CAP. VII

LA GUERRA OLTRE LA SOCIETÀ.

PARADIGMA E SCHEMI DELLA LOTTA ARMATA

 

 

 

 

1.

L’intreccio di etica e politica, i movimenti e l’irruzione della guerra

Per conquistare la perfezione e l’innocenza, contaminate prima e stroncate dopo dal senso borghese-capitalistico delle cose della vita, la lotta armata – come abbiamo visto – si separa violentemente dai mondi vitali. La separazione dai mondi vitali si sviluppa, con effetto immediato, in perdita dell’innocenza e della perfezione anelata.

La lotta armata, insediandosi e per esserci, resta orfana dei propri mondi etico-simbolici, senza, peraltro, riuscire mai ad assumerne la necessaria consapevolezza. Il suo ethos e il suo logos, combinandosi, danno luogo ad una miscela esplosiva. Presupposto fondativo della lotta armata è stata una finalizzazione etica, è stato un sistema di identità e di valori: la fissazione ideale e ideologica, prima ancora che storica, di un orizzonte di "società giusta", la società comunista; ossia la perfezione utopico-ideale tradotta e organizzata in società attra-verso il ‘politico’. Alla radice della lotta armata v’è, dunque, un logos progettuale in cui è reperibile una strettissima interconnessione tra etica e politica.

Fine e valore della politica, come in una lezione che risale ai Sofisti, a Socrate, Platone e Aristotele, restano il "giusto", la "vita buona". L’elemento utopico e programmatico presente nel nucleo della riflessione politica ed ermeneutica dei grandi pensatori greci, che da Machiavelli e Hobbes arriva fino a Locke, Rousseau e Marx e da Lenin fino a Mao, viene ritradotto "comunisticamente". Su questa "base comunista", pur non conseguendo necessariamente e assiomaticamente da essa, trova la sua scaturigine motivazionale l’uso della "forza fisica" e della lotta armata come mezzo di coercizione e "risoluzione strategica" delle contraddizioni sociali.

Ma, in questa architettura, etica e politica non si fondono (come nel pensiero politico greco), né si dissociano (come nel pensiero politico moderno), né si elidono (come in gran parte del pensiero politico contemporaneo). Piuttosto, si supportano a vicenda: dove non arriva la politica, là subentra l’etica; e viceversa. Parafrasando un celebre enunciato polemologico: l’etica "continua" la politica, ma con i mezzi dell’etica; la politica "continua" l’etica, ma con i mezzi dell’etica. In questo modello teorico e questa struttura genealogica, etica e politica si erodono l’un l’altra, l’un l’altra divorandosi. Si fondono, si dissociano ed escludono in un unico composto esplosivo, a volte indivisibile e altre schizofrenicamente lacerato e irricomponibile.

Il sistema dei fini etico-politici che costituisce la rete di senso e, insieme, la mappa fondativa dello sviluppo della lotta armata rivela un’abissale eccentricità rispetto ai flussi più profondi dell’accadimento storico. Esso non metabolizza le immani trasformazioni di cultura, del ‘politico’ e del ‘sociale’ che hanno segnato il trapasso dalla società moderna a quella contemporanea (in una parola: la "secolarizzazione"), restando in posizione di estraneità al suo cospetto. È questa indigenza abissale del "profondo" dell’ethos e del ‘politico’ che, a fortiori, non può far "vedere" e "ascoltare" la società complessa, la cui nascita in Italia segue l’intensissima fase di "accumulazione originaria" che va dalla ricostruzione al "miracolo economico". Piazza Statuto e il biennio 1968-69 parlano già di una "complicazione sociale" dei conflitti e del loro rapporto con le istituzioni politiche, sociali e culturali; stanno già oltre lo schema e la struttura dell’industrialismo celebrato dalle analisi della lotta armata.

La lotta armata, pur nascendo dentro un’insorgenza sociale di conflitti, dà un’interpretazione regressiva della mobilitazione collettiva degli anni Sessanta e Settanta, non condividendone né il senso, né il destino. La sua internità regressiva alla conflittualità sociale la porta ad avere, contemporaneamente, una base relativamente di massa e uno sviluppo sempre più divaricato dalla dinamica di processo descritta dai movimenti dell’azione collettiva. Questa contraddizione originaria è una delle ragioni primarie del suo fallimento e della sua sconfitta. Essa fallisce nell’atto stesso di insediarsi, poiché gli sbocchi delle trasformazioni sociali e della mobilitazione collettiva la trascendono tanto sul piano politico quanto su quello del senso. È sconfitta, allorché la divaricazione originaria, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, perviene al punto estremo di rottura. In ambedue i casi, i movimenti le sopravvivono: lavorano ad altre modificazioni di senso, ad altre esperienze di cambiamento, di socialità e socializzazione. Il declino dei movimenti parla di un’altra crisi; non di quella della lotta armata. Come la crisi della lotta armata non parla della crisi dei movimenti. Soltanto in un processo di grande estensione storica, la "lunga durata", crisi della lotta armata e crisi dei movimenti possono essere legittimamente inscritte in un contesto unitario.

Se così stanno le cose, è agevole demistificare un diffuso quanto inconsistente luogo comune. Quello secondo cui la lotta armata non avrebbe fatto altro che portare epigonalmente alle estreme conseguenze il teorema maledetto della politica: "il fine giustifica i mezzi". Che sarebbe come dire: il fine politico della lotta armata ha soppiantato il fine dell’etica. Oppure, ancora più pervasivamente: i mezzi della politica (della lotta armata), nel perseguimento del fine (politico), sono negatori dei fini dell’etica e perciò stesso affossatori dei mezzi dell’etica.

Il punto è, invece, un altro: è proprio un sistema di fini di natura etico-politica che fonda la scelta della lotta armata. Il nodo irrisolto non sta nell’intreccio di mezzo e fine, anche se pure di questo si tratta; ma in un non sufficientemente problematizzato rapporto tra etica e politica, in cui fini etici e fini politici si sospendono alternativamente e a rotazione. La questione è esattamente questa: nella grammatica della teoria e prassi della lotta armata convivono un’etica integralista e una politica fondamentalista, egualmente universalistiche e totalizzanti.

Il fondamentalismo politico come non aveva letto la "secolarizzazione", così non legge la "complessità sociale". L’integralismo etico si sostituisce alla politica nella presa delle decisioni estreme, giustificando la terribilità e la tragicità delle scelte e degli eventi limite, facendoli rientrare in un duro e tremendo destino di necessità storiche in movimento verso l’emancipazione integrale della comunità umana. È sempre una cattiva infinità politica che sospende l’etica; è sempre un intransigente integralismo etico che sospende la politica. Dalla cattiva infinità politica discendono i guasti più tragici per l’etica; dall’integralismo etico conseguono le maggiori perversioni della politica.

Nel modello culturale e operativo della lotta armata:

a) il ‘politico’ compare come lo strumento di traduzione progettuale e di prefigurazione organizzativa della "società giusta";

b) la guerra diviene il vettore che, squarciando le barriere del ‘politico’, intende redimerlo, per trarlo dall’impaccio frenante dei firmamenti di senso dati per, così, riconsegnare prospettive positive all’ethos della rivoluzione: l’opzione politica della "guerra di liberazione" si configura come il linguaggio della libertà, l’unica parola a favore della "società giusta".

Conseguenzialmente, l’esserci rivoluzionario arriva a configurarsi come comunità politica in guerra, per realizzare fini etico-simbolici. Nel dispositivo cognitivo della lotta armata, diversamente da quanto è dato di vedere negli apparati logico-materiali dell’economia e delle politiche di guerra, non è la società ad essere organizzata per la guerra; bensì è la guerra ad essere organizzata per la società. La guerra, cioè, è passaggio attivato dalla necessità di pensare e realizzare un nuovo modello di società, una nuova organizzazione dei rapporti sociali; non semplicemente un nuovo ordine politico e/o un nuovo equilibrio nelle relazioni internazionali.

La comunità combattente si costituisce come comunità della guerra, in quanto comunità assoluta. La tensione all’assoluto che l’anima è esigenza di un ribaltamento delle forme date; è bisogno assoluto di forme nuove.

La formatività peculiare della guerra è qui quella di essere contro la società vigente e per la società del futuro possibile e necessario: il comunismo. Siccome la società vigente è da ro-vesciare e quella del futuro non può essere più di una prefigurazione, la guerra, più propriamente, si posiziona oltre la società.

La guerra oltre la società: ecco denudato il paradigma della lotta armata. In quanto tale, la lotta armata non intende essere una pura determinazione militare; né un mero strumento della politica. Nel corso del suo "fare", la guerra deve storicizzare, inventandole ex novo, le modalità stesse del "fare comunista"; mancandole, si incammina verso il baratro della perdita dei suoi fondamenti politici e dei suoi valori etici.

Il circolo chiuso originario della lotta armata nasce e si consuma per intero entro questo movimento:

a) per costituirsi, essa deve: (i) pensare un orizzonte sociale ed etico-normativo al di là delle linee di confine del dato; (ii) collegare inestricabilmente la propria esistenza simbolica e politica all’inveramento di altre forme di relazione sociale;

b) semplicemente esistendo, distanzia nel "mai" del tempo e della storia se stessa e il suo sistema valoriale.

Si costituisce, per storicizzare i valori comunisti; dando consistenza storica e politica alla sua esistenza, destoricizza e vanifica proprio questi valori. Nella pragmatica della razionalità della lotta armata, il logos fondazionale è destinato a perdere l’ethos finalistico; in origine, invece, logos ed ethos, ‘politico’ ed etica sono indistintamente avvinti.

La lotta armata finisce con l’operare in un circolo chiuso. Quanto più le scale del circolo chiuso vengono riprodotte, tanto più si approfondisce ed allarga la controfattualità della razionalità combattente. Il dato più inquietante e controproducente del processo è che tale controfattualità stende un velo di opacità impenetrabile sull’assiologia assunta come luogo originario delle fondazioni, impossibilitando la rimessa in questione delle categorie politico-esistenzali portanti: il comunismo e la rivoluzione. Più che come variabili progettuali e mappe di senso storicamente esperibili, il comunismo e la rivoluzione vengono presupposti come invarianti: cioè, come tradizione ereditata che si tratterebbe semplicemente di realizzare, attraverso la socialità della guerra. Laddove l’inveramento del comunismo e della rivoluzione manca o tarda, la responsabilità viene per intero ricondotta all’immaturità delle condizioni storiche e/o attribuita agli errori soggettivi dell’avanguardia rivoluzionaria.

La crisi della rivoluzione e del comunismo è vissuta a livello subliminale e la guerra è, appunto, la soluzione simbolico-esistenziale che illusoriamente consente di porsi oltre i contesti di crisi del comunismo e della rivoluzione. In questa posizione, (i) l’indiscutibilità della guerra è (ii) la proiezione coerente dell’infallibilità del comunismo e della rivoluzione, divenendo ognuna (iii) il supporto dogmatico-fideistico dell’altra.

Diventa decisivo insistere sull’aspetto poietico del paradigma di cui stiamo cercando di sezionare gli schemi logici chiave.

2.

Fare poietico e antropologia della guerra

Ci ricorda L. Pareyson che il "fare" è il semplice attenersi ad un progetto; mentre il "formare", nel corso del "fare", inventa ed elabora i "modi" del fare. Solo in questo caso, l’opera fatta è "formata" e il fare è "formativo". Il "fare formando" è un fare formativo e l’opera che ne risulta manifesta la sua singolarità e la sua unicità, sia nel senso che promana da regole poietiche inedite che in quello che non somiglia a niente altro dell’esistente dato.

Ora, il fare poietico della "guerra oltre la società" non si qualifica come un fare formativo e nemmeno come un puro e semplice fare. Non è un fare formativo, perché non è inventivo di "modi di fare" nuovi e di nuove forme relazionali; non è un puro e semplice fare, poiché non si attiene alle regole poietiche vigenti. Il suo carattere poietico giace irrisolto a metà strada tra il fare formativo e il puro e semplice fare: è un "non fare", sia rispetto al fare formativo che al puro e semplice fare. Il suo fare come non si subordina alle regole generali riconosciute, così manca l’invenzione, la "formatività", di regole creative inedite.

Proprio perché si disloca tutta intera fuori della società, la guerra viene qui macerata e consunta da una poietica negativa. La violenza che ne discende non è meramente violenza definalizzata, ma violenza simbolo e violenza simulazione. Sono i simboli della violenza che ora simulano i linguaggi, le parole e i mondi della liberazione. Da questo sottosuolo incandescente trae inesauribile alimento il "valore simbolico terrificante" dell’azione armata, tanto più forte e devastante quanto più sono disattese le gerarchie e le obbligazioni etiche che avrebbero dovuto conferire un’identità comunista alla guerra.

Situazionandosi oltre la società, la guerra, dunque, resta prigioniera non solo di un’etica negativa, ma anche di un’estetica negativa: non è formativa né di etiche e né di forme; né di "modi di fare" e né di un’"arte del fare". Pur ardendo e consumandosi intorno al fuoco del desiderio febbrile di etiche e forme matrici di libertà e liberazione, essa svanisce, facendo svanire il suo oggetto. E si dissolve, senza nemmeno essersi mai interrogata sul carattere di verità/falsità del comunismo e della rivoluzione; senza aver mai elevato il dubbio intorno all’ assioma della priorità logico-etica e politico-linguistica del comunismo e della rivoluzione a confronto della libertà e della liberazione.

Ma il connotato poietico negativo non impedisce alla lotta armata di fungere quale agente simbolizzatore, in quanto essa produce e usa segni, disegni e simboli ben specifici e, a loro modo, irripetibili. La carenza di formatività che la contraddistingue, indagata da vicino, si risolve nella riproduzione di "modi di fare" assoluti che, per quanto non creativi di senso, non mancano di avere una loro cifra poietica. Proprio per il suo contemporaneo non essere né (i) un semplice fare e né (ii) un fare formativo, la guerra, nello spezzare tutti i legami e le barriere sociali che la vincolano, si sradica.

Il processo simbolizzatore negativo attiva qui come suo prodotto precipuo forme particolari di straneamento e di sradicamento. Per essere più precisi: il selettore simbolico attivato dalla guerra prende origine da una condizione di sradicamento e riproduce in maniera macchinica allargata sradicamento e straneazione. Le radici dell’opera di rivolgimento rivoluzionario sono come collocate fuori del fluire ininterrotto del tempo e in uno spazio desertificato da un desiderio di rigenerazioni assolute, puntualmente deluse e/o differite.

Il futuro è evocato e desiderato attraverso il filtro della redenzione salvifica, propria già dei sogni e dei bisogni millenaristici. Qui la redenzione catartica poggia sul dualismo che contrappone la società del segno virtuale (il comunismo) al segno trionfante (il capitalismo). Qui il dualismo non semplicemente visibilizza il nemico, ma si interconnette col disegno della salvezza del mondo umano malato ed infelice, ad opera degli esseri umani del futuro dell’innocenza e della purezza.

Il rivolgimento dialettico del "mondo malato" ad opera del "mondo dell’innocenza" non può fare a meno di incardinarsi su Polemos; ma, ora, Polemos assume una nuova regolarità: la guerra assoluta. Nuova regolarità, perché la "guerra assoluta" cessa di essere, come ancora in Clausewitz e Schmitt, stazione terminale e straordinaria del conflitto; essa, ora, si pensa e architetta come la forma del conflitto, la costante dello scontro sociale, la regolarità della lotta di classe.

Nelle Br, le condotte di senso della guerra assoluta si legano all’esercizio del potere proletario quale prefigurazione materiale della società comunista; in Pl, il senso della guerra as-soluta si coniuga come contropotere, come discorso e prassi della liberazione, nella tensione alla costruzione capillare di un’alterità sociale diffusa e dispiegata rispetto alla "microfisica" dei poteri dominanti.

In questo senso, la guerra riassorbe il ‘politico’: lo supera, ma non se ne separa; lo modella, ma ne subisce il "fare progettante". Il fare poietico negativo della guerra, più di ogni altra modalità di fare, ha bisogno di alimentarsi di un logos progettante, di modelli politici di riferimento, proprio perché sua somma ambizione è eccedere tutte le costellazioni simboliche e materiali del dato sociale. Non può lasciare proprio il ‘politico’ fuori delle orbite della sua giurisdizione. È incorporandolo che accetta le sue regole estreme. Ed è accettando le sue regole che: (i) perverte la natura del ‘politico’; (ii) intende affrancarsi dall’angustia della dimensione militare.

Il ‘politico’, come narrazione del cambiamento radicale, è qui una componente fondamentale della guerra; ma la guerra che si annette e perverte questa radicalità del ‘politico’, in virtù dell’assolutezza delle sue forme, finisce col narrare l’anti-mutamento radicale, l’abbandono estremo ed inconsapevole delle vie della trasformazione. Il combattente diviene, così, un soggetto dell’anti-mutamento e dell’anti-trasformazione, esattamente come la prassi armata è negazione relazionale del cambiamento. Ad una poietica negativa si accompagna invariabilmente un’antropologia negativa.

3.

L’assoluto "so di sapere" della guerra: ovvero l’assoluta autoestraneazione

Il procedimento poietico-antropologico che abbiamo appena identificato è l’evidente tentativo di contestualizzazione di un pensiero e di una prassi in un modello ricavato per accostamento analogico da modelli tradizionalmente distinti. Per restare al lascito simbolico-culturale più in vista, il modello eracliteo di Polemos padre di tutte le cose è incorporato nel modello clausewitziano di politica mater della guerra; e tutte e due insieme vengono rifusi col modello schmittiano del ‘politico’ come criterio assoluto dell’individuazione del raggruppamento amico/nemico. Il rilievo più interessante è che, nella circostanza, questa contestualizzazione di "modelli di modello" non è padroneggiata con consapevolezza; anzi, quasi mai viene agita coscientemente.

Si attinge, così, inconsapevolmente a modelli, a metafore e a simboli attraverso quel flusso di trasmissione e stabilizzazione culturale che accompagna e abita tutti i fenomeni storico-sociali e che disvela il passaggio da una forma sociale ad un’altra. Del resto, questo, è un processo tanto normale quanto diffuso; non pertiene esclusivamente alla poietica, all’antropo-logia e alla logica della lotta armata.

Il caso che vede ognuno di noi manipolare e usare strumenti concettuali, modelli di pensiero, forme di razionalità che non ha direttamente conosciuto e/o studiato è assai più diffuso di quello che ci vede consapevoli detentori dei generi e dei tipi di cultura, dei modelli di cui facciamo quotidiano impiego. Il fatto è che si è sempre calati in un ambiente preesistente che è anche il frutto della stratificazione storica di culture, di metafore, di modelli che portiamo addosso, senza nemmeno saperlo.

Esiste un orizzonte del pensiero e delle forme che, seppur prodotto dagli essere umani in quanto genere, ha una sua anteriorità rispetto agli esseri umani presi nella loro singolarità e determinatezza storica. L’inconsapevolezza, il "non sapere" degli esseri umani storicamente determinati nascono proprio da qui; sempre da qui nasce il socratico "so di non sapere".

Ma qui il "so di non sapere" non è solo consapevolezza dei limiti invalicabili del proprio sapere singolo e del sapere nella sua determinatezza storica; è anche una forma di sapere, sot-to una triplice veste: (i) costituisce uno stimolo ad investigare le forme e i modelli del sapere; (ii) salva dalle sindromi pietrificanti dell’assolutezza; (ii) rende partecipi all’universalità e alla differenzialità delle forme di sapere e delle forme di vita.

L’elemento di catastrofe presente nella poietica e nell’antropologia della lotta armata sta precisamente nel rifuggire la verifica delle cerchie del "non sapere", per cui il "so di non sapere" non entra mai nella scena del teatro simbolico e nell’esperienza politico-esistenziale. Il paradigma della lotta armata abbarbica l’assoluto del comunismo e della rivoluzione proprio su una pulsione logica profonda: la presunzione di sapere già tutto, la quale ribalta l’apertura del "so di non sapere" nella chiusura ermetica del "so di sapere".

Seguendo le linee attive di tale ribaltamento, siamo messi in condizione di individuare l’ermeneutica negativa che caratterizza la lotta armata. La struttura logica del modello sapien-zale della lotta armata non media le forme teoriche e culturali; ne discende che si approfondisce lo scarto tra "mondo teorico" e "mondo osservativo". Qui l’ermeneutica:

a) non è interpretazione in funzione dell’accordo col mondo e coi fatti del mondo, in vista di una trasformazione della loro sensibilità e della loro qualità;

b) bensì separazione dal mondo e secessione dall’orrido dei fatti del mondo.

Il modello ermeneutico funge come macchina di disconferma del mondo; diviene, così, impossibile formulare prese di visione oggettive, congetture o predizioni sulla realtà. Se è, in assoluto, vero che si dà una cesura tra "sapere ermeneutico" e "sapere predittivo", tra "sapere procedurale" e "sapere normativo", nella fattispecie tutte queste modalità di sapere sono egualmente sospese: messe in mora, più che invalidate da una forma di sapere superiore.

Non assistiamo alla correzione di un errore di paradigma; né al subentrare di un paradigma nuovo in luogo di quello vecchio. Piuttosto, il paradigma che si formalizza ("la guerra oltre la società") rimuove automaticamente tutti i paradigmi sussistenti, cancellandoli letteralmente dalla scena, senza nemmeno confrontarsi con le loro strutture logico-cognitive. Ne discende che il modello di sapere messo in forma come possiede una bassa carica euristica, così si distingue per la sua ridotta capacità di lettura critico-oggettiva del mondo reale e dei suoi simboli. Non riesce a interpretare l’oggetto materiale e nemmeno quello simbolico: anziché attrarli con i suoi selettori decifratori, li distanzia con i suoi respingenti cognitivi. Non può rendere "pensabile" e "costruibile", da questo mondo e dai suoi simboli, un’alternativa a questo mondo e ai suoi simboli, proprio perché approfondisce e rende incolmabile la distanza tra "oggetto" e "soggetto", tra "teorico" e "osservativo", tra "reale" e "immaginario", ecc.

Una delle risultanze più negative di questo processo è l’assenza di un linguaggio conoscitivo-comunicativo; siamo unicamente in presenza di un linguaggio asseverativo che ripete all’infinito, attraverso una coazione che si dilata in maniera impressionante, i suoi dogmi fondativi. Lo schema logico deducibile può essere, così, esemplificato: il mondo reale è una metafora che bisogna adattare coercitivamente alla realtà del modello logico.

Non sono il linguaggio e i suoi sottostanti modelli logico-scientifici, insomma, che debbono costantemente aprirsi al mondo e ai suoi simboli; al contrario, qui sono il mondo e i suoi simboli a doversi adattare all’opzione linguistica e ai suoi modelli. Il dualismo irricomponibile della relazione di guerra è anche questo: contrasto assoluto tra (i) i modelli logico-scienti-fici ed etico-politici che sorreggono la guerra e (ii) i mondi reali e simbolici che esistono e che si annunciano. Più che una modellizzazione, quella che qui riscontriamo è una categorizzazione del mondo. Anche a questo titolo è lecito ed opportuno parlare di categorie della lotta armata.

Dal punto di vista della geografia politico-sociale, qui la guerra si fonda in un "non-luogo" dei mondi reali, per meglio e radicalmente contestarne la vigenza. Essa non muove dal "qui" verso l’"altrove"; ma intende direttamente irrompere dall’"altrove", non concedendo speranza alcuna di remissione e salvezza al "qui". Ma, fuori dal campo di esistenza e di prefigurazione del "qui", risulta impossibile pensare e approssimare un "altrove" dotato di esistenza, di movimento e di senso storicizzabili; non fosse altro per il fatto che lo stesso "altrove" più esterno, estraneo e remoto immaginabile deve, comunque, fare ritorno al "qui" che si intende modificare.

Le strategie logiche della lotta armata si reggono, quindi, su un "artificio retorico": il "luogo centrale" della narrazione e della trasformazione si situa in un "non-luogo". Questa aporia interna viene dalla lotta armata convertita in una "forma forte", poiché si innestano qui i centri motori del meccanismo bellico. Ed è come "forma forte" che la lotta armata si pone come il "centro unitario" del presente e del futuro:

a) del presente, perché ne contesta il male assoluto;

b) del futuro, perché presentifica simbolicamente la venuta del bene assoluto.

Si tratta di un "centro unitario" che non ha presa tattile sul reale e nemmeno sull’immaginario; sul presente e nemmeno sul futuro; sul tempo e nemmeno sullo spazio. Le assunzioni rappresentative e conoscitive, nell’epoca informatico-computerizzata che da qualche decennio stiamo abitando, non avvengono più principalmente a mezzo dell’occhio o degli altri organi sensitivi, essendo loro precluso l’orizzonte dell’immensamente piccolo e dell’immensamente grande. Nel caso della lotta armata, misuriamo un’abissale e irrecuperabile distanza dall’oggetto, sia a livello micro/macro che sul piano del "normale". La perdita dell’oggetto costituisce qui il primo passo dello smarrimento del soggetto che, con l’oggetto, perde la sua umanità e la sua naturalità.

Il fenomeno dell’"autoestraneazione" non risparmia la lotta armata: prima la ferisce e poi la dissangua senza pietà, fino a farla divenire uno spettacolo simulatorio, di cui è essa stessa fruitrice passiva.