CAP. III

LA RAZIONALITÀ CONTROFATTUALE

 

  

 

 

1.

Premessa

Isolate le variabili simboliche e politiche principali della lotta armata, possiamo procedere a inquadrarla come un particolare tipo di sistema, governato da codici peculiari, non sempre capaci di mantenersi fedeli alla loro interna intenzionalità; anzi, progressivamente discostantisi dai fini dichiarati e perseguiti. Collegato all’azione combattente v’è un processo di indiretta, ma non per questo ineffettuale, autosospensione del sistema delle causali e delle finalizzazioni da cui essa prende origine. La circostanza contempla una cesura via via crescente tra (i) il sistema delle causali e dei fini e (ii) il sistema delle azioni e dei mezzi: questo si va progressivamente autonomizzando da quello.

Si ingenera e sviluppa, così, una razionalità sistemica controfattuale che disvela, con un incrementale grado di evidenza, la non conformità delle causalità/finalità alle azioni/strumen-tazioni; e viceversa. Gli "effetti perversi" della lotta armata sono emanazione coerente di tale interna razionalità controfattuale e riproducono, su specifiche scale microsociali, le controfinalità proprie dell’azione sociale in senso generale.

Il fatto è che ogni sistema, in quanto tale, è incompleto: la sua è sempre una struttura aperta, suscettiva di completamenti e variazioni impredicibili. L’incompletezza dei sistemi coniuga l’apertura di una morfogenesi, nel corso della quale subentrano mutamenti di identità ed effetti controintenzionali assolutamente non calcolati, indesiderati e contraddittori rispetto alle strutture di senso originarie.

Il movimento descritto da ogni sistema è, insieme, autoverificante e autofalsificante; il medesimo ambiente esterno mantiene nei confronti di ogni sistema la contestualità della verificazione e della falsificazione. Il "sistema lotta armata", sia nel trattare l’informazione e la comunicazione dei suoi inputs/out-puts che nelle transazioni con l’ambiente, non sfugge, né può sfuggire, a tale morfogenetica complessa.

2.

La problematica sistemica: una ricognizione mirata

Prima di isolare il "sistema lotta armata", procederemo ad un inquadramento dei nodi della problematica sistemica più prossimi al nostro campo di indagine.

Isolatamente considerata, l’intenzionalità è un modello di causazione finale; mentre, invece, l’adattabilità è un modello di causazione contingente. Ogni sistema, adattando i meccanismi intenzionali, fa salire in primo piano le "cause efficienti", a tutto danno degli eventi futuri e/o "cause finali". La sequenza intenzione/scopo/effetti è costantemente sotto il controllo delle logiche di comportamento del sistema. Gli "scopi finali" sono invariabilmente collegati a degli "stati", i quali disegnano la mappa delle "variabili critiche" del sistema, sottoposte ad una continua messa in questione da parte dell’ambiente esterno e da controfattualità interne.

L’adattamento consta:

a) nell’individuazione/correzione di tutte le deviazioni dal tracciato degli stati connessi allo scopo;

b) nel riaggiustamento degli effetti controfattuali;

c) nella neutralizzazione selettiva dei vincoli e dei condizionamenti che l’ambiente veicola come disconferma delle "cause finali".

L’effetto feedback consente di assumere informazioni sulle deviazioni e sulle controfattualità, onde introdurre gli elementi correttivi atti a (i) ripristinare il comando dei "centri" che dirigono il sistema, per (ii) adattarli alle sollecitazioni provenienti dai contesti esterni. Il controllo tramite feedback dirige, non semplicemente orienta, il sistema allo scopo. Proprio per salvare e inverare la teleologia che lo anima e giustifica, il sistema tenta di adattarsi all’ambiente esterno e di razionalizzare gli effetti non intenzionali emanati dalle sue condotte di azione.

Ogni sistema adattivo è un sistema complesso, dotato di tre funzioni fondamentali: (i) la funzione selettiva; (ii) la funzione organizzativa; (iii) la funzione di connessione con l’esterno. Attraverso queste funzioni si autodirige, devia dal tracciato delle sue finalizzazioni e si autocorregge. Per integrare queste condizioni deve dotarsi di un sistema culturale, tramite il quale ricevere e comunicare informazioni.

La ricezione delle informazioni avviene a un livello tridimensionale, dando luogo a tre modelli di feedback:

a) la ricezione dal mondo esterno, mediante la rete dei feedback orientati allo scopo;

b) la ricezione dal passato, mediante la rete dei feedback conoscitivi;

c) la ricezione da se stesso e dalle sue parti, mediante la rete dei feedback di coscienza.

In tale tridimensionalità, il processo della deviazione non è semplicemente un disturbo, ma anche la promozione di un processo di mutamento e di elaborazione positiva di una nuova struttura. Un sistema complesso non solo (i) bilancia/corregge la deviazione ed (ii) elabora la struttura, ma anche e soprattutto (iii) promuove la deviazione.

Le controfattualità interne medesime sono tanto ragione di crisi che innesco di strutturazioni nuove. Il processo di elaborazione di forme e di nuove "stabilità strutturali" è stato designato con il concetto di morfogenesi, in opposizione alla morfostasi, secondo cui ogni struttura tende a preservare la forma, l’organizzazione e lo stato del sistema. Si è legittima-mente concluso che, mentre la morfogenesi ammette un feedback positivo, la morfostasi agisce attraverso feedback negativi.

Il feedback positivo della morfogenesi enuclea la reciprocità cooperante degli effetti causali, in funzione (i) dell’amplificazione della deviazione e (ii) dell’allontanamento dalla condi-zione iniziale. Tutti i processi adattivi sono processi morfogenetici: nella riproduzione della loro identità, producono mutazioni della propria identità. Un processo non riproduttivo di tali mutazioni è un processo organizzativo disfunzionale: cioè, produce e riproduce all’infinito i vincoli dei suoi stati iniziali, da cui non riesce ad allontanarsi o a deviare. J. G. March e H. A. Simon hanno assunto la burocrazia come idealtipo dei processi non-adattivi, prigionieri di "circoli viziosi"; G. Myrdal, dal canto suo, in un suo celebre studio del 1944 sul "dilemma americano", assume la discriminazione razziale come "circolo vizioso" che riproduce all’infinito se stesso.

Ma lo stesso "circolo vizioso" non configura una situazione unidirezionale; esso ammette una bidirezionalità causale. In virtù dei processi di "causalità cumulativa", il "circolo vizioso" può tanto appesantirsi quanto alleggerirsi; giammai può risolversi in base all’azione di una sola "causa primaria", essendo ogni variabile del sistema causa di un’altra causa all’infinito. Trascorriamo qui dal principio di unicausalità al concetto di equifinalità (von Bertalanffy) e a quello di multifinalità (M. Maruyama).

Intorno a questa nuova mappa cognitiva, si affermano paradigmi di organizzazione sistemica tra di loro simpatetici, ma anche competitivi:

a) il paradigma della signifícatività della necessità, secondo la nota formulazione di N. Wiener: "un’idea significativa di organizzazione non può essere raggiunta in un mondo in cui ogni cosa è necessaria e nulla è contingente";

b) il paradigma della condizionalità, secondo l’altrettanto nota formulazione di W. R. Ashby: "Non appena A e B diviene condizione rispetto al valore o allo stato di C, allora è presente una necessaria componente di ‘organizzazione’" ;

c) il paradigma della contingenza strutturale, secondo cui ruoli, azioni e funzioni dipendono dalla contingenza dei contesti e dei costrutti organizzati.

Non svilupperemo organici elementi di critica delle teorie che abbiamo sunteggiato. Ci interessa, in questa sede, esclusivamente approssimare il problema delle "conseguenze inat-tese" dell’azione sociale, assumendo criticamente come referente l’approccio funzional-sistemico.

La problematica sistemica, come abbiamo visto, fa della promozione della deviazione dai vincoli iniziali uno dei cardini dell’elaborazione di nuove strutturazioni e nuove forme. Con ciò realizza un progresso epistemologico-cognitivo rispetto alle teoriche tradizionali; ma, allo stesso tempo, tende a nascondere i problemi e le aree conflittuali, intrappolandoli euristicamente ed empiricamente entro le sfere dell’equilibrio sistemico. Se è il sistema che promuove la deviazione/devianza, i suoi meccanismi adattivi finiscono con l’assorbirla e integrarla in una raggiera normativa autoritaria: qui il sistema non soltanto produce devianza; ma si regge sull’incorporazione mimetica della devianza. L’organizzazione del sistema decontestualizza l’or-ganizzazione della devianza, sussumendone il movimento e la carica di senso. L’equilibrio sistemico diviene, allora, input/output di un processo di spoliazione, rimozione e sussunzione.

Su un altro versante, non si può negare che "effetti perversi" ed "effetti controintuitivi" dell’azione sociale e dell’azione umana siano effetti-sistema; anzi. Ma il sistema non può occupare o fagocitare il posto, le mappe di senso, i costrutti organizzati e i territori esperenziali e relazionali del conflitto e della devianza, di cui gli eventi e i risultati controfattuali sono uno dei peculiari depositi disvelanti. Devianza e conflitto non hanno un senso univoco; vanno assunti come ibridazione causale:

a) dell’elaborazione della struttura del sistema;

b) della razionalizzazione delle sue controfinalità;

c) della falsificazione delle sue forme e dei suoi equilibri.

Gli effetti controintuitivi e controfattuali rimangono, sì, effetti-sistema, ma sono anche effetti anti-sistema, agenti dall’interno del sistema stesso e provenienti dall’ambiente esterno. Essi costituiscono la manifestazione sintomatica fisio-patologica di una crisi subentrata nel sistema e nella relazione sistema/ambiente. Crisi che non sempre più essere superata e risolta con un processo di razionalizzazione autocorrettiva, configurante (i) un trapasso evolutivo e indolore di forme e di strutture, oppure (ii) una compressione traumatica delle opzioni del vissuto possibile. Una volta pervenuti ai punti limite invalicabili dell’equilibrio complesso dato, la crisi reclama:

a) l’elaborazione conflittuale di un nuovo sistema, superiore nella scala evolutiva e, insieme, altero;

b) l’irruzione di relazioni/significati inediti all’interno dei campi sistema/ambiente, umanità/natura, storia/libertà, singolo/collettività, ecc.

Permanendo entro l’area di vigenza della crisi, ogni sistema organizzato diviene disfunzionale e riproduce all’infinito, su scale via via restringentisi, i propri limiti strutturali. A questo livello, esso scongiura la propria esplosione, patendo processi implosivi, oppure elaborando strategie di governo della crisi. In tutti e due i casi, la crisi è, sì, differita, ma i suoi punti di manifestazione sono resi dissolutori. In queste condizioni, diversamente da quanto teoreticamente assunto dai vari filoni passati in rassegna, l’equilibrio (forzoso) del sistema diviene la figura virtuale della dissolvenza, di cui è l’agente sociale sulla lunga durata.

3.

"Sistema lotta armata" ed effetti controfattuali

Possiamo ora procedere all’analisi del "sistema lotta armata" e delle sue controfattualità.

L’íntenzionalità della lotta armata, ovverosia il suo meccanismo di causazione finale, è data dall’inveramento prospettico della società comunista. La forma sociale che il dispositivo della causazione finale assume è quella della "guerriglia nella metropoli", assunta come forma di gestazione della guerra rivoluzionaria nelle condizioni storiche inverate dalla "metropoli imperialista". I mezzi che la guerriglia manipola sono quelli dell’azione combattente, da intendersi non solo come prassi, ma anche come modalità di comunicazione. L’organizzazione dei mezzi di combattimento è l’ultimo anello di un’organizzazione di forme (la guerriglia) e di scopi (il comunismo).

Il "sistema lotta armata" è organizzazione di organizzazione. Intenzionalità, forma e mezzi sono concatenati da processi di trasmissione organizzativa che sono l’uno causa ed effetto dell’altro. Forme e mezzi debbono confermare e inverare l’intenzionalità del disegno politico; per contro, senza l’organizzazione della forma guerriglia e l’organizzazione dei mezzi di combattimento, l’intenzionalità comunista non potrebbe essere organizzata nella scala spazio/temporale.

Diversamente da quanto è possibile reperire nell’impianto polemologico clausewitziano, la guerra non viene ridotta a "frammento/strumento" del "complesso della politica" e/o "continuazione della politica con altri mezzi", poiché qui essa non figura limitatamente come scopo della politica. In Clausewitz, l’autonomia della guerra è circoscritta alla sintassi dei mezzi: per lui, l’arte della guerra consta precisamente nel non porre in contraddizione i mezzi della guerra con le tendenze e i disegni della politica.

La sintassi dei mezzi rientra nella grammatica della guerra, la quale sottostà alla logica della politica. La logica politica guida la guerra; la grammatica della guerra guida l’organizzazione dei mezzi di combattimento. Nel "sistema lotta armata", invece, la guerra non è mezzo/strumento; bensì forma particolare. In quanto forma, genera senso, non subendo meccanicamente la generazione di senso attivata dalla politica. Essa non sottostà alla sovranità del fine politico; dal quale non può essere ferreamente dominata. Senso della guerra e senso della politica si incastrano nella forma guerriglia, facendo sì che essa diventi forma/scopo e mezzo/scopo.

Entro l’ambito che si viene, così, delineando, scopi, forme e mezzi sono in rapporto critico-simbiotico: come si supportano a vicenda, così si negano reciprocamente. Se Clausewitz rovescia la prospettiva eraclitea di Polemos padre di tutte le cose, il "sistema lotta armata" rovescia la prospettiva clausewitziana di Politica mater di tutte le cose. L’organizzazione di scala della violenza armata, per l’insediamento della società comunista, apre un nuovo orizzonte euristico e polemologico, a metà strada tra Eraclito e Clausewitz: la guerra va in soccorso della politica rivoluzionaria, per superarne gli interni limiti di performatività; la politica va in soccorso della guerra rivoluzionaria, per dotarla di coordinate simbolico-ideologiche. L’ideologia delle funzioni simboliche rafforza il suo imperio: prolunga il controllo sulla decisione politica (esaminato nel primo capitolo) in controllo sulla decisione armata.

Il teatro della simulazione avviluppa ‘politico’ e guerra in un unico contesto. Per questa via, il camaleontismo simbolico irrompe nel teatro della guerra, sublimando i processi di de-realizzazione innescati dall’opzione armata. Il fenomeno conosce una dilatazione abnorme anche per il fatto che gli schemi universalistici e la razionalità cognitiva di derivazione marxista giocano un ruolo non secondario all’interno dell’universo di senso della lotta armata; come abbiamo, in particolare, avuto modo di esaminare nel capitolo precedente.

La guerra non è più un mero strumento della politica; allo stesso modo con cui la politica non è ancella della guerra: nell’orizzonte di senso della lotta armata, guerra e politica sono implicate in una regione che le vede entrambe insediate, con pari diritti, al "posto di comando"; dove entrambe, però, si trovano infeudate sotto il titanismo esercitato dalle forme simboliche.

La problematica sistemica della lotta armata travalica la stessa posizione schmittiana, a cui sovente, ma impropriamente, essa è stata avvicinata od omologata.

Come si sa, per Schmitt la guerra non è né scopo, né meta e nemmeno contenuto della politica; al contrario, ne è "il presupposto sempre presente come possibilità reale, che deter-mina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico". Qui la guerra compare nell’accezione di contrasto assoluto; ma il contrasto assoluto è la sostanza del ‘politico’. Presupposto del ‘politico, più esattamente, è la realtà radicale del contrasto assoluto; non già la guerra in senso stretto. Fondando il ‘politico’, il contrasto assoluto viene prima della guerra e, in un qualche modo, la rende sempre possibile e prossima. Schmitt crede di rinvenire nello stesso Clausewitz una contestualizzazione di questo genere; ma le cose non stanno in questi termini.

Vediamo direttamente: "Osservando meglio, per Clausewitz la guerra non è semplicemente uno dei molti strumenti, ma l’ultima ratio del raggruppamento amico-nemico. La guerra ha una ‘grammatica’ sua propria (cioè un insieme esclusivo di leggi tecnico-militari) ma il suo ‘cervello’ continua ad essere la politica: essa cioè non è dotata di una ‘logica propria’. Quest’ultima può essere ricavata soltanto dai concetti di amico e nemico...". Per Schmitt, la guerra delinea i contorni di un caso critico; meglio ancora: è il caso critico allo stato puro. Quanto più la guerra è eccezione, quanto meno frequentemente si scatena, tanto più essa è distruttiva e tende verso le sue forme assolute: "Ancora oggi il caso di guerra è il "caso critico". Si può dire che qui, come in molti altri casi, proprio il caso d’eccezione ha un’importanza particolarmente decisiva, in grado di rivelare il nocciolo delle cose. Infatti solo nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamente politica".

Tendendo verso forme assolute, l’eccezione guerra porta fino alle estreme conseguenze – fino all’assoluto – le condizioni di ostilità immanenti nel concetto di ‘politico’. La tensione all’assoluto qui è il contrassegno costitutivo del ‘politico’; non già della guerra. Se per Clausewitz la tensione all’estremo, verso le forme dello scontro assoluto, sta nella guerra (che, anche per questo, va ricondotta costantemente sotto l’imperio della politica), per Schmitt, invece, la tensione all’estremo risiede originariamente nel ‘politico’, nella sua cifra storico-esistenziale. La guerra disvela in maniera perfetta ed eccezionale il portato di inimicizia insito nel concetto di ‘politico’. Per Schmitt, il contrasto decisivo è – e rimane – quello politico: "Nulla può sottrarsi a questa conseguenzialità del ‘politico’". Ed è proprio sull’intensità del principio di ostilità incarnato nel ‘politico’ che si regge la totalizzazione della guerra: la "guerra totale" è, in Schmitt, l’estensione del raggruppamento amico/ nemico, dal campo del ‘politico’, a tutti quanti i campi dell’essere e del fare che connotano la condizione umana, a partire dalle sfere etiche e simboliche.

Il principio di ostilità che riposa nel ‘politico’ è portato alle estreme conseguenze dalla guerra. La guerra totale totalizza il principio di radicale ostilità che anima e modella il ‘politico’. Nel ‘politico’ risiedono, dunque, le ragioni e le condizioni del superamento del ‘politico’ attraverso la guerra. Ma, superando il ‘politico’, la guerra si disumanizza: la "guerra totale" è esattamente l’incarnazione della disumanità, poiché disumanizza il nemico. Solo disumanizzandosi, la guerra può coniugarsi come forma finale: ultima guerra dell’umanità, perché votata alla distruzione del nemico. Anche la pacifista "guerra contro la guerra", osserva Schmitt, conferma il senso della guerra. Di più: giustifica l’apocalisse evocata dallo scenario disegnato dalle guerre totali e ultimative e dall’immaginario da esse implicato. Osserva, con chiarezza, Schmitt: "Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il ‘politico’, squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini".

Contrariamente da quanto rinveniamo in Schmitt, nel "sistema lotta armata", il principio di ostilità assoluta non si disloca nel ‘politico’; tantomeno si impianta nella guerra, come accade in Clausewitz. Il principio di contrasto estremo e di assolutizzazione dell’ostilità, invece, lo troviamo allocato nelle forme simboliche: esso alimenta il circuito sorgivo ed essenziale delle causali che fondano l’opzione combattente. La figura del nemico assoluto è qui una maschera del nemico simbolico. Meglio: il nemico assoluto esiste come corporeizzazione del nemico simbolico. Senza l’elaborazione archetipica del nemico simbolico non può qui esservi traccia del nemico assoluto. Il primato ontologico delle forme simboliche sulle forme della politica e sulle forme della guerra si esprime nel corollario dell’assoluta anteriorità e intrascendibilità delle configurazioni e dei modelli del nemico simbolico.

Ne consegue che:

a) il simbolo del nemico precede e imprigiona il corpo del nemico;

b) il simbolo dell’amico anticipa e rinserra il corpo dell’amico.

Il simbolismo della lotta armata è la prigione primaria da cui il corpo della lotta armata non riesce e non può riuscire ad evadere. I corpi vivi dei combattenti sono i guardiani, gli agenti terribili e, insieme, i primi prigionieri di questo sistema simbolico concentrazionario, da cui erompe una scarica di violenza che non conosce freni, al di fuori delle gradazioni della razionalità calcolistico-strumentale che la fondano. Una teologia simbolica si impossessa delle condotte di espressione della violenza e la rende schiava di un pensiero dicotomico. Le finalità del pensiero dicotomico mettono in codice lo scopo sublime della lotta armata: annientare gli annientatori. L’hostis della differenza assoluta e irriconciliabile slitta dalla figura del nemico simbolico a quella dell’annientatore. La catarsi sociale è qui coessenziale all’opposizione assoluta: ognuna è il presupposto dell’altra.

Il primato delle forme simboliche, la cui dinamica abbiamo esaminato nel primo capitolo, sdoppia il principio di ostilità in due componenti: (i) l’elemento politico e (ii) l’elemento militare. Contrariamente a quanto accade nella polemologia classica (da Eraclito a Schmitt), non assistiamo né alla dominanza del ‘politico’ sul militare, né alla dominanza del militare sul ‘politico’. ‘Politico’ e militare li reperiamo rifusi in una connessione indisgiungibile. È, questa, l’essenza della guerriglia metropolitana italiana. I limiti del ‘politico’ vengono superati col ricorso alla guerra; i limiti della guerra vengono superati col ricorso al ‘politico’. Le forme simboliche assicurano la ricombinazione interattiva tra ‘politico’ e guerra. Viene, così, innescato un effetto feedback la cui funzione è quella di bilanciare e assemblare in maniera intelligente il composto indisgiungibile politica/guerra. È, questo, un tentativo atto a:

a) rettificare le deviazioni di percorso dalle "cause finali";

b) recuperare gli effetti controfattuali;

c) avere ragione delle pressioni e delle smentite dell’ambiente esterno.

Ora, il sistema lotta armata" ha di particolare che costitutivamente non può recuperare o razionalizzare le sue controfinalità interne; né può svilupparsi, promuovendo deviazioni rispetto al tracciato degli scopi finali. Esso patisce, per intero e fin dal principio, le sue controfinalità interne e il percorso delle deviazioni che, di continuo, sono ingenerate dalla sua morfogenesi. Subisce, pertanto, delle metamorfosi che non è in grado di controllare e di cui, sovente, non ha nemmeno consapevolezza cognitiva.

Le sue capacità di adattamento sono scarse, poiché non può liberarsi dalla schiavitù ideologica alle forme simboliche. La morfogenesi che l’afferra lo separa traumaticamente, fin dal principio, dalle sue ragioni fondative e dalla trama delle sue finalità.

La guerriglia come forma/scopo e come mezzo/scopo si separa dall’utopia comunista, dei cui valori è, suo malgrado, la negazione. L’intenzionalità comunista non coincide con l’in-tenzionalità della guerriglia, pur essendo quest’ultima ideologicamente votata al comunismo. Nella guerriglia, la politicità ed eticità del comunismo convivono con l’antipoliticità e antieticità della guerra per il comunismo. Qui la guerra diviene la critica armata del ‘politico’: la risposta rivoluzionaria alla crisi della politica. Il ‘politico’, per parte sua, fungendo quale centro ideologico della progettazione della società comunista, si modella come superamento delle frontiere militari della guerra.

Attraverso la critica armata della politica e il superamento politico della guerra, la guerriglia ritiene di poter venire a capo dei nodi irrisolti della rottura rivoluzionaria e della trasformazione radicale dell’esistente. In realtà, essa finisce col sommare in maniera esplosiva, fino alla deflagrazione, i limiti del ‘politico’ con i limiti della guerra. Guerra e politica si trasmettono osmoticamente il portato di distruttività e di onnipotenza che internamente le corrode. Nella dinamica attivata e dilatata dalla guerriglia:

a) il ‘politico’ non riesce a modellare in senso comunista la guerra;

b) la guerra sottopone a un processo di violento degrado il continuum della storia, estirpando alla radice le possibilità stesse dell’altero e del discontinuo.

Il processo che abbiamo descritto funziona come motore della razionalità controfattuale del "sistema lotta armata". I feedback orientati allo scopo, non riuscendo ad assumere l’in-telligenza della complessità del sistema sociale e l’eterogeneità dell’ambiente, divengono produttivi solo in senso distruttivo, perdendo la capacità poietica creativa.

I feedback conoscitivi divengono i vettori di una rappresentazione del tempo ridotta ad escatologia della perfezione sublime. I feedback di coscienza ricevono ed elaborano solo e sempre rappresentazioni spurie del Sé combattente; non già la sua identità storico-esistenziale e simbolico-culturale effettiva e in movimento.

Se l’azione sociale, attraverso le sue controfinalità, ha la possibilità di accedere a variazioni di struttura e di forma atte a perfezionare il sistema dei fini dichiarati e codificati, l’azione combattente è messa in mora dalla sua razionalità controfattuale, dalla quale non può trarre giovamento alcuno. L’organizzazione intenzionale della guerriglia, attraverso l’organiz-zazione fattuale dei mezzi di combattimento, preserva, sì, la guerriglia come forma, ma l’allontana dall’intenzionalità comunista. Se nella teoria politica rivoluzionaria il comunismo viene anteposto alla libertà e la rivoluzione dichiara la sua anteriorità a confronto del ‘politico’, qui la guerriglia si antepone sia alla libertà che al ‘politico’. Essa si costruisce e rappresenta come il crocevia rivoluzionario della libertà e del comunismo, di cui intenderebbe essere e restare il sinonimo e il simbolo eterno.

Ritenendo di valere istantaneamente come comunismo e libertà, la guerriglia si convince di essere scopo e mezzo della causa rivoluzionaria. La sua pura e semplice esistenza dimo-strerebbe la conformità del mezzo allo scopo; il suo sviluppo sarebbe il mezzo dell’organizzazione pratica delle finalità comuniste. Al contrario, quanto più promuove la riproduzione di sé, tanto più si allontana dalle finalità dell’utopia comunista: la sua sopravvivenza si configura come un’inconsapevole, ma estrema, opera di secessione dagli ideali e dai princípi del comunismo.

Anziché essere portatrice di eguaglianza, libertà e liberazione, essa finisce con l’essere l’agente di nuove modalità di fondamentalismo politico ed integralismo etico. Il fondamen-talismo politico coniuga la guerriglia come universale assoluto; l’integralismo etico legittima tutte le decisioni che promanano dal titanismo combattente.

L’etica non funge qui come agente stemperatore e canalizzatore delle passioni e degli eccessi della decisione politica; all’opposto, alimenta e giustifica tutti gli eccessi che l’organiz-zazione di scala della violenza armata comporta. Essa non funge più quale discrimine del giudizio sul bene e sul male: si posiziona "al di là del bene e del male", poiché il sommo bene troverebbe già modo di esplicarsi nelle virtù intenzionali della guerriglia. Qualunque effetto della macchina guerriglia deve qui essere virtuoso, per quanto terribile possa essere. Il comunismo che non viene è qui rimpiazzato e surrogato simbolicamente dalla guerriglia che c’è: non eventi, valori e messaggi comunisti irrompono nell’orizzonte della storia e dell’esistenza; bensì i teatri della guerra con i suoi lutti, le sue atrocità e le sue sofferenze inenarrabili.

In luogo dell’agognata libertà, compare il firmamento cupo dove proprio la guerriglia funge come uno degli impedimenti principali della trasformazione e della liberazione. L’azione combattente e la mobilitazione del potenziale combattente aprono una cesura drammatica nei confronti dell’azione collettiva e del potenziale di liberazione insito nella società. Quanto più mobilita e organizza se stessa, tanto più la guerriglia smobilita e disorganizza i movimenti collettivi. Quanto più smobilita e disorganizza i movimenti collettivi, tanto più stringe il cappio intorno al suo collo.

Il carattere di eccentricità della guerriglia rispetto ai movimenti collettivi si abbina all’effetto destrutturante che essa ha su di loro. Il distanziamento progressivo dai movimenti la conduce nel cul di sacco del contrasto apicale col dispositivo statuale: concentrandosi contro lo Stato, essa si trova senza e contro i movimenti. Partita con lo scopo di organizzare i movimenti per il rovesciamento del potere dato, si trova ad organizzare se stessa come potere contro lo Stato.

Alla fine, si trova contro lo Stato e contro i movimenti. Dallo Stato è combattuta e sconfitta; dai movimenti è criticata, ma non sconfitta. Anzi, la sconfitta dei movimenti segna l’apogeo dell’azione combattente. Apogeo che, però, costituisce un canto del cigno: difatti, dalla fase apicale della guerriglia (1977- 1979) all’inizio della fase crepuscolare (1980-85) passano soltanto poco più di due anni. La guerriglia, che pure voleva essere per il comunismo, si posiziona contro tutto e tutti: al terminale, è chiaro che essa, fin dal principio, è solo per se stessa. Stanno qui le ragioni della sua solitudine tragica e del suo isolamento progressivo.

La guerriglia viene alla luce come risvolto catastrofico dei "dilemmi del ‘politico’" e dei "dilemmi della democrazia", poiché è dominata e plasmata dalla sindrome della totalità:

a) le categorie politiche della guerriglia intendono essere la totalizzazione ideale della società perfetta;

b) le categorie dell’azione combattente intendono valere come princípi di fabbricazione totale della società perfetta;

c) le categorie etiche del sistema valoriale combattente intendono essere l’obbligazione morale totale alla costruzione della società perfetta.

La guerra non è qui "totale" nel senso schmittiano: cioè, stadio ultimativo e finale; bensì condizione permanente e insopprimibile dell’antagonismo di classe. Qui la guerra, in quanto forma totale (cioè: ricomposizione del ‘politico’ col militare, del simbolico col culturale, della teoria con la prassi, dell’organizzazione con l’ideologia, etc.) vorrebbe essere condizione svelata della lotta di classe: costante e motore del processo rivoluzionario. La "guerra sociale totale" teorizzata dalle Br-Pg, proprio nella sua unidimensionalità straneante, allucinatoria e reificata, è una delle più estreme e coerenti traduzioni teorico-pratiche delle premesse totalizzanti e organicistiche dell’opzione combattente.

Alla violenta denegazione dell’istituzione società si affianca l’istituzione immaginaria della contro-società; al rifiuto violento dei mezzi ufficiali si accoppia l’istituzione di contro-mezzi armati; alla critica irremissibile della comunità politica si accompagna l’istituzione di una comunità immaginaria; alla sospensione dei vincoli etici condivisi si abbina l’istituzione immaginaria di una contro-etica. A sua volta, la contro-etica immaginata è un prolungamento laterale della contro-politica della comunità immaginaria e, insieme, la sua valorizzazione e legittimazione.

Di circolo vizioso in circolo vizioso, le controfattualità interne si dilatano sempre più, sino ad occupare per intero la scena. La fase crepuscolare della lotta armata può essere designata come quella del dominio allargato e incontrollato della razionalità sistemica controfattuale. Quest’ultima interagisce con la crisi dei movimenti, con le disconferme dell’ambiente, con le politiche istituzionali e l’ordigno emergenziale. Il risultato dell’ interazione è la dissoluzione irreversibile dei programmi e delle ipotesi della guerriglia. Lo scacco terminale della lotta armata, se ha nella razionalità controfattuale il motore di accelerazione e dissoluzione, trova nella struttura delle causali primordiali le sue precondizioni.

Siffatta catena di processi e fenomeni destabilizzanti, ancor più, conduce all’implosione esplosiva, se si concede l’ossimoro, dell’esperienza della lotta armata nella fase epigonale (1986-1988) che possiamo considerare come fase finale e ultimativa che si corona con l’uccisione di Roberto Ruffilli, nell’aprile del 1988.

In particolare, gli effetti contro-intenzionali della lotta armata si reggono sul primato delle funzioni simboliche. Il comunismo è ridotto a oggetto assente, riprodotto simulatoriamente e artificialmente a mezzo dell’ideologia. La scissione tra il sistema dei fini e quello dei mezzi è tanto più acuta e devastante, quanto più il fine è assente e presentificato unicamente dalle funzioni simboliche, senza mai divenire una forma di vita. L’oggetto assente diviene, così, oggetto morto. L’inattualità che qui afferra il sistema simbolico del comunismo e il linguaggio della lotta armata coniuga all’infinito l’oggettualità inafferrabile della morte, senza riuscire mai a transitare per la vita del desiderio, della speranza e della libertà. Esattamente come oggetto morto il comunismo diviene l’oggetto del desiderio della lotta armata. Funzioni simboliche e razionalità controfattuale, incrociandosi e aggrovigliandosi, fanno deperire il desiderio, appassire la vita e aggiogano la libertà