CAP. VI
LA VIOLENZA POLITICA:
IL CASO DI PRIMA LINEA
1. |
Al servizio dell’agire sociale rivoluzionario: la violenza strumento |
Ritroviamo in Prima linea una declinazione particolare del codice della violenza strumento, da cui dipendono la natura associativa dell’organizzazione e le stesse finalizzazioni politico-progettuali.
Se la violenza politica è contemplata come mezzo di un "progetto di liberazione", ne consegue che l’organizzazione che manipola lo strumento violenza assume la forma combat-tente solo in linea politica transitoria. In questa concezione, l’organizzazione armata medesima diviene uno "strumento", per uscire dallo "stallo politico" in cui sarebbero precipitati i movimenti; per "riaprire spazi", affinché "questi movimenti potessero esprimersi". Proprio per questo, per Pl, il passaggio alla lotta armata ha una sua intima "naturalità"; non segna affatto una cesura con le forme politiche di organizzazione e lotta dei movimenti. Da qui un doppio postulato:
a) la reversibilità dell’opzione combattente;
b) l’internità ai bisogni antagonisti dei movimenti di lotta.
Alla base del doppio postulato, sulle cui articolazioni insisteremo più avanti, v’è una particolare concezione della soggettività in generale; non solo e non tanto della soggettività rivoluzionaria e combattente.
Nel background teorico-culturale di Pl, la soggettività è sempre funzione della "liberazione dei bisogni": l’azione soggettiva rivoluzionaria è quella che non semplicemente libera dalla schiavitù dei bisogni, ma che invera i "bisogni umani ricchi", in un’ottica di emancipazione universale che ha il suo fulcro nella liberazione del e dal lavoro salariato.
Pl ha costantemente tenuto a precisare che i suoi referenti culturali erano il "marxismo critico" e l’"operaismo teorico". Certamente, molti e di non lieve peso sono i discostamenti rispetto alla tradizione critica del marxismo occidentale e alle teorie operaiste italiane degli anni Sessanta e Settanta. Nondimeno, a ragione Pl può rivendicare questa appartenenza culturale e questa colleganza ambientale, grazie cui è possibile, con maggiore rigore e fedeltà storico-politica, ricostruire i percorsi della sua identità.
Su questo background Pl impianta un discorso e una pratica della soggettività su cui si reggono le seguenti funzioni:
a) "servizio" reso al movimento;
b) "anticipazione" del movimento e dell’avversario;
c) "socializzazione" di un "sapere rivoluzionario";
d) "dilatazione" di "spazi sociali" ad uso del movimento e pro-liberazione
Siffatto approccio culturale delinea i rudimenti di una "teoria politica" (mai, del resto, sistematizzata; a differenza di quanto, invece, fanno le Br) che non prevede affatto la "rottura della macchina statuale"; bensì la "disarticolazione dei processi aggregativi e decisionali di quello che individuavamo come blocco anti-operaio". La linea di attacco si sdoppia in due funzioni principali:
a) la disarticolazione del blocco sociale avversario;
b) la supplenza dell’azione del movimento attraverso l’uso e la rappresentazione della forza.
Quanto più procede la linea di disarticolazione e si intensifica l’azione di supplenza, tanto più si mandano a segno le funzioni poste in capo alla soggettività combattente. Cioè, tanto più si dilatano spazi per l’agire sociale dei movimenti e si comprimono quelli dell’avversario di classe. La funzione cardinale della lotta armata, in questo impianto, è quella di rendere progressivamente superflua se stessa, ricostituendo le condizioni di un’offensiva di massa generalizzata contro il capitale, lo Stato e le classi dominanti.
In altri termini, all’opposto delle Br, la lotta armata non è una strategia di offesa, bensì di difesa. Il codice della violenza strumento si coniuga intimamente col codice della violenza difesa in funzione dell’attacco, del quale sono titolari le masse rivoluzionarie auto-organizzate, non già l’organizzazione combattente. Viene qui meglio in luce il nodo decisivo della "teoria politica" di Pl: ha rilievo non già la "conquista del potere"; bensì la delineazione di un contropotere sociale interstizialmente diffuso nelle "relazioni societarie".
2. |
La violenza tattica e la violenza funzione |
L’auto-organizzazione dell’antagonismo è la summa e, insieme, il veicolo soggettivo principale del contropotere sociale; la lotta armata è una funzione tattica di questa dinamica politica: un supporto, non già una variabile strategica. Per Pl, la lotta armata non riveste affatto un carattere fondazionale; ma è uno strumento tattico a sostegno della ripresa dell’antagonismo rivoluzionario, i cui spazi di azione conoscono una contrazione storica e politica. La funzione tattica della lotta armata qui è esattamente quella di riconferire socialità al discorso e alla prassi della rivoluzione, per socializzare l’esperienza della liberazione fino alla realizzazione del comunismo, attraverso la riproduzione allargata del contropotere.
Se l’asse strategico è quello dell’auto-organizzazione rivoluzionaria in prospettiva comunista, l’azione armata non può essere che una componente della riproducibilità degli spazi sociali e delle condizioni del contropotere. La violenza strumento, incarnandosi come violenza difesa, si codifica come violenza tattica e violenza funzione. Per meglio dire, qui la violenza politica è sempre: (i) tattica in funzione del contropotere sociale, (ii) collegamento inestirpabile all’antagonismo espresso dai cicli di lotta più maturi. Tra antagonismo rivoluzionario e lotta armata non v’è salto o rottura; ma un continuum: una complementarità logico-politica della seconda rispetto al primo.
"Uso della forza" e "organizzazione della violenza", entro questi codici, diventano una "pratica fondamentalmente utile per la costruzione di un contropotere". Ecco perché la scelta armata, in Pl, vive come un’opzione naturale, niente affatto separante a confronto dei movimenti di lotta e dei bisogni di cambiamento radicale da essi espressi. Nell’atto di fondazione di Pl si afferma una "naturalità nel passaggio alla lotta armata, che i più affrontavano nell’intima convinzione che fosse una forma reversibile del conflitto, diretta a creare (e ad essere assorbita) nuovi assetti sociali e nuovi scenari politici e normativi".
3. |
Il "circolo della reversibilità" e le sue contraddizioni |
La violenza armata acquisisce il carattere di una sovraespressione della violenza di massa, laddove questa vive una situazione di crisi. Nel punto/luogo in cui la violenza di massa riacquista profilo, consistenza e tenuta, entra in crisi la violenza armata e decade la sua necessità storica. Sta qui il circuito della reversibilità tra violenza di massa e violenza armata, il percorso di andata e ritorno tra i due poli del continuum. Su questo aspetto essenziale della posizione di Pl non si è riflettuto abbastanza, nonostante le numerose testimonianze che, in tal senso, da Pl sono venute.
Il circolo della reversibilità ha le sue regole ferree: come impone il ritorno dissolvente nel seno del contropotere antagonista, così esige l’innesco soggettivo dell’opzione combattente. Per un verso, è luogo avanzato della raccolta e dell’espressione dell’antagonismo sociale; per l’altro, forza costantemente gli orizzonti dati dell’antagonismo. Per un verso, segue e insegue l’antagonismo sociale; per l’altro, lo anticipa e costringe entro contesti linguistico-comunicativi che non gli sono propri.
Nel passaggio da un polo all’altro del continuum reversibile, si materializza un’aporia insuperabile, perché l’equilibrio della mediazione e della sintesi coi movimenti entra in rotta di collisione con la forzatura dell’anticipazione organizzativa. La prevalenza di una componente sull’altra mette in crisi alla radice la circolarità della reversibilità: sia nel caso in cui l’organizzazione armata si dissolva nell’antagonismo sociale; sia nel caso in cui l’organizzazione armata forzi il movimento antagonista e lo pieghi alle sue necessità. L’elemento della forzatura è qui ineliminabilmente interconnesso con quello della mediazione; meglio: è questa interconnessione a costituire l’assoluto specifico dell’universo di senso entro cui agisce e si muove Pl. Le oscillazioni delle pratiche, delle forme simboliche e delle espressioni politiche dell’esperienza di Pl nascono dalle modalità con cui, di volta in volta, si realizza l’interconnessione tra mediazione e forzatura.
Entro tali modalità acquisisce forma storica ed esistenziale il circolo della reversibilità. Quest’ultimo esiste sempre ed è sempre in crisi. Esiste sempre, perché Pl si porta sempre con sé le sue origini di "movimento sociale" in miniatura, anche quando più se ne allontana e, in qualche modo, le tradisce. È sempre in crisi, perché nel momento stesso in cui Pl si pone come movimento si nega come organizzazione armata; e viceversa. Le aporie interne alla reversibilità fanno sì che Pl sia destinata allo scacco sia nella veste di organizzazione di movimento che in quella di movimento per l’organizzazione.
L’aporia appena individuata è destinata a produrre esiti ancora più dirompenti. Le funzioni sostitutivo-rappresentative con cui viene investita e legittimata caricano di senso l’opzione combattente in una maniera sempre più ridondante, a misura in cui i movimenti conoscono situazioni di stallo o di vera e propria crisi. L’azione armata, proprio in virtù del circolo della reversibilità, aumenta di peso specifico esattamente nella proporzione in cui l’azione collettiva ristagna o ripiega, attribuendosi una funzione di recupero rigenerante della crisi dei movimenti.
A livello analitico, la progressiva "erosione degli spazi di iniziativa" dei movimenti viene interamente ricondotta all’intensificazione dell’azione repressiva dello Stato e all’escalation del livello di scontro determinata dalle Br con l’operazione Moro. Ancora di più: siffatta "erosione" viene interpretata come accelerazione della "tendenza alla guerra". In tal modo, effettivamente, l’"organizzazione combattente" va muovendosi verso l’"enfatizzazione" della "reale rilevanza" dell’azione armata, innescando un "meccanismo di autolegittimazione". Per mantenere aperto il circuito della reversibilità, l’azione armata si carica del compito di sostegno dei movimenti e, nello stesso tempo, deve sostenere un livello più alto di scontro con lo Stato, dilatando fino all’inverosimile il suo circolo chiuso. Ed è precisamente qui che si innesta un processo di avvitamento: "il "fine interno" della sopravvivenza e della legittimazione di sé, a partire dal proprio solo esistere ed operare, si sovrappone definitivamente a quello "esterno", secondo il quale la propria esistenza trova ragione nell’essere "funzione" di uno schieramento antagonista". L’avvitamento si porta con sé l’affermazione di un "principio "tecnologico" di funzionamento di regolazione di relazioni interne e di regolazione di quel poco di scambio con l’esterno che ancora sopravvive". "Il predominio della tecnologia" comporta due conseguenze letali:
a) la "conservazione come unico fine";
b) la "perdita di senso del proprio agire riscontrata soprattutto nel vuoto di valore, nella caduta e nella assenza di orizzonti trasformativi".
4. |
La precipitazione nel linguaggio della guerra e il "progetto bipolare" |
Tutti questi processi, interagendo e cumulandosi, danno luogo alla produzione del ceto combattente, per intero racchiuso e circonfuso nel linguaggio della guerra. È tale linguaggio che surroga i "bisogni antagonistici", incaricandosi, anzi, di realizzarli, in sostituzione del movimento reale. La partecipazione comunicativa al linguaggio della guerra surroga i "bisogni della liberazione", partecipando, per questa via, al "ciclo della guerra". Il modello culturale sottostante coniuga "l’idea della liberazione dell’uomo con i linguaggi e strumenti della guerra". In fase di bilancio autocritico, Pl legge in ciò un’"illusione" e un "errore":
a) l’illusione di "piegare il linguaggio della guerra ai bisogni di liberazione";
b) l’errore di ritenere che "la guerra potesse essere strumento utile alla liberazione".
La realtà, a differenza dai miti alimentati dall’illusione e dalle speranze coltivate dall’errore, si risolve "nella nostra partecipazione alla riproduzione allargata del ciclo della guerra, perdendo progressivamente per strada quelle stesse aspirazioni da cui ci eravamo mossi".
Se le aporie della reversibilità conducono alla partecipazione al ciclo della guerra, la teoria della bipolarità tende, in maniera spesso inconsapevolizzata, a dare soluzione sia alle contraddizioni presenti nel continuum della reversibilità, sia ai problemi della pianificazione e gestione della guerra.
Il "progetto bipolare" si configura come variabile atta a governare il difficile passaggio comunicativo tra movimenti e gruppo armato, nella prospettiva della collocazione (i) dell’or-ganizzazione sul terreno dei movimenti e (ii) dei movimenti sul terreno dell’azione armata, in una sorta di impossibile quadratura del cerchio. Nel progetto gioca un ruolo decisivo il "com-battimento diffuso" che proprio intorno alla "bipolarità" deve acquisire un "connotato organizzativo".
Secondo lo spirito originario del progetto, le "squadre" e le "ronde" sono, nel contempo, proiezione di Pl nei movimenti e dei movimenti in Pl, in modo tale che la dilatazione dell’azione armata sia consustanziale all’allargamento delle scale sociali del contropotere. Se è vero che la strutturazione dei due piani del progetto prevede (i) il "supporto nel cosiddetto combatti-mento proletario" e (ii) un "elemento di organizzazione" con una "propria pratica autonoma", è altrettanto vero che la bipolarità ha l’ambizione di ricondurre ad unità i due elementi di per sé alteri, determinando un superiore livello di sintesi; di più: socializzando e massificando questa sintesi.
In altri termini, la bipolarità ha l’aspirazione di fungere, di fatto, come (i) vettore strategico di organizzazione della guerra di liberazione comunista e (ii) anello di congiunzione indissolubile tra movimenti di massa e azione armata: sia per dare coerenza organizzata ai "bisogni di liberazione" che per radicare massivamente gli strumenti belligeranti della liberazione. Diversamente dalle Br, non siamo davanti alla prefigurazione di un "sistema di potere", perfettamente compiuto in sé e perfettamente alternativo a quello dominante; piuttosto, si intende privilegiare ed alimentare un rapporto sociale di conflittualità permanente che va estendendo e radicalizzando il contropotere come forma altra di "cooperazione sociale" e di "vita comunitaria": la "guerra di liberazione" viene coniugata secondo questa particolare accezione.
Entro questo scenario, la violenza difesa si fa violenza senso: lo strumento di difesa della violenza acquisisce il senso del comunismo, esattamente attraverso una guerra di liberazione. Qui è la sensatezza e la ricchezza di senso della guerra di liberazione comunista che si oppone alla insensatezza e alla povertà di senso della realtà vigente.
L’"inagibilità della piazza" per i movimenti antagonisti, sulla base della "teoria della reversibilità" e del "progetto bipolare", conseguenzialmente, non può che essere interpretata in funzione della massimizzazione dell’"interdizione armata", la quale finisce con l’essere: (i) l’unica garanzia di fronte alla "minaccia autoritaria"; (ii) lo strumento di conversione sublime dei "bisogni di liberazione" dal terreno virtuale a quello effettuale. Così, l’incrementalità operazionale della interdizione armata si autoinveste di una rilevante funzione politica, calibrata ad hoc per le fasi di disgregazione, come quella che conduce all’operazione Moro e che da questa si approfondirà a dismisura: assicurare la "circolarità del dibattito", il "confronto" e la "discussione" a quel "potenziale" antagonista che altrimenti avrebbe perduto la sua "rappresentanza" e la sua "identificazione".
5. |
Il "moto macchinico": la violenza inerzia |
Non siamo qui in presenza della teoria del "foco guerrigliero", poiché l’azione armata non intende fungere da puro e semplice "detonatore" dell’azione di massa. Al contrario, essa si pone lo specifico obiettivo di ricostruire le condizioni della "circolazione" del rapporto sociale antagonista in tutte le sue componenti autonome, ponendosi il fine esplicito di riattivare l’interezza del flusso relazionale tra auto-organizzazione proletaria e transizione comunista. Proprio per questo, essa finisce col sostituirsi all’azione di massa, laddove questa attraversa difficoltà di manifestazione, oppure vive una stagione di crisi.
Anziché ripristinare l’integrità dell’habitat relazionale antagonista, l’azione armata finisce col supplire all’azione di massa, senza formulare interrogativi pertinenti intorno alla crisi dei movimenti e alla mancanza di legittimazione della prassi combattente. Si verifica un lacerante paradosso: quanto più i fattori della reversibilità e della bipolarità tendono a rafforzare la dialogica combattimento/movimenti, tanto più l’organizzazione armata si separa dai movimenti e si isola nell’agone belligerante che la contrappone alle "strutture di comando" dell’impresa e dello Stato.
L’esserci dell’organizzazione armata condensa in sé: (i) le funzioni di movimento; (ii) le funzioni di "disarticolazione del comando". Ma nel primo caso, suo malgrado, si ritrova irrepa-rabilmente separata dai movimenti e dalle loro condizioni di esistenza/riproduzione; nel secondo, si confronta con un potere smisurato con mezzi impropri ed inefficaci. In tutti e due, ciò che è rovinosamente occluso è proprio il passaggio di fluidificazione tra auto-organizzazione proletaria e transizione comunista, a cui, pure, si intende lavorare.
La precipitazione in tale automatismo organizzativo è attivata dall’operazione Moro e dai suoi effetti politico-sociali; ma il "moto macchinico" non ha solo questa causale esogena; più al fondo, e ancora prima, ha una causalità endogena che trova nei meccanismi della reversibilità e della bipolarità il suo motore mobile. Per effetto di questo meccanismo di causazione interna, con l’operazione Moro, Pl non entra in crisi e/o si dissolve, al pari di quasi tutti i gruppi armati minori; all’opposto, apre la sua breve, ma intensa "stagione di fuoco". L’operazione Moro segna, sì, uno "spartiacque", ma il mutamento di rotta delle strategie e delle forme organizzate di Pl trova proprio nel codice genetico originario uno dei suoi motivi di innesco. È sulla scorta di tale codice, difatti, che avviene l’interpretazione della realtà e dei suoi mutati quadri storico-sociali.
Come abbiamo cercato di dimostrare, l’esaltazione del ruolo e delle funzioni dell’azione armata è tanto un paradosso quanto una risultanza razionale e coerente del dispositivo di fon-dazione funzionale di Pl. Siffatto dispositivo è, ad un tempo, causa e vittima degli effetti controintenzionali della prassi combattente. È il circolo chiuso della reversibilità e della bipolarità che qui si dilata e deflagra per vie interne, irrigidendo e parzializzando le condotte della decisione politica e dell’azione sociale. Stanno qui le ragioni primarie dell’enfatizzazione tragica delle funzioni della prassi combattente a cui Pl contribuisce nella fase 1979-1980; non già in un puro e semplice gioco competitivo con le Br, come, invece, è stato troppo spesso e troppo riduttivamente assunto.
Da un lato, l’omicidio politico e la morte appaiono come un "tremendo vincolo"; dall’altro, tutti i canali di formazione della decisione e dell’azione si sclerotizzano, dando vita a dei veri e propri automatismi inerziali: "In quel terribile vortice di pulsioni di morte, di vita impossibile, il nostro sarà essenzialmente un "andare avanti" in una consapevolezza sacrificale poiché incapaci di trovare vie d’uscita ... Ci era impossibile fermarci, impossibile ritirarci...". Il codice della violenza senso, nella destrutturazione progressiva della teleologia simbolica assunta come riferimento etico-valoriale, slitta in violenza inerzia. L’automatismo interno al dispositivo combattente si salda perfettamente con gli automatismi sociali sprigionati dal dispositivo dell’emergenza, entro cui, a pieno titolo, rientrano le prassi dell’organizzazione armata. Quest’ultima, dall’intenzionalità di "soggetto della liberazione", passa all’effettualità di soggetto dell’emergenza. A questo esito approda tanto il codice della violenza valore delle Br che il codice della violenza inerzia di Pl. Ed è, appunto, nel seno di questo contesto effettuale che trova piena collocazione e matura spiegazione quel "moto macchinico autolegittimante, inerziale che si affermerà come caratteristica dominante delle organizzazioni combattenti".
6. |
Il gioco simbolico della minaccia: la tensione all’assoluto |
Secondo il codice proprio alla violenza inerzia, l’azione armata finisce con l’acquisire il carattere della minaccia: meglio, diviene una variabile soggettiva che partecipa al gioco sociale della minaccia. La valenza dell’azione armata è quella di essere una minaccia virtuale elevata disperatamente avverso la contro-minaccia delle "strutture del comando": una sorta di rivoluzione simbolico-preventiva contro la repressione e l’autoritarismo in atto.
La minaccia come surrogato di rivoluzione intende funzionare, di fatto, anche come destrutturazione psicologica dell’avversario e autostimolazione psico-politica. A sua volta, l’autostimolazione politica funge, in maniera altrettanto fattuale e inerziale, come strategia di offuscamento e rimozione della crisi di fondazione e legittimità dell’opzione armata; non solo e non tanto dei movimenti, poiché qui è proprio la "disgregazione" dei movimenti che l’ipotesi combattente intende recuperare. La complessità, la profondità e l’opacità di questi processi attribuiscono un "valore simbolico terrificante" all’azione armata, in una sproporzione inaudita tra la valenza reale dell’azione e l’immagine simbolica che di essa viene veicolata dai media.
La dilatazione abnorme del valore simbolico dell’opzione armata conduce ad una messa in positivo, ad una vera e propria positivizzazione, dell’omicidio politico e dei sottostanti sistemi etico-normativi di giustificazione. Alle spalle di siffatta implosione di senso c’è una realtà drammatica: l’organizzazione armata si costituisce come comunità assoluta, partecipe, a metà, dei valori e delle culture dell’antagonismo sociale diffuso e, per l’altra metà, in posizione di comando autoritativo e destabilizzante rispetto a queste culture e questi valori. In virtù dell’esistenza assoluta che conduce e/o crede di condurre, la comunità combattente si attribuisce il ruolo di legislatore universale del progetto di liberazione e di riproduttore artificiale dell’antagonismo diffuso.
La tensione all’assoluto vale anche come attivazione di una crescente e assoluta separatezza dai temi e dai problemi che divengono oggetto della mobilitazione collettiva. Ciò è già vero a confronto dei cicli di lotta operaia degli anni Sessanta e dell’autunno caldo; lo diventa ancora di più, e ancora più tragicamente, rispetto alle lotte dei "nuovi movimenti" intorno al senso e all’identità che si aprono nella prima metà degli anni Settanta.
Ragionando in termini di referenti sociali, se le Br male interpretano e destrutturano i contenuti e i messaggi delle lotte operaie degli anni Sessanta e del principio dei Settanta, Pl si approccia ai cicli delle lotte sociali degli anni Settanta con un’ermeneutica altrettanto destrutturante, la quale legge il senso e l’identità esclusivamente attraverso i codici dell’immaginario bellico. Ora, questo percorso disegna un progressivo impoverimento di senso; per essere più precisi: carica l’opzione armata di una crescente povertà di senso, in contrapposizione alla pluralità e ricchezza di senso, non di rado contraddittoria e problematica, di cui sono portatori i movimenti sociali.
All’impoverimento del senso è indissolubilmente correlato un non meno letale processo di indebolimento dei percorsi di costituzione dell’identità. Impoverimento del senso e indebolimento dell’identità rappresentano le due lame incrociate di una contraddizione catastrofica che agisce a livello individuale, più e prima che sul piano collettivo: la fredda razionalità del privilegiamento delle pulsioni della morte e dell’aggressività, di contro alle pulsioni della vita, dell’etica della comunicazione e della dialogica della libertà. Sono queste le condizioni strutturali e ambientali che condurranno Pl a quella "concentrazione spaventosa di fatti", al "salto mostruoso" verso la "nemicità totale", premessa del "crollo spirituale" e del "tramonto del-la speranza", che data all’epoca successiva all’operazione Moro.
7. |
Verticalizzazione dello scontro e conseguenze etico-esistenziali |
Nell’ultima fase, la battaglia politica interna tra "l’ipotesi espansiva" e quella tendente alla "centralizzazione" viene superata dagli eventi e dai meccanismi interni al dispositivo della belligeranza. L’intera organizzazione si va progressivamente assestando sulla linea della verticalizzazione assoluta dello scontro, nel percorso politico-organizzativo che va dalla "Conferenza di Bordighera" del 1979 alla "Conferenza di Morbegno" del gennaio del 1980.
Sintomatiche sono, sul punto, le scelte di Pl intorno alla clandestinità. Fino ad allora, Pl ha sempre e recisamente rifiutato la scelta della clandestinità assoluta, optando per la semiclandestinità; ciò in ossequio sia alla teoria della reversibilità che all’habitat culturale e mentale tipico dell’ambiente e dei soggetti da cui trae la propria linfa. In un documento di organizzazione, la semiclandestinità viene così definita: "È opportuno spiegare il significato di semiclandestinità. Esso non vuol dire, come purtroppo pensano molti compagni, che sia consentito essere un po’ meno vigilanti dei clandestini e che il militante possa parlare con facilità in giro, cercare proseliti a suo criterio o partecipare a manifestazioni di strada ostentando una pistola come fosse una spranga. Il "semi" vuol dire soltanto che il militante ha un ambito di lavoro legale e uno illegale distinti tra di loro. Naturalmente nell’ambito legale il militante può fare propaganda politica, cercare di capire quale consenso ha la lotta armata fra le masse, partecipare alle azioni di massa, ma sempre dando l’impressione di essere uno dei tanti che arrivano al corteo e alle spranghe e non alla rivoltella". Nell’ibrido delle forme della reversibilità e della bipolarità, la semiclandestinità produce singolari figure di clandestino pubblico , in una soluzione di discontinuità eternamente irrisolta tra l’assoluta illegalità e l’assoluta legalità, con le non lievi ripercussioni negative nel rapporto di comunicazione coi movimenti e nel confronto belligerante con il dispositivo di "comando sociale" che abbiamo esaminato nelle pagine che precedono. La teoria della semiclandestinità è una sorta di duplicazione esterna dell’esserci dell’organizzazione armata e dei suoi associati: essere scissi fuori di sé, nel territorio relazionale in cui si dimora e che si abita esistenzialmente e politicamente. Aderendo, nel dopo Moro, alla teoria della clandestinità assoluta, Pl introverte il meccanismo della scissione, dando luogo – esattamente come le Br – ad un processo di duplicazione schizoide interna.
L’organizzazione e il singolo militante gestiscono tale fenomeno interno di dimidamento solo in virtù dei vincoli morali e degli automatismi etici assorbiti, per il tramite dei modelli e delle forme simboliche della comunità radicale che – come abbiamo visto – pone se stessa come tensione all’assoluto. Ma si tratta soltanto della gestione temporanea di un processo esplosivo che di lì a poco deflagrerà. Il fatto è che il meccanismo etico-simbolico e storico-politico di autolegittimazione della comunità combattente non è creativo, come si ritiene e spera, di forme nuove di antagonismo sociale; né è portatore di nuovi e più ampi spazi di libertà e liberazione. L’iniziale accettazione della violenza strumento e i successivi passaggi alla violenza difesa, alla violenza tattica, alla violenza funzione, alla violenza senso e alla violenza inerzia causano la devalorizzazione estrema proprio di quella soggettività sociale che Pl intende difendere e sviluppare.
Dall’estate del ‘79 in avanti, la "macchina del salto di qualità" toglie definitivamente prospettiva all’opzione armata di Pl che scade ad un atteggiamento comportamentista, governato dalla razionalità del servomeccanismo stimolo/risposta. La dimensione catartico-sacrificale di tale esito sta in quell’azzeramento dell’essere che compare come morte del tempo che, istantaneamente, si traduce in tempo morto e morte dell’esistenza; e tutto ciò a prescindere e ben prima dell’esito finale del carcere e/o della morte.
Lungo questi tornanti, la morte non compare semplicemente come futuro ; bensì fa la sua irruzione in questo presente, da cui divora tutte le scansioni del tempo, non solo il futuro. La prospettiva della "guerra di liberazione comunista", vissuta anche come "bisogno di vivere in un eterno presente" , si rovescia nella pietrificazione del tempo e dei bisogni vitali. Il tempo ricco di occasioni dell’eterna militanza è totalmente sospeso sul bilico della storia e non fa mai il suo ingresso nei mondi vitali; in sua vece, irrompono l’inarrestabile declino del tempo delle occasioni e la perdita irrimediabile dei tempi e delle forme della vita.