CAP. V

LA VIOLENZA POLITICA:

IL CASO DELLE BRIGATE ROSSE

 

  

 

1.

La violenza macchina

Ci proponiamo di leggere l’ideologia brigatista attraverso la filigrana di una filosofia della storia che la ponga direttamente in rapporto ai contesti sociali e agli ambienti che risultano da essa aggrediti. Più che circoscriverne la coerenza interna, per le quali si rinvia ai primi due capitoli, ci interessa qui estrarne la cifra storico-esistenziale più originale.

Se innovazioni l’ideologia brigatista ha apportato, esse vanno ricercate nel campo della filosofia e della cultura della violenza politica. L’elemento più caratteristico del corredo genetico del brigatista è quello che si nutre del credo filosofico nella violenza politica come catarsi armata liberatoria. Tale gene della conoscenza somiglia ad un albero che ha le sue radici piantate in alto e sviluppa i suoi rami e le sue fronde verso il basso, attraverso itinerari variegati, spesso anche in contrasto tra di loro.

Forse, questo è uno degli aspetti meno indagati dell’esperienza delle Br. Proprio per questo, merita una maggiore attenzione. Soprattutto, se il punto di partenza vuole (e deve) essere quello dell’autocritica.

Le Br riducono la violenza ad un fatto automatico. Diventando un automatismo, la violenza politica conosce una dimensione nuova: dai codici della violenza mezzo (e/o stru-mento) si transita ai codici della violenza macchina. Entro questa nuova codificazione, essa non conserva più alcuna traccia di creatività sognatrice: acquisisce le sembianze e il respiro gelido di un congegno. Al sogno impossibile, all’utopia irrealizzabile si sostituisce una pianificazione bellica. Ciò aiuta a dimenticare il sogno originario, che, rimosso, investe con un effetto di eclisse l’urgenza della riproblematizzazione e ricategorizzazione dell’utopia.

Così, sogno ed utopia vengono ossificati; così ossificati, sono irrealizzabili. ll capzioso processo di cancellazione dell’utopia originaria è occultato nello scenario dell’azione tramite: (i) la pianificazione bellica e i suoi effetti sociali; (ii) l’impiego della rimozione. L’utopia svanisce; subentra il furore. Il profetismo rivoluzionario scompare; subentra il freddo calcolo della guerra.

Parafrasando Marx, si può certo dire che il modificarsi della violenza da strumento a macchina toglie al suo detentore ogni controllo sulle sue regole di produzione. Come l’operaio massa diventa l’appendice della macchina, così il combattente comunista diviene l’appendice della violenza: misura del valore è là direttamente la macchina (e/o il sistema automatico di mac-chine); qui misura del valore è direttamente la violenza. Quest’ultima non è più controllabile, manipolabile e dosabile. Al contrario, è il nuovo "centro" di tutti i controlli, le manipolazioni e i dosaggi. Fonda su se stessa una nuova assiologia.

Quest’approccio, pur valido su una pluralità di questioni, appare ancora incongruo, costituendo una proiezione epistemologica dei limiti propri al codice della violenza processo. Il punto centrale è un altro. La sopraffazione operata dallo strumento sul suo detentore e, dunque, dalla macchina sul fine; la signoria esercitata dalla tecnica sul soggetto fanno sì che l’ideologia brigatista apra la strada ad una nuova "grammatica generativa" della violenza politica. Una grammatica che istituisce un rapporto di coincidenza diretta tra legalità ed esecuzione dell’azione combattente. Per il suo semplice esserci, l’azione combattente è legale; per il suo essere legale, deve esserci. Siffatta grammatica fa sì che il codice della violenza politica:

a) autoriproducendosi, si autolegittimi;

b) autolegittimandosi, si autoriproduca.

La violenza politica viene investita di un grado di autorità e pervasività pressoché assoluto. La sua legittimità e la sua autorità traggono ispirazione dal riadattamento distruttivo del mondo al programma combattente. La distruzione è qui anche nemesi storica: intende riportare la società borghese-capitalistica ad una forma ideale che non ha mai avuto e che, nondimeno, proprio il suo movimento rende possibile e attuabile. Nella grammatica brigatista, attraverso modalità inedite di messianismo armato, la violenza intende raccogliere la rivolta della storia contro l’ordine esistente, per emendarlo dalle sue tare millenarie. Essa diventa ontologia bellica della liberazione dell’umanità.

2.

La guerriglia : violenza scopo e violenza valore

Il passaggio marxiano dall’"arma della critica" alla "critica delle armi" viene surclassato. Risulta spostato su un orizzonte normativo che coniuga la violenza come finalità con la guer-riglia come forma e mezzo del processo rivoluzionario. Il codice elaborato da Marx della violenza processo viene soppiantato dal codice della guerriglia come causa e processo della liberazione comunista.

A base del tutto reperiamo l’esaltazione della violenza come forma. Qui la guerriglia è, per l’appunto, la forma di valorizzazione suprema della violenza: assurge alla funzione di violenza scopo. Nella crisi dei codici della violenza politica, la grammatica brigatista inserisce il suo intervento. Vive tale crisi, spostandone in profondità i termini. Risposta alla crisi dei codici della violenza politica è qui estrema radicalizzazione di questa crisi. La violenza strumento, la violenza mezzo, la violenza causa e la violenza processo, smarrite le specificità che le differenziano, passando per i codici della violenza macchina e della violenza scopo, danno luogo ad un’unica e assorbente figura: la violenza valore. Quest’ultima non è più un mezzo di proporzionamento dell’azione al fine.

Il passaggio alla violenza come valore consente di sottrarsi al giudizio etico tra "bene" e "male". Qui morale nella lotta di classe è solo l’esistenza della guerriglia. Le dimensioni dell’ umano, per la grammatica brigatista, competono unicamente alle prassi che eliminano il nemico di classe, essendo giustizia, libertà e felicità rinviate ad un altrove futuribile.

Sottratto il presente alla storia, rimane un futuro senza tempo che non giunge mai. La società perfetta diviene questo mai del tempo e dello spazio. Tutto si regge sulla promessa di una terra situata oltre la storia, capace di resistere e uscire dal rovinoso corso del tempo. Questa terra promessa, diversamente dal messianismo profetico medioevale (sia nelle forme egualitarie che in quelle elitarie), inghiotte la storia, se la smangia e la fa a brandelli; anziché redimerla.

Il presente perduto è compensato dal trauma del futuro. La società senza classi (il comunismo) è qui terra senza confini da valicare: storia finita, terminata e, perciò, senza limiti ulteriori da esperire. Questo futuro, tanto ebbro di sé da risultare completamente e sempre assente, diviene la tensione ad un presente in cui ognuno possa trovare la sua collocazione natale ferrea e ultimativa.

L’onnipotenza del fare rivoluzionario della lotta armata dovrebbe avere ragione del corso del tempo: in virtù di un alchimismo rivoluzionario, dovrebbe forzarlo e piegarlo al dominio degli uomini resi "liberi" e "consapevoli" dalla prassi armata. Come se fosse possibile abolire il tempo e con esso l’uomo e la donna, impastando tutto col calcestruzzo di profetiche regole astratte. Come se, al di fuori di questa idea glaciale di comunismo, non rimanesse nient’altro da attendere. Qui il comunismo viene sublimato in un’ontologia bellica.

L’enfatizzazione del tempo assente cancella il tempo presente. La parabola del futuro che non sarà mai diventa immediatamente distruzione delle cose, degli uomini e delle don-ne, consegnati al nulla più feroce. Non si sa più perché si vive e perché si muore. Divorato da questo meccanismo, il combattente comunista finisce persino col non sapere più perché uccide. Va, ormai, riducendosi all’insensatezza di un automatismo socio-linguistico, capace di riflessione solo entro il circuito ristretto di cui è, ad un tempo, prigioniero e custode.

Solo se riconduce a questo circuito chiuso le ragioni e le tensioni del suo operare, acquisisce una parvenza di coscienza alle sue azioni e alle sue volizioni, conquistandosi l’illusione di stare vivendo. Fuori del circuito è il caos, il disordine che non comprende, che sente ostile. Ritrattosi nell’ingranaggio, trova un’autolegittimazione in più: affossare quel caos e quel disordine di cui si sente vittima e che categorizza come tiranno dispotico della società e dell’umanità. Deve, allora, ritrovare le strutture del caos, la trama del disordine, gli uomini dell’ingiu-stizia e lì colpire. La sua vita è questo.

Questa corsa distrugge umanità, storia, cose e tempo. Passa dal nulla al nulla. In essa mai niente di veramente vivo accade. Si perpetua e pietrifica, così, una condizione di non essere. Da una vita senza presente a un tempo senza vita: ecco i poli che una tale corsa eternizza.

La guerriglia si ammanta di una sorta di diritto naturale; e non riduttivamente nel senso benjaminiano di violenza che pone il diritto e lo Stato. Il diritto naturale della guerriglia pone la violenza come valore: elabora una forma di decretazione armata, senza alcuna mediazione o rapporto normativo con la realtà, ma sovraimponendola alla realtà.

Parimenti, la guerriglia si costituisce come diritto positivo; e anche qui non riduttivamente nel senso benjaminiano di violenza che conserva il diritto e lo Stato. Il diritto positivo della guerriglia intende presentificarsi e sovraimporsi, in assenza dello Stato e dell’ordinamento giuridico che le corrispondono, la cui edificazione politico-normativa è differita ad un imprecisato tempo futuro. Essa si autogiustifica per intero entro il circuito delle sue finalizzazioni ideologiche. Se giusti sono i suoi fini, legittimi debbono essere i suoi mezzi, di qualunque tipo essi siano.

Non siamo niente affatto in presenza delle teoriche secondo cui "il fine giustifica i mezzi"; qui mezzi e fini si coappartengono e giustificano reciprocamente. La maglia complicata del rapporto tra mezzi e fini vede sovrapporsi e confondersi un termine con l’altro. È il mezzo stesso che è divenuto fine. Per parte sua, il fine non vive più in prospezione futura, da ap-prossimare attraverso necessari passaggi storici. Si ricalibra tutto sul contingente: è esercizio di violenza definalizzata, atta a riprodurre esclusivamente il circuito della propria sopravvivenza e della propria autoreferenza.

Nella grammatica brigatista, alla fine, l’utopia comunista è indiscernibile; eppure, in partenza, essa aveva alimentato più di un motivo di ispirazione. L’utopia diviene una sorta di co-meta lontana e sconosciuta, perdutasi nella notte dei tempi. Essa non sopravvive più nella memoria e nella coscienza del combattente comunista. Il passaggio evocato da Engels dall’ "utopia" alla "scienza" si realizza in forme letali: la "scienza" della guerra.

3.

L’autotrasparenza della prassi combattente

A questo limite estremo dobbiamo cogliere la crisi definitiva della "teoria classica" dell’organizzazione rivoluzionaria e dei suoi fondamenti, i quali possono così riassumersi: (i) conquistare un’organizzazione calibrata; (ii) muoversi dentro un quadro concettuale compatto, omogeneo e relativamente semplice.

L’ideologia brigatista aderisce a questo modello e, per superarne la crisi, lo stravolge. Viene alla luce un modello di organizzazione che agisce per scopi, tra i quali quello primario è la riproduzione della guerriglia su scala allargata. L’organizzazione si struttura in forma di sistema concepito come un ordinamento di relazioni interne, teso a riconnettere le masse alle pratiche della guerriglia.

Il modello è nutrito da una concezione gerarchica della società. L’ordinamento delle relazioni interne all’organizzazione crea rapporti di divisione del lavoro e di subordinazione che seguono ferreamente la scala gerarchica del modulo organizzativo (Direzione Strategica, Esecutivo, Fronti, Direzioni di Colonna, Brigate).

L’ordinamento interno fa in modo che l’organizzazione tenda a legittimarsi partendo da se stessa, configurandosi come un sistema che si apre per chiudere. La clandestinità stessa è concepita come supporto forte del grado di violenza politica esercitato e, nel contempo, come suo risultato riprodotto da un’economia scalare. La rete di relazioni e di rapporti entro cui essa viene inserita è nettamente distinta e separata da quella della società: la clandestinità è un universo parallelo e, in quanto tale, deve restare incontaminata dalle maculazioni apportate dai simboli e dalle forze dell’universo borghese. Involontariamente, essa finisce col fungere quale metro di misura del distanziamento estraneante tra l’universo brigatista e l’universo del reale.

L’universo brigatista rincorre l’universo del reale, per costringerlo entro un quadro storico angusto, simulato per intero dalla grammatica che lo corrode e plasma dall’interno. La rincorsa si palesa come memoria dell’oblio, ombra del tempo. Distanziandosi dalle realtà del presente, le Br non riescono a prendere congedo dalla mitizzazione e sacralizzazione della rivoluzione. Sono condannate e si condannano a non fare i conti con le linee morte che le cortocircuitano dall’interno. Del passato resta loro come appartenenza solo l’oblio della rivolu-zione, di cui riproducono spettralmente l’aura. Alla rivoluzione accade quello che Benjamin mostra accadere all’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

La storia diventa la dimora del continuismo e della reversibilità; la memoria, in particolare, il territorio delle trasparenti certezze.

Da qui, in determinazione ulteriore, trarrebbe origine la trasparenza della prassi combattente o la sua autoevidenza, che dir si voglia. A priori, ben definiti si farebbero i suoi contorni, in quanto la postazione dell’attore e dello spettatore è tutta rivolta al passato, la cui cornice si intende riprodurre, quasi stendendo una sorta di rete nervosa artificiale.

Una siffatta memoria non riesce nemmeno a ricordare, perché ricordare è trasformare. Si limita a riprodurre eventi su moduli fissi, già dati in una dialettica circolare. Soffre, così, per scarsità di vita: il deperimento organico è la sua condizione standard. La memoria qui non è altro che il polveroso magazzino di stoccaggio del passato.

4.

La razionalità funzionale dell’organizzazione della guerra

Totalmente ignorate sono le problematiche del rapporto con i sistemi sociali e l’ambiente. Privilegiata è la razionalità funzionale dell’organizzazione della guerra, la quale scandisce i tempi, modula le forme e riempie le pratiche della guerriglia. Tale razionalità funge pure come luogo di emissione di comandi a valenza binaria: (i) funziona come centro universale di modellizzazione; (ii) agisce come canale di legittimazione del potere che da qui si sprigiona.

L’emissione di comandi si ricongiunge inestricabilmente con il "problema dell’obbedienza": la razionalità connessa ai comandi richiede agli associati obbedienza in tempo reale. Ad un quadro certo e razionale di comandi deve corrispondere istantaneamente un quadro altrettanto certo e razionale di comportamenti. L’obbedienza impedisce che tra comandi e comportamenti insorgano delle contraddizioni.

Il rapporto comando/obbedienza appare qui regolato dal codice lineare causa/effetto. Ciò che qui affiora in superficie è una primitiva "teoria funzionale" dell’organizzazione e della società. La messa a punto della progettualità della lotta armata viene subordinata alle funzioni giocate dall’organizzazione, in quanto sarebbe quest’ultima a riprodurre la guerriglia come forma e mezzo del processo rivoluzionario. Tra il progetto della rivoluzione e la funzione dell’organizzazione della guerriglia è la seconda a prevalere: è la funzione che finisce col determinare il progetto.

Le pratiche della guerriglia non sono altro che lo spazio cieco in cui i comandi che dipartono dal centro gerarchico ricevono il massimo di obbedienza acritica. Nel contempo, divengono il luogo vizioso in cui le decisioni e le opzioni che ad esse hanno condotto fungono per l’esterno come vincoli di conformità. In un esterno ritenuto mancante di alternative possibili, la guerriglia tenta, così, di validare l’opzione combattente come unica strategia di cambiamento e trasformazione storicamente e politicamente praticabile.

5.

L’alienazione radicale

Pervenuti a questo strato dell’analisi, dobbiamo identificare un’ulteriore articolazione ambientale della grammatica brigatista.

L’intricato rapporto emissione di comandi/obbedienza si interconnette con lo "spirito di lealtà". La grammatica brigatista non tollera il mistero, le zone del dubbio, i paesaggi che sfuggono o restano in ombra. Le fenomenologie che essa non riesce a riportare a chiarezza vengono ridefinite e reinserite in uno scenario che è lecito classificare come quello della "cer-tezza maggiormente possibile" che è anche lo scenario della "possibilità maggiormente certa".

La realtà sfuma in una congettura che resta senza refutazione, con uno smarrimento totale e letale di tutti i nessi reali. Come non conosce la realtà, l’ideologia brigatista è totalmente inconsapevole di sé. Tale meccanismo impedisce alle Br di aprire un processo di riflessione critica su se stesse. Ciò che, dentro e fuori di loro, non è riportabile ai loro schemi cognitivi classificatori, viene assunto come nemico.

Il "nemico interno" altro non sarebbe che la proiezione e l’infiltrazione dei "nemici esterni" entro il seno della rivoluzione, figura articolata della maschera del traditore. Persino una posizione di dissenso interno, più o meno fortemente motivata, conduce alla messa in crisi della linearità della sequenza comando/obbedienza. In quanto tale, demonizzata e spiegata sul filo del tradimento. Di questa patologia Via Domodossola, con l’uccisione di due guardie giurate e l’infondata accusa di "tradimento" lanciata contro Natalia Ligas, ha costituito una delle espressioni più degradanti e allucinate.

Ciò che questa coazione allo "spirito di lealtà" evidenzia è la mancanza assoluta del vivere le esperienze reali e gli eventi del proprio tempo; come pure palesa l’assenza completa di una esperienza ricca del "vivere collettivo". L’attività pubblica delle Br è il proiettore che mette a nudo la povertà delle loro stanze private. Nessuna opera di ornamento può valere a coprire o velare la loro interiorità indigente. Nel "finale di partita", l’interiorità illusoria rimane senza maschere e il volto a lungo celato risalta in primo piano.

La verità è che la grammatica brigatista, nel mezzo e oltre il "disincanto" e il "dominio della tecnica", trasforma l’ottocentesca dialettica della violenza politica nella novecentesca cibernetica della guerra.

È la guerra che qui, fin dall’inizio, costituisce tutti i linguaggi possibili. Si riferisce sempre ad un parlante e ad un ascoltatore che, anche quando cambiano di ruolo, sono sempre tipicizzati come ideali, come forme idealtipiche presupposte. Tanto il soggetto parlante che l’ascoltatore sono inconsapevoli dei processi di produzione delle "frasi" che pure formulano, ascoltano, comprendono.

Precipitiamo nel baratro di una particolare situazione di "alienazione linguistica". Creatività e produzione di vita divengono uso passivo di leggi sovraindividuali, fuori dalla portata dell’ascoltatore e del parlante. Il quadro di coerenza tracciato dalla guerra diventa l’alienato criterio di misura e interpretazione della realtà. Subentra qui un automatismo ben più devastante: il ritenere sufficiente, per cambiare il senso delle frasi, variare semplicemente la forma, oppure semplicemente deviare dalla norma. Col che parlante e ascoltatore vengono drasticamente ridotti a utenti della guerra.

Tanto il "parlare normale" che il "parlare deviante" sono regolati e resi uniformi dai codici della guerra, integrati in sequenze binarie stimolo/risposta. Quello che qui si può fare è solo enumerare e selezionare, all’ombra della razionalità comunicativa combattente; non mai produrre, creare. Si possono solo riprodurre "funzioni matematiche" in termini belligeranti; niente di più e di altro.

Il dispositivo brigatista dà luogo ad un sistema autoregolato che va scarnendosi, a misura in cui si sovraccarica e ridonda ideologicamente e simbolicamente. Il combattente comunista, che nasce proprio introiettando regole autosufficienti e rigide, entro questo sistema autoreferenziale, finisce presto col non poter esercitare nessuna forma di sovranità. Le medesime "lingua" e "parola" non sarebbero prodotte, ma semplicemente scoperte nelle leggi di automovimento delle realtà sociali. I soggetti, non solo i combattenti, non possono interferire con tali leggi; né fuoriuscire dalla loro orbita o sottrarsi al loro comando. Non rimarrebbe loro che adattarvisi.

Da qui una psico-linguistica generale, secondo cui la guerra diviene l’unico sistema produttivo di senso e di valore. Insomma, la guerra diviene lo strumento di lavoro della guerra, nel senso più ampio del termine. Essa, cioè, compare come unico processo efficace di disalienazione. Il codice della guerra processo interagisce col codice della guerra valore, producendo una catastrofe ambientale. All’intersezione dei codici della guerra processo e della guerra valore, precisamente all’opposto di quanto supposto dagli schemi normativi e cognitivi della filosofia della storia brigatista, la violenza politica si disvela come estremo fattore di alienazione ambientale ed evacuazione dell’esistenza. Le tensioni catartiche immanenti nella grammatica brigatista finiscono col coniugarsi come tensioni distruttive, completamente definalizzate e svuotate dell’impronta della libertà e del messaggio della liberazione.