CAP. I

CULTURE E PRASSI DEI MOVIMENTI SOCIALI:

LA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ

 

 

 

1.

La dinamica dei movimenti: massa/potere-azione/conflitto

L'indagine storica e la ricerca critica debbono assumere i movimenti come soggetto storico, senza tralasciare, però, di considerarli anche un oggetto della storia. Così impostata la questione, si può fruttuosamente uscire dalle secche della sociologia del mutamento di inizio secolo (fino alle sue proiezioni attuali), per la quale i movimenti altro non sarebbero che il prodotto del mutamento; come pure dai limiti di alcune recenti teorie sui movimenti quali causa del mutamento. Valicando questo doppio vincolo, I'approccio della ricerca si può fornire di una dote epistemologica minima.

Partire dalla duplice natura dei movimenti — soggetto e oggetto storico — importa alcune immediate conseguenze analitiche. Innanzitutto, occorre situarli in quelle dinamiche che vedono ai poli opposti agire massa e potere. Secondariamente, essi trascorrono continuamente tra azione e conflitto. Cruciale, in entrambi i casi, diviene il tema dell'identità, in tutte le sue varie sfaccettature. In questo modo, irrompono nell'indagine sui movimenti temi di assoluto rilievo, quali la cultura e i saperi. Ogni movimento codifica una particolare combinazione tra cultura e saperi e, per questa via, si fa titolare di forme specifiche di potere, travalicanti il mero campo politico. Il midollo spinale del codice genetico dei movimenti è dato dal rapporto da essi intrattenuto con la cultura e i saperi e dall'uso simbolico-produttivo che ne fanno.

Già il puro e semplice disancoramento dalla condizione di massa, per accedere a quella di movimenti, ha non solo un significato altamente politico, ma anche e soprattutto una valenza culturale, assumendo il rilievo di poiesis significazionale, di dialogica simbolico-co-municativa.

Ed è proprio questa cifra espressiva il luogo di manifestazione del massimo possibile di contestazione delle forme comunicative e manipolative del potere, in tutti i domini della vita sociale. Volendo sche-matizzare, potrebbe dirsi: la scena vede, a un polo, I'espressione e l'espressività della cultura e dei saperi dei movimenti e, al polo opposto, quelle del potere. Pare indubbio che questo sia lo scenario complicato e intricato entro il quale si dà, col cominciare degli anni Sessanta, I'insorgenza conflittuale in tutta l'area capitalistica avanzata; e non solo. Si deve opportunamente parlare di un "Sessantotto planetario"1.

L'istanza comunicativa appare la cifra alta di questa insorgenza multirazziale e sovranazionale: essa taglia trasversalmente ordini po-litici differenti, aree geo-politiche dissimili, culture di vecchia e nuova definizione e collocazione.

Sulla scorta di T. Parsons, N. Luhmann afferma che il potere è mezzo di comunicazione2. Pur tenendo conto di questa tesi difficilmente opinabile, affronteremo la questione da un'altra angolazione. Osserva criticamente F. Papi: "il sistema politico recepisce gli elementi emergenti delle dinamiche sociali. Il recepimento nell'epoca contemporanea avviene attraverso i sistemi di comunicazione esistenti. Naturalmente la selezione di un problema, che è la condizione fondamentale per il suo recepimento nel suo sistema politico, avviene attraverso filtri che difficilmente possono essere enunciati in astratto nell'insieme delle loro procedure. Così come non è detto che la selezione comunicativa di un problema conduca direttamente a decisioni che riguardano la sua soluzione: essa può sollecitare comportamenti politici che deviano e surrogano il problema. Anche in questo caso non bisogna mai immaginare una macchina dal funzionamento lineare"3.

Posto in questi termini il problema, si ingenera la questione: quale la possibilità concreta che ha l'opinione pubblica di controllare i sistemi di comunicazione? Come è ben noto, secondo la Scuola di Francoforte — da Horkheimer ad Adorno fino a Habermas — tale possibilità è assai ridotta, se non nulla. Piuttosto, sussisterebbe il rischio contrario: sono i sistemi di comunicazione a "informare" (in tutti i sensi) e omologare l'opinione pubblica. Nel potere come mezzo di comunicazione si sublima e satura il passaggio da forza a potere e si aprono occasioni impensate per la docilizzazione del tasso di conflittualità sistemica e ambientale. Siffatta evidenza ha fatto drammaticamente parlare Kirchheimer di "tramonto dell'opposizione" e di "partito pigliatutto" nei sistemi democratici avanzati4. Nella cornice così evocata, il potere seleziona, accoglie e risolve quelle domande dalla soluzione delle quali la sua ermeneutica critica e la sua decisione politica si allargano e quelle della cittadinanza, al contrario, si restringono.

Il potere, in tal modo, diviene il soggetto ermeneutico della critica e il soggetto politico della decisione. Da qui comunica la sua autorità e la sua potenza legittima. Cittadinanza e movimenti sono qui oggetto dell'ermeneutica e della decisione del potere, da cui sono condannati, in partenza, a comunicare il riflesso della loro posizione subordinata e oggettuale. Il potere si fa "soggetto" e desoggettivizza i soggetti.

Che esso sia e funga quale mezzo di comunicazione vuole qui indicare che suo fine precipuo è la conversione della soggettualità in oggettualità. Sicché, grazie alla comunicazione, mezzo e fine, input e output del sistema di regolazione si trovano tutti ferreamente nelle mani del potere comunicativo, al quale niente sembra essere più esterno.

Nelle posizioni sinteticamente ricostruite, la critica sferrata dal potere contro i movimenti appare senz'altro radicale: il potere si pone come fonte dell'ordine e della società e, quindi, delle istituzioni e del medesimo mutamento sociale. Effettivamente, rispetto a questo futuribile e a questa ossessione futurante, non coglie nel segno ed è largamente spiazzata quella concezione che vuole i movimenti come base della palingenesi sociale.

Assistiamo, nella fattispecie, a una sclerosi movimentista che universalizza e astrattizza i movimenti come base fondamentale e fondante della trasformazione, declinando un codice politico di tipo assolutistico e fondamentalista. Il fatto è che, come nota Papi, tra movimenti e sistema politico v'è sempre una "fenditura", in virtù della quale non può essere commesso l’"errore triviale" di cui sopra5. Ancora meglio: "Questo modello intellettuale ha tutta una sua storia nell'analisi storiografica, nelle categorizzazioni filosofiche, nel disegno sociologico, ma oggi non solo è molto schematico, ma addirittura deviante per capire la morfologia dei movimenti nell'epoca contemporanea e le forme di potere specifico che essi conducono"6. Per Papi, nella contemporaneità, un movimento è un "sentimento che impegna alle radici", "non rinuncia alla propria voce e al proprio segno", non cerca un "esecutore a cui assegnare una delega"7. Un movimento, dunque, non è mai linearmente riconducibile al potere e alla sue forme di espressione. Non rinuncia mai al suo "vorrei radicale" e al suo immaginario, alla sua propria voce e al suo proprio segno, su cui costituisce e riprecisa la cifra della propria identità. Sta qui il suo potere8.

Potere dei movimenti di contro al potere come mezzo di comunicazione: un immaginario segnico-esistenziale avverso una normazione immaginatlvo-comunicativa. Il Sé dei movimenti, che è tanto individuale che collettivo, ha come controparte il Sé del potere che tende a fungere come rappresentazione della società, attraverso un’ope-razione simbolica che dalle selezioni delle domande e delle aspettative mette in codice l'autorità del proprio segno. L' immaginario del potere è qui possibile sorprenderlo come immagine dell'ordine che giustifica e rafforza l'ordine. L'ideologia del potere assoluto si stempera e si interconnette con le forme della comunicazione del potere che, a loro volta, si intrecciano — nel "villaggio globale" di McLuhan — con i mezzi smisurati, dirompenti e pervasivi della comunicazione di massa.

Segno e disegno del potere divengono, sul punto, chiaramente intelligibili: estromettere, il più possibile e nei limiti del possibile, i movimenti dalla costruzione e dalla rappresentazione dei "valori comunitari"; coprire, destrutturare e opacizzare i segni dei movimenti; ammutolire e deviare la voce dei movimenti. L’impossibilità di perpetuare, nelle società complesse, il potere-sintesi, dà luogo alla complessificazione e dislocazione capillare delle agenzie del potere.

Una delle risultanze maggiormente in rilievo, ai fini del tema oggetto della nostra riflessione, pare la seguente: il potere non risponde della sua crisi, ma si ritematizza in essa. Fa della sua crisi un transito di positiva e autogenetica trasformazione; e, in determinazione ulteriore, agitando la crisi contro la materia, i fattori, i processi e i soggetti che l'hanno cagionata. Sarebbe qui proprio la crisi l'elemento di massima legittimazione del potere e massima delegittimazione dei suoi antichi e nuovi critici. Coesione e legame sociale derivano, in questo approccio, da questa forza aurorale autolegittimantesi.

Ma qui cade un velo. Il potere non si pone più quale fonte della società; bensì di se stesso e, per questa via, del legame sociale. Ciò giova a meglio circoscrivere la metaforologia del potere e la sua perspicua immagine simbolica: potere come fonte del potere. La qual cosa porta in superficie con chiarezza un avvenuto passaggio nelle teorie del potere: la legittimazione della politica avviene attraverso il potere; non è più la politica a legittimare il potere. Tentare di definire questa nuova dislocazione del potere con la definizione di potere complesso vuole, per l'appunto, significare che il potere diviene la base del sistema politico in una rappresentazione figurativa che assume le sembianze di un cono rovesciato.

All'amplificazione della trama e del flusso del potere corrisponde la restrizione di trama e flusso della politica. Le possibilità del "patto sociale" e del "contratto" si riducono, ferme restando le vecchie categorie del 'politico' messe in codice.

Ciò non vuol dire — come pretende Luhmann9 — che queste grandi teorizzazioni siano state completamente caducate, fino a divenire impronunciabili. Esse continuano a essere un ineludibile punto di riferimento critico.

Un superamento distanziante della teoria politica europea classica non appare delineabile come un processo di negazione semplice; anche in forza dell'inobliabile legame che l'avvince al pensiero politico antico.

Come delineare, allora, una critica puntuale, fortemente argomentata e motivata degli universalismi del potere e di quelli speculari dei movimenti?

Partiamo da un'evidenza palmare: potere e movimenti hanno linguaggi diversi e non riconducibili esaustivamente al codice politico. Dice Papi: "L'elemento che caratterizza il movimento e che quindi ne costituisce la forma specifica è l'irriducibilità del suo linguaggio a quello dominante nel sistema politico. In questo linguaggio sono rappresentabili esigenze e valori vitali che il sistema politico non può rappresentare nel medesimo modo poiché non gli è consentito dalla forma del solo input. Il movimento non va tuttavia pensato come alternativa rispetto al sistema politico nel senso di "buono" opposto a cattivo, "legittimante" o "fondante""10. È anche vero che i movimenti, in quanto sistemi specifici e originali di input e output, non possono rappresentare il loro proprio arcaico significazionale, il loro proprio patrimonio simbolico e il loro programma funzionale con le stesse modalità con cui si dà rappresentazione, significazione, simbolizzazione e pianificazione funzionale nel sistema politico. Proprio perché: "Il movimento è invece un'altra realtà sociale rispetto al sistema politico, e per continuare ad esserlo deve mantenere una circolazione di linguaggio che sia irriducibile alla codificazione del sistema politico"11. Rimane da vedere, poi, se effettivamente e sempre, come sostenuto da Papi: "Il linguaggio del movimento è in genere linguaggio del senso comune, esprime volontà, diritti e speranze come se essi potessero essere esauditi in uno scenario elementare di richiesta e decisione; il linguaggio appartiene a un sentimento della vita che è certamente laterale rispetto a quello politico: il che non significa che i valori che esso trova non abbiano significati così potenti da sottintendere un ricominciamento del mondo, così che rispetto ad essi il sistema politico può quasi trovarsi in condizione di misconoscimento. Del resto qualsiasi sistema analitico, parlando di qualsiasi cosa, continua a parlare di se stesso come istituzione soggetta a regole e a successi e insuccessi. Il movimento non parla mai di se stesso, esso si trova come effetto del piano discorsivo emergente. Questo significa che è un linguaggio pretecnico, molto vicino al mondo della vita, capace di rappresentare valori molto generali e desideri disarmonici rispetto allo stato prevalente delle cose. È proprio questa sua natura che lo costringe a intrattenere un rapporto molto delicato con la temporalità"12.

Si può, però, affermare: oltre al linguaggio "normale" del senso comune, i movimenti sono dotati di un linguaggio straordinario che dice ed esprime la straordinarietà del senso, in opposizione alla massificazione apportata dalla uniformità sociale. È possibile affermare: i movimenti sono una ribellione simultanea alla situazione del potere e a quella della massa. Le difficoltà più grandi dei movimenti nascono, in genere, dal loro essere contestualmente desituazionati rispetto al potere (che sottopongono a critica) e alla massa (la cui condizione di impoverimento e normazione hanno superato). Tale complesso processo diviene realtà operante, a partire dal formarsi, con gli inizi del secolo, della società di massa, i cui embrioni furono genialmente individuati da Toqueville nelle sue riflessioni sull'associazionismo democratico americano13. Ecco perché i movimenti man-cano — e dovevano mancare — nella profonda e fine analisi di Canetti14. Tuttavia, nelle forme della "muta" e del "cristallo di massa"15 movimenti e massa hanno un'origine comune.

Si tratta di indagare il punto in cui è subentrata la biforcazione tra massa e movimenti. A primo acchito, sembra lecito avanzare, con prudenza, questa ipotesi: laddove il "cristallo di massa" non ha trasformato le sue modalità espressive in giustificazione ontologica ed ideologica dei reticoli del potere, là si salva il senso della critica, della soggettività e dell'identità collettiva in costruzione. Là al carattere inerte amorfo e normato della massa subentra lo "slancio vitale" dei movimenti. Entro siffatta dimensione, il linguaggio dei movimenti urta il senso comune, lo deborda e gli indirizza contro una critica puntuale, recuperandone la profondità e il sostrato di verità. Né qui, stando al piano precipuo su cui stiamo situando il nostro discorso, il senso comune è riconducibile, per ora, al piano e al linguaggio dell'etica; ci mancano ancora passaggi di analisi e di situazione per poter fare, con Wittgenstein, questo balzo critico-ermeneutico16. È vero, peraltro, che i movimenti hanno una difficoltà a parlare di se stessi, per cui il processo attraverso cui vincono questo ostacolo è stato efficacemente designato come "presa di parola"; come avremo modo di esaminare nell’ultimo capitolo. Fino a quando la "presa di parola" non si attiva, i movimenti non riescono a parlare con chiara compiutezza nemmeno di altro. Qui essi vengono meno non semplicemente come "effetto" del piano discorsivo; bensì come causa o sistema differenziato di cause e funzioni del piano discorsivo. È una struttura polifunzionale e policausale il senso ricco e "forte" dei movimenti, della loro esistenza, della loro espressione e della loro politicità in senso lato. Questa è la struttura che, sovente, rischia di rimanere senza adeguata rappresentazione simbolica e discorsiva. Esattamente tale evidenza fa oscillare continuamente i movimenti nelle onde del risucchio tra potere e massa.

Ecco la configurazione del dato di fondo emergente: la vicinanza dei movimenti al mondo della vita non sempre si sostanzia in quel salto che afferra il tempo rimosso e il tempo insorgente. È il rapporto con la temporalità che qui soffre. Riafferrando le radici e il ritmo della temporalità, i movimenti si costituiscono come radicale apertura di senso, i cui orizzonti sono Eros e politica. Valgono qui come critica della "comunità illusoria", direbbe Marx17. Non costituiscono, però, la comunità reale. Piuttosto, la comunità reale è più vicina all'idea-forza dello Stato, sul piano politico; più vicina alle (antiche e nuove) aggregazioni comunitarie antistatalistiche, sul piano sociale e giuridico- simbolico. ln ambedue i casi, è vicina proprio al senso comune trivializzato: o alla linearità del progetto finalistico dello Stato; oppure all'autonomismo teleologico comunitario. Per vie diverse, aleggia il fantasma terribile del potere evacuarono delle tecniche: (i) lo Stato si assiomatizza; (ii) lo spirito comunitario evoca una primordialità pretecnica presuntivamente al riparo dal dominio delle tecnologie; ma, in realtà, convivendovi. l movimenti, nella loro più autentica natura, sfuggono a questa duplice presa stritolante. Da questo lato, sono riscrittura dei tempi sociali, collettivi e istituzionali. Ma, di per sé — e questo è il loro limite invalicabile —, non possono fondare e rifondare una nuova forma di società, un esaustivo quadro di relazionalità sociale. Da qui una necessità impellente: trasformare la critica dai movimenti inoltrata al potere in modificazione profonda delle forme del potere. Ciò implica una interazione, per quanto conflittuale, col sistema politico-istituzionale. Concorrere a determinare un nuovo reticolo formale e nuove formalizzazioni simbolico-discorsive nel dispositivo e nei linguaggi del potere rappresenta una soglia stretta attraverso cui i movimenti non possono a lungo omettere di transitare. Il potere dei movimenti è anche potere di eccedenza. Cristallizzare questo "ec-cesso" vuole dire cambiare faccia e anima alle forme del potere, sgravando il sistema politico dal peso della "volontà di potenza". Qui i movimenti coniugano la loro libertà con la libertà di tutti. Libertà dei movimenti e poteri emancipati sono i cardini dell'ordine civile virtuoso e della "felicità pubblica", per usare un lessico assai caro ai filosofi del Settecento. Gli esiti più significativi di questa dialettica appaiono così riassumibili: trasformazione del potere a mezzo dei movimenti e della massa a mezzo del potere (trasformato).

Il piano discorsivo si costituisce meglio, se si considerano le dinamiche dei movimenti in relazione a due situazioni tipiche: azione e conflitto18.

Per A. Melucci, la categoria e la realtà del conflitto sono indicative della differenza specifica tra azione collettiva e movimenti sociali, nel senso che solo i secondi sono portatori di conflitto19. Il conflitto, secondo Melucci, attenendo alle regole del gioco, rompe il quadro delle compatibilità del sistema politico: evoca altre regole. La rimessa in questione della "regola" è contestualmente revoca in dubbio della legittimità degli attori che la incarnano. La posta in gioco, in questo modello analitico, è tra due "attori opposizionali" (movimenti sociali e sistema politico) e include un sistema di rimandi a ordini regolativi parimenti opposizionali. Siffatta contesa opposizionale, secondo Me-lucci, rappresenta il tratto distintivo dei movimenti sociali; i quali possono meglio essere qualificati come movimenti conflittuali. Solo l'azione dei movimenti è veramente azione conflittuale. L'azione collettiva si muove dentro il quadro delle compatibilità deI sistema. Due le maggiori risultanze: (i) la tipicizzazione dei movimenti come portatori di conflitto; (ii) la primarietà ontologica dei movimenti rispetto al conflitto. Col che si spezza il primato ontologico del conflitto postulato dalle teorie sociali classiche20.

Attraverso questo itinerario teorico-concettuale, Melucci perviene alla formulazione di un modello analitico che si pone il dichiarato obiettivo di rompere definitivamente i ponti coi paradigmi delle teorie sociali del conflitto della tradizione otto-novecentesca. Per Melucci, il maggior vizio di tali paradigmi è quello di ipostatizzare il conflitto come "teatro", entro il quale i movimenti sono sempre e solo "perso-naggi-attori" recitanti necessariamente un copione predeterminato21. Secondo Melucci, rovesciare criticamente questi paradigmi è possibile solo assumendo quel dato secondo cui i movimenti "operano come segni", lanciando "sfide simboliche" al vigente sistema delle relazioni sociali e comunicative22. Non è qui possibile soffermarsi su questa dimensione critica23. Due sono le evidenze, invece, su cui ci preme riflettere: (i) i limiti peculiari del modello binario ordine/conflitto; (ii) la linea di fuga dei movimenti rispetto alle sfere del 'politico' e il loro strutturarsi in confronto ai temi cruciali della vita e della morte24. Qui ci limitiamo a osservare che: " ... conflitto e movimenti non sono — funzionalmente e sistemicamente — prodotto della e risposta alla complessità sociale; ma, piuttosto, realizzazione critica di complessità. Non solo incrementazione combinatoria di ordine e/o necessità funzionale della stabilità per il tramite dell'instabilità, dell'equilibrio per il tramite dello squilibrio; bensì fattori critici della mutazione e dell'autoriproduzione sociale. Ne discende che le dicotomie classiche stabilità/instabilità, equilibrio/squilibrio non riescono più a lumeggiare le ragioni d'essere di conflitto e movimenti"25. Si ritornerà sul condensato di questi temi nel prossimo capitolo.

2. Identità, senso e differenza

Se ci approssimiamo al tema dell'identità, il crepuscolo del codice binario si staglia con particolare nettezza. Non casualmente, è con specifico riguardo a tale tema che la sociologia ha latitato fino a tutti gli anni Sessanta: il terreno è stato occupato interamente dalla corrente di pensiero psicologico americano nota sotto la denominazione di "interazionismo simbolico". Solo a cominciare dagli anni Sessanta, a fronte dell'insorgenza di "nuovi movimenti" nelle società avanzate, si è prodotto un vero e proprio fiorire di "teorie dell'identità"26. Con il principiare degli anni Sessanta prende corpo la "rinascita sociologica", in Usa, con la "fenomenologia sociale" di Berger e Luckmann, ecc., significativamente ancorata sui presupposti della filosofia di Husserl e sugli sviluppi successivi delineatisi con Scheler e Schutz. Sempre in Usa, si registra la "seconda ondata" verso il finire degli anni Sessanta, assumente come soggetto e oggetto l"'identità sociale" (lsaacs, De Vos, Turner, ecc.). Proprio a questo tornante si dà la saldatura tra "identità" e "nuovi movimenti". Con gli anni Settanta la "rinascita sociologica" arriva anche in Europa. In ltalia, con Pizzorno e Melucci, il tema inquadrato è quello attinente alla relazione tra "azione collettiva" e "movimenti". In Germania, i rappresentanti insigne sono Offe ed Habermas; in Francia, Touraine.

Tutto intero il complesso di questi nuovi indirizzi sociologici fa perno su una premessa comune: la mobilitazione collettiva nelle società avanzate si qualifica primariamente come rivendicazione del "diritto all'essere", piuttosto che al "fare" o all'"avere". Saltano due to-poi classici: la razionalità utilitarista dell'agire conforme all'interesse e la razionalità weberiana dell'agire conforme allo scopo. Ecco come Turner emblematicamente si esprime in un testo del 1969, centrato sul tema dei movimenti sociali contemporanei:

Sebbene questa preoccupazione sia presente da millenni, il fenomeno di un uomo che prorompe in accenti di indignazione perché la sua società non gli ha fornito un senso di valore personale e di identità è il nuovo carattere distintivo della nostra era.

L'idea di una persona che non possiede un sentimento di valore personale sia da compatire è una vecchia idea. La nozione che questa persona sia in verità vittima di un'ingiustizia è un'idea del tutto nuova27.

Si può concludere, in prima approssimazione, che attorno al tema dell'identità i movimenti costituiscono un nuovo insediamento antropologico-simbolico: il diritto al senso; in tale direzione la nostra analisi si tornerà a muoverà nel sesto ed ultimo capitolo. L'identità, per esprimersi, ha bisogno di azioni, le quali sono tanto storico-sociali che antropologico-simboliche. L'azione, qualunque sia la sua cifra, pone in comunicazione identità ed espressione. In essa, ogni processo costruttivo dell'identità riconosce il proprio senso e quello altrui. La scelta e la decisione immanenti e, per altri versi, esterne all'identità divengono condotte che attengono al senso. Nel codice binario, particolarmente il territorio del senso e il sottosuolo dell'etica risultano completamente sacrificati.

Tenere conto di questo campo problematico vuole dire istituire e mantenere ferma una distinzione fondamentale: quella tra comportamento e identità. Lungo questo asse nevralgico si dispiega la critica acuminata operata dalle teorie dell'identità al comportamentismo. Ora, l'approccio anti-behavioristico non concerne solo la posizione dell'attore sociale; si estende, piuttosto, alla stessa posizione dell'osservatore. Anche lo Stato, nel rapporto coi movimenti, assume una posizione di "osservatore sociale"; come, reciprocamente, i movimenti "osservano" l'azione dello Stato. Ogni soggetto e/o gruppo agisce e osserva la propria differenza, senza mai risolversi interamente negli eventi simbolici e materiali a cui mette mano o riverbera. È sempre qualcosa di differente, di irriducibile all'azione/osservazione, anche riflessiva e riflettente, di cui è protagonista. Paradossalmente: ognuno è differente persino rispetto alle sua propria differenza. Questo il nucleo vitale dell'identità: la possibilità e la necessità, per ognuno e per tutti, di essere se stessi e cambiare attraverso il flusso relazionale e l'insediamento di senso, mai omologanti l'identità. L'identità singola medesima non è schiacciata sul Sé, ma rimane costantemente aperta all'Altro. L'lo non è mai integralmente tale, se si autolimita e chiude nell'lo; è veramente tale solo se si decentra verso l'Altro. "lo è l'altro": già diceva Rimbaud e opportunamente lo rammenta Loredana Sciolla28. Così è per i movimenti stessi: I'alterità non è soltanto confine esterno (laterale, per dir così) dell'identità, ma si introietta nelle sue medesime regioni interne. Salta anche qui il codice binario; come si vede. Stratificazioni e differenziazioni interne solcano quegli stessi movimenti che pure affermano chiare e unitarie identità. ln questo senso, pare calzante la definizione che delI'identità dà T. Parsons: struttura di codici; vale a dire: "il riferimento quadro all'interno del quale si stabilisce quali significati personali possono essere concretamente simbolizzati e pertanto "espressi", "agiti" e "realiz-zati" e quali no"29 La teoria dell'azione, in T. Parsons, si basa sull'integrazione proprio di due prospettive: (i) ogni individuo va considerato come "attore privato" e (ii) come "oggetto di orientamento", non solo per gli altri attori del sistema, ma anche per se stesso30. E ancora: "ciascun individuo è coinvolto in sistemi interattivi multipli, cosicché la parte del suo sistema motivazionale "impegnata" varierà da un contesto di interazione all'altro, così come varierà anche il suo significato in quanto oggetto"31. Parsons legge questa interattività multipla come un "sistema ... dotato di una precisa struttura"32. A base di que-st'ultima non vi sono ""motivi" nel senso consueto del termine", piuttosto un aggregato "metamotivazionale""33. Sicché identità non è soltanto collocazione e identificazione, ma pure orientamento e ricerca di senso. Se una razionalità vuole qui ricercarsi, è una razionalità del senso, alla quale soggiacciono i mezzi e i fini. Stringendo in un unico e critico contesto Weber e Parsons, quella del senso è configurabile come una metarazionalità sorretta da una metamotivazionalità. Un riferimento del genere assume, di fatto, G. Marramao, quando sposta il piano discorsivo della riflessione dal "post-politico" alla "metapoliti-ca"34. Diventa, pertanto, agevole e necessario combinare la critica alle teorie sistemico-funzionaliste e alla nuova sociologia dei movimenti con l'accoglimento problematico di qualcuno dei più rilevanti temi e assi di indagine da questi approcci, in vario modo, definiti e aperti. Che la stratificazione delle realtà sociali e degli eventi storici, che il condensato multiforme delle codificazioni simboliche non siano più quelli ereditati dalle società industriali classiche è un dato inoppugnabile. Questo aggregato proteiforme di "novum" non può essere semplicemente patito o subito; bensì adeguatamente interpretato e indagato. Se, sulla scorta delle sollecitazioni di Marramao, si sventaglia ulteriormente il campo dell'analisi fino a penetrare il territorio dell'ermeneutica applicata ai movimenti, all'azione, al conflitto e all'identità, non rimane che installare primi picchetti di una metaermeneutica definita in senso polisistemico, polifunzionale e polisimbolico. Appare immediatamente chiaro che nello scenario metaermeneutico così alluso rilevante, tra gli altri, è il ruolo dell'Eros e della politica, scandagliati al livello di cogenza della società informatica35. La "fun-zione" vitale di una siffatta metaermeneutica, tuttavia, pare decisiva su di un altro piano: quello della libertà. È proprio una metaermeneutica trasversalmente disposta che sfugge al determinismo sistemico-funzionalista, dando parzialmente ragione alle obiezioni critiche indirizzate contro la teoria dell'azione sociale di T. Parsons36. Così riflettendo, la libertà non è più configurata o configurabile come 'funzione" (del sistema o dell'attore sociale; dell'identità o del soggetto). Sono la ricerca di senso e l'apertura al senso a porsi come ricerca di libertà, apertura alla libertà. Ciò disvela pienamente l'anima segreta e il rivolo più prezioso della metaermeneutica di cui stiamo tentando di definire gli elementi operativi.

Il vero terreno roccioso da dissodare e su cui misurare il grado di effettualità e di cogenza della metaermeneutica qui postulata è quello delimitato dal nesso tra identità e differenza. Dice Levi-Strauss: "A voler credere ad alcuni, la crisi di identità sarebbe il nuovo mal du siecle"37. Gli fa eco J.M. Benoist: "Una questione della differenza percorre, in effetti, il nostro tempo e lo fa addirittura rabbrividire. La differenza tra i sessi, la differenza tra natura e cultura, la differenza tra le culture e i codici nazionali o regionali si sono riaffermate. Un' idea fissa attraversa il nostro tempo saturo di comunicazione: è l'idea del ripiegamento di ciascuno sul suo territorio, su quello che costituisce la sua differenza e, quindi, la sua propria identità separata. Ci si trova a sognare un nuovo radicamento nello spazio insulare di una separazione"38. Il procedimento sollecitato da Benoist è quello della "decostruzione" e della "detotalizzazione" delle identità (unità) universalistiche, sia di tipo antropologico-etnocentrico che filosofico-spiri-tuale, richiamandosi esplicitamente all'opera di Levi-Strauss39. Sicché:

Con questo gesto, un'identità grossolana, immediata, una identità di "superficie" deve lasciare il posto a una ricerca delle strutture profonde che conformano l'identità nel suo aspetto relazionale: la questione dell'Altro appare come costitutiva dell'identità. Evidentemente è a proposito della questione del nome proprio che essa si pone in maniera privilegiata: il nome proprio, luogo dell'iscrizione sociale del gruppo sul soggetto, va messo in rapporto con il tipo di spaccatura che il significante opera sull'illusoria identità in Sé della persona40.

Coerentemente, Benoist passa, poi, a configurare il sistema differenziato della struttura sfaccettata dell'identità, disaggregandolo in cinque sottosistemi41.

Non staremo qui a insistere sul merito della riflessione di Benoist e sui richiami in essa contenuti. Due sono i nodi che ci preme maggiormente isolare: (i) la topologia dell'identità e (ii) la topologia della differenza. Ovverosia: aprire lo sguardo sulla "doppia via" sia dell'identità che della differenza. Si tratta di una "doppia via" particolare che dall'identità conduce alla differenza e, reciprocamente, dalla differenza riconduce all'identità. Come si vede, il tema è assai antico e ci trasporta fino al pianeta del pensiero presocratico, in cui fanno spicco le categorie dell'Uno, dell'Essere, del Tutto, della Pace, del Conflitto, ecc.42. Appare sin troppo scontato che un tema di siffatta portata non sia potuto sfuggire alla riflessione di M. Heidegger. Egli chiarisce immediatamente i termini del problema: "... l'identità nel corso del pensiero occidentale appare con il carattere dell'unità"; precisando subito dopo:

Questa unità, però, non è affatto l'inane vacuità di ciò che, in se stesso privo di relazioni, si irrigidisce ostinatamente in una uniformità. Tuttavia, prima che la relazione dell'identico con se stesso, venga decisamente e con tutti i suoi tratti in luce come tale mediazione, prima persino che venga trovato per questo emergere della mediazione nell'ambito dell'identità, il pensiero occidentale ha bisogno di più di duemila anni. Solo la filosofia dell'idealismo speculativo, infatti, preparata da Leibniz e da Kant, con Ficthe, Schelling e Hegel fonda un ricovero per l'essenza in sé sintetica dell'identità. Tale ricovero non può essere qui mostrato. Solo di una cosa bisogna ricordarsi: a partire dall'epoca dell'idealismo speculativo resta interdetto al pensiero di rappresentare l'unità dell'identità come pura uniformità e di prescindere dalla mediazione che domina nell'unità. Dove questo accade, I'identità è rappresentata in modo soltanto astratto43.

Come congedarsi da questa astrazione? Risponde Heidegger:

Abbandonando l'atteggiamento del pensiero rappresentativo. Que-sto abbandono è un salto, un salto che comporta un distacco dalla rappresentazione corrente dell'uomo come animal rationale, che nell'epoca moderna è divenuto il soggetto per i suoi oggetti. Il salto si distacca in pari tempo dall'essere, I'essere che pure, sin dai primordi del pensiero occidentale, è interpretato come fondamento su cui si fonda ogni essente in quanto essente44.

Il salto rende, così, visibile la "costellazione" che comprende essere e uomo45. Più chiaramente ancora:

Il salto è subitaneo ingresso nelI'ambito a partire dal quale uomo ed essere, nella loro essenza, si sono già da sempre reciprocamente raggiunti, poiché entrambi grazie alla loro bastevolezza sono consegnati l'uno all'altro. L'ingresso nell'ambito in cui avviene questa traspropiazione è quello che per primo dà il tono all'esperienza del pensiero e per prima la determina46.

Ma ecco qui il paradosso: "Salto singolare, che ci consente di vedere la nostra incapacità di soffermarci in modo bastevole là dove propriamente già siamo"; ma, allora: "Dove siamo? In quale costellazione di essere e uomo?"47.

La riflessione di Heidegger subisce qui uno scatto interno vorticoso: dalle origini sobbalza istantaneamente al presente e alle sue tendenze più profonde e durature. La costellazione in cui dimoriamo è l'era atomica; è questo il modo attraverso cui "l'essere, nel mondo della tecnica, ci è presente"48. Ed ecco che qui il dilemma dell'origine si muta in dramma dell'approdo: mondo della tecnica ed essere non possono stare insieme; "neanche se ci rappresentassimo questo mondo come il tutto in cui sono inclusi energia atomica, pianificazione calcolante dell'uomo e automazione"49 Donde questo impedimento? È lo stesso Heidegger a fornirci la soluzione dell'interrogativo:

Perché ogni analisi della situazione pensa in modo troppo ristretto finché spiega il suddetto tutto del mondo della tecnica sin dall'inizio a partire dalI'uomo, come il piano che l'uomo progetta, un piano che alla fine costringe l'uomo a dover decidere se voglia diventare schiavo del suo stesso piano o se voglia restarne il signore50.

Invece no: la libertà sta nell'uscita da questa costellazione dualistica; lo sguardo che afferra e salva sta nella frantumazione del codice binario, imploso nell'irresolubile dilemma: o servo o signore. La base dell'asservimento al codice binario è qui data da una omissione: nessun ascolto viene dato all'appello dell'essere e tutto si reticola nell'ascolto della connessione fragorosa e abbagliante uomo/tecnica51. L'etica stessa è strappata al legame con l'essere e ricondotta unicamente al nesso con l'uomo: "Con questa rappresentazione del complesso del mondo della tecnica tutto è ricondotto all'uomo e si perviene, nel migliore dei casi, all'esigenza di un'etica adeguata al mondo della tecnica"52.

L'esigenza primaria diviene quella di strappare dal silenzio e dalle linee d'ombra l'appello dell'essere, il quale costringe a pensare e a ripensare, interpretare e reinterpretare la stessa tecnica. È tempo, dice Heidegger, di sottrarre la tecnica dalle mani dell'uomo e delle sue macchine. Egli osserva:"Tutta la nostra esistenza si trova ovunque — ora per gioco, ora per un senso di oppressione, ora perché presa dall'affanno, ora perché spintavi — di fronte alle provocazioni di doversi sottoporre per ogni cosa alla pianificazione e al calcolo"53. Su questo camminamento iniziale si innestano sviluppi ancora più significativi, i quali conducono Heidegger a conseguenze assai radicali:

Fino a che la meditazione sul mondo dell'era atomica, con tutta la consapevolezza della sua responsabilità, tende soltanto a conseguire l'uso pacifico dell'energia atomica, considerando, però, anche esaurito il suo compito con il conseguimento di tale finalità, fino ad allora il pensiero resterà fermo a metà strada. Con questa strada percorsa soltanto per metà il mondo della tecnica viene ulteriormente, ed anzi solo allora, assicurato nel suo predominio metafisico. Ma dove è stato deciso che la natura in quanto tale debba restare per tutto il tempo a venire la natura della fisica moderna e la storia (Geschichte) rappresentarsi come storiografia (Histoire)? Certo non possiamo né rifiutare l'odierno mondo della tecnica come opera diabolica, né ci è consentito distruggerlo nel caso che non provveda a farlo da sé54.

Portare il pensiero oltre la metà strada che ha già compiuto, dunque. Come tutto questo è possibile nel tempo della tecnica, della previsione, del calcolo e della pianificazione? Occorre, per questo, un salto che è anche uno strappo: nel tempo della tecnica, il tempo del pensiero deve staccarsi e congedarsi dal tempo del calcolo. Il pensiero deve ripiegare entro il suo proprio tempo e, con ciò, saltare oltre la temporalità calcolistica, inessenziale ai fini del pensiero autentico e dell'autentico tempo. Pensare l'autenticità del pensiero nell'autenticità del tempo: ecco i nodi da stringere e, poi, dipanare. Heidegger è estremamente chiaro: "Proprio perché tale ripiegamento esige un salto, ha bisogno del suo tempo, del tempo del pensiero, che è un tempo diverso rispetto a quello del calcolo che oggi da tutte le parti attrae tanto il nostro pensiero. Un cervello elettronico, oggi, può in un secondo compiere operazioni in cui compaiono migliaia di relazioni, relazioni che, nonostante la loro utilità tecnica, sono inessenziali"55

Ma pensare l'autenticità del pensiero nel tempo autentico (del pensiero) non può che ininterrottamente condurre a pensare la Tradizione e il posto da essa assegnato all'Assoluto56. Ripensare Tradizione e Assoluto, nell'era del dominio della tecnica e del pensiero calcolante: questa l'inaudita posta in gioco di Heidegger. Ma sentiamolo direttamente: "Tutto ciò che tentiamo di pensare e in qualunque modo tentiamo di pensarlo, lo pensiamo nell'ambito della tradizione. Essa si impone quando ci libera da un pensiero che segue le cose per portarci verso un pensiero che le anticipi senza essere più un pianificare"57. L'effetto liberante della Tradizione incunea una svolta: interrompe la linearità cumulativa del pensiero pervenuto alla forma calcolistica e pianificante, restituendoci un lembo dell'autentico originario. Ritornare col pensiero al pensiero della Tradizione (e, perciò: ripensarla) non è, pertanto, operazione regressiva o celebrativa; bensì emancipazione che libera il pensiero e la costellazione essere/uomo dai ceppi del calcolo, proiettandoli verso un futuro ignoto, in cui si può anche morire; ma dove, in ogni punto, più riccamente e intensamente noi viviamo, lì condotti dai luoghi dell'origine. Dai luoghi d'origine le cose sono dal pensiero anticipabili; non già calcolabili e pianificabili. Subentrato il tempo del pensiero e a contatto con la temporalità pensante, I'anticipazione vale precisamente come messa in scacco della pianificazione e del calcolo. Attraverso questo grimaldello, il pensiero scardina la razionalità del pensare calcolante e pianificatorio, lasciando senza appiglio epistemologico la strumentalità di quel pensiero che costruisce il presente come piano e il futuro come accumulazione. Tempo rimosso, tempo insorgente e tempo possibile sono affrancati dall'infeudamento a cui erano stati aggiogati dai tempi della tecnica e del calcolo. Il pensiero che qui si rapporta al tempo è pensiero che si rapporta al vero pensiero; la vita che qui si rapporta al tempo è la vera vita. In questo pensiero e questa vita, il tempo è relazione al tempo vero. Ritorniamo al "già pensato" e al "già vissuto", esattamente per continuare a pensare e continuare a vivere. E qui la continuazione è, ogni volta, un'alba nuova gettata sul tempo e sulla vita. Solo dal vero già pensato e dal vero già vissuto si può procedere verso ciò che rimane ancora veramente da pensare e da vivere: qui germinano il pensabile non pensato e il vivibile non vissuto. Dice Heidegger: "Solo se ci rivolgiamo pensando verso ciò che è stato già pensato, ci troviamo ad esser volti al servizio di ciò che ancora è da pensare"58. Identità e differenza ci riportano alla costellazione essere/uomo, sull'orizzonte esperito ed esperibile del vissuto e del vivibile. La prima e più riposta stratificazione di senso è qui data dal nesso combinatorio e articolato di pensiero e vita. Nella costellazione essere/uomo e identità/differenza, grazie a Heidegger, possiamo discernere l'incrocio e la biforcazione che ne costituiscono, per così dire, il nucleo atomico: forme del pensiero e forme della vita. Una ragione in più per riferire qualunque costellazione non soltanto all'uomo, ma anche e inestricabilmente all'essere.

Per Heidegger: "Per noi la questione del pensiero è, con una denominazione provvisoria, la differenza in quanto differenza"61. Ossia: il pensiero è differenza, in quanto impensato61. L'impensato è il "pas-so indietro" del pensiero, a partire dal quale il pensiero è portato "fuori da quanto è stato pensato finora nella filosofia"61. Qui Heidegger precisa la sua posizione colloquiando con Hegel e, segnatamente, con lo Hegel della Scienza della Logica. ll "passo indietro" è la risposta di Heidegger al superamento concettualizzato da Hegel: "Il passo indietro va dall'impensato, dalla differenza come tale, a ciò che è-da-pensare. Questo è l'oblio della differenza .... L'oblio appartiene alla differenza, perché la differenza è all'ascolto dell'oblio. L'oblio non scende sulla differenza in un tempo successivo come conseguenza di una dimenticanza del pensiero umano"62. Ancora meglio: "il passo indietro dalla metafisica all'essere della metafisica è, visto a partire dal presente e assunto a partire dalla visione che di tale presente abbiamo, il passo della tecnologia e dalla descrizione e interpretazione tecnologiche dell'epoca attuale all'essenza che per prima è da pensare, all'essenza della tecnica moderna .... La direzione che il passo indietro ci spinge a prendere, beninteso, si dispiega e si mostra, solo con il compimento del passo"65. La differenza soltanto è all'ascolto dell'oblio; e, dunque, solo da questo ascolto nasce e rinasce la stessa identità. Non vi può essere identità, senza oblio e senza memoria e ascolto dell'oblio: ascolto e memoria passano per la differenza; sono la differenza. Il pensiero, per pensare, transita per l'impensato; ed è l'impensato che fa la differenza del/e nel pensiero. Pensare, allora, è tornare indietro al già pensato: prima che il già pensato sia stato ancora pensato e da lì ricominciare a ordire la tela del pensiero. Pensare è sempre introdurre la differenza; vivere è sempre l'esistere della differenza. Il passo indietro del pensiero e della vita è il punto originario della deviazione che parte dall'origine: I'origine della differenza. Ma, dicendo questo, è come se dicessimo: non vi può essere differenza senza identità ed è dietro quest’ultima che il passo indietro deve risospingersi. Crisi di identità, allora, più propriamente e intensamente è povertà e impoverimento della dífferenza: là e quando essa manca; là e quando non si pensa e non la si pensa; là e quando non vive e non passa all'ascolto. Ma impoverimento della differenza è immiserimento e, perciò, indigenza dell'essere e dell'umanità. Nell'indigenza, si perde la memoria dell'oblio e viene meno l'ascolto: il pensiero e la vita assumono un andamento lineare, risucchiato nel vortice del calcolo. Ascolto, in Heidegger, è anche annuncio di un tempo redento dal dominio calcolistico, previsionale e pianificatorio della tecnica: se l'essere è differenza65, lo è ancor di più l'ascolto che annuncia 65. Nell'ascolto che annuncia risiede il "centro di unità" profondo della costellazione essere/uomo. L'ascolto annuncia l'essere e l'oblio; in particolare, è essere dell'oblio, tirandolo fuori dai gironi e dalle nebbie dell'indistinto e della dimenticanza. Entro questo filone, a metà tra l'ermeneutica e la genealogia, ci sospingiamo dietro, ben dentro il radicalismo di Nietzsche, come genialmente intuito da Foucault66. Ma ripensiamo anche, ancora una volta con Heidegger, tutta la teoria della costellazione essere/uomo nella filosofia occidentale, dai presocratici ai giorni nostri. Questo è il passo indietro che, per dirla con Heidegger, mantiene in cammino il pensiero, poiché pensare è essere in cammino, conservare e continuare il cammino67. Ma se il cammino è la costante del pensiero, come ci insegna Heidegger, i passi che il pensiero compie per camminare fanno la differenza. Il cammino dei passi è la differenza. Possiamo dire: il pensiero delI'ascolto68 e dell'annuncio porta a spasso l'identità nel territorio della differenza; e fa arretrare la differenza: la fa ritrarre dall'identità. La differenza cammina, poiché è alla ricerca di un'altra identità: la sua. L'identità soffre della propria sovrabbondanza e della propria autosufficienza, poiché, chiudendo il (suo) circolo, stenta a rinvenire l'Altro. La differenza è il territorio attraverso il quale l'Altro si mostra e si costruisce, si pensa ed esiste. Essa è: "l'essere pensato a partire dalla differenza"69 Quindi, è: "passaggio che tramanda" e "arrivo"70. Da ora in avanti, diversamente da quanto avviene nella metafisica, I'attenzione è alla differenza come differenza; non già al differente della differenza71. Il differente deriva dalla differenza: "La provenienza di quest'ultima non consente più che la si pensi nell'orizzonte della metafisica"72.

Il passo indietro si corona e compie; diviene passo che conduce fuori. Al passaggio che tramanda e all'arrivo si aggiunge un'ulteriore determinazione: il passaggio che arriva, aprendo e dislocando un nuovo cammino. Qui un punto che riparte dall'origine, dopo aver ricondotto all'origine tutto il tramandato. Una volta di più, a questo tornante, possiamo dire con Nietzsche: "Dio è morto". Lo stesso Heidegger ne è estremamente consapevole: "Così, il pensiero privo di un dio, il pensiero che deve fare a meno del dio della filosofia, del dio come causa sui, è forse più vicino al dio divino. Ciò significa, qui, soltanto che un tale pensiero è più libero del dio divino di quanto la onto-teologia non sia disposta ad ammettere"73. Ecco, dunque, disvelate le strade attraverso cui gli Dèi fuggiti di Hölderlin e Rilke possono fare ritorno. Ma, qui, per continuare ad essere Dèi, devono trasmutarsi in figurazioni divine altre. Qui non si salvano e non si conservano immutati nemmeno gli Dèi. Sono, dunque, altri Dèi e altri umani che possono salvarci dal dominio della tecnica; altre costellazioni di essere/uomo e identità/differenza. Lungo questo versante è possibile registrare una confluenza intensa tra gli Dèi di Hölderlin/Rilke/Heidegger e quelli di Borges. In un lungo passo borgesiano leggiamo:

Il luogo era la Facoltà di Filosofia e lettere: l'ora, l'annottare.... Bruscamente ci stordì un clamore di manifestazione o di musici ambulanti. Grida umane e animali giungevano dal basso. Una voce gridò: "Eccoli!" e poi: "Gli Dèi! Gli Dèi!". Quattro o cinque esseri uscirono dalla turba e occuparono la pedana dell'Aula Magna. Tutti applaudimmo, piangenti: erano gli Dèi che tornavano dopo un esilio di secoli ... Tutto cominciò col sospetto (forse esagerato) che gli Dèi non sapessero parlare. Secoli di vita errabonda e ferina avevano atrofizzato in essi il carattere umano: la luna dell'Islam e la Croce di Roma erano state implacabili con quei profughi ... Le loro vesti non si addicevano a una povertà decorosa e onesta ma al lusso spregevole delle bische e dei lupanari dei bassifondi. Improvvisamente sentimmo che giocavano la loro ultima carta, ch'erano scaltri, ignoranti e crudeli come vecchi animali da preda e che, se ci fossimo lasciati vincere dalla paura e dalla compassione, avrebbero finito col distruggerci. Estraemmo le pesanti rivoltelle (all’improvviso vi furono rivoltelle nel sogno) e gioiosa-mente demmo morte agli Dèi74.

Dèi e uomini si uccidono a vicenda e rinascono all'unisono. L'uccisione degli Dèi, presente nel sogno descritto da Borges, è, in pari tempo, uccisione di quegli umani su cui quegli Dèi dominavano. Quell’uccisione si origina dall'idea e dalla presenza di divino e umano che quegli umani ancora avvertivano in sé e la materializzazione di quegli Dèi flagrantemente tradivano. Direbbe Vico: quella uccisione degli Dèi figura come ritorno degli umani al divino e umano che più autenticamente albergano in loro . Gli Dèi autentici, allora, ritornano soltanto presso gli umani che fanno ritorno autentico a se stessi, al difficile contrassegno di verità di cui sono sigillo. Nella rottura di questa costellazione e nell'eccesso della rottura fa capolino una hybris antica che ha accompagnato tutta la storia del pensiero e della civiltà occidentale, di cui una certa idea della tecnica e della complessità è il riflesso secolarizzato e disincantato, tremendamente innovato e dilatato; fino a territorializzare suoi lembi non trascurabili nel patrimonio di senso dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Su quest'ultima evidenza argomenteremo nel prossimo capitolo.

 

 

Note

1 Su questo pluriorizzonte si concentra il pregevole lavoro di P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori Riuniti, 1988.

2 N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979.

3 F. Papi, Movimenti e potere, in G. Penzo (a cura di), Il potere, Roma, Città Nuova, 1985, p. 154.

4 Di O. Kirchheimer, sul punto, risultano fondamentali: Mutamenti di struttura del compromesso politico, in G. Marramao (a cura di), Tecnologia e potere nelle società post-liberali, Napoli, Liguori, 1981, pp. 103-136; Il tramonto dell'opposizione politica, "MicroMega", n. l, 1986, pp. 257-374. Su questo lato della riflessione politica di Kirchheimer importanti risultano: A Bolaffi, Introduzione a O. Kirchheimer, Costituzione senza sovrano, Bari, De Donato, 1982; A. Bolaffi, I sistemi politici tra entropia ed eterno 'paradosso' dell'opposizione, Presentazione di O. Kirchheimer, Il tramonto... cit., MicroMega, n. 1, 1986, pp. 251-256; G. Marramao, Introduzione a Tecnologia e..., cit.; G. Marramao, Politica e 'complessità': lo Stato tardo capitalistico come categoria e come problema teorico, in AA.VV., Storia del marxismo, vol. 4°, Torino, Einaudi, 1982, pp. 569-580.

5 F. Papi, op. cit., p. 158.

6 Ibidem, p. 158.

7 Ibidem, p. 159.

8 Ibidem, p. 159.

9 N. Luhmann, Teoria politica nello stato del benessere, Milano, Angeli, 1983.

10 F Papi, op. cit., p. 160.

11 Ibidem, p. 160.

12 Ibidem, p. 160.

13 A. de Toqueville, La democrazia in America, Torino, Utet, 1981.

14 E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1982.

15 Ibidem, p. 88 ss.

16 Le opere di Wittgenstein a cui si fa qui riferimento sono: Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1979; Conferenza sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Milano, Adelphi, 1967; Note al "Ramo d'oro" di Frazer, Milano, Adelphi, 1975; Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1974.

17 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1972.

18 Su questa costellazione, fondamentale è la più che decennale ricerca di A. Melucci che si richiamerà espressamente nella nota n. 20. Si rinvia, inoltre, anche a A. Chiocchi-C. Toffolo, Il sindacato tra conflitto e movimenti, "Società e conflitto", n. 2/3, 1990-1991; ora in Passaggi. Scene dalla società italiana degli anni ‘70 e ‘80, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 7, 1995.

19 A. Melucci, L'invenzione del presente, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 19-24. Ecco qui in progressione le tappe principali della ricerca di Melucci: L'azione ribelle, Formazione e struttura dei movimenti sociali, in A. Melucci (a cura di), Movimenti di rivolta. Teorie e forme dell'azione collettiva, Milano Etaslibri, 1976; Dieci ipotesi per l’analisi dei nuovi movimenti, "Quaderni Piacentini", n. 65-66, 1978; Movimenti sociali (voce), in Politica e società (a cura di P. Farneti), 9° vol. de Il mondo contemporaneo (a cura di N. Tranfaglia), Firenze, La Nuova Italia, 1979; Altri codici (a cura di A. Melucci), Bologna, Il Mulino, 1984; Il conflitto come teatro: dai personaggi ai segni, in A. Bolaffi-M. Ilardi (a cura di), Fine della politica?, Roma Editori Riuniti, 1986; Il gioco dell’Io, Milano, Feltrinelli, 1991. Per una panoramica sulle più recenti teorie sui movimenti sociali: si rinvia a "Problemi del socialismo", n. 12, 1987, monografico su "i nuovi movimenti sociali", con contributi di A. Pizzorno, J. L. Cohen, C. Tilly, A Touraine, A Melucci, C. Offe. Sul piano storico-metodologico assai importanti il contributo di D. A. Snow-R. D. Benford, Schemi interpretativi dominanti e cicli di protesta e quello di S. Tarrow, Mutamenti nella cultura di opposizione in Italia, 1965-1975; entrambi in "Polis", n. 1, 1989.

20 Cfr. A. Chiocchi-C. Toffolo, op. cit. Per una rassegna critica delle "teorie del confitto", cfr. A. Chiocchi, Rivoluzione e conflitto. Categorie politiche, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 1995; in specie, il cap. III.

21 A. Melucci, Il conflitto come..., cit., pp. 97-98.

22 Ibidem, p. 100.

23 Si rinvia a A. Chiocchi-C. Toffolo, op. cit., pp. 155-158.

24 Per la critica del codice binario, con riferimento ai temi qui trattati, cfr. G. Marramao, Metapolitica, "Laboratorio politico", n. 1, 1983. Per questa linea di metamorfosi dei movimenti, cfr. A. Melucci, Libertà che cambia. Una ecologia quotidiana, Milano, Unicopli, 1987. Su questo ultimo lavoro di Melucci ritorneremo nel capitolo terzo.

25 A. Chiocchi-C. Toffolo, op. cit., pp. 156-157

26 Cfr., sul punto, l'esemplare excursus di Loredana Sciolla, Teorie dell'identità, in L. Sciolla (a cura di), Identità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.

27 Cit. da L. Sciolla, op. cit., p. 54, nota n. 8.

28 Ibidem, p. 21.

29 T. Parsons, Il ruolo dell'identità nella teoria generale dell'azione, in L. Sciolla (a cura di), op. cit., p. 82.

30 Ibidem, p. 69.

31 Ibidem, p. 69.

32 Ibidem, p. 69.

33 Ibidem, p. 82.

34 Non bisogna dimenticare che Marramao è stato un attento studioso di Weber, Schmitt, Parsons e Luhmann, nonché delle teorie principali (in campo marxista e neomarxista, liberista e neoliberista) della politica e dello Stato del XX secolo. Si forniscono qui i tornanti principali di questa ricerca: Il politico e le trasformazioni, Bari, De Donato, 1979; Introduzione a Tecnologia e... cit.; Politica e 'complessità'... cit., Metapolitica, cit.; Potere e secolarizzazione, Roma, Editori Riuniti, 1983; L'ordine disincantato, Roma, Editori Riuniti, 1985.

35 Il tema è stato altrove affrontato: cfr. A. Chiocchi-C. Toffolo, Il lavoro come forma e come oggetto, "Società e conflitto", n. 00, 1989; ora in Passaggi ..., cit.

36 Cfr., sul punto, L. Sciolla, op. cit., pp. 30-31. Ma anche L. Gallino, Azione sociale (voce), in Dizionario di sociologia, Torino, Utet, 1983, pp. 70-71.

37 C. Levi-Strauss (a cura di), Identità, Palermo, Sellerio, 1980, p. 11.

38 J. M. Benoist, Sfaccettature dell'identità, in C. Levi-Strauss (a cura di), op. cit., p. 15.

39 Ibidem, pp. 16-19.

40Ibidem, p. 19.

41Ibidem, p. 19.

42 Per la discussione di questi temi, si rinvia ad A. Chiocchi, Verso gli inizi. La polis greca: filosofia e politica, Mercogliano (Av), Associazione culturale Relazioni, 1996; in particolare, il cap. I.

43 M. Heidegger, Identità e differenza (trad. it. di U. M. Ugazio), "aut aut", n. 187/188, 1982, p. 5.

44 Ibidem, p. 10.

45 Ibidem, p. 10.

46 Ibidem, p. 10.

47 Ibidem, p. 10.

48 Ibidem, p. 10.

49 Ibidem, p. 10.

50 Ibidem, p. 11.

51 Ibidem, p. 11.

52 Ibidem, p. 11.

53 Ibidem, p. 11.

54 Ibidem, p. 15.

55 Ibidem, p. 15.

56 Cfr. le suggestive note di G. Agamben, Se. L'assoluto e l’"Ereigns", "aut aut" n. 187/188,1982; sul punto, di Agamben cfr. anche il denso articolo Tradizione dell'immemorabile, "Il Centauro", n. 13/14, 1985.

57 M. Heidegger, op. cit., p. 16.

58 lbidem, p. 16. Ma anche p. 21; "Per noi la misura per il colloquio con la tradizione storica è la stessa, trattandosi di accedere all'energia che ci ha preceduti. Solo che noi cerchiamo quell'energia non in ciò che è stato già pensato, ma in qualcosa di impensato, a partire da cui il pcnsato riceve il suo spazio essenziale. Ma solo il già pensato prepara l'ancora-impensato, che in maniera sempre nuova ritorna alla sua sovrabbondanza. La misura fornita dall'impensato non conduce all'inserimento del già-pensato in uno sviluppo ed in una sistematica sempre più elevati e tali che lo superano, ma esige che il pensiero tramandatoci sia messo in libertà nel suo già stato tenuto ancora in serbo. Questo già-stato domina sin dall'inizio la tradizione, la precede costantemente, senza essere però pensato espressamente, senza essere passato come il momento essenziale".

59 Ibidem, p. 21.

60 Ibidem, pp. 21-22.

61 Ibidem, p. 22.

62 Ibidem, p. 22.

63 Ibidem, p. 23.

64 "Grazie al passo indietro lasciamo la questione del pensiero, l'essere come differenza, libera in direzione di un confronto, un confronto che può restare assolutamente privo di oggetto" (Ibidem, p. 30).

65 Sull'intrico assai denso di questi temi heideggeriani è, da ultimo, intervenuto acutamente M. Ferraris nella sua bella Storia dell'ermeneutica, Milano, Bompiani, 1988, pp. 258-263.

66 Di Nietzsche cfr. segnatamente: Aurora, Milano, Adelphi, 1978; La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1977. Di M. Foucault si veda Nietzsche, la genealogia e la storia, in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977. Per questo lato ed altro ancora della posizione di Foucault, cfr. A. Petrillo, "Critica della verità" e ricerca della vita in Foucault. Questioni di metodo, "Società e conflitto", n.7/8, 1993; ora in Saperi a confronto. Talcott Parsons e Michel Foucault, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 1995.

67 M. Heidegger: "Quel che rimane costante nel pensare è il cammino" (In cammino verso il linguaggio, Milano Mursia. 1973, nota n. 91). Su questo snodo essenziale della riflessione di Heidegger, cfr. O. Di Grazia, Dall’essere al volto. Itinerari, in AA.VV., Metafisica, anti-metafisica e post-me-tafisica, Palermo, Edizioni Augustinus, 1990, pp. 321-323.

68 Il tema del "pensiero dell’ascolto", con particolare riferimento alla posizione di G. B. Vico, è trattato in A. Chiocchi, Tra infinito e povertà. il pensiero dell’ascolto. La "Scienza Nuova" di G. B. Vico, Mercogliano (Av), Associazione culturale Relazioni, 1996.

69 M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 32.

70 Ibidem, p. 30-34.

71 Ibidem, p. 35 ss.

72 Ibidem, p. 35

73 Ibidem, p. 36. Qui il Dio di cui si occupa Heidegger è quello della filosofia; segnatamente quello evocato da Hegel nella Scienza della Logica. Altrove, e intensamente, Heidegger si occupa di un classico tema della filosofia di Nietzsche: La sentenza di Nietzsche: "Dio è morto", in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968; in quest'ultimo libro è, del pari, ospitata la vertiginosa riflessione di Heidegger sulla poesia di Hölderlin e Rilke: Perché i poeti? Infine e organicamente, per il rapporto stretto con Hölderlin, di Heidegger è da vedere il bellissimo La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi, 1988.

74 J. L. Borges, Raganarök; cit. da M. Vegetti, Il ritorno degli antichi, "Alfabeta", n. 113, 1988, p. 26.