ad operare distinzioni dentro questi fenomeni complessi. Solo così è possibile sperare di ricondurre e riequilibrare questi fenomeni alla com-plessità sociale che li connota e che, in forma diversa e più o meno pervertita, alimentano.

Affermare e valorizzare le differenze non vuole dire differen-ziazione; al contrario, è sorgente di autodeterminazione, ricerca di autonomie, combinazione tra differenti entro contesti pluralistící che divengono il fondamento necessario per ulteriori passaggi di arricchimento, sia per quanto riguarda le autonomie che i gradi di combinazione e cooperazione di volta in volta agglutinati.

2.

Crisi del penitenziario moderno: la segmentazione delle funzioni di controllo

All'incrociarsi di tutti questi fenomeni, il penitenziario moderno entra in crisi fin nelle sue strutturazioni e progettazioni architettoníche. Viene fatto di osservare che tale crisi procede su due rette d'azione tra di loro contrapposte:

1) da un lato, il penitenziario conosce una "progressiva dissoluzione nelle pratiche di controllo diffuso";

2) dall'altro, si va accentuando la sua "funzione rneramente deterrente". Il "massimo di sicurezza" qui richiesto al secondo punto è anche "massimo di estrancità" dal tessuto sociale circostante e dallo spazio urbano; il "minimo di sicurezza" richiesto al primo punto è "minimo di estraneità" dal tessuto sociale e dallo spazio urbano. La persistenza di questo fenomeno è indubbia: l'osservatore coglie qui un fatto reale, disvelandone le dinamiche nascoste.

Rivela giustamente Pavarini: "Il carcere perde, definítivamente, una propria fisionomia per "segmentarsi" in momenti di un "continuum" disciplinare altamente strutturato: una specie di cono rovesciato, la cui base coincide ormai definitivamente con l'insieme dei rapporti di controllo metropolitano e il cui vertice è rappresentato dall'istituzione per eccellenza "chiusa" e "totale": il penitenziario "he deve fare paura"".

ll problema nasce proprio qui. Si tratta di lavorare tanto per la ricollocazione dello spazio urbano, quanto per la ricolloca-zione del carcere in una progressione temporale e spaziale che coniughi la sua "disutilità" con la sua "estinzione".

Prima di insistere su questo tema specifico, seguiamo dappresso il processo che ha condotto alla formazione di questo "cono rovesciato" con tutti gli annessi e connessi.

È, ormai, generalmente accertato che questa fase si origini a cavallo tra gli armi '60 e '70 e apra l'approntamento di nuove "strategie di controllo sociale 'diffuso"'. Il che consente di designarla ulteriormente e più in dettaglio come:

1) "fuga dalla pratica segregativa";

2) "accentuazione del processo di deistituzionalizzazione".

La pluricausalità dei fenomeni di devianza e, in generale, di tutte le lenomenologie e dinamiche sociali mette irreversibilmente in crisi il carattere monocratico delle pratiche segregative. D'altro canto, il tentativo statuale di ridurre a sé la com-plessità sociale induce una presenza dislocata e capillare delle istituzioni nelle maglie del tessuto sociale. Con il "Wel-fare State" l'intervento dello Stato nel sociale sembra toccare l'apogeo e le spese di assistenza sociale si connettono con una capillarizzazione del controllo sociale, chenon ha più nella istituzione carcere il luogo-momento privilegiato. In questo senso, il controllo sociale, diffondendosi, si de-istituzionalizza e le figure interessate non vengono sottratte al circolo della socialità.

Con la cirsi del "Welfare State", il controllo sociale diffuso crea aree e figure marginalizzate da vero e proprio ghetto metropolitano. Tali figure e aree, pur sottratte al carcere, vengono precipitate e quasi divorate in un "minimo di socialità". La tendenza, pur presente nella fase precedente, diventa qui prevalente, se non egemonica su tutta la linea.

Lo spazio di estraneità e di emarginazione si prolunga dal vertice del cono alla sua base rovesciata, ben dentro il territorio metropolitano. Non èsolo il "carcere duro" ad essere caratterizzato da un "massimo di estraneità"; lo stesso "altro carcere" è avviluppato da una rete di rapporti estraneanti ed emarginanti.

Ci pare di poter dire che "politiche assistenziali" e "fuga dalla pratica segregativa" siano sottosistemi del "Welfare State". Crisi del "Welfare State", è, perciò, crisi delle politiche assistenziali e della pratiche di de-istituzionalizzazione dell'ese-cuzione penale. Crisi diverse qui si incrociano e cumulano. Entro questo contesto che somma più linee e punti di crisi va inquadrata la stessa crisi dei "movimenti per la scarcerizzazione" in tutti gli anni '60 e '70 in America e in Inghilterra e in Italia nel ciclo 1969-74. La crisi del "Welfare State" e dei suoi sottosistemi va posta in relazione all'emergenza di un muta-mento ampio "nell'organizzazione sociale delle società a ca-pitalismo avanzato". Occorre, però, introdurre a questo punto due distinzioni:

1) il cumularsi di queste crisi con nuove insorgenze sociali non è strutturalmente ricondicubile alla "crisi fiscale dello Stato";

2) l'invadenza estraneante delle istituzioni non può essere posta unicamente in connessione con la "crisi di legittimità dello Stato".

Pervenuti a questa soglia di ragionamento, la domanda che ci poniamo e che, in un certo senso, ci sorprende è la seguente: cosa avviene dopo il cumularsi di queste crisi? Cioè, cosa sta accadendo ora?

Nell'opera di Pavarini che stiamo più ricorrentemente citando troviamo questa calzante risposta: "controllo sociale in comunità". Pavarini precisa: "La nuova pratica del controllo tende a privilegiare una forma atipica di segregazione territoriale, in particolare attraverso i grandi ghetti metropolitani, ove vengono a riversarsi quei soggetti marginali, un tempo isti-tuzionalizzati: piccoli criminali, drogati, alcolizzati, infermi di mente, ecc.".

Il fenomeno non può essere disconosciuto. Senonché è proprio questo modello a forbice che è specificamente in crisi, che ha perduto di razionalità e si rivela inidoneo a perseguire i propri fini. Ed è già la riforma del '75 che, nel suo spirito più che nella lettera, anticipa questa crisi,aprendo primi squarci per una risoluzione possibile, quasi consapevole dello scenario futuro.

Ci spieghiarno meglio, partendo dalle cellule elementari del problema.

Il postulato base su cui si regge la riforma penitenziaria è il seguente: la cella non può essere intesa come unico luogo dello "spazio di vita" del detenuto. Essa, pertanto, non può essere chiusura interna dell'istituzione chiusa. Rottura dell'uni-verso totalitario della cella è rottura del "regime indifferenziato" che vige nel penitenziario modemo, secondo cui la struttura del tempo e dello spazio carcerario non ha articolazioni interne e non conosce mutazioni, spostarnenti, innesti. La legge di riforma prevede un modello di vita reclusorio particolarmente articolato. In primo luogo: opera una distinzione tra luogo di vita durante il gìomo e durante la notte, prevedendo nel corso della giornata diurna ampi momenti di socializzazione in strutture altre dalla cella. Col che viene meno la "indifferenziazione della struttura" congiuntamente alla indifferenziazione del regime di vita del soggetto recluso. L'impiego del tempo e l'occupazione dello spazio vengono così a dotarsi di una struttura atomica articolata. In secondo luogo: si evidenzi a un processo di trasformazione della funzione del carcere che, da istituzione di custodia e isolamento, viene mutandosi in istanza che deve favorire la "risocializzazione" del detenuto con la specifica previsione di un trattamento adeguato e di rapporti con la cornunità esterna, non soltanto con riferimento alle misure alternative legislativamente previste.

Alla struttura articolata interna si affianca un'altrettanto ar-ticolata struttura verso l'estemo. Le dinamiche di aggregazione e di chiusura verso l'interno, tipiche del carcere di isolainento e di custodia, vengono rimpiazzate da una "dinamica di proiezione" e riaggregazione verso l'esterno, di connessione con il sociale che è propria del nuovo carcere delineato dalla legge di riforma".

Occorre proseguire questo cammino, introducendo modifícazioni e sviluppi che tengano in conto le mutate condizioni storiche e i guasti apportati dalla legislazione dell'emergenza, la quale ha proprio nel carcere uno dei luoghi più sconvolti e martoriati.

Alcuni primi scogli vanno aggirati da subito. Anche noi non crediamo all"'utopismo della dolcezza redentrice della pena"; il cui contraltare è l'irrigidirsi delle aperture verso l'estemo e degli spazi interni di cui la riforma è particolarmente portatrice. Su questo campo occorre fare i conti con gli effetti della ideologia della terapia medica e psichiatrica che si concretano particolarmentenell'applicazionedi "tecniche di comportamento" e nell'uso tutto disciplinare del trattamento. Tali nodi costituiscono, tra l'altro, alcuni limiti interni principali della riforma.

Non siamo nemmeno del parere che sia bastevole un'opera di negazione semplice del carcere. Per noi, negazione del carcere è insopprimibilmente sua penetrazione; sua permeabilità alla società e alle riorganizzazioni sociali in atto; sua curvabilità verso la cornunità esterna.

Come è poco realistico ritenere di spazzare via il carcere con un unico e catartico atto rivoluzionario, così è chimerico sperare di imbrigliarlo con lo strumento legislativo. Qui crollano l'utopísmo rivoluzionario e quello riformista. Qui occorre porre mano ad una attività e ad una cultura profondamente rinnovate. Altrimenti il carcere che si vuole eliminare o riformare inva-riabilmente sì conserva e riproduce.

Finora sopprimere il carcere è risultato impossibile; così come riformarlo. Da qui occorre passare e ripartire. Con un' avvertenza: "Solo che oggì il rapporto non può essere quello diretto tra lotte dei detenuti e rìforma, tra denuncia e quadro legislativo compiuto. Deve invece crearsi un rapporto molecolare tra iniziative dei detenuti ed estemo sul piano di proposte concrete e di fattive attività puntando a modificare, od allargare le maglie legislative ed ad eliminare quelle più restrittive. Il percorso che facciamo, lungo e difficile, è quello dell'estinzione del carcere". Il punto è esattamente questo.

Estìnzìone ìn progress del carcere è sua permeabìlìtà e penetrazìone e, nel contempo, suo superainento. Il quadro è quello:

1) del restringimento progressivo del tempo e dello spazio del carcere;

2) della reimrnissione costantemente crescente di fasce di detenuti nel tempo e nello spazio della libertà e della socialità.

Più evoluti e ricchi sono i meccanismi sociali, più amplio deve essere lo spettro dei diritti riconosciuti e delle libertà insorgenti; più ridotti debbono essere i meccanismi dell'emarginazione. Si disegna qui una nuova mappa dei meccanismi dell "'integrazione sociale", in un ambito in cui conflittualità sociale e devianza non sono più críminalizzate o demonizzate. Si tratta di accrescere continuamente da parte istituzionale l' offerta di una così riarticolata integrazione sociale, la cui domanda conosce un'espansione quantitativa e qualitativa. La crisi delle istituzioni chiuse nasce anche dalla loro incapacità fisiologica di dare una risposta fruibile alla massa di domande di "integrazione critica", in uno spazio di libertà tutelate, valorizzate e arnpliate puntualmente.È I'incapacità di dare una risposta valida a queste domande, ornai connaturata all'esistenza stessa delle società complesse, che dà luogo alle risposte segregative, repressive e críminalizzanti. Eppure lo Stato me-desimo, le stesse istituzioni hanno concorso a suscitare tali domande; salvo, poi, patire la nuova fenomenologia dell'insorgenza sociale in termiini di "allarme sociale", "pericolosità sociale", ecc. Diventa estremamente difficile, su questo declivio impervio, discemere il confine tra le strurnentalizzazioni più viete e le reali inadeguatezza storica e arretratezza culturale della macchina istituzionale nel suo complesso.

A misura in cui la discrepanza tra domanda e offerta di "integrazione critica" si accresce, sopravvive la necessità del carcere. Comprimere questa sproporzione è "liberarsi della necessità del carcere". Bilanciare la sproporzione fino a farla tendere a zero è un lavorar concretamente all'estinzione del carcere.

3.

L’utopia trattamentale e la sua crisi irreversibile

Al punto precedente abbiamo tentato di isolare quello che, a nostro parere, era lo spirito della riforma. Urge ora individuarne il fulcro. Ci pare di poter dire, sulla base di una letteratura consolidata, che il fulcro della riforma (a differenza del RD 787/1931 abrogato in cui focale era l'esecuzione della pena) sia il "trattamento individualizzato" (cfr. il capo III, artt. 13-31). Con la riforma, l'amministrazione penitenziaria diventa titolare di un servizio — il trattamento — di cui il detenuto è il destinatario.

Il carcere è il campo in cui queste due funzioni si incrociano. L'obiettivo è esplicitamente dichiarato: innescare, con la "collaborazione" attiva del detenuto, dinamiche di rientro di quegli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una "costruttiva partecipazione sociale". Il trattamento previsto dalla riforma segna il passaggio dall'iperosservazione di impostazione anglosassone ai modelli di "rieducazione oggettiva". L'innesto avviene sulla nozione di "risocializzazione" fondata sul "lavoro estemo", quasi in prospettiva marxista. Non certo casualmente, il beneficio delle misure alternative ha come sua condizione sostanziale il reperimento di un lavoro esterno.

L'inserimento del detenuto nel meccanismo produttivo dovrebbe equipararlo, o condurvelo per la prima volta, alla condizione di produttore. La rieducazione è in ragione diretta del farsi dell'attività porduttiva, suo frutto. È possibile qui rinvenire un'ornologazione produttiva che conserva al suo fondo radici classiste; non ultima quella tra capitalista e operaio (o proletario, che dir si voglia). La linea di recupero attraverso il lavoro produttivo ipotizza il reinserimento nel sociale attraverso un'attività parziale. Il lavoro non compare semplicemente come "mediazione sociale", per l'acquisizione e il godimento delle risorse, ma figura direttamente e universalmente come società. Non sorprende che, su questa linea, tutto scada verso l'assistenzialismo caritativo, come la realtà storica impietosamente dimostra.

Tra gli elementi di crisi della Legge n.ro 354 va computata l'ideologia produttivistica che la pervade e la rinserra nel cul di sacco di un utopismo di marca ottocentesca, all'inseguimento della mitíca società perfetta dei produttorí, tanto nella versione "reazionaria" che in quella "rivoluzionaria".

L'inserimento produttivo predicato dalla riforma non è reim-missione in un insieme vario e ricco di relazioni e ambientazioni sociali, pregne di disposizioni e occasioni di vita affettiva, sentimentali e passionali articolate e inventive. Il trattamento preconizzato è preparazione della figura del produttore in tutte le sue dimensioni, da quelle lavorative a quelle etiche, culturali e ìntrapsìchiche. Presupposto di fondo dell'opera rieducativa è la "centralità" del momento produttivo e dello scambio ana-logico tra la figura dell'uomo e quella del produttore, entro cui questa viene progressivamente risucchiando quella.

Il lavoro di decostruzione del deviante procede in uno con quello dì ricostruzione del produttore. Il programma di trat-tamento più che assorbimento critico, assimilazione e ricon-versione trasformativa della devianza è sua rimozione, suo scarto. Come se la società, attraverso l'istituzione chiusa fon-data sul trattamento rìeducativo, tentasse di separarsi dalla devianza, quasi che fosse cosa a lei estranea: come se non le appartenesse e non potesse assolutamente appartenerle.

La formazione del programma di trattamento tiene in conto i risultati dell'osservazione scìentifica, ìl cui scopo è quello di accertare le "carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento" (art.13/2). L'intervento rieducativo è fondato su questo programma che, a sua volta, ha come suoi elementi cardine il lavoro, l'istruzione e la religione (art.1 5).

Certamente, la riforma su questi temi specifici è stata largamente disattesa. Tutte le ricerche al riguardo condotte hanno dimostrato che di "osservazione scientifica", "program-ma di trattamento", "cartella personale", ecc. non c'è traccia; come pure delle figure e delle strutture all'uopo previste. Lo stesso CSM ha messo in correlazione la scarsa incidenza dell'affidamento con l'ineffícienza e l'inesistenza dell"osser-vazione scientifica" della personalità, fino all'ammissione che l'applicazione dell'affidamento è stata "scorretta". Il fatto indubitabile è che l"'osservazione scientifica", quando non ha assunto un carattere di pura norrnazione e controllo repressivo, è restata lettera morta.

Tuttavia, non sono queste inosservanze a base del tracollo della rifrorna. Le ragioni vanno individuate, come abbiamo cominciato a vedere, in fattori strutturali. Riarticolare lo spirito della riforma implica:

1) lavorare a sbocchi legislativi di tipo nuovo che non ripetano le incongruenze utopistiche, produttivistiche e nor-malizzatrici della n.ro 354;

2) ripensare le forme e i passaggi del trattamento con tutti i suoi elementi sottostanti.

Occorre che il programma di trattamento sia già un momento della "risocializzazione". Non più inteso come pre-parazione alla reimmissione nella società: non più soltanto articolazione del carcere verso la società; ma dilatazione della società in costanza della compressione del carcere.

Ripensare il trattamento come esperienza sociale aperta, piuttosto che come rieducazione normalizzante; ci sembra questa la nuova soglia di partenza. Trattamento, entro questo nuovo contesto, è già dislocazione di una fitta rete di rapporti sociali, il cui controllo e le cui decisioni non passano più per l'imputazione unica costituita dalle gerarchie e strutture col-legiali interne al carcere.

Una società che si riappropria del carcere è una società che comincia a svuotarlo delle proprie funzioni; e se lo riappropria per estinguerne la necessità con progressione processuale. Ma una società che si riappropria il carcere, è anche una società che comincia a farne a meno. È l'utilità della socialità e della libertà che diventa prevalente sulla disutilità del carcere. È la geografia del carcere che diventa soccombente rispetto alla geografia delle libertà.

Pensiamo a una nuova connessione tra "centro" e "peri-feria" istituzionale e tra il perimetro istituzionale e il sociale. Affinchè in "periferia" sia possibile sciogliere i problemi strutturali e al "centro" sia presente e avvertibile il complesso delle problematiche periferiche. Affinché "centro" e "periferia" accolgano le domande dell'ambiente e dei movimenti sociali. Pensiamo che su queste strade possa trovare appropriata esaltazione l'autodeterminazione di tutti i fenomeni, le espe-rienze e i soggetti sociali. La socializzazione di dinamiche istituzionali aperte procede attraverso la valorizzazione delle libertà sociali e personali. La ricollocazione dello spazio urbano a mezzo del superamento del carcere è anche questo.

Il trattamento, dunque, non come terapia; ma come espe-rienza a forte senso critico-integrativo, comunicativo e trasfor-mativo. Non come afflizione o rovescio della "malattia" dello stare in carcere. li trattamento come altra faccia della pena è anche pena del trattamento, penosità del carcere. Se qui il carcere è l'unico spazio della pena, il trattamento è il siero velenoso che inietta l'esecuzione penale.

Nella nostra ipotesi il trattamento si configura come il primo momento di rottura dell'impermeabilità ed extraterritorialità del carcere. Per suo tramite figure esterne e dinamiche sociali prima recluse fanno ingresso nel carcere. Pur non perdendo la sua natura individualizzata, il trattamento acquisisce socialità. Non di riadeguamento conformistico del detenuto alla società si tratta, ma di evoluzione del primo entro il possibile e necessario miglio-rainento generale della seconda. Solo una società che cambia nel segno della libertà può cambiare ed estinguere il carcere.

Attribuire al trattamento un significato esperenziale e fortemente comunitario vuole dire cogliere la sua intemità alla sperimentazione di nuove forme di carcerazione. Un'idea di trattamento in comunità rinvia ineliminabilmente ad esperienze aperte di carce-razione. Passano anche di qua nuove domande di libertà; da qui prendono origine le regole di produzione di nuovi diritti. Da qui passa il recupero stesso della frattura tra diritto e funzioni istituzionali.

Intendiamo specificamente significare che la "certezza del diritto", in questo quadro, non si estrinseca più, non si articola e prolunga neli'arbitrarietà dell'esecuzione penale, ridottasi, ormai, ad esecuzione penitenziaria. Nel cammino che va dalla norma all'esecuzione penale il diritto si distanzia da se stesso. Ciò avviene, poiché a monte è stato assunto come misura integrale del tempo, vincolo di conforfnità all'organizzazione sociale vigente. Svilito a strumento di proporzionamento delle pene, a mezzo di strutturazione della disciplina e del controllo, si distanzia dalla mappa dei diritti e delle libertà.

Ciononostante il diritto perrnane forma. Meglio ancora, forma libera e necessaria della riconduzione deli'autorità alla giustizia. La sperimentazione di forme aperte di carcerazione contribuisce a ricondurre il diritto entro il suo alveo naturale; a rimettere in primo piano i soggetti e le loro storie effettuali, anziché le fattispecie penali; a privilegiare le qualità di contro alle quantità indifferenziate che omologano gli individui alI'unicità e irreversibilità della pena .

Guardiamo a nuove forme di carcerazione, aperte alla società, anche nei termini di contrappeso alla distruzione del legame sociale e alla caduta di senso che marchiano in negativo la condizione tradornoderna. Forme di carcerazione aperte con-tribuiscono, per la loro parte, a ristabilire e ricostruire il legarne sociale irnploso. concorrendo alla messa in scena di nuove prospetúve di senso.

Pensiamo a forme di carcerazione in cui siano autodeterminati tempo, spazio, affetti, legami, affinamenti culturali e relazionali. Siffatte forme sono collocazione del carcere nella società, sua sintonizzazione con la società. E viceversa. Da una autodetertninazione all'altra: ecco il passaggio su cui si reggono superainento ed estinzione del carcere.

Richíainiamo la necessità di una redistribuzione delle risorse umane e sociali mortificate nel carcere e ivi rese oziose. Ipotesi che, sì, prevede (i) una redistribuzione delle risorse penitenziario sul territorio e (ii) una contrazione dell'area della carcerazione; ma anche (iii) istituisce un nesso di continuità e reversibilità tra carcere e spazio urbano, tra le strutturazioni sirnboliche tipiche del penitenziario e quelle della società.

4.

Superamento del carcere e delle culture della pena vi-genti

La crisi dell'istituzione chiusa nasce anche dalla crisi dello scambio tradizionale delitto/pena, il quale nella presente epoca storica non appare più regolato dal tempo. Necessita vivi-sezionare la nozione tempo, così come nel concreto vissuto si pone realmente. La durata niente ci dice sul modo e sul dove della carcerazione; il tempo niente dice sugli spazi della carcerazione e sulle sue regole di produzione. Il tempo diventa un criterio classificatorio intangibile che non fa operare distinzioni congrue.

È noto che il primo a porre il legarne proporzionale tra delitto e pena è Hegel. Parimenti noto è che lo stesso Marx istituisce un legame tra pena e delitto a mezzo del valore, misurato dal tempo.

Egualmente risaputo è che Pasukanis, sulla scia di Marx, opera il primo tentativo teorico organico di definire la "funzione strutturale" del diritto non nei termini di "pura fonna"; ma in quelli di "strumento organizzativo della produzione", applicando al diritto e alle forme giuridiche l'analisi marxiana della forma merce.

Ci interessa, ora, rivisitare il nesso delitto/pena per una ricalibratura della sanzione penale e una ritematizzazione del campo dei delitti.

Vi sono un'idea e un criterio selettivo di pena che dobbiamo ora porre apertamente in discussione. Ci riferiamo a quelle culture e a quel complesso di funzioni e pratiche istituzionali che concepiscono la pena come risposta ristabilizzatrice, facendo leva sulla nozione di ordine giuridico vulnerato dal delitto e riaffermato dalla sanzione penale. Cultura della pena è qui riaffermazione dell'ordine giuridico. Col che si stende una rete paradigmatica che assume una natura eminentemente filosofica.

Premessa di questa filosofia è l'invarianza della regola uni-versale di comportamento. Da qui sorge la necessità di introdurre, tramite la pena, una simmetria che ripristini la parità tra chi osserva le regole e chi invece no. La pena è, così, anche risposta neutralizzatrice e, in quanto tale, una forma di prevenzione speciale. Fulcro della funzione della pena diventa la sua utilità, fondata sulla necessità che il reo non commetta altri delitti. Utilità della pena e sua necessità: da qui viene dedotta una proiezione ottimale che auspica, da parte del condannato, l'introiezione di motivazioni autonome a non delinquere; da qui, in determinazione ulteriore, germina la rieducazione conformizzante, l"'ideologia della pena", l'accettazione e la condivisione della sanzione penale. Accanto a questa proiezione ne vive un'altra, per così dire, minimale: la pura e semplice riproduzione dell'impossibilità materiale a delinquere. Gli estremi di queste concezioni proiettive sono lampanti: nel primo caso, la rimozione psichica, sul modello estremistico delineato da "L'arancia meccanica" di S. Kubrick; nel secondo, l'eliminazione fisica, sul modello estremo tipicizzato da Lom-broso. Entro questa polarità hanno mietuto a piene mani tutte le diverse scuole di diritto affermatesi in Italia. Ma non è questo il luogo adatto per affrontare nello specifico tali questioni.

Vogliamo soltanto porre mente a questa circostanza indu-bitabile: l'esistenza del carcere è consustanziale a queste teoriche della pena. Superamento ed estinzione del carcere sono, perciò, anche superamento ed estinzione di queste teoriche.

Avvertiamo semplicemente l'esigenza di riportare ed equiparare la parabola della pena a "parabola storica". Dal luogo dove la parabola della pena è stata ricondotta ai suoi valori storici più bassi e arretrati — la legislazione speciale e il carcere speciale — ci nasce l'urgenza di ristoricizzarla e raffrontarla con le condizioni della vita e della libertà al loro livello di complessità.

È da questo osservatorio che intendiamo sviluppare ele-menti di critica della teoria retributiva della pena (di stampo neoclassico) e delle teorie positiviste della pena.

La pena come retribuzione del danno arrecato, per effetto della condotta deviante o criminale, trasforma gli eventi in fattispecie giuridiche, instaurando una proporzione che re-scinde il fatto dal contesto disordinato che l'ha provocato.Immerso nella normativa giuridica, l'evento ne acquisisce l'ordine interno, la logica e l'equilibrio astraente. Se il delitto è violazione, la pena deve reintrodurre, normare ed estendere l'autorità e l'ordine della legge violata. L'ordine, più che essere il complesso risultato di interazioni, cornbinazioni e variazioni sociali, è fino in fondo il portato estemo di un equilibrio formale sovraimposto alla società. Come tale, ad essa imposto. Le teorie retributive mettono qui in contrapposizione il disordine sociale con l'ordine giuridico, facendo di quest'ultimo il ba-ricentro del ristabilimento dell'ordine estemo alla società.

Curiosamente, l'obiettivo positivo del ristabilimento dell' ordine si ammanta di metafisica giuridica. La conservazione e la riproduzione del potere ruotano esclusivamente attorno al diritto, trasformato in fonte del potere. Col che questo indirizzo espunge dagli scenari sociali i conflitti, gli interscambi tra Stato e cittadini, tra Stato e società e tra cittadini e cittadini; anche per la decisiva circostanza che qui quale fonte del diritto è assunta la divina provvidenza. Osserva il Carrara, uno dei massimi esponenti della scuola neoclassica: "Il diritto deve avere una vita e dei criteri presistenti ai placiti umani" (Programma di diritto criminale, 1866-1870). La norma giuridica si sclerotizza e si separa definitivamente dall'evoluzione sociale; si ammanta di una razionalità metafisica e metastorica, facendo emergere il diritto come metapotere. Secondo la chiave di lettura che stiamo proponendo, la teoria retributiva della pena è una metateoria del potere. Più che coniugare pena con atuorità, tende a far coincidere autorità giuridica con autorità statuale, in una singolare anticipazione del programma kelseniano del "diritto puro". Se la teoria retributiva concentra la sua attenzione sul delitto, la scuola positiva (che si è soliti far risalire agli studi di Lombroso del 1871 sulla salma del bandito Vilella) sposta l'interesse sul delinquente, in quanto unico evento suscettibile di esperienza. Il diritto penale dismette la sua aura metafisica e, per così dire, rinuncia ad essere filosofia, collocando la risposta dello Stato al delitto fuori dal reato e dalla pena corrispondente.

Sganciato il fatto dalla colpa, la pena non può più essere la retribuzione dovuta al delitto. Col che scompaiono imputabilitàe castigo e la sanzione non diventa altro che un mezzo di difesa contro il delinquente. Baricentro dell'azione penale non è più la punizione, ma il riadattamento. In subordine, laddove non si sviluppano dinafniche adattive, intervengono la segre-gazione e la neutralizzazione, fino alla situazione limite dell' eliminazione fisica. Riadattamento, segregazione e neutralizzazione sono i tre vertici del triangolo della difesa sociale.

Non conta più il valore del delitto, ma i suoi presupposti e i suoi precedenti sociali. Secondo gli approcci positivisti, il delitto porta alla luce la pericolosità sociale che l'ha prodotto. L' ostacolo reale da rimuovere non è più visto nel delitto in sé; bensì nella pericolosità sociale sottostante e circolante. La sanzione deve differenziarsi e orientarsi in vista dalla difesa del corpo sociale perturbato. Dice Ferri, uno dei massimi teorici della scuola positiva: "La sanzione sarà applicata in misura più o meno grave non pel delitto, ma per la pericolosità sociale che nel delitto si rivela" (Orizzonti del diritto penale, 1881). Il diritto si fa sociologia positiva. La norma non si limita a diffondere la metafisica della statualità e del potere; bensì si articola e varia come strumento di difesa tra gli altri. Il diritto acquista qui un carattere protettivo: protezione dalla pericolosità sociale. Quest'ultima particolarmente patita nell'Italia post-unitaria, a fronte dell’iniziale passaggio da economia agricola ad economia industriale; ancora più patita oggi, a fronte del passaggio da una società di produzione ad una di informazione e comunicazione.

Possiamo concludere questo rapido excursus critico, facendo osservare che le scuole prese in esame, seppur diversamente, danno luogo ad un sorta di darwinismo giuridico. Alla evoluzione biologica e genetica che elimina per selezione le specie inferiori ormai, disadatte e disadattate subentra la selezione giuridica, ugualmente tesa alla soppressione della specie inferiore: il delitto e il delinquente. La naturalità dispotica del diritto si interconnette con la naturalità dispotica della sanzione. Pena e delitto permangono ancora più proporzionatamente e intimamente avvinti. Alla società i valori, al delinquere e ai delinquenti i disvalori. Alla pena il compito di riproporzionare delinquere e delinquente alla società: o riconducendoveli conformisticamente o eliminandoli fisicamente.

La legislazione speciale, proprio allignando su queste radici, ha potuto produrre e inventare degradazioni ulteriori in termini di cultura e civiltà giuridica.

5.

Estinzione del carcere: ovvero superamento delle strut-ture articolate della forma carcere

È nostra opinione che tutto quanto precede richiami molto di più e di diverso di una depenalizzazione dei reati, con la sdrammatizzazione della sanzione che ne segue. Non vorremmo che il cumulo delle domande nuove tratteggiate trovi una risposta di stampo antico, presso a poco così recitante: la sanzione opera nel maggior numero dei casi; il carcere, nel minore. Ancora presenti in questo assioma sono un forte momento intimidativo e una forte volontà dissuasiva che si configurano come una sorta di "deter-renza di ritomo". Soprattutto, è ancora operante la categoria di allarme sociale che, col momento dissuasivo, giustifica ed etemizza, non tanto e non solo il carcere genericamente; bensì il "carcere duro" specificamente.

Noi crediamo, invece, non solo attuale, ma anche realistico dare oggi avvio a processi, diversificati nel tempo e nello spazio, di superamento passo dopo passo di tutte le forme storicamente date di carcerazione.

Pensiamo al superamento e alla estinzione del carcere non come forma universale e monolitica, ma delle forme articolate attraverso cui il carcere come istituzione si disloca nello spazio urbano e nel tempo storico. Se si vuole, questo processo lo si può qualificare come disaggregazione e disgregazione della forma carcere in tanti sistemi e sottosistemi da restituire progressivamente alla società e alla libertà sulla linea del possibile e del reale.

Con questo lavoro progressivo è possibile penetrare simultaneamente tutte le forme di articolazione dell'istituzione carcere, approntando per ognuna le procedure giuste e appropriate di superamento ed erosione: tutte le forme del carcere, fino al "carcere duro". Anche di quest'ultimo vanno fatte vacillare sin da ora le residue necessità, perchè è in questa forma che la sopravvivenza estrema del carcere si trincera, nel suo tentativo disperato di ancorarsi alla società, pietrificandola; perché sino a quando questa forma di carcere sopravviverà, l'idea e la realtà del carcere resteranno.

Pare a noi che, ancor più che "liberarsi della necessità del carcere" rimanga l'esigenza di liberarsi della sopravvivenza del carcere. Un percorso di libertà reale passa anche da qui.

È questo un problema nuovo, un problema dell'oggi. Per esso vanno trovate soluzioni nuove, le soluzioni dell'oggi: "Qui fin da principio ad incognite, equazioni e possibilità di soluzione non v'è fine. Il compito è: scoprire sempre nuove soluzioni, connessioni, costellazioni, variabili".