CAP. IV

LA VIOLENZA POLITICA:

UN’APPROSSIMAZIONE AI SUOI CODICI

 

 

 

 

 

1.

Il codice della violenza mezzo

Con un espresso richiamo a Lenin, Hannah Arendt rileva che la violenza è il "comune denominatore" delle guerre e delle rivoluzioni. Ma, aggiunge subito, ciò che non è stato pre-visto da nessuno è che lo sviluppo degli strumenti tecnici della violenza andasse ben oltre gli obiettivi verso cui muove il programma politico della violenza. Per la verità, questa previsione è fatta da Engels, soprattutto nella fase della sua maturità nei suoi pregevoli scritti militari, nei quali viene individuato con esattezza il ruolo politico rilevante giocato dai nuovi terribili mezzi di distruzione, che attribuiscono alla razionalità della guerra funzioni autonome, i cui effetti non sono politicamente e militarmente predicibili e governabili. Ma torniamo ad Hannah Arendt: per la precisione, ella sostiene che, al livello raggiunto dalla massa energetica degli strumenti della violenza, "nessun obiettivo politico potrebbe ragionevolmente corrispondere al loro potenziale distruttivo o giustificarne l’impiego effettivo in un conflitto armato". Che tutto ciò renda obsoleto il ricorso alla guerra, come desume Hannah Arendt, appare infondato sul piano teorico e falsificato su quello storico. Il che non elimina quell’indubitabile verità, da ella sostenuta sulla scorta di un asserto di F. Engels, che la violenza abbia sempre bisogno di strumenti. A dire il vero, Engels è ancora più preciso: egli rileva molto crudamente che "la forza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti".

Ma è un’altra la considerazione di Hannah Arendt che ci preme qui sottolineare e riguarda il rapporto mezzi/fine che è regola e sostanza dell’azione violenta: "Dato che il fine dell’ azione umana, a differenza dei prodotti finali della manifattura, non può mai essere previsto in modo attendibile, i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi politici il più delle volte risultano più importanti per il mondo futuro degli obiettivi perseguiti".

L’azione violenta scatena un’autonomia dei mezzi che può finire pericolosamente col regolare e sussumere il perseguimento dei fini. In questo senso, a ragione, W. Benjamin colloca la violenza nel regno dei mezzi e non in quello dei fini. La violenza mezzo (e/o strumento) è il primo codice significativo e significante della violenza in cui ci imbattiamo. Da qui, allora, dovrebbe conseguire un’attenzione tutta particolare sui mezzi; mai isolabili come "mezzi in sé", essendo sempre avvinti, volenti o nolenti, a valori e princípi etici finalizzanti.

2.

Il codice della violenza causa e della violenza processo

C’è un altro postulato engelsiano che ci pare di ancora più grande importanza: quello secondo cui la violenza fungerebbe da "acceleratore" dello sviluppo economico. Il rilievo del postulato non risiede nel carattere di verità/falsità del suo enunciato (su cui qui non si insisterà direttamente); piuttosto, va ricercato nel contesto dialogico-formale e storico-ermeneutico che consente di approssimare: dall’universo linguistico e dall’orizzonte di senso della violenza come mezzo trascorriamo all’universo linguistico e all’orizzonte di senso della violenza come causa. Il codice esemplare della violenza come causa è la celeberrima teoria marxiana della violenza quale "levatrice della storia". Il paradigma della lotta di classe non è altro che la sublimazione del codice della violenza come causa.

Se nelle osservazioni di Engels la violenza viene inquadrata come causa di sviluppo economico, nelle teorie strutturali di Marx (e dello stesso Engels) essa assurge al rango di causale del processo storico: irradia da qui il codice della violenza processo.

Ma nel paradigma marxiano della lotta di classe c’è ancora dell’altro: una teoria e una prassi della transizione alla libertà e alla liberazione a mezzo della transizione dei sistemi dei fini e dei mezzi di cui la violenza è causa. Qui i "fini ultimi" sono quelli della libertà e della liberazione; non già quelli della violenza. È il carattere della liberazione che prevale sul/e orienta il carattere della violenza. A priori, per Marx, come non si dà evoluzione "pacifica", così non si dà evoluzione "violenta" verso il fine: il carattere della liberazione, cioè, è una variabile sottratta all’imperio delle scienze della previsione. Non è la natura del fine, insomma, a plasmare e pre-determinare il carattere del processo che lo realizza o intende realizzarlo. In altri termini, la violenza, per Marx, non è mai riduttivamente un mero sviluppo (violento) della violenza immanente ab origine nel fine. Questo, per lui, significa che non solo i mezzi sono autonomi rispetto al fine e che l’azione violenta ha una sua impredicibilità; ma, ancora più decisivamente, che la trasformazione in senso rivoluzionario della società capitalistica perde il suo carattere pacifico, nel momento in cui incontra degli "ostacoli violenti da parte della classe sociale detentrice del potere". In questo senso, il paradigma marxiano della lotta di classe e la sottostante "teoria della violenza" non hanno niente di cospirativo; anzi, del metodo e della prassi della cospirazione sono la più radicale antitesi. Sprezzante è il giudizio, al riguardo, espresso da Marx nella recensione del libro di A. Chenu, "I cospiratori", uscito a Parigi nel 1850: "È evidente che questi cospiratori non si preoccupano di organizzare il proletariato rivoluzionario in generale. Il loro compito consiste esattamente nell’anticipare sul processo di sviluppo rivoluzionario, nel condurlo artificialmente fino alla crisi, nell’improvvisare una rivoluzione senza le condizioni per fare una rivoluzione. Per loro, la sola condizione per la rivoluzione è l’organizzazione sufficiente del loro complotto. Sono questi gli alchimisti della rivoluzione e condividono lo smarrimento mentale, la ristrettezza di idee e le fissazioni degli alchimisti di un tempo".

Non v’è dubbio che nel paradigma della lotta armata alloggi una forma specifica di alchimismo rivoluzionario. Pur non essendo la lotta armata assimilabile al metodo e alla prassi della cospirazione, essa conserva del codice cospirativo l’immaginazione violenta e la violenta simulazione della rottura rivoluzionaria, assunta come evento catartico soggettivo, disancorato dalla effettualità e dalla latenza dell’accadimento storico.

3.

L’inversione mezzi/fini

Ora, nei codici della violenza mezzo, della violenza strumento, della violenza causa e della violenza processo, con un effetto di inversione impressionante, i fini anticipano sempre le cause. A ben guardare, sono sempre i fini che nella scala valorativa precedono le cause della violenza. L’inversione del nesso causa/fine rende ancora più drammatica l’autonomia dei mezzi dai fini. Interrompendosi in maniera dilacerante la sequenza causa/mezzi/fine, i mezzi si causalizzano su se stessi: cioè, sulla violenza. Il fatto è che violenza mezzo, violenza strumento, violenza causa e violenza processo sono invariabilmente collegate al telos: qui non è la causa il fondamento; bensì il fine. In virtù di questo strabismo epistemologico, lo spazio è interamente occupato dal telos: manca la riflessione intorno ai suoi mezzi. Per questo motivo addizionale, i mezzi vengono lasciati al governo della violenza.

In campo rivoluzionario, grazie alle funzioni esercitate da questi codici, registriamo una presa di distanza dalle rappresentazioni ingenue della rivoluzione come violenza; nel contempo, però, viene progressivamente meno il controllo sui mezzi della violenza, la quale si va autonomizzando e definalizzando. Mentre la rivoluzione è ridondante di telos, la violenza si va isolando nel circolo chiuso dei suoi propri mezzi che non riesce più a finalizzare. Nel regno dei puri mezzi, la violenza partorisce il regno dei fini negativi. Qui la rivoluzione non può che tradire e pervertire se stessa.

Il governo violento delle cose e degli esseri umani celebra, così, il suo trionfo. Definalizzazione della violenza è dispiegamento dei suoi potenziali distruttivi: sua finalizzazione catastrofica. La bomba atomica è il corollario estremo di tale situazione. Questa storia, in epoca moderna, ha nel Terrore uno dei punti/passaggio rilevanti. Il Terrore è la risposta sbagliata al codice illuminista della rivoluzione come telos. Ed è ancora una concezione della rivoluzione come telos il limite di fondo dei codici marxiani, il precipitato nascosto di illuminismo presente nel marxismo. Il terrorismo di fine-inizio secolo, così come la lotta armata delle "organizzazioni di guerriglia" sono, in gran parte, la risposta sbagliata ai limiti presenti nella teoria della rivoluzione e della violenza di Marx.

L’autonomia dei mezzi non resta senza fini: trascorre e si sviluppa in anti-fine, rovescio razionale e categorico dei fini del "progresso" e della "libertà" intorno cui, in epoca moderna, sono andati costituendosi i codici della rivoluzione. Discopriamo qui una non lieve manchevolezza del discorso benjaminiano: la violenza non può essere mai ridotta, né teoreticamente e né empiricamente, a crudo e nudo "regno dei mezzi"; essa è sempre e anche dimensione del telos, sfera del senso, campo di tensione poietica. La negazione delle componenti poietiche proprie alla violenza conduce:

a) sul versante della conservazione, ad un’acritica e intollerante apologia delle sue anti-finalità distruttive;

b) sul versante della rivoluzione, ad una inconsapevole sottomissione alle loro funeree cerchie simboliche e materiali, per il tramite di un’antropologia salvifica di carattere razionale (il Terrore), messianico-metafisico (il profetismo rivoluzionario) e calcolistico-combattente (la lotta armata).

La Restaurazione costituisce il paradigma migliore dell’apologia delle anti-finalità distruttive della violenza; mentre, invece, l’espressione meglio riuscita di antropologia messianica è possibile reperirla nell’indagine giovanile di Benjamin sulla violenza.

È l’angustia del codice della violenza mezzo che inibisce a Benjamin una tematizzazione precipua della violenza rivoluzionaria, facendolo permanere prigioniero della polarizzazione spuria tra violenza dei puri mezzi e violenza dei puri fini: tra diritto naturale e diritto positivo, ad un polo, e diritto mitico e divino, al polo opposto.

4.

I limiti della "critica della violenza" di Benjamin

La rappresentazione più conforme della violenza rivoluzionaria è data dal codice della violenza processo, di cui – come abbiamo visto – Marx ha disegnato le coordinate originarie. Stando così le cose, diversamente da quanto assunto in premessa da Benjamin, il compito primario della critica della violenza non si limita all’"esposizione del suo rapporto con la giustizia e con il diritto". Per Benjamin, una "causa agente" assume le forme della violenza, solo "quando incide in rapporti morali".

Così non è.

Le sfere di espressione della violenza travalicano i rapporti morali e si assestano ben più in profondità: irrompono in quei domini del senso, del simbolo e della cultura che costituiscono la rete primordiale su cui viene intessuto l’ordito della relazione esistenziale e dei rapporti giuridico-politici.

Se questo è vero, ne discende, molto stringentemente, che compito primario della critica della violenza non è l’esposizione del suo rapporto con il diritto e la giustizia; bensì la confutazione e la demistificazione del nesso di conferma/negazione che essa istituisce con la libertà. La stessa violenza rivoluzionaria, allora, trova nella libertà il suo campo di valida-zione/falsificazione: le forme pure della violenza divina, invocata/evocata da Benjamin, non possono sottrarsi a questa verifica.

Assestata a questo crinale l’analisi, siamo messi nelle condizioni di mettere in questione un altro dei punti cardinali della riflessione benjaminiana. Secondo Benjamin: "La critica della violenza è la filosofia della sua storia. La filosofia di questa storia, in quanto solo l’idea del suo esito apre una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Uno sguardo rivolto solo al più vicino può permettere tutt’al più un’altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e conserva il diritto". Solo la filosofia della storia, precisa Benjamin, è in grado di abbracciare la "lunga durata" del processo storico della violenza, sottraendosi alle oscillazioni unilaterali e povere di una lettura ciclica delle forme della violenza di volta in volta dominanti: violenza che pone o violenza che conserva il diritto.

Ma l’applicazione profetico-messianica della filosofia della storia alla analisi e alla critica della violenza non è in grado di aprire quella "prospettiva critica" e "separante" tanto inseguita da Benjamin. Se l’interruzione del ciclo delle forme mitiche del diritto e lo spodestamento del diritto, della forza e dello Stato vengono incardinati sulle forme della "violenza pura e immediata", il destino non può essere che lo scacco. La violenza divina, quale "violenza pura immediata" e "violenza immediata purificante", fallisce nello scopo che le si assegna: non può arrestare il corso della violenza mitica e nemmeno dissolvere la violenza giuridica.

Le ragioni dello scacco stanno esattamente nelle motivazioni da Benjamin poste a sostegno delle sue conclusioni: il sacrificio non solo non può essere preteso (violenza mitica), ma nemmeno accettato (violenza divina) e posto/conservato (violenza giuridica). L’Altro e l’Altrove che si incarnano e trovano rifugio ultimo ed essenziale nella "violenza divina" sono condannati a restare figure e possibilità virtuali deprivate di storicità ed esistenzialità. Dall’etica sacrificale del mito pagano-policentrico trascorriamo qui alla "terra promessa" del mito monocentrico cristiano-giudaico, senza che, nel mezzo, siano affrontate con la dovuta conseguenzialità le figure mitopoietiche dello Stato e del diritto borghesi; senza che, cosa ancora più decisiva, siano individuati figure e soggetti del conflitto e delle etiche conflittuali.

Esattamente al contrario di quanto argomentato da Benjamin, i soggetti del conflitto e le etiche conflittuali, in quanto soggetti ed etiche della libertà, non possono accettare il sacrificio purificante ed istantaneo, senza spargimento di sangue e di sofferenze, imposto da Dio quale "violenza che governa", in nome e in difesa del "vivente". Se lo facessero, abdicherebbero alla propria autonomia, al proprio senso, alla propria identità e alla propria libertà; porrebbero la violenza come matrice della loro esistenza e della libertà del tutto, mentre, invece, l’esistenza del tutto e la vita degli esseri umani solo in parte sono condizionate e determinate dalla violenza.

Esaltando la violenza quale condizione della liberazione e della libertà, non importa in quale dei suoi codici, delle sue forme e dei suoi archetipi, cose ed esseri viventi sarebbero deturpati della integrità e multiversità che caratterizza la loro esistenza e i loro potenziali di senso, il loro dolore e la loro difficile ricerca di felicità. Ma rimane indubitabile, così come voleva Benjamin, che è con le lenti della filosofia della storia che dobbiamo criticamente gettare lo sguardo sulla violenza politica. Solo che dobbiamo progredire da (i) un’applicazione profetico-messianica, dedotta da un modello di società a struttura relativamente semplice, ad (ii) una applicazione ermeneutico-ambientale della filosofia della storia, idonea a cogliere i discrimini identificativo/confutativi non solo del diritto, della giustizia e della morale, ma anche delle culture, dei simboli, delle identità e delle metamorfosi che hanno fatto irruzione nella struttura delle società complesse.