CAP. VIII

CATEGORIE FILOSOFICHE E POLITICHE

 

 

 

 

1.

Unidimensionalità della storia e morte delle differenze

Abbiamo visto come la lotta armata si ritagli un ruolo di agente simbolizzatore, con le valenze proprie all’opera di simbolizzazione che ne deriva. Ciò avviene per il fatto che essa è sostenuta da un postulato di filosofia della storia, in forza del quale si annette l’esclusiva e integrale titolarità delle funzioni di agente storico della rivoluzione e della liberazione. Di questo postulato il paradigma della "guerra oltre la società" è la premessa e, insieme, il corollario coerente.

Spingendo l’analisi più al fondo, possiamo invenire le categorie filosofiche su cui si regge la Weltanschauung della lotta armata. Secondo questa Weltanschauung, la storia è un soggetto che non opera spontaneamente e automaticamente nella direzione della giustizia e della liberazione; per questo, ha bisogno di agenti consapevoli che ne raccolgano le spinte/tensioni e ne direzionino il movimento in un senso etico-politico conforme agli ideali dell’eguaglianza e della libertà. La radice dicotomica dello scontro di classe si risolverebbe, appunto, in una contrapposizione permanente tra gli agenti della rivoluzione e della libertà e gli agenti dell’oppressione e dello status quo.

Si ritiene che il movimento storico, pur essendo inarrestabile e sovrano indiscutibile, abbia bisogno di radicali correttivi etico-politici, mancando i quali porterebbe inevitabilmente al trionfo dell’ingiustizia. Con tutta evidenza, in questa concezione del mondo, la salvezza del genere umano è indissolubilmente salvezza della storia. Solo una "storia salvata" può essere abitata da "esseri umani salvati": qui la storia salva solo gli uomini e le donne che si salvano che, a loro volta, riconoscono legittima solo la storia che salva.

Questo paradigma salvifico ha matrici culturali antichissime. Di specifico la lotta armata vi introduce quella non irrilevante variabile che fa della guerra l’agente della salvezza e della liberazione. Da ciò consegue, tutt’al contrario di quanto accade nelle filosofie della tradizione, un effetto non intenzionale, ma non per questo meno effettuale: la spersonalizzazione della storia verso la direzione spazio-temporale già data del comunismo.

La "freccia del tempo" viene catturata e avvolta nel "ciclo" della guerra per il comunismo, il quale è riprodotto soltanto in via ipotetico-simulatoria, col risultato che i tempi storici reali vengono dominati dai tempi astorici irreali. La struttura profonda del tempo, così, si perde, per intero, nella struttura profonda dello spazio, senza che né la determinatezza del "tempo salvato", né quella dello "spazio salvato" riescano mai ad acquisire una compiutezza storico-esistenziale esperibile e immaginabile in senso proprio.

In un istante unico, la cui estensione diviene immensa, il destino umano-sociale affonda nell’abisso delle origini e delle mete ultime dello spazio/tempo. In questa circolarità infinita, al tempo è strappato il respiro vivo della durata e lo spazio smarrisce tutti i suoi luoghi. La sensatezza della guerra per il comunismo sta qui proprio nel suo carattere di infinità virtuosa; così come l’insensatezza del capitalismo viene individuata nel suo carattere di cattiva finità. L’infinito qui si struttura come unidimensionalità universale del comunismo e della guerra che lo prepara.

Questa unidimensionalità, compatta e inarticolata, segna la morte della differenzialità del senso e delle forme di vita. L’assoluta rilevanza del comunismo coniuga l’assoluta irrilevanza degli oggetti, dei fatti, dei simboli, delle culture e degli esseri non contemplati nell’attività di salvazione del mondo e della storia operata dalla guerra. La guerra qui dice: prima del co-munismo la storia non ha avuto tempo; solo col comunismo prende cominciamento il tempo infinito della liberazione e della libertà.

Il marxiano passaggio dal "regno della necessità" al "regno della libertà" viene riformulato e ricategorizzato: qui, fuori e prima della libertà della guerra che conduce al comunismo, non si dà alcuna necessità, poiché l’unica necessità che la guerra riconosce è la sua propria necessità di esistere. Questa filosofia della storia non attribuisce senso, valore e utilità a quanto la precede; né spiega i cicli dell’evoluzione storica in termini di approssimazione progressiva di eventi, per salti e rotture oppure attraverso evoluzioni lineari e continue.

Come al capitale – diversamente da quanto argomentato da Marx; e, prima di lui, da Smith e Ricardo – non viene riconosciuta alcuna "missione civilizzatrice", così la storia che pre-cede il comunismo – ancora una volta, diversamente da Marx e dalla migliore dottrina comunista – non viene ritenuta la "preistoria" necessaria, ma tout court la "barbarie" ingiusti-ficata e illegittima da cui prendere violentemente commiato.

Qui necessità della libertà è solo il comunismo edificato dalla guerra: senza la guerra per il comunismo, la storia e il mondo languirebbero al di qua della linee stesse della necessità. Necessità e possibilità, nella guerra per il comunismo, vengono, così, a coincidere: la possibilità e la necessità del comunismo dipartono, secondo questa filosofia, precisamente dall’impossibilità per la vita e la libertà di emergere ed afferrarsi nell’universo del dato umano-sociale. Il che costituisce ragione ulteriore per abbatterne con violenza le linee di confine.

Allora, per la lotta armata, il comunismo: (i) diversamente dal profetismo biblico, più che la terra promessa, è la storia promessa; (ii) differentemente dal messianismo biblico, affer-mando il suo governo illimitato, fa della storia e del suo movimento, non già del messia, il salvatore del mondo umano-sociale.

Non esiste più, di conseguenza, un tempo dell’attesa; come non sussiste uno spazio liberato. Questa visione del mondo è, allo stesso tempo, una filosofia della storia, un’antropologia e una cosmogonia: tutto il tempo umano-sociale e storico-geologico diviene tempo della preparazione armata e dell’organizzazione febbrile del comunismo; ed ora non uno spazio occorrerebbe limitarsi a liberare, ma tutti i luoghi umano-sociali e storico-geologici dello spazio.

Se per il profetismo biblico e il messianismo religioso il mondo e il tempo sono (i) già iniziati con l’opera di creazione del Dio originario e (ii) successivamente salvati dal Messia e poi (iii) nuovamente pervertiti e traditi; per la Weltanschauung della lotta armata, tempo e mondo non hanno ancora avuto un vero inizio. Per essa, solo la guerra per il comunismo è il vero inizio del tempo e del mondo. In essa, dunque, i due poli estremi della genesi e dell’escatologia coincidono; vale a dire: la genesi della guerra per il comunismo è l’escatologia del tempo e del mondo.

2.

Il tempo sostanza

Il tempo del comunismo, nella lotta armata: (i) diversamente dal tempo biblico, non è un "tempo retto", avente un inizio e una fine; (ii) a differenza del tempo della classicità greca, non è nemmeno un "tempo ciclico", avente senso e profilo solo come associazione, successione e ricorsività di eventi.

Nella lotta armata, il trionfo del tempo (ovvero: l’irruzione della guerra per il comunismo) ha un inizio; ma è senza fine. Ancora: gli eventi non sono attratti nel ciclo dell’"eterno ritorno"; bensì nella distesa e nella durata infinite dell’eterno presente. Il tempo passa sempre ed è come se non passasse mai, visto che ora abita la perfezione mondana veicolata dalle forme simboliche della guerra per il comunismo, di cui l"eterno presente" e l’"eterna militanza" della lotta armata non sono che la puntuale prefigurazione. L’oltre della società, verso cui la lotta armata intende pilotare il mondo umano-sociale salvato, si mostra, quindi, come: (i) il tempo assoluto uniforme in cui tutto accade, senza mai più accadere; in cui tutto è eguale, senza che mai si ripeta; (ii) lo spazio assoluto uniforme in cui tutti i "luoghi" sono abitati dall’indifferenza: dimorare nell’uno o nell’altro non fa più differenza.

È a quest’altezza che lo spazio/tempo della lotta armata finisce col dislocarsi in una dimensione simbolica tremendamente contigua allo spazio/tempo cavo delle anti-utopie e alla glacialità delle tecnologie e delle estetiche spettacolarizzanti da cui essa pur intende prendere, con violenza, le distanze. Qui, più che il "tempo accelerazione" della rivoluzione e del progresso, reperiamo in azione il tempo sostanza dell’unicità universale che si perpetua all’infinito. Collocandosi oltre la società, la salvezza del mondo e della storia va, suo malgrado, a situarsi in un tempo che non c’è e che nemmeno sopravviene.

Il tempo sostanza non è niente di più di un’astrazione priva di temporalità. La lotta armata, essendo contro il tempo dato, non può essere nel tempo sensibile; dislocando il presente interamente in un futuro sostanzialista, non può rovesciarne le ingiustizie attive. La sua ricerca del massimo di onnipotenza si rovescia nel massimo di impotenza e la sua performatività diviene caducità e fragilità. Essa, così, fallisce anche in base al mero criterio dell’efficacia.

3.

Dal nemico esterno al nemico interno

Pervenuti a questo livello di indagine, occorre prendere in considerazione uno degli aspetti più inquietanti della filosofia politica della lotta armata: la questione del "nemico" e le problematiche connesse.

È noto che "polis", "politiché" e "polemos" hanno la stessa radice; il che ha fatto unanimemente dire che l’aggregazione politica è, per definizione, aggregazione di conflittualità. La guerra, sempre per definizione, è rottura di quell’aggregazione politica dei conflitti che conduce (o dovrebbe condurre) alla loro soluzione pacifica.

Ma, come è altrettanto noto, presso i Greci, Polemos, pur avendo la stessa radice di polis, insiste su una doppia area di senso:

a) un’area di senso interna, entro cui il nemico assume le sembianze di inimicus , il quale, piuttosto che il "nemico assoluto", è l’avversario con cui si contende e si è in discordia;

b) un’area di senso esterna, nella quale il nemico è l’hostis; cioè, il "nemico assoluto".

La doppia area è interpretabile, così come vuole la tradizione realista/decisionista inaugurata da C. Schmitt, anche in questi termini:

c) l’inimicus è il "nemico privato", mentre l’hostis è il "nemico pubblico".

L’area di senso interna, più propriamente, è il campo di vigenza e di giurisdizione della polis, entro cui l’avversario politico è solo e sempre "inimicus" e mai "hostis". Meglio ancora: la "comunità dei Greci" crea rapporti di consanguineità e affratellamento politico tali da non prevedere, al suo interno, la guerra. Quest’ultima è legittima solo contro i "barbari", in quanto "non Greci": l’hostis è qui solo il "non Greco", il "barbaro".

In linea generale (almeno fino alla guerra del Peloponneso: 431-404 a. C.), dunque, la polis esclude la guerra interna: la guerra civile tra cittadini compartecipi della stessa comunità e della stessa unità politica. Classica è, sul punto, la politologia di Platone (Protagora, Repubblica, Le Leggi), per il quale occorre distinguere tra l’inimicizia con l’esterno ("polemos"/"hostis") e la conflittualità interna ("stasis").

Il concetto di ‘politico’, qui, è l’esatta antitesi della guerra civile, in quanto la costituzione della comunità politica esclude che al suo interno intervenga la guerra. La guerra è solo inimicizia e, pertanto, può valere solo con l’estraneo: il nemico. All’interno (dello Stato e/o della comunità politica), esistono solo rapporti di amicizia: la discordia assume le sembianze del conflitto; non già dell’inimicizia e della guerra. La semantica politica dà luogo, quindi, ad un duplice campo previsionale-normativo:

a) la politica della guerra, con l’esterno;

b) la politica del conflitto, all’interno.

Questo non significa, però, che nel pensiero politico classico la politica affermi incontrastatamente il suo dominio sia sul conflitto che sulla guerra. La guerra, come si è visto, è cesura proprio dell’ordine politico e della comunità politica della polis; vale a dire: rottura della semantica e delle regole normative del conflitto. Non si dà coincidenza tra "politica della guerra" e "politica del conflitto": ognuna delle due rimanda ad un universo di discorso che, a suo modo, è la negazione dell’altro.

Le regole del ‘politico’ non possono affermare la loro sovranità sulla guerra, non riuscendo puntualmente ad anticiparla, a scongiurarla o a regolarla. Emblematica è, sul tema, la posizione problematica di Platone, il quale come non demonizza la guerra, così non universalizza acriticamente il concetto di pace o di conflitto. Possiamo, pertanto, concludere che il concetto di ‘politico’ su cui si incardina la polemologia classica sia la critica ante litteram del (i) concetto di ‘politico’ della modernità e, dunque, della (ii) polemologia clausewitziana che assegna alla guerra un mero ruolo di strumento di proiezione ("con altri mezzi") del discorso politico .

Su un punto non irrilevante, però, esiste una convergenza tra il concetto di ‘politico’ dei classici e quello della modernità. La formazione dello Stato moderno accoglie, della polis, la di-chiarazione di illegittimità della guerra interna. Ma su questo stesso punto di contatto, come è agevole arguire, si staglia una profonda linea di disgiunzione: mentre nei Greci il ‘politico’ mantiene il suo primato sugli elementi della statualità, coi moderni si apre quella tendenza che conduce al primato dello Stato sul ‘politico’.

Le conseguenze non sono di lieve entità: se il primato del ‘politico’ sullo Stato rafforza la posizione centrale del conflitto nella comunità politica, il primato dello Stato sul ‘politico’, con la guerra interna, tende ad estirpare dalla comunità politica il concetto stesso di conflitto.

Nel paradigma della lotta armata, la guerra è il centro di gravità del cambiamento politico-sociale: essa non semplicemente è attiva all’interno della comunità della polis e dello Stato, ma di questa comunità intende essere la negazione radicale in atto. Le categorie di nemico e amico conoscono una torsione inaudita, diventando operanti all’interno, non già all’ esterno, della sintesi politica. Il nemico non è più l’estraneo (il non Greco) e nemmeno lo straniero (il cittadino di un altro Stato); bensì: (i) chi detiene e difende i mezzi di comando sulla costituzione formale; (ii) il sovrano e l’arbitro della costituzione politica materiale.

Con un secco rovesciamento di paradigma, l’hostis non è più il nemico esterno, bensì il nemico interno. La guerra, dal diritto pubblico internazionale, si sposta al diritto privato: la guerra interna non è che la privatizzazione della belligeranza. Ciò induce un fenomeno collaterale non meno significativo e gravido di risultanze che ci accingiamo ad analizzare.

4.

La creazione artificiale dello "stato di eccezione"

Nell’universo discorsivo della lotta armata l’idealtipo e la forma della guerra vengono alla luce come guerra civile. Ora, le filosofie della storia moderniste hanno sempre ritenuto che la situazione tipica delle guerre civili sia stata definitivamente superata con l’irrompere dell’epoca delle rivoluzioni; col che hanno istituito un rapporto di esclusione reciproca tra le prime e le seconde. Prescindiamo, in questa occasione, dal sottoporre a critica questa deformazione storico-politica e questa illusione teorico-culturale; limitiamoci a seguire dappresso il rapporto rivoluzione/guerra civile nella lotta armata.

Per la lotta armata, la guerra civile è rivoluzione e la rivoluzione è guerra civile:

a) della guerra civile la rivoluzione condividerebbe l’assalto, non regolato dal diritto, alle leve del potere politico-istitu-zionale, per la messa in forma di un nuovo tipo di sovranità;

b) della rivoluzione la guerra civile condividerebbe l’impegno costruttivo di un nuovo modello di società.

Il rapporto, appena isolato, di strettissima implicanza tra rivoluzione e guerra civile disegna un nuovo legame tra diritto e trasformazione e fra diritto e guerra, fino al punto che "diritto di rivoluzione" e "diritto di trasformazione" finiscono con l’essere intermediati unicamente dal "diritto alla guerra". È il teatro di senso del diritto alla guerra che qui sussume e fagocita le linee di espressione, comunicazione e rappresentazione della trasformazione e della rivoluzione.

Volendo esprimersi con lessico marxiano, il diritto alla guerra diviene l’equivalente generale della rivoluzione, perché, al fondo, sarebbe medium nascosto, ma operante, di tutte le relazioni sociali e le transazioni comunicative della liberazione. Alla forma merce e al diritto/norma dell’ordinamento vigente viene, così, contrapposta la forma dell’ordine pianificatorio e il diritto operativo della guerra. L’esperienza rivoluzionaria è qui un’esperienza di guerra, perché il nemico occupa tutti i baricentri dell’ordinamento statuale-comunitario esistente, con le sue figure, i suoi soggetti e le sue norme.

Lo "stato di guerra" è qui il rispecchiamento di una metamorfosi politica, così, concettualizzabile: lo Stato per il tramite del quale la borghesia opprime il proletariato si è integralmente fatto Stato della guerra, il cui diritto è, ormai, scivolato in una condensazione del "diritto di guerra". Anche da qui dipartirebbe la legittimità del "diritto alla guerra", di cui diventa titolare il proletariato. Nella guerra per il comunismo, il "diritto alla guerra" si traduce, con effetto immediato, in decretazione armata urgente; dove: (i) il carattere dell’urgenza è ben espresso dalla perentorietà e performatività dell’azione armata e (ii) il carattere armato è altrettanto ben oliato dalla decisionalità e vischiosità dell’urgenza. Il tutto senza nemmeno procedere, come vuole la tradizione marx-engelsiana-leniniana, alla messa in opera di uno specifico e separato apparato repressivo; e senza nemmeno formalizzare, come nella tradizione staliniana e del procuratore Visinskij, una superiore forma di "diritto proletario".

Ora, sarebbe direttamente la guerra rivoluzionaria, con la sua esistenza e le sue prassi, ad essere soggetto titolare e diffusore dell’etica, delle regole, degli imperativi e dei criteri della giustizia. Da questo sostrato comune si biforcano le ipotesi:

a) delle Br, secondo cui la "guerra rivoluzionaria" è la forma risolta della transizione al "sistema di potere rosso" che, unico, può gestire la "transizione al comunismo";

b) di Pl, per la quale la "guerra rivoluzionaria" è l’insediamento della socialità di quel contropotere permanente che prefigura e organizza il senso del comunismo, istituzionalizzandolo nelle maglie dei rapporti sociali;

c) di alcuni gruppi armati minori (da "Azione rivoluzionaria" a "Primi fuochi di guerriglia" ecc.), per i quali la "guerra rivoluzionaria" è la negazione vivente di ogni forma di Stato e di potere.

In tutti i tre i casi, registriamo una commistione dei codici della rivoluzione con quelli della guerra civile; o, per meglio dire, di una ritraduzione del codice della rivoluzione attraverso il codice della guerra civile.

In epoca moderna, il codice originario della rivoluzione si differenzia da quello della guerra civile, per la compresenza di tre elementi : (i) la giusta causa; (ii) la natura non violenta, con la specifica riduzione al minimo del tasso di violenza; (iii) il conseguimento della vittoria in un tempo relativamente breve.

Di questo codice, la guerra rivoluzionaria categorizzata dalla lotta armata: (i) conserva l’elemento della giusta causa; (ii) afferma la natura violenta dell’atto rivoluzionario, elevando al massimo le soglie della violenza (iii) differisce indeterminatamente i tempi di conseguimento della vittoria. Il "contesto" che ne risulta, come già visto, scrive il "testo" della rivoluzione con il linguaggio della guerra civile e tende ad accreditare simbolicamente e politicamente la guerra civile come rivoluzione tout court.

Lo scenario, così, approssimato non mette in crisi soltanto le filosofie della storia moderniste, ma anche la storiografia critica. Come è evidente, salta in aria sia la dissociazione modernista tra rivoluzione e guerra civile che il paradigma combinatorio dell’approccio critico, secondo il quale la guerra civile rientra a pieno titolo nel "ciclo rivoluzionario", quale momento culminante di "polarizzazione" sboccante nello "scontro cruento" e nel "terrore". Nella lotta armata, come a più riprese si è visto, la guerra civile non è una fase culminante, bensì la forma della rivoluzione, la costante e la regolarità del "ciclo rivoluzionario". Con la lotta armata, assistiamo ad:

a) una civilizzazione della guerra civile, a mezzo del principio della giusta causa;

b) una giuridificazione extra legge della belligeranza, attraverso la naturalizzazione, universalizzazione e positivizzazione del principio di ostilità armata.

Il "processo di civilizzazione" della guerra civile e la giuridificazione extra legge della prassi armata introvertono le regole della "civilizzazione" esclusivamente in funzione della loro esplosione. Se, agli albori dell’evo moderno, il guerriero abbandona le armi, per trasformarsi in cortigiano, passando dall’esercizio della violenza all’esercizio dell’intrigo, il combattente per il comunismo abbandona i luoghi dell’intrigo e del potere, contro cui intende rovesciare la forza sociale organizzata delle armi.

La teleologia assoluta che presiede a questo rovesciamento di prospettiva è evidente: far saltare la civilizzazione borghese del mondo e della storia, per dar corso efficacemente ad una nuova civiltà, imperniata su nuovi princípi e nuovi valori. Il rovesciamento deve, pertanto, essere non semplicemente violento; bensì guerra organizzata socialmente, politicamente ed eticamente.

A sua volta, tale teleologia richiama una sistematica negativa che fa discendere l’esplosione della guerra rivoluzionaria dal carattere insolubile dei conflitti, fermo restando l’alveo borghese-capitalistico. Dai conflitti insolubili, su base borghese-capitalistica, traggono qui origine la necessità e la fondatezza della guerra. La guerra rivoluzionaria per il comunismo è qui l’unica matrice di civiltà, esattamente perché risolutrice di conflitti altrimenti insolubili.

Né la rivoluzione e né la guerra civile, isolatamente considerate ed attive, possono approssimare questo passaggio risolutorio. Solo la guerra rivoluzionaria per il comunismo, in quanto sintesi originale di rivoluzione e guerra civile, appare in grado di intenzionare il necessario ed agognato salto epocale di civiltà. Ed è a questo livello che il paradigma della lotta armata riscrive sia il principio della "giusta causa" delle rivoluzioni che il principio della "guerra giusta", ancorando ora ambedue alla costruzione sociale del salto di civiltà.

Quello di cui la guerra per il comunismo intende occuparsi è l’accesso fulmineo ad un nuovo e "mai stato prima" orizzonte della storia del mondo e degli esseri umani; non già la pura e semplice conquista o annessione al sistema di valori e di comportamenti già dato dei vincitori. Anche qui il sistema dei valori-comportamenti che impone la sua giurisdizione attiene alla dimensione esistenziale dei vincitori; ma, ora l’ordinamento del sistema/valore è tutto ancora da scrivere: non preesiste ai belligeranti, bensì segue la vittoria di una delle due parti in lotta. Il nuovo sistema/valore, più che da una "entrata dentro" il dato che governa, dipende da un’"uscita fuori" da tutte le costellazioni e articolazioni del governo del dato. Collocando l’inten-zionalità e l’essere della libertà "oltre" la società, non si può fare a meno di agire sotto gli imperativi di una dimensione spazio-temporale e psicologico-culturale che simbolizza in maniera reificata l’oltre della civiltà.

Il comunismo, in questo paradigma, è l’incarnazione storico-esistenziale dell’oltre socio-civile. Qui si è "oltre la società", perché si anela un’altra civiltà; si è "oltre la civiltà", perché si desidera ardentemente un’altra società. Tutti i criteri di giustizia e di rettitudine si riformulano in conformità di questo "doppio vincolo", il cui unico mezzo/fine legittimo ed adeguato diviene l’organizzazione di scala della guerra. Alle reificazione delle categorie storico-politiche fa puntuale riscontro la reificazione delle categorie culturali-immaginative.

La rappresentazione sociale del tempo e la rappresentazione temporale della società evaporano: il tempo perde la società e la società perde il tempo. Non si può essere contemporaneamente oltre e contro il tempo, la società e la civiltà, se, nel contempo, non si è dentro e per il tempo, la società e la civiltà. La perdita sociale del tempo e lo smarrimento temporale della società significano lo sradicamento dell’ipotesi rivoluzionaria a cui intende lavorare la lotta armata. La rivoluzione si atemporalizza e la guerra astoricizza e asocializza. Quello che rimane è una prassi/progetto senza rivoluzione; o, per meglio dire, una prassi/progetto contro la rivoluzione.

È a questo approdo che il composto critico-simbiotico di rivoluzione e guerra civile, presente nel paradigma della lotta armata, rivela tutto il suo carattere alchemico e illusorio: la "po-litica rivoluzionaria" non riesce a farsi guerra e la guerra non può farsi rivoluzione. Pur avendo la sconfinata ambizione di essere l’una e l’altra (rivoluzione e guerra), la lotta armata non riesce ad essere né l’una e né l’altra. Rimane lotta armata: cioè, né rivoluzione, né guerra. Lo status politico dell’oltre la società (e la civiltà) è, appunto, quello di né rivoluzione, né guerra; uno status dell’inefficacia e dell’impotenza, rimosse dalla distruttività simulatrice della violenza di scala. Come ogni altra cosa, prima di essere quello che vorrebbe essere, la lotta armata: (i) è quello che è, (ii) non quello che immagina d’essere. In particolar modo, non è:

a) una "teoria della guerra civile", poiché infinitizza e astrattizza il suo spazio/tempo, fino a destoricizzarlo integralmente;

b) una "teoria della rivoluzione", poiché salta la concretezza storica del mutamento di costituzione, del passaggio di sovranità e della trasformazione socio-culturale, nei cui confronti le sue rimangono rivendicazioni nominalistico-formali, senza alcuna incidenza reale.

Attenendosi allo "statuto dell’essere", la lotta armata è la rottura della situazione di normalità, laddove non ne sussistono le condizioni. Essa è creazione artificiale dello stato di eccezione. L’artificialità di siffatta operazione si basa, per intero, su uno stato di necessità che ha causali ideologico-simboliche, anziché storico-politiche. Quale decisore sullo/nello stato di eccezione, la lotta armata non può essere che decisore artificiale, deprivato completamente della titolarità storico-politica della sovranità. Si delinea qui il profilo di un decisore eccezionale, in mancanza della sussistenza dell’eccezionalità; il che innesca gli elementi coessenziali di uno scarto sul piano logico-semantico e di un circolo vuoto su quello politico.

La "giustificazione della violenza" non riesce a legittimare alcun "mezzo", nel mentre fallisce tutti gli "scopi". Da qui il silenzio discorsivo-comunicativo della lotta armata; da qui, ancora, la sua impossibilità genetica di produrre senso vivo. Lo "smascheramento della realtà", a cui essa intende esplicitamente concorrere, per una trasformazione in tempo reale della "presa di coscienza" in "azione", smaschera, in realtà, i limiti del suo modello d’azione e l’incongruenza delle sue strategie. È il "carattere di verità" della lotta armata che qui viene meno; o, meglio, il suo carattere di "non-verità" viene "smascherato". La "verità" della lotta armata si afferma, così, anche in linea paradossale, confermando quei postulati relazionali che assegnano precise valenze conoscitivo-comunicative al paradosso.