CAP. II
SISTEMA, AMBIENTE E MOVIMENTI
1. |
Il Sé e l’Altro nella rete di sistema, ambiente e movimenti |
Reinterpretando criticamente A. Touraine1, G. Marramao afferma: "In quegli attori collettivi per antonomasia che sono i movimenti si incarna non solo un'attività trasformatrice, ma più precisamente "una azione creatrice". Il loro agire non è, dunque, dell'ordine della praxis, ma piuttosto dell'ordine della poiesis"2. Ancora più chiaramente: "Touraine non sembra avvedersi delle implicazioni racchiuse in queste premesse assiomatiche: proprio la sottolineatura dell'aspetto "au-topoietico" dei movimenti sociali chiama in causa la necessità di una loro analisi in chiave simbolica e sistemica; per cui, anche una volta ammesso (e non concesso) questo carattere naturaliter creativo dell'azione collettiva, non vi è ragione per escludere un'analisi in chiave simbolica del funzionamento delle stesse strutture codificate dalla società"3. Ciò conduce Marramao, sulla base della critica formulata da Luhmann4 al codice binario ordine/conflitto, a una importante conclusione: "I'impossibilità di assiomatizzare ad antitesi le coppie ordine-conflitto e istituzioni-movimenti"5. A queste due coppie antitetiche, pertinentemente Marramao aggiunge quella parimenti improponibile tra razionalità strategica e razionalità comunicativa; e qui il bersaglio è dato dalle teorie di Habermas e Apel, con un riferimento positivo alla critica, in proprosito, avanzata da G. E. Rusconi6.
Un approccio sistemico-simbolico ai movimenti appare come un livello di partenza minimo e irrinunciabile. Con una precisazione: l'im-piego degli strumenti sistemico-simbolici deve essere fortemente critico. Soprattutto a questo punto il contesto deve essere e mantenersi meta-ermeneutico, critico a confronto delle stesse analitica e sistematica coniugate dall'ermeneutica e dalle Weltanschauungen ermeneutiche. Il codice binario Sì/No come non può essere applicato alle teoriche della complessità e dei sistemi, così non può trovare validazione a riguardo dell'ermeneutica. Non è questione di prendere o lasciare un armamentario cognitivo e analitico; ma di farvi criticamente i conti, fuori dal pregiudizio culturale e ideologico.
L'azione collettiva ha ontologicamente per riferimento il sistema sociale. Sul carattere di siffatta germinazione allignano le più diversificate teorie interpretative. L'azione collettiva è prodotto della crisi del sistema, oppure ne è la causa? Intorno a questo dilemma si è dibattuta e consumata la sorte della ricerca sociologica nei suoi vari indirizzi. Ma il dilemma è mal posto. D'altronde, dire che l'azione collettiva è, al tempo stesso, prodotto e causa della crisi del sistema, pur venendo a capo di un'antinomia concettuale infondata, assomiglia a quelle verità banali che, spiegando tutto, non ci dicono assolutamente niente di preciso. Osserva correttamente A. Melucci: "alI'interno di fenomeni storici di azione collettiva occorre distinguere una pluralità di significati analitici, che eliminano l'apparente unità dell'oggetto em-pirico e comportano una valutazione differenziata delle sue componenti strutturali e delle sue implicazioni politiche"7. Lo stesso può dirsi, su un altro versante, del sistema sociale quale oggetto empirico sfaccettato e polisemico. Necessita, pertanto, puntare l'occhio sulle componenti differenziate e stratificate che, sul piano non solo empirico ma anche significazionale, mettono capo alla "unità" di ogni oggetto e di ogni fenomeno. Ne deriva che: "Nessun fenomeno d'azione collettiva può dunque essere assunto nella sua globalità, perché non parla mai un linguaggio univoco"8. Ciò perché, ancora più al fondo, reperiamo operante la dialettica della costellazione identità/diffe-renza. Polisemia e multiversità dell'azione dei movimenti affondano in questo sostrato le loro radici e da qui si ramificano i loro flussi di senso. Identità (come messa in opera dell'architettura di differenze interne) e differenza (come contrassegno specifico dell'identità posta in campo) sono due piani coesistenti, i quali paiono particolarmente visibili e traccianti nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. I due piani si intersecano costantemente: I'uno chiarisce l'altro e lo investe con un surplus significazionale. Il senso politico stesso dell'agire dei movimenti sprigiona da questa costellazione ed è soltanto da qui che può essere veramente afferrato e messo in codice.
Un movimento di azione collettiva pro emancipazione è la traduzione in forme storiche e politiche di un'etica ben specifica e di una dialogica della comunicazione e della libertà precisa. Diparte da qui la proposta di una connessione produttiva tra le forme della politica date e le risorse etico-ecologiche riposte nel potenziale sistemico e ambientale. Attore sociale collettivo e sistema paiono, così, stringersi in un nodo indistricabile, oltre le assiomatizzazioni opposizionali di una sistematica teorica sin troppo ingenua ed elementare. Partendo da qui, ci si può porre un interrogativo assai rilevante: attraverso quali passaggi e quali fenomenologie gli inputs/outputs delI'attore si divaricano e si autonomizzano da quelli del sistema? Quali processi di deviazione si insinuano?
I processi di deviazione sono di vitale importanza per la conservazione e la riproduzione di ogni attore (sociale o istituzionale che sia); ma se si rigidizzano, producono sclerosi nel sistema e nell'ambiente. Ogni attore è la interpretazione e la risoluzione storica di tutto il campo complicato dei temi e delle problematiche sociali: dal suo punto di vista parziale e secondo la sua parziale collocazione. Da qui la moltiplicazione di sistemi di mezzi/fini estremamente diversificati tra di loro. Attore, sistema e ambiente, per conservare se stessi, mettono a rischio il mantenimento della coesione sociale e delle forme politiche attraverso cui questa si è solidificata. Il sistema dei mez-zi/fini della coesione sociale risulta minacciato dalle azioni e volizioni dei movimenti e dall'incedere dei processi di trasformazione sociale che differenziano i cicli storici e il loro stesso decorso interno. Chi chiede libertà per Sé, all'inizio, la chiede come sottrazione di libertà alI'Altro, in una sequenza strategica a "somma zero". In questo strato dell'essere sociale e delle forme dell'espressione e della comunicazione, il Sé e l'Altro si fronteggiano e collidono. La libertà del Sé agisce contro la libertà dell'Altro; la libertà dei movimenti contro la libertà dell'istituzione e tutto all'opposto. Siamo qui ancora lontano dalla situazione limite ipotizzata da Gehlen, di cui ci occuperemo specificamente nel capitolo terzo. Ciò che incombe, però, è una dura e spessa occlusione comunicativa; un sistema compatto di veti e divieti etico-politici incrociati. Si provi a leggere entro questa mappa di senso la storia sociale e politica italiana di questi ultimi 25-30 anni. Il carattere poietico delle istituzioni si è appalesato assai impoverito e impoverente, a lato dei movimenti. Per contro, particolarmente attiva è apparsa l'anima spossessante-disgregatrice dell'istituzione. D'altro canto, la dimensione poietico-creatrice dei movimenti ha costantemente omesso di riferirsi all'istituzione quale puntello, sostegno esterno ineliminabile dell'interiorità e dell'etica della decisione pubblica. La proposta di una nuova etica della comunicazione e della libertà, da essi pur proveniente, è rimasta sospesa a mezz'aria. L'inconseguenza poietica dell'istituzione e l'indigenza etico-comunicativa della proposta dei movimenti hanno operato quali vettori di stabilizzazione negativa. Dal versante dei movimenti, un "inizio radicale" è rimasto, così, incompiuto; si è come ritratto e corroso ed è stato via via accerchiato e cinto d'assedio. ln questo senso, il Sessantotto è stato, effettivamente, un inizio. È perfino troppo agevole rilevare il carattere non universalisticamente politico dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Al punto che indirizzi di ricerca divergenti, come le teorie sistemiche e la sociologia dei nuovi movimenti, convergono pienamente in questa conclusione tematico-analitica9.
2. |
Ruolo del ‘politico’ e irruzione del desiderio |
Esiste, però, un altro importante orientamento che interpreta il Sessantotto e il ciclo successivo come integralmente qualificato politicamente8. Secondo P. Virno, in tutti gli "scomparti del vivere associato" occupati dal Sessantotto "si ebbe trasformazione perché vi si fece penetrare la politica. Anzi, perché la politica irruppe con uno stile alquanto barbarico, debilitando le "specificità" e travolgendo giudiziose perimetrazioni". Il che comporta un dato estremamente importante, prontamente rilevato da Virno: "Ciò che talvolta ci fa timidi a riconoscere l'autentica impronta digitale del '68 è la critica serrata della politica, che gli stessi movimenti di lotta intrapresero a metà degli anni '70". Quali i topoi politici messi in questione? Ancora Virno: "Della politica, allora, fu messo in questione il connaturato universalismo, la disperante semplicità insita nei suoi progetti generali, la sottomissione del presente al futuro, un'incorregibile predilezione per le idealità rigide. È stata quest'altra rottura, intervenuta nel frattempo, a deformare la lente con cui si guarda ora alla felice inflazione politica che il '68 ha provocato". Questa "politicizzazione pervasiva", appunto contro la reductio ad unum universalistica: "si limita a far emergere in bella vista tutto ciò che merita di venire distrutto". La critica della politica mette qui in bersaglio e, insieme, come dispositivo e traccia del cambiamento: "La politica del '68 è come un re Mida disfacitore: ciò che tocca, non può restare come prima. L'armonia che pare vincolare ogni anfratto e meandro della presente società è un'armonia negativa: è contemplata come ciò che deve andare in malora. A torto, dunque, almeno in riferimento al '68 in senso stretto, si muove l'accusa di integralismo politicista. Non si vede l'allegria dello spirito distruttore, che snida e smaschera, che crea spazi e fa pulizia". Si tratta di osservazioni pertinenti e anche illuminanti che hanno, però, il difetto di essere troppo generalizzate. Soltanto in un concetto del 'politico' a forte densità storico-sociale, l’ipotesi della politicizzazione integrale appare avere una sua congruità. Poiché lì, effettivamente, il 'politico' compare come "destino": la destinalità del 'politico' recupera, ricombina e sussume entro di sé la dimensione e la poiesis creativa di tutte le sfere espressive dell'essere, del fare, dell'agire, del rappresentare e del comunicare. Ma si tratta di una physis e di un'episteme che del 'politico' danno una concettualizzazione e una raffigurazione fortemente datate. È noto che su questa poiesis e questa episteme si è a lungo esercitato il tentativo di Carl Schmitt di recuperare (a mezzo di Hobbes, del decisionismo giuridico europeo e del pensiero controrivoluzionario cattolico), le categorie del conflitto interumano agli axiomata normativi eccezionali della sovranità11. Qui il problema della rappresentazione e della forma del 'politico' si pone come soluzione del dilemma dell'unità di un popolo e della sua identità; dilemma estrapolato e cristallizzato proiettivamente come "destino dell'Europa", a partire dal ‘500. Il carattere tradizionale e conservatore del pensiero schmittiano si configura immediatamente come reazione virulenta al concetto di 'politico' categorizzato dal pensiero greco antico12; non soltanto come tentativo di oltrepassare l'orizzonte liberale-demo-cratico. Il richiamo alla physis, allora, non evoca semplicemente il su-peramento aristotelico del ragionamento sofista, per il tramite del principio di non-contraddizione, senza qui entrare nel merito né dell'uno e né dell'altro; ha anche una più corposa valenza e più pregnante figurazione. Se l'uomo è un "animale culturale" (Gehlen), a mezzo della cultura può continuamente costruire e ricostruire, come in effetti fa, la sua physis (Benjamin). Se, dunque, è culturale la physis dell'uo-mo, non possono il 'politico' e le sue culture porsi come "centro" o "vertice" dell'azione ed espressione: tanto nell'interiorità quanto nella società. Sta qui l'euristica disincantata della recezione luhmanniana della complessità, a prescindere dalla coniugazione politica conservatrice a cui Luhmann perviene. Cultura politica, per quanto il 'politico' si addensi e integralizzi, è solo e sempre stratificazione e lato della cultura. Curvare, pertanto, I'ermeneutica del Sessantotto verso un modello di politicizzazione integrale appare non completamente congruo. Detto questo, rimane un problema di fondo: indagare segnatamente le culture politiche e le forme politiche codificate e criticate nel Sessantotto. Esigenza su cui Virno giustamente, e con pertinenti osservazioni, insiste particolarmente. Ora, il superamento del limite contemplato e configurato dal 'politico' borghese è dato da un pensiero e da una prassi che pensano "alla politicizzazione di tutto l'agire, il conoscere, il comunicare come a una rara specie di pienezza e di benessere"? È proprio vero che siffatto superamento necessario possa scaturire da una semplice operazione negativa di critica rovesciante, con esiti ludico-estatici, configuranti lo stato d'eccezione della felicità? Nemmeno nel paradigma politico più compatto e denso di "felicità pubblica" che nella contemporaneità sia dato di conoscere — quello di Hannah Arendt — rientrano i motivi e le ragioni della felicità intima e dell'interiorità. La felicità, nella sua vertigine profonda e nella sua rete abissale, sfugge al 'politico' ed è politicamente impronunciabile e irrappresentabile. La pienezza del benessere e la sua rarità non sono interamente nominabili dalla politica: non sono nomi propri del 'politico', per quanto mezzi e fini del 'politico', emancipatoriamente orientati, abbiano come loro orizzonte l'attingimento della felicità (pubblica), del benessere (sociale) e della ricchezza e dell'integrità (materiale e culturale). Nell'esperienza dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, i luoghi dell'etica della comunicazione e della dialogica della libertà e il corpo rimosso e desiderante della felicità hanno intersecato i luoghi e il corpo del 'politico'. Hanno fatto angolo col 'politico'; non già vertice o centro. Giustamente, Virno tiene a porre in luce e a difendere i valori e le forme messi in codice dal Sessantotto sul piano politico, avverso una ritornante e imperante banalizzazione e caricaturizzazione politiche del Sessantotto. È altrettanto importante, se non di più, riconoscere che sono proprio l'insediamento e il procedere critico dei valori politici del Sessantotto il lato meno riuscito del Sessantotto; la parte del Sessantotto più esposta alla fascinazione pietrificante che involge e si arrotola attorno agli incantesimi del pensiero e dell'azione del passato. Non il 'politico', ma l'etica della comunicazione e la dialogica della libertà, gli stili e gli idealtipi di una rinnovata ricerca della felicità: ecco il reticolo più caldo e profondo del Sessantotto. Certo, si tratta di istanze e domande anche politiche, non indifferenti all'oggetto e al soggetto del 'politico'. Ma qui siamo, al fondo, in una costellazione di senso laterale al politico13. Libertà e felicità, nella loro più intima essenza e nel loro impulso di trascendimento, sono temi e figure solo lateralmente politici: fanno angolo col 'politico', appunto. Errato è interpretare il Sessantotto come politicizzazione integrale, a fronte della "spoliticizzazione" e della "neutralizzazione" che, per effetto della planetarizzazione livellante della tecnica, hanno invaso le pieghe del sociale, i respiri del tempo e il cammino dell'esistenza. Il Sessantotto non è stata la risposta dei movimenti al dominio della tecnica, onde mettere in forma il territorio salvato e redento del 'politico', di fronte alla senescenza catastrofica delle forme della rappresentazione politica borghese. Non è stata, il Sessantotto, una mera reazione; bensì un'azione sorgiva e creatrice. Fuori di ciò tutto del Sessantotto è morto; in ciò il Sessantotto non cessa di dimorare con noi, per quanto passato e non riesumabile. Esso è stata origine disincantata di un nuovo domandare e di un nuovo rispondere. Il crepuscolo del Sessantotto non ha significato il tramonto di questo domandare e di questo rispondere. Questa la presenza, l'impronta, la traccia e la forma che del Sessantotto si sono volute coprire e carpire. Chi col fango e col fuoco; chi con la polvere; chi con il ripudio. Qui restaurazione e superamento si sono ritrovati a braccetto e si sono strizzati l'occhio, profondamente affini come gemelli siamesi. In Italia, la migliore raffigurazione di questo movimento speculare è data dal paso doble danzato in tutti gli anni Settanta dall'ondata neorestauratrice e dalla lotta armata14. Qui il superamento, di matrice hegeliana, preconizzato dalla seconda ha fatto arrostire sul fuoco di una tragica combustione. Qui poteva e può soccorrerci il passo indietro heideggeriano. La melanconia furente delle istituzioni ha fatto massa con il furore melanconico della lotta armata. Depressione e furia hanno costituito l'humus interno di un prisma storico e sociale. Se il Novecento è stato un secolo di fuoco, gli anni Settanta italiani sono stati un decennio di ferro. Il Sessantotto (prima) e i movimenti degli anni Settanta (dopo) sono rimasti irretiti e sradicati in questo prisma: non ne hanno saputo guadagnare l'uscita, finendo letteralmente col soffocare. L'istituzione è mutata, per tenere testa ai movimenti: ne fa fede la gamma qualitativa e l'estensione delle politiche sociali in tutto il corso degli anni Settanta. I movimenti sono stati incapaci di trasformare l'istituzione. Il velo gelatinoso dell'istituzione ha congelato i movimenti, deprivandoli del loro senso poietico. La poiesis dell'istituzione è divenuta una presenza minacciosa: più che conferire sicurezza e sostegno al terreno mosso dell'interiorità e dell'etica, è andata mutandosi in ordigno a presidio della propria sicurezza. Per contro, la poiesis dei movimenti, nella messa in opera dei propri valori posizionali, ha stentato a riconoscere la posizione poietica dell'istituzione in quanto tale. I movimenti hanno sembrato voler alludere a una poietica che scalzava e scavalcava la posizionalità dell'istituzione, non riconoscendole nessun carattere di pilone di sostegno. Pensiero e culture dei movimenti sono stati, sul punto, lineari e cumulativi, autoreferenziali, anziché aperti e problematici. L'insecurizzazione che è sortita dall'occlusione della interazione e della comunicazione tra movimenti e istituzioni si è profilata come la classica chiusura del circolo. Il positivo dell'istituzione si è come sospeso e la scena è stata interamente occupata dal suo negativo. Sul fronte opposto, positivo e negativo dei movimenti non hanno saputo intimamente colloquiare con la posizionalità primordiale dell'istituzione, intenzionando due effetti perversi, insieme simmetrici e complementari: (i) non hanno visto il lato positivo dell'istituzione e (ii) non hanno saputo difendersi adeguatamente dal suo lato negativo, lasciando che sotto i suoi colpi andasse destrutturandosi il loro patrimonio di senso più autentico. Anche per questo il Sessantotto non è stato che un inizio: la sua eco, proprio a fronte degli errori e delle sconfitte, non si è giammai spenta. Distanziandosi dall'ambiente dell'istituzione i movimenti non hanno saputo riconoscere il mondo arcano dell'istituzione come parte del loro proprio mondo. Così, non hanno saputo ricostruire un proprio mondo come ambiente. Impossibile, su queste basi, che loro proponessero per l'istituzione un paesaggio pubblico ed etico/ecologico più profondamente motivato e ancorato sulle ragioni della libertà. Queste le zone della posta in gioco, quando si parla di interazione conflittuale tra istituzioni e movimenti. Il gioco conflittuale e interattivo si snoda lungo le coordinate della libertà come paese, la cui possibilità occorre incessantemente ricostruire e affinare.
Se è vero, come sostiene M. d'Eramo, che il Sessantotto segna per i movimenti e le nuove generazioni l'uscita dall'innocenza spuria dell'ideologia borghese, è altrettanto vero — come ci ha insegnato Nietzsche — che l'innocenza non ideologizzata richiama ineliminabilmente la responsabilità. Si è massimamente innocenti, essendo mas-simamente responsabili. Innocenza e responsabilità costituiscono una diade etico-politica indisgiungibile. Ecco: l'innocenza dei movimenti non è stata massimamente responsabile. Da qui il suo carattere indigente. Deficit di innocenza e deficit di responsabilità come si coap-partengono, così si codeterminano. Qui nasce il limite più intenso della libertà sul versante dei movimenti: I'innocenza non è stata pienamente responsabile e la responsabilità non è stata pienamente innocente. L'innocenza è un esonero che, per far maturare pienamente il proprio orizzonte, ha bisogno di responsabilizzarsi; all'opposto, l'impegno della responsabilità, senza l'azione liberante dell'innocenza, scade a imperativo tecnocratico-professionale. Lo sgravio dalla zavorra della tecnica fa tutt'uno con la germinazione di nuove forme dell'interrogare la costellazione essere/umanità: siamo sempre tutti innocenti e responsabili. Ma possiamo esserlo per difetto o per eccesso: il difetto indica la soccombenza e la schiavitù; e l'eccesso l'autonomia e la libertà. Ed è vero: nelle pieghe della semplificazione dell'innocenza che è tipica del Sessantotto, come colto da M. d'Eramo, nasce la "cultura del sospetto". Ma cosa è il sospetto, se non l'altra faccia della carenza di responsabilità? Da questa carenza spesso si ingenera una sfiducia nei confronti dell'Altro; soprattutto quando si tratta delI'Altro generalizzato sotto forma di istituzione. II sospetto è la paura alimentata dal labilizzarsi della responsabilità e diventa angoscia paranoica sotto l'urto della presenza e della pressione dell'Altro, la cui azione diviene indecodificabile e assume il risvolto oscuro della minaccia e del mistero. Il sospetto è l'ombra della libertà, la sua sostanza cancerogena. Questa ombra primordiale vanifica l'apertura al mondo: dei movimenti verso l'istituzione e dell'istituzione verso i movimenti. Se i movimenti del Sessantotto hanno contraddittoriamente coniugato innocenza con responsabilità, I'istituzione è parsa letteralmente smarrire la propria innocenza. Stretta tra istituzioni e movimenti, la libertà ha pianto lacrime amare. Ma, perlomeno, i movimenti hanno piantato durature impronte e lasciato tracce di resistente, per quanto immatura, libertà.
Nella perdita dell'innocenza, invece, I'istituzione diviene simulacro dell'ideologia e si deresponsabilizza totalmente rispetto alle sue funzioni di puntello e di sostegno: si difende, anziché difendere. O meglio: la difesa di se stessa si centra più sulla difesa dei valori generalizzabili e condivisi di cui è centro e che sono precipitati in crisi; anziché aprirsi e muoversi alla ricerca di altri storicamente e socialmente più cogenti. Non fa i conti, in breve, con la massa critica che la va progressivamente delegittimando, reclamandone la metamorfosi. Col negarsi alla metamorfosi si postula come immutante.
Tuttavia, come rilevato da Virno e da M. d'Eramo, la categoria del sospetto ha una connotazione positiva: il sospetto verso quella istituzione e la sua politica; verso la stessa politica nelle sue concettualizzazioni universalizzanti, aggiunge d'Eramo. Il sospetto ha una bipolarità: è fiducia in un che di superiormente motivato e sfiducia in ciò che pare comprimere, senza valide ragioni, I'esistenza. Il guaio comincia esattamente nel punto in cui la bipolarità viene trasformata in un sistema chiuso: la fiducia diviene fideismo e la sfiducia pregiudizio. Ecco le due lame di una processualità negativa, di destituzione e distanziamento dal fondamento originario. Osserva R. Rossanda: "Tutto cambiò ma non perché assunse le ragioni di quella spinta, bensì in modo da negarne il fondamento. E per fare questo l'ordine costituito si ripensò e chiuse una problematica che pure, nel decennio sessanta, era stata sua"15. Una ragione in più per far ritorno a quelI'origine a cui tutto il cambiato che conseguì arrecò un'ingiustizia e fece un torto. Lo scarto e la cesura, rispetto a quell'originario fondamento, vi sono stati16. Nel "tutto" che ricomincia, quando e se ricomincia, ben poche forme di espressione si potranno conservare di quelle remote origini, se non un'eredità, un'indicazione, una traccia. È indubbio che anche qui si gioca la partita di un ricominciamento.
Occorre deviare dalle deviazioni. È attraverso processi, per così dire, di secolarizzazione che il Sessantotto si è modernizzato sotto i bagliori delle tecniche della livellazione e della pianificazione e sotto l'effetto di paralisi di fondamentalismi etici e politici. Ritornare indietro vuole qui dire: desecolarizzare il percorso, I'animus e le culture del Sessantotto, fino a ridiscendere alla sua rimossa posizionalità strategica. E desecolarizzare non vuole qui dire sacralizzare o teologizzare. Tutt'altro. Per il Sessantotto, la contraddizione è stata morte, anziché vita; dissipazione, anziché germinazione felice. Ritornare indietro significa qui: fare ritorno alla vita, nel punto/tempo in cui essa erompe come aurora giocosa, solcata da dolorosi, eppure produttivi travagli. Non è caccia a un bene perduto che furiosamente e visionariamente si vuole resuscitare. Ciò che è morto è morto e non può più rivivere. Va, però, onorato e rispettato. Ciò che vivo è stato nel passato non può vivere e rivivere all'infinito, rimodellando il presente a sua somiglianza: se è stato incapace di affermare la sua vita matura ieri, ancor più lo è oggi. Se è stato immaturo rispetto al presente del passato, ancor più lo è rispetto al futuro del presente. Si fa sempre ritorno a un inizio; ma non per ripeterlo (cosa, del resto, impossibile). Piuttosto, per attingere un avvio autentico; per tentare e sperimentare un cam-mino di non calcolata e incalcolabile novità, rarità e pienezza. Ogni inizio è non solo — weberianamente — statu nascendi; ma durata e durabilità che, sovente, interrompono, sospendono e deviano la latenza energetica originaria in un movimento di ripiegamento e positivizzazione. Così è stato per lo statu nascendi dei movimenti17. V'è un'intuizione assai felice e assai tempestiva di E. Fachinelli, contenuta in un articolo del febbraio del 1968, apparso su "Quaderni piacentini"18. Tra le pieghe più recondite e più significanti delle culture del Sessantotto c'è l'estroflessione di uno scambio maledetto che si vuole avversare assolutamente: quello tra sicurezza (delegata all'istituzione) e identità (individuale e di gruppo). Lo scambio, per intendersi, su cui si impianta la formazione e lo sviluppo dello Stato moderno, soprattutto nella versione pattizia fornita dal paradigma teorico di Hobbes. La cultura del Sessantotto, in linea generale, rifiuta questo scambio e ricerca un nuovo e totalmente altro paradigma fondativo e fondazionale. Il paradigma pattizio è avvertito come minaccia e pra-xis tendente alla fagocitazione dell'identità. Come egregiamente coglie Fachinelli, la cultura giovanile allora in incubazione: "Cioè abbina un'offerta di sicurezza immediata a una prospettiva irrinunciabile: la perdita di sé come progetto e desiderio. La liberazione dal bisogno sembra anzi avere come sua condizione la rinuncia al desiderio"19. L'offerta istituzionale viene declinata, in quanto vista come concetto- prassi opposizionale all'identità. Tra due concetti-prassi antinomici, viene privilegiato il polo dell'identità. È la non rinuncia al Sé, al suo progetto desiderante, che fa primato sull'istituzione. Qui il progetto del Sé non combina affatto un progetto di istituzione "altra"; semplicemente, rifugge come estraneo e "nemico" il piano dell'istituzione. La liberazione dal bisogno, che pure è dall'istituzione garantita, viene patita come contestuale rinuncia al desiderio. Il desiderio, dunque, viene sentito e agito di contro al bisogno. Che il bisogno sia anche il terreno della fungibilità, dell'uniformità ed economicità dello scambio (di qualunque natura possa essere) pare, ormai, universalmente accettato. Che, inoltre, introduca all'interno delle costellazioni del 'politico' presenze e categorie economico-sociali lontane dalla purezza cristallina richiesta ai paradigmi politici è divenuta una conquista definitiva, dopo la grande lezione di H. Arendt20. La critica che la cultura del Sessantotto inoltra alla dialettica del bisogno, soprattutto nella sua declinazione hegelo-marxiana, appare quanto mai calzante21. Ciò che non convince è la incomunicabilità assoluta qui istituita tra bisogno e desiderio e, più ancora, la configurazione del desiderio come fondazione dell'identità e della libertà; inclinante verso una Weltanschau-ung ludico-estatica, desiderante dell'identità e della libertà. Weltanschauung che dicotomizza il rapporto tra il Sé e il Gruppo e tra l'Io e l'Altro, tra "principio di piacere" e "principio di realtà", giocando il primo contro il secondo. Appare evidente che l'adesione desiderante al principio di piacere, sull'onda della lettura che in quel tempo Marcuse andava fornendo di Freud e della realtà delle società avanzate22, ha una portata e una scansione enormemente positive. Ma il principio di realtà non coincide con la realtà data. Esso, più al fondo, è ricerca di un reale più vero, autentico nella sua fondazione e nel suo divenire. Il medesimo principio di piacere è ricerca di una realtà per il desiderio e per la felicità. Un desiderio senza realtà o fuori dal reale è cammino infelice della disperazione o della ottusa banalità: il desiderio trascende la realtà; ma da essa parte e ad essa fa ritorno, per una sua rigenerazione. Tra piacere e realtà si colloca il desiderio, contro i bisogni di un reale avvilente e piatto, spossessante e povero. Ma qui il desiderio incontra il bisogno di libertà, il bisogno di verità: il bisogno di vivere nella ricerca della libertà e della verità. La dialettica del desiderio messa in campo dal Sessantotto rivela qui la sua parzialità. Nel corso del tempo, un desiderio dissidente monco si capovolge nuovamente nella spirale della dialettica del bisogno, disgiunto dalla verità e dalla libertà, da cui pure aveva preso le distanze nel suo costituirsi iniziale. Al fondo, opera una non consapevolizzata e affrontata paura della morte: il desiderio che dissente rintana nella mutilazione la sua sopravvivenza, poiché nel compimento intravede la sua propria morte. Rileva Fachinelli che è qui essenziale per la sopravvivenza: "... non l'oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. E perché questo permanga, bisogna perdere l'illusione di una sua incarnazione definitiva del desiderio: il desiderio appagato è morto come desiderio, e alla sua morte fa seguito la morte del gruppo"23. È la non accettazione della morte qui il problema. Eluse sono la necessità e la giustizia della morte: si deve morire. Morire è giusto ed è ineliminabile luogo di nascita, come ci insegnano preziosi filoni di pensiero antichi e moderni. Un principio di piacere che si costituisce come l'antinomia del principio di realtà crea con le sue elaborazioni ed elucubrazioni una architrave di cupio dissolvi. È I'esperienza del dolore e della morte che si incunea come argine contro questa dissolvenza; come transito della crescita della libertà e della felicità; come ineliminabile stazione dell'essere. Lo statu nascendi del desiderio non può convertirsi in status generalizzato, in euforizzazione permanente. Ciò che nasce è degno di morire: solo se si accetta la necessità e l'inevitabilità — in una parola: la giustizia — della morte, si può veramente cominciare e ricominciare a vivere. Nella parabola del proprio sviluppo e della propria crescita si deve entrare in relazione col mondo e la realtà; e lì procedere a costruzioni e ricostituzioni di Sé, strutturando i propri mondi e le proprie realtà. Se temono il contatto e la contaminazione, il Sé e l'identità non è la loro innocenza che conservano; bensì la loro deresponsabilità e la loro immaturità. L'innocenza e la responsabilità si conservano e fortificano proprio passando indenni e temprate per il vortice maculato della storia, gli ambienti asettici e comprimenti dell'istituzione, i limiti e i pesi gravosi del tempo. Per costituirsi è sempre al proprio Sé che ci si deve ritrarre, ma per costruirsi e maturare è sempre fuori di Sé che ci si deve strutturare, architettare e decentrare. Le azioni e le volontà orientate si dispiegano attorno alla doppia dialettica del ritrarsi e del decentrarsi. In essa costruiamo ed esperiamo, volta a volta, orientamento; conferiamo senso al nostro vivere e morire; sperimentiamo il senso della vita e della morte. Lungo questo cammino, le deviazioni a confronto del nostro luogo di nascita sono molteplici e ricorrenti. Deve essere così, affinché il proprio Sé sappia della propria libertà e della propria felicità, del proprio limite e della propria indigenza; affinché faccia esperienza intima della propria esistenza e della vita e della morte in genere. Non sempre le deviazioni sono attribuzioni di senso; è più facile riscontrare il contrario, andando esse a reticolare una sottrazione di senso, una povertà. È sempre un'eccezione felice stare dentro a un inveramento di senso; è sempre un evento straordinario essere protagonisti e spettatori di un'esperienza che esalta il senso. Questa eccezione e questo evento delimitano un ordine che si distanzia, sì, dall'istituzione, ma non la nega o rinnega in quante tale. Trasformare il mondo in un ambiente, reclama un'insopprimibile partecipazione dell'istituzione. Altrimenti le donne e gli uomini costruiscono per Sé ripari; non già dimore. È intorno all'interrogativo: quale istituzione?, che i movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno omesso di fornire puntuali risposte. Afferma Fachinelli: "Il richiamo al "principio di realtà" viene scambiato per un richiamo all'ordine, vale a dire alla realtà che una certa società incarna e pretende assoluta Quando poi la società si considera totale, e pretende di abbracciare ogni possibile realtà, ogni possibile forma di bene, ciò che le nega viene considerato e trattato come inesistente o cattivo"24. Ecco l'aporia non sciolta: l'ordine contemplato dal principio di realtà non è perciò stesso l'ordine incarnato dalla società data. Piuttosto, il principio di realtà vale già come configurazione che confuta la alienazione e la reificazione stra-tificate socialmente, da cui va allontanandosi, richiamando un ordine il più possibile sgravato da alienazione e reificazione. È qui che si incontra e abbraccia col principio di piacere — il desiderio dissidente —, per una messa in forme reali del cambiamento del mondo e dell'esistenza. Desiderio dissidente e azione ribelle costituiscono le tessere di un mosaico indivisibile: desiderio di felicità (del primo) e bisogno di libertà (della seconda) non sono rescindibili; pena il naufragio e la perdita di costellazioni dell'essere, del rappresentare e del comunicare che sono, invece, irrinunciabili. Solo tenendo ferma questa com-plicata e problematica connessione, si possono evocare e cristallizzare nuove forme nell'ordine esistenziale, relazionale, etico e politico della storia e dell'esperienza, accedendo a una nuova frontiera della felicità e della libertà. Accesso che prende origine dal commiato dall'ordine esistente, esperito nella sua interezza problematica in una linea di tensione che si muove alla ricerca delle sue proprie forme e del suo proprio tempo. Non è un inizio che succede a una fine; ma un inizio e una fine che procedono insieme. È I'inizio che qui fa esperienza della fine, quando questa non è ancora intervenuta, poiché già ne intravede e patisce le figure e il movimento, ben dentro l'intimità del tempo e ben fuori la sua immanenza immediata. Solo il registro ricombinato di intra-temporalità ed extra-storicità rende qui giustizia al tempo e alI'esistenza. Portare il tempo là dove più anela e spera, nel suo altrove, equivale a tornare al centro del suo proprio limite e del suo male, per inseminare lì una deviazione che non sia degradazione oppure offesa, ma cura estrema e umile. Così liberandosi dalle strettoie del presente, stretto e offeso tra immanenza immediata e prospettiva catastrofica.
3. |
Identità e sistema politico: modernismo dell’agire e anacronismo dell’ideologia |
Il tragitto tra immanenza e catastrofe è una delle tante possibili curve del tempo e dell'esistenza; come lo è quello tra immanenza e libertà. Ora, proprio tra immanenza e libertà, tra appagamento e felicità si sono situati i movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Che l'abbiano fatto senza delimitare con compiutezza il campo dei limiti e dei problemi non elimina questo dato assai importante. Ciò fa dire: quei movimenti, le loro culture e le loro forme espressive restano un lembo tenacemente vivo, per quanto oggi improponibili e assolutamente inattualizzabili.
Ma approssimiamoci al limite più specificamente politico che i movimenti degli anni Sessanta e Settanta hanno mancato di sviscerare. La pluralità di senso che ha connotato i linguaggi dei movimenti e la simbolica poliedrica che denota l'istituzione non hanno impedito rappresentazioni altamente ideologizzate. L'istituzione è stata messa in secondo piano, quasi scalzata, dal sistema politico che, a sua volta, si è andato trasformando in regime politico (nel senso strettamente politologico dell'espressione). La linea di fuga del sistema politico dall'istituzione ha fatto sì che esso si pensasse e rappresentasse come totale e totalizzante: a far principio dalla conventio ad excludendum e dal recupero istituzionale, in funzione subordinata, dell'opposizione comunista, attraverso un modello di democrazia consociativa che ha avuto negli anni Settanta la sua traduzione puntuale nel governo di solidarietà nazionale25. I meccanismi della decisione istituzionale e del funzionamento delle istituzioni sono, così, stati fatti segno di una pressione esautorante. Ciò nel bel mezzo in cui la struttura centralistica e piramidale del sistema politico veniva progressiva-mente meno, sotto l'urto della complessificazione delle dinamiche sociali e culturali. Un sistema politico in crisi di legittimazione e di autorità si è finto istituzione, a essa sovrapponendosi e surdeterminandosi, per nascondere (e nascondersi) la sua caduta di centralità. Il sistema politico si è riconvertito, assumendo le sembianze di un regime politico-istituzionale, dove le differenze e le autonomie tra sistema dei partiti e sistema delle istituzioni andavano progressivamente sfumando. Il sistema politico si è sostituito alle istituzioni, rimpiazzandole e assumendone le funzioni e le competenze. Ecco perché, nel caso italiano, si può e si deve parlare di regime politico. Questo esito ha fatto soffrire la dinamica istituzionale, infeudandola sotto gli interessi e le logiche del sistema dei partiti. La realtà delle istituzioni languiva, sotto la tirannia del regime politico: la realtà e l'essenza della prima non corrispondevano alla realtà e all'essenza del secondo. La cultura politica dei movimenti non ha saputo cogliere questa differenza e questa contraddizione, scambiando per verità l'immagine di potenza e pervasività che il sistema politico mistificatoriamente dava di sé; arrivando a ipostatizzare una identità immediata tra istituzione e sistema politico. Il fatto è che nel crogiuolo della complessità le strutture significazionali, i codici interpretativi e le categorie simboliche mutano, senza che ciò sia avvertito dall'ideologia e dagli apparati ideologici. Ne deriva una sorta di schizofrenia tra immagine di Sé e del mondo, da un canto, e realtà del Sé e del mondo, dall'altro. La praxis politico-istituzionale irrigidisce ulteriormente sistema istituzionale e forma di Stato, tra il modernismo dell'agire e l'anacronismo dell'ideologia.
L'asimmetria tra ideologia e praxis alimenta un perverso intervento modernizzante che, spesso, della complessità propone una visione precipitante e tecnocratica: i fondamentalismi ideologici irrisolti e retrostanti viziano e deturpano l'innovazione politica. L' ideologia è di stampo universalistico e organicistico-totalizzante; la praxis è frantumata, priva di "centro" costituzionalmente fondato e di un referente orientato congruamente in senso moderno. Ciò ha favorito l'assalto ideologico (prima) e lo smantellamento politico (dopo) allo/dello Stato sociale, con la conseguente e accentuata assunzione, nel corso degli anni Ottanta, delle spinte mercatistiche come variabili indipendenti del "mercato politico". Qui riemerge in superficie il nocciolo duro delle forme e delle rappresentazioni politiche immanenti allo Stato repubblicano: il porsi del compromesso politico come baricentro dell'azione politica, a tutto danno del patto costituzionale 26. Se è il compromesso politico, anziché il patto costituzionale, il centro unitario del 'politico', il regime istituzionalizzato presidia e salvaguarda ideologicamente se stesso e il compromesso posto a fondamento della sua esistenza. Non è l'istituzione in quanto tale che si mette in totalità e si struttura come totalità. Tutt'altro. È solo l'ideologia del sistema politico e del regime politico-istituzionale che si integralizza. Nella realtà politica è un compromesso (meglio: il compromesso) che si totalizza. È, dunque, uno schieramento, un'aggregazione a offrirsi sotto le mentite spoglie della totalità. Spoglie di ben cattiva infinità, si tratta di aggiungere. È il compromesso su cui si schiera il raggruppamento vincente ad avere un "centro" (la Dc, per un trentennio); non già l'istituzione. Ciò vuole dire che è possibile lavorare ad un raggruppamento alternativo solo che si muti la gerarchia di priorità tra compromesso politico e patto costituzionale. Riscrivendo il primato del patto costituzionale e allargandolo a tutti i soggetti e le parti storicamente e socialmente emerse, l'asimmetria tra ideologia e praxis non ha più luogo di esistere. Effettivamente, da qui, codice e praxis del 'politico' si innovano e danno congruamente conto delle ragioni della modernità e della complessità. Il modernismo conservatore e le ideologie neo- fondamentaliste sono qui battibili; modernismo e neo-fondamentali-smo che, però, vanno preliminarmente isolati nel loro codice genetico e nella loro struttura normativo-significazionale, per essere a questa altezza demistificati. Le false identità e il gioco simulatorio delle apparenze delle ideologie politiche vanno capillarmente investigati e identificati dall'analisi politica, se non si vuole finire preda di drammatiche illusioni ottiche. È proprio l'identificazione Dc/Stato, p. es., che costituisce una delle più vistose topiche delle Br; in realtà, non di identificazione si è trattato, bensì di appropriazione dello Stato da parte del regime di cui la Dc era il centro inamoviibile. L'ossessione totalizzante riempie perfino gli interstizi dell'area del compromesso politico e, da qui, viene ideologicamente trasferita alla forma di Stato, weberianamente detentore del monopolio della violenza legittima. L'effetto di sgravio e di liberazione connesso alla perdita di un "cen-tro" e di un "vertice"27, nel caso italiano, si trasforma in vizio strutturale, in una sorta di patogenesi politica istituzionalizzata. La cultura politica dei movimenti ha omesso di leggere questa patogenesi, ritenendola normalità, tendenza affiorante e vincente entro le forme dello Stato tardocapitalistico. Mancando di comprendere che la creazione di un regime politico-istituzionale autocentrato era la scorciatoia tipicamente italiana che risolveva in maniera spuria l'impossibilità di declinare, nella complessità, una totalità politica organicistica. La codificazione del 'politico' come "centro" degli universi sociali trovava l'impedimento strutturale nella messa in forma e nelle forme della società avanzata e della complessità. Da qui la necessità della scorciatoia: vale a dire, il sovrapporsi del sistema dei partiti al sistema delle istituzioni. I movimenti degli anni Sessanta e Settanta non inquadrano precipuamente questa evidenza e questa fenomenologia, accomunando nella stessa critica e crisi di legittimazione istituzione e sistema politico. Ma il prevalere dei partiti sulle istituzioni e del sistema politico sulla società civile non sono lo sbocco necessario del 'politico' e dell'istituzione. Tra 'politico' e statuale permangono confini; come una soluzione di continuità si dà nel rapporto tra istituzione e sistema politico. I paradigmi politici dei movimenti, invece, non distinguono tra 'politico' e statuale, tra istituzione e sistema dei partiti. Tutti insieme questi elementi differenziati gerarchicamente, funzionalmente e simbolicamente sono giustapposti e surrettiziamente fusi in un'indistinta totalità, poco probabile già sul piano euristico. L'incapacità di operare distinzioni politiche; di cogliere le differenze che attengono al rapporto comunicativo tra la sfera della politica e quella statuale; di fare analisi perspicue attraverso proposizioni linguistiche significative intorno alla semantica e al rituale del sistema dei partiti e delle istituzioni: ecco, in rapida successione, alcuni dei limiti più rilevanti della cultura politica dei movimenti. Davvero, non si vede proprio come si possa difenderla in blocco o pensare di riprodurla. Costituisce ciò, forse, I'anima del Sessantotto da cui occorre con più urgenza prendere commiato. Di questa anima rimane da salvare la critica dell'esistente e dell'esistenza politica canonizzata dai modelli ideologici vigenti; non le forme.
Se, come dice Melucci28, un movimento sociale è sempre un sistema di azione collettiva esprimente un conflitto travalicante le regole del gioco date, è pur vero che le forme del conflitto, di per se stesse, non bastano a delimitare una nuova arena politica, una nuova teoria/prassi dell'appropriazione e dell'uso dei beni e delle risorse. Certo, il conflitto medesimo è un'evocazione dell'ordine e l'ordine stesso si regge sulla mappa di insediamenti e disseminazioni conflittuali. Ma il correlato di ordine e conflitto invera una vischiosità tutta particolare: come il conflitto non è la catastrofe dell'ordine, così l'ordine non è il demiurgo del conflitto. Il puro e semplice potenziamento incrementale dell'arena del conflitto non vale a catastrofare la scena nel territorio dell'ordine: qui crolla definitivamente il mito politico cardine della cultura dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Si ingenera qui la necessità di un radicale cambio di paradigma della teoria del conflitto, in stretta colleganza con un altrettanto radicale cambio di paradigma della teoria dei movimenti. L'ordine tiene di fronte a turbolenze conflittuali intense e, a volte, prolungate: il sistema ridetermina la sua stabilità, attraversando i flutti dell'instabilità che lo scuotono, ma anche riassestano e stabilizzano, procedendo per una morfogenetica rivitalizzata29. Le dinamiche dell'integrazione si sono fatte più pervasive e quelle del conflitto meno incisive. Se il conflitto non può che attenere alle regole del gioco, il correlato di ordine e conflitto, con le regole del gioco, consente di mettere in questione il gioco. La posta in gioco, allora, non è semplicemente data dall'ordine, il potere, la sovranità; ma, più intensamente, da "quale uso di quale" ordine, "quale potere" e "quale sovranità". Non più semplicemente: quale ordine?; bensì, più intensamente: quale mappa dell'insieme ordine/conflitto? In questa nuova architettura del possibile si inserisce l'interrogativo: quale topologia per la libertà? Il posto di movimenti e istituzioni va ricercato con riferimento alla massa di questi interrogativi. Ecco, dunque, che non si tratta semplicemente di riassettare i diritti di cittadinanza e ridisegnare il reticolo della cittadinanza politica.
Che lo si voglia ammettere o no, in Italia, i conflitti sociali degli anni Sessanta e Settanta hanno profondamente alterato e trasformato il paesaggio sociale, politico, simbolico e i costumi. Non serve esorcizzarli e demonizzarli ed è insensato sacralizzarli. Si tratta di prenderne coraggiosamente atto fino in fondo, al di là della nostalgia e dell'astio. Che i cicli di questi conflitti si siano chiusi non mantenendo per intero tutte le loro promesse e premesse pare indubbio. In questo senso, la loro conclusione coincide con la loro sconfitta. Ma, dopo il loro passaggio, l'intero oceano delle tranquille e pigre certezze del passato è stato irreversibilmente e fruttuosamente agitato. In questo senso, il loro compimento non ha coinciso con la loro sconfitta. Che si siano prodotti nuovi dogmi e nuove verità eretiche non meno conformistiche e piatte di quelle contestate indica che i movimenti non sono stati del tutto capaci di operare una rottura radicale col passato; ma nemmeno, entro certi limiti, questa rottura poteva darsi. Ciò mette in forma le loro ombre e le loro luci. Parla di una ambiguità sfuggente, ora definitivamente fuggita via, passata. A chi resta e a chi viene dopo il compito di riafferrarla e decifrarla, per quello che ancora rileva. Si tratta di un'ambiguità assai essenziale; di un transito non consegnabile all'oblio o all'arsura della polvere del deserto. L'insieme differenziato e frastagliato dei cicli di lotta della conflittualità sociale degli anni Sessanta e Settanta ha descritto una vera e propria fenomenologia dell'azione collettiva e dei movimenti sociali, unica nel suo genere nei paesi dell'area capitalistica avanzata. Fenomenologia che, a un tempo, rappresenta la genealogia e la genesi della metamorfosi dell'azione collettiva in Italia. Nel ventennio che va dall'esperienza tri-partita del 1944-47 agli anni Sessanta, I'Italia si trova a passare da paese eminentemente agricolo a paese organicamente industrializzato, andandosi a connotare come società capitalistica avanzata. Come se non bastasse, a questa già intensa combinazione di accumulazione originaria e sviluppo si aggiunge un'ulteriore transizione: quella che dalla seconda metà degli anni Sessanta va principiando a installare la società complessa. Talché lo stesso sviluppo capitalistico degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta viene distanziato e recuperato in una nuova morfogenesi: la società ad alto contenuto e ad alto potenziale comunicativo- informazionale. Con gli inizi degli anni Settanta, a cominciare con la automazione e flessibilizzazione dei processi produttivi, questo repentino e "violento" mutamento di scena ridisegna gli assi di azione, le coordinate e i baricentri culturali della struttura del paese e della tela dei comportamenti sociali. La riscrittura in toto di tutti i sistemi di identità, dall'economia alla politica, dalle istituzioni alla cultura, dai raggruppamenti aggregazionali alla trasmissione dei flussi di relazione, può dirsi ultimata col finire degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta. Tre rivoluzioni capitalistiche (accumulazione originaria, sviluppo e società dell'informazione e della comunicazione), altrove procedenti attraverso transizioni di lunga durata, in ltalia si sono annodate e addensate, con una intensità inverosimile, in un solo trentennio. La velocità impressionante delle trasformazioni si è sposata con un che di effimero e provvisorio: il ciclo vitale di ciò che insorgeva insisteva su un arco spazio-temporale di incredibile brevità, quasi condannato precocemente alla vaporizzazione e alla sublimazione. Di fronte a ogni sistema di identità insediato, il tempo e lo spazio volavano via, rendendo fuggevole l'identità e la sua vita. Appena nato un sistema di identità, già ne bussava alle porte un altro, a guisa di trionfante tiranno che spazzava via tutto l'esistente. Un attimo: ecco quale è diventato lo spazio/tempo dell'identità; la distanza tra alba e crepuscolo del "nuovo" appena nato e già diventato "vec-chio". Il tempo si è come accorciato e azzerato e lo spazio si è slargato all'infinito e, nel contempo, miniaturizzandosi infinitamente. Regnare sul tempo e sullo spazio che gli compete è divenuta ardua cifra dell'impossibilità: qui questo antico sogno faustiano si è inabissato definitivamente nei miasmi della storia. Ciò che non era riuscito all'uomo (Faust), riesce alla tecnica: la sublimazione e la vaporizzazione del senso e delI'identità indicano l’avvenuto trionfo della tecnica. Il vuoto dello spazio/tempo sembra, così, essere la controparte e, allo stesso tempo, la base storico-antropologica dei nascenti movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Un vuoto che si caratterizzava come mobilità estrema e frenesia del mutamento, come slittamento progressivo e senza fine della semantica del vivere sociale e dell'esistenza. Uno slittamento che pare non concedere appigli, prese di afferramento e che, purtuttavia, viene esperito come superamento afferrante, spossessante e onnivoro. Con il generarsi e il riprodursi dei moti, dei ritmi, delle dislocazioni e delle comunicazioni in tempo reale e spazio zero del flusso informazionale, la ipercondensazione e la iperfluidificazione controllata degli ambiti di vita sociale e delle scansioni dell'interiorità hanno raggiunto l'apogeo e da lì hanno continuato il loro alacre lavoro. Ma il tempo non è mera oggettualità; è pure "soggettività" che oggettiva le forme dello spirito e che crea la vita. Dice M. Yourcenar: il tempo è un grande scultore. E, come ogni scultore, deve anche sottostare alla materia spirituale e creativa che plasma e modella, non potendone essere mai e per intero il demiurgo.
4. |
Identità, gruppo e individuo: tra dicibile e indicibile, visibile e invisibile |
L'ostinato e, per molti versi, fecondo attestarsi dei movimenti del Sessantotto sull'identità di gruppo è la reazione storica ed esistenziale alla nuova genetica in formazione dello spazio/tempo. Ma l'identità di gruppo appare risposta troppo fragile e irrimediabilmente votata allo scacco. La nuova genetica dello spazio/tempo spazza via ogni identità che non sia costitutivamente e consustanzialmente affondamento nel territorio mosso dell'interiorità, che altrimenti rimane catturato nel-la cattiva infinitizzazione della tecnica. Il gruppo come collante e come esistenza storico-politica è stato il surrogato della sofferenza e dell'angoscia, della gioia e della malattia di vivere dell'individuo. La libertà così messa in forma e allusa non è richiamo della azione, tensione verso la sua rigenerazione. Posizionato sull'identità di gruppo, l'agire è stato un processo a bassa intensità trasformativa: azione senza libertà. O meglio: la struttura della libertà viene incardinata e compressa in uno schema d'azione che esalta il gruppo a danno dell'individuo. Il concetto-prassi che della libertà viene fornito è squassato da una profonda dimidiazione interna. Non tanto perché le differenziazioni interne sono ritenute incolmabili, quanto per il motivo che la differenza gruppo/individuo non viene, al fondo, letteralmente vista e ascoltata nel suo riposto significato e nella sua veste simbolico-an-tropologica. L'identità è qui un guscio compatto, fatto col granito di logiche e stratificazioni gruppuscolari. Il Settantasette ha, a suo mo-do, capovolto il paradigma genetico-antropologico del Sessantotto, si è radicalmente centrato sull'individuo e sulla sua radicale fame di libertà e felicità30. Qui il campo delle unilateralità scrive una nuova semantica: alla esaltazione del gruppo si sostituisce una concezione che lo intende come combinazione cumulativa e lineare degli individui. Prendono origine due sovrapposizioni. La prima: quella tra gruppo e individuo. La seconda: quella tra individuo e individuo. Discende da qui quell'autonomia del sociale di cui, di fatto, il movimento del Settantasette è finito con l'essere il portatore31. Ma essa, più che altro, si è configurata come autonomia della dimensione individuale collettiva sovraimposta a quella che è l'autentica cifra del sociale. Ne è derivato una sorta di primato sociale di quelle codificazioni dell'individuo collettivo che ha venato profondamente per un biennio la "so-cietà civile giovanile", nella sua intensa protesta centro il sistema politico-istituzionale. La ribellione si è orientata contro quel processo di secolarizzazione entro cui il dato sembra voler furiosamente catturare e smembrare le giovani generazioni. Si è trattato di un conflitto profondo e lacerante: non più l'individuo e/o la società di contro allo Stato; bensì la rivolta della "rivendicazione, diretta e di massa, dei bisogni privi di cittadinanza nell'operatività delle istituzioni"32. ll passaggio cumulativo-lineare da individuo a individuale collettivo è avvenuto sulla base dell'operatività della dialettica dei bisogni. Ma la logica interna dei bisogni è anche una logica livellatrice e omologante. Così avviene in questo caso: il bisogno collettivo è stato ottenuto per giustapposizione di bisogni individuali più o meno intercambiabili. Tutti i soggetti differenti entrati in scena, reclamanti una radicale autonomia di senso, vengono uniformati in un indistinto e poco perspicuo bisogno individuale collettivo. L'economia libidinale dei bisogni funge quale architrave progettante dell'azione ribelle. Ma la ribellione patisce una sofferenza indicibile, in quanto uniforma i ribelli tra di loro. Valore dell'azione ribelle è un bisogno di alterità; fine valorativo, uno status permanente bi-sognante33. Il sogno, non soltanto il desiderio, viene, in tal modo, compromesso nelle strettoie del bisogno e della sua illimitata scambiabilità estatica. Se il desiderio dissidente finisce col fare perno sul valore d'uso, la dialettica estatica e scambista del bisogno finisce con l'autocentrare, suo malgrado, I'azione ribelle sul valore di scambio. Crisi del gruppo e crisi dell'individuo (del gruppo senza individuo e dell'individuo senza gruppo), non essendo avvertite, vengono assunte e interiorizzate in maniera subliminale34. Occorre essere consapevoli che nella dialettica del bisogno, oltre alle ragioni della libertà, dimorano le oscurità terribili delle logiche scambiste riversate nella sfera dell'interiorità. Il desiderio dissidente del Sessantotto si ribella a questo meccanismo grigio e raggelante: nell'equivalenza e nella reciprocità si perde il contrassegno del nome proprio (e di quello dell'Altro) e si cristallizza la razionalità strumentale metacomunicativa dello scambio. Il Sessantotto viene meno, sul pun-to, poiché risolve il nome proprio nel nome di gruppo, senza riuscire a istituire un'autonomia creativa tra i due "nomi". L'azione ribelle del Settantasette, nella crisi vertiginosa di tutti i nomi propri e nella rarefazione dell'Altro, rifugge dal desiderio, poiché vuole durare, investirsi di una durabilità senza fine, transitante per appagamenti ricchi e progressivi. Il bisogno sembra garantire questa infinita durata, poiché con l'appagamento, diversamente dal desiderio, non sfuma; ma resta. L'arcano della durata è qui dato dal bisogno del bisogno. Si ha bisogno del bisogno, poiché non si può fare a meno di avere bisogni. L' appagamento è solo un termine medio tra un bisogno e l'altro; non si consuma, come nel desiderio, con la soddisfazione. Tutto ciò è difficilmente contestabile e ha un'effettiva rispondenza poietica. Nell'individuare i temi della durata e della necessità della durata, il movimento del Settantasette colma una lacuna assai grave del Sessantotto: in particolar modo, il suo immanentismo desiderante, in virtù del quale finisce esizialmente e drammaticamente col consumare se stesso. Ma il bisogno che produce bisogni diventa una signoria esercitata sui corpi bisognanti. Al contrario, il desiderio nella sua autocombustione, non asserve; piuttosto, depriva. Contro la deprivazione apportata dal desiderio, il movimento del Settantasette (inconsapevolmente) si sussume sotto la sovranità del bisogno. Se la libertà del desiderio dissidente è libertà dimidiata, quella dell'azione ribelle è libertà condizionata. Il desiderio dissidente consuma se stesso; I'azione ribelle è consumata dal bisogno e da esso recuperata a una pianificazione della durata che risulta finire prigioniera, suo malgrado, di quel vortice che eclissa, dilata e miniaturizza a suo piacimento il tempo e lo spazio. Nonostante questo smarrimento, del movimento del Settantasette rimane una tonalità preziosa che va ben oltre il pur importante accento posto al tema della durata: intendiamo riferirci al bisogno di libertà con forza segnalato e messo all'ordine del giorno dall'azione ribelle del Settantasette35. È questo lato del bisogno che ci riconduce all'attività; non solo all'azione. Così risospingendoci verso il tema del lavoro specificamente umano; da intendersi non riduttivamente come fatica e/o alienazione, ma anche come opera, come esserci dell'uomo non assoggettabile, quindi, alle categorie del rifiuto in qualunque forma esso venga espresso36. In ultima istanza, qui avere bisogni vuole dire abbisognare di libertà. Qui la libertà si coniuga in un'attività e su un'attività si fonda, disancorandosi dalla griglia dell'azione (pura o ribelle che sia). Stabilire una fertile connessione tra desiderio e bisogno significa riconnettere attività e azione in un quadro di autonomie reciproche; sottrarre l'attività del desiderio e l'attività abbisognante al reticolo stretto dell'azione del bisogno; meglio rendere congrua l'azione ribelle al bisogno di libertà. Ciò vuole dire: ritrovare le vie di ricongiungimento e di comunicazione tra prassi e dialogica poietica, tra libertà e felicità. Qui il possibile di una dialogica tra libertà e felicità: una dialogica della libertà e della felicità. Una dialogica che è anche produzione-creazione di formatività, direbbe Pareyson. A questo snodo l'eticità del discorso diventa anche radicale opzione estetica. Una cosa del genere, forse, voleva significare Wittgenstein, postulando l'isomorfismo tra etica ed estetica37. A ben vedere, I'elemento che più colpisce del Settantasette e che più lascia il segno è proprio l'intrecciarsi di una radicale domanda di eticità e di esteticità. Vale a dire: la messa in forma e la chiamata in questione del problema dell’indicibile e dell'invisibile. Ma nel movimento del Settantasette tale richiamo rimane sconnesso e disarticolato: è la reazione immediata alla perdita di dicibilità e di visibilità che si accompagna invariabilmente alla trama di comando che la tecnica cala sul tempo e la sua freccia, sullo spazio e le sue dimore. Ipervelocità del tempo e infinità (macro e micro) dello spazio rendono come invisibili le cose visibili e irripetibili le cose già dette: tutte insieme e diversamente transeunti. Non si riesce a vedere ed è quasi inutile parlare. Lo sguardo non riesce a fermarsi: tutto corre e lo sguardo scorre col tutto. I linguaggi restano senza parole vere e durature: tutto si cristallizza e le parole si raggelano nella gola. Occhio e lingua si scontrano furiosamente col sostrato nichilistico che avvolge e indurisce la tecnica. A queste profondità, il movimento del Settantasette soccombe: non riesce a sfondare la dura corteccia delle infinite trame di dominio della tecnica Ma proprio qui il Settantasette lascia una traccia, un giro d'orizzonte aperto, per coloro che vengono dopo e che vogliono veramente vedere e ascoltare, veramente dire e rappresentare. Quando tutto pare proteggersi e ritrarsi nell'indicibilità e nell'invisibilità, si può vedere e dire solo a patto di cominciare a vedere e dire nuovamente le cose vere ed essenziali. Le cose vere ed essenziali delle donne e degli uomini, della vita.
Ecco il lascito testamentario, con l'alternarsi di vittorie e sconfitte, che i movimenti degli anni Sessanta e Settanta ci hanno tramandato come eredità. Una eredità preziosa e vitale quanto inattuale, in un duplice senso: perché messa ai margini dall'attualità imperante dei dispositivi della tecnica e perché già ieri insufficiente. Recuperarla da quel margine e rigenerarla è, dunque, compito dell'ora. La stessa ricerca sui nuovi movimenti, ponendosi il problema della "libertà che cambia", si trova a un bivio delicato: associare in maniera problematica e flessibile gruppo e individuo, identità e senso, esistenza e politica, etica e ambiente38. Non appare casuale che dell'onda lunga del Sessantotto ciò che più è rimasto vivo è stato il ciclo dell'azione e del pensiero delle donne. Per le donne, il Sessantotto non è stato semplicemente un guscio protettivo; ma, più propriamente, un'origine e, insieme, un territorio di senso indigente, da assumere come bersaglio critico da parte di un'azione e di un pensiero autenticamente femminili. I limiti del Sessantotto e dei movimenti che gli sono succeduti sono stati limiti maschili. La storia delle donne, in Italia, non coincide con la storia del Sessantotto. Col Sessantotto, ma non nel Sessantotto, le donne cominciano ad attingere la loro visibilità e, fin da subito, gli sono eccentriche. La storia dell'azione e del pensiero delle donne, del loro essere e dei loro linguaggi, da quel punto in poi, è tutta da riscrivere. E va riscritta con mano femminile. Si tratta di pensare non più e non solo la costellazione essere/uomo; bensì la costellazione essere/donna39. Se il pensiero è cammino e i passi del pensiero sono e fanno la differenza, solo un cammino femminile può pensare ed esperire la costellazione essere/donna. È il cammino femminile che manca intensamente al pensiero vero, rendendo tutto il pensato e il vissuto terribilmente monchi. L'impensato e il non vissuto costituiscono l'integrità delle loro possibilità solo quando un pensiero femminile e un vissuto femminile avranno lacerato e scompigliato l'universalismo asessuato maschile. Si tratterà — e già si tratta — di una irruzione lacerante e conflittuale. Ma è da questi sentieri che passano dicibilità, visibilità, ed esperibllità della faccia nascosta della libertà e della felicità. Da qui la riscrittura anche della loro faccia palese.
Note
1
Il testo di A. Touraine, nella fattispecie, è Une sociologie sans société, 1981. Per una rassegna critica delle posizioni di Touraine dal 1978 al l984, cfr. l'ottimo articolo di Donatella della Porta, La sociologia dell'azione e lo studio dei movimenti sociali, "Teoria politica", n. 3, 1985.2
G. Marramao, Metapolitica, "Laboratorio politico", n. 1, 1983, p. 106.3
Ibidem, p. 106.4
N. Luhmann, Conflitto e diritto, "Laboratorio politico", n. 1, 1982. Sul punto, Luhmann ritorna con una elaborazione più densa in Ordine e conflitto: un confronto impossibile, "Il Centauro", n. 8, 1983. Il tema in questione è strettamente avvinto a quelli di sistema, interazione, società. Su questi ultimi Luhmann insiste in La differenziazione di interazione e società, "Paradigmi", n. 9, 1985.5
G. Marramao, op. ult. cit., p. 107.6
Ibidem, pp. 107-108. Il riferimento di Marramao è a G. E. Rusconi, Minaccia. Comunicazione e agire strategico, "Laboratorio politico", n. 4, 1982. In seguito, Rusconi elabora più organicamente e capillarmente la sua posizione nel bel libro Scambio, minaccia, decisione, Bologna, Il Mulino, 1985.7
A. Melucci, Per un'analisi dei nuovi movimenti, in C. Carboni (a cura di), Classi e movimenti in Italia 1970-1985, Roma-Bari, Laterza, I986, pp. 141-142; il saggio è comparso originariamente in "Quaderni piacentini", n. 65-66, 1978. Per parte sua, U. Eco afferma: "I1 Sessantotto, come elemento di paesaggio, è stata un'epifania della molteplicità", (Il grande caldo, "l'Espresso '68", Supplemento al n. 3 de "l'Espresso", 25 gennaio 1988, p. 89).8
A. Melucci, op. ult. cit., p. 142.9
La convergenza è acutamente individuata e descritta da G. Marramao, op. ult. cit., pp. 112-120.10
Cfr. P. Virno, La politicizzazione integrale e M. d'Eramo, La fuoriuscita dall'innocenza, entrambi in "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 6, giugno 1988, rispettivamente, pp. 4-5 e 14-15. E ancora, G. Viale, Assente è il presente, "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 12, dicembre 1988, pp. 12-13. Facendo perno su un modello interpretativo neoriformista, sul '68 come rivolta morale, ludica ed esistenziale, ma anche quale forma politica trasparente di critica del "palazzo" e della "politica del palazzo", ha insistito anche P. Flores D'Arcais, Dalle ceneri del '68, "la Repubblica", 17/18 gennaio 1988.11
Per la discussione di questo reticolo di temi, si rinvia ad A. Chiocchi, I dilemmi del ‘politico’, vol. I, Dalla filosofia alla politica, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 2, 1993; segnatamente, capp. III (§ 4), VI (§§ 5 e 6).12
Su quest'ultimo punto, cfr. il notevole C. Meier, La nascita della categoria del politico in Grecia, Bologna, Il Mulino, 1988. Per un’analisi dei contesti tematici e delle successioni problematiche del ‘politico’ presso l’antichità greca, si rinvia al A. Chiocchi, Verso gli inizi. La polis greca: filosofia e politica, Mercogliano (Av), Associazione culturale Relazioni, 1996.13
La densità di questa regione laterale è tale che negli ultimi anni v'è stato il tentativo di "categorizzarla" da parte di R. Esposito, Le categorie dell'impolitico, Bologna, l1 Mulino, 1988. Rileva, sul punto, anche la discussione tra M. Cacciari e R. Esposito, Politica e pensiero, "Leggere", n. 7, 1988. Non è possibile qui soffermarsi sul discorso in argomento proposto da Esposito, né su quello di Cacciari. Comunque, nelle pagine che seguono emergerà, più o meno chiaramente, I’angolazione diversa da cui vengono osservate e, per dir così, inseguite (in questa costruzione della nostra posizione) le regioni laterali del 'politico'. Per l’approccio alle zone calde di questi percorsi di indagine, si rimanda ad A. Chiocchi, Attraversamenti. Mondi della vita e vite del mondo, Mercogliano (Av), Associazione culturale Relazioni, 1996.14
In una direzione di senso simile, ma non identica procede P. Flores D'Arcais: "Non è stato il '68, perciò, crogiuolo di violenze e luogo alchemico di futuri terrorismi. Semmai: sulle ceneri del '68, sulla frustrazione che segue la dissipazione, maturano alcune delle condizioni che favoriranno il terrorismo... le sacrosante domande poste dal '68 attendono, sul piano politico della democrazia e del cittadino, ancora una risposta. É questo ci riguarda tutti qui e ora, oltre la rievocazione e la giustificata nostalgia" (art. cit.). Su quest'ultimo punto, così anche A. Bolaffi: "...nonostante tutto, almeno per il nostro paese, quelle poste dal movimento antiautoritario e poi successivamente dalle grandi lotte operaie dell'autunno caldo restano domande che sul piano della riforma etico-politica dell'istituzione dei partiti aspettano ancora risposte" (Quel clamoroso abbaglio, "Il Giornale di Napoli", 29 gennaio 1988). La cesura lotta armata/'68 è colta anche da U. Eco: "Se il terrorismo nasce dal '68, occorre ammettere che ne nasce come la critica più spietata, e il rinnegamento totale, il rifiuto dell'assemblearismo vociante, della vita in piazza, il ritorno alla decisione silenziosa ed elitaria che accomuna il brigatista e il suo nemico, il padrone multinazionale" (Il grande caldo, cit., p. 90). Sulla cesura movimenti/lotta armata cfr., infine: Gruppo di ricerca su "Società e conflitto", Conflittualità sociale e lotta armata nel caso italiano, "Società e conflitto", n. 0, 1988-1989, ora in Snodi. Percorsi di analisi sugli anni ‘60 e ‘70, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 6, 1995; A. Chiocchi, Catastrofi del ‘politico’. Teatro di senso, razionalità e categorie della lotta armata, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 8, 1995.15
R. Rossanda, L'anno rifiutato, "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 12, dicembre 1988, p. 4. Ma già in Le chiavi del '68, "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 1, gennaio 1988, p. 9.16
Così B. Manghi: "Ciò che ne è derivato risulta piuttosto diverso dai desideri di allora. In parte è una delusione ma in parte una fortuna se abbiamo il coraggio di leggere compiutamente quei desideri. Perché nessuno è padrone e demiurgo in un movimento collettivo" (Rifuggire dall'integralismo religioso e incappare nel fondamentalismo politico, "com-nuovi tempi", n. 4, 1988, p. 13).17
L'accostamento tra statu nascenti e movimenti si deve a F. Alberoni, Statu nascenti, Bologna, Il Mulino, 1968. Alberoni, 11 anni dopo, ritorna sul punto: "I movimenti collettivi sono il prodotto del crearsi in un punto del sistema sociale, di un campo di solidarietà alternativo con un livello energetico esplosivo. Ho chiamato questo fenomeno Stato Nascente (SN) usando un'espressione di Max Weber" (Movimenti sociali e società italiana, in C. Carboni (a cura di), Classi e movimenti in Italia 1970-1985, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 11). Veramente - e più precisamente - Weber parla di "statu nascendi" e non di "statu nascenti" (cfr. Economia e società, Milano, Comunità, 1981). Sullo scostamento lessicale da Alberoni operato a confronto della categoria weberiana è ultimamente tornato A. Pizzorno, Considerazioni sulle teorie dei movimenti sociali, "Problemi del socialismo", n. s., n. 12, 1987, pp. 15-16.18
E. Fachinelli, Il desiderio dissidente, "Quaderni piacentini", n. 33, 1968. Stralci significativi dell'articolo sono reperibili in "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 1, gennaio 1988, pp. 8-9. Da ora in avanti, si citerà da questi stralci.19
Ibidem, p. 8.20
Di H. Arendt, sul punto, cfr.: Sulla rivoluzione, Milano, Comunità, 1983; Politica e menzogna, Milano, SugarCo, 1985.21
Una delle tante tracce di questa deviazione è, al riguardo, fornita dalla fortuna conosciuta nei movimenti degli anni '70 dalle tematiche dei bisogni, da cui è derivata quella particolare elezione della produzione teorica di Agnes Heller a paradigma culturale fondamentale di riferimento. Della Heller, la quale tenta di mediare e radicalizzare il nesso Hegel/Marx, per il tramite di una reinterpretazione radicale della ontologia dell'essere sociale di Lukács, vedasi soprattutto La teoria dei bisogni in Marx, Milano, Feltrinelli, 1974, vero testo sacro del "movimento del '77". Per la critica della posizione della Heller, si rimanda ad A. Chiocchi-C. Toffolo, Il lavoro come forma e come oggetto, "Società e conflitto", n. 00, 1989; ora in Passaggi. Scene dal-la società italiana degli anni ‘70 e ‘80, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 7, 1995. La questione è organicamente discussa in A. Chiocchi, Rivoluzione e conflitto. Categorie politiche, Avellino, Associazione cul-turale Relazioni, 1995; segnatamente, cap. II, § 9.22
Di H. Marcuse cfr., al riguardo: Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1964; L'uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1967. Sul "posto" da Marcuse occupato nella cultura dei movimenti del '68 assai utile l’articolo. di S. Petrucciani, L'utopia è realizzabile subito, "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 6, giugno 1988, p. 18.23 E. Fachinelli, op. cit., p. 8.
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Ibidem, p 9.25 La questione è esaminata in A. Chiocchi, I dilemmi del ‘politico’, vol. II, Forme della crisi, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 3, 1994; segnatamente, cap. X, §§ 1.3. e 1.4.
26 Sul punto, si rinvia a Gruppo di Ricerca su "Società e conflitto", Conflittualità sociale e lotta armata nel caso italiano, cit., segnatamente pp. 68-69; ora in Snodi..., cit.
27 Attorno a questo lato della complessità si è intrattenuto N. Luhmann, Teoria politica nello Stato del benessere, Milano, Angeli, 1983.
28 A. Melucci: Per una teoria dei nuovi movimenti, cit.; L'invenzione del presente, Bologna, Il Mulino, 1982.
29 Sull'argomento, fondamentale D. Easton, L'analisi sistemica della politica, Casale Monferrato, Marietti, 1984.
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Questa differenza specifica tra '68 e '77, pur entro un quadro di analisi e di riferimento tutto affatto diverso, è già stata enunciata da M. Ilardi-M. Grispigni, Il 68? La grande festa di una generazione, "il manifesto", 20 febbraio 1988. Sulla discontinuità tra '68 e '77 (e tra '68 e '69, ritenuto qui il luogo di origine del "caso italiano") ha insistito, con grande efficacia, con due interventi S. Bologna: Il fordismo eversivo degli operai, "il manifesto", 25 gennaio 1989; Memoria senza presente, "il manifesto", 11 febbraio 1989. All'interno di questo quadro di rimeditazione storica, di Bologna è assai importante anche Memorie di un operaista, "il manifesto", Supplemento dedicato al '68, n. 11, novembre 1988. Quello di Bologna, in senso lato, può essere configurato come un tentativo di ricostruzione del "metodo storiografico" e dell'analisi politica intorno a un punto di vista "di parte", incuneato nelle novità del presente e fortemente memore della carica "eversiva", insufficientemente indagata dalla storiografia e dalla politologia degli anni '80, delle culture e delle istanze di liberazione dei movimenti degli anni '60 e '70. Da qui il suo tentativo di costruire gli elementi di una memoria del presente, a partire dalla quale soltanto viene reputato possibile il recupero di una memoria del passato. Questa, in estrema sintesi, la prospettiva della sua analisi storica, la quale è degna del massimo interesse e, nel contempo, non coincide con la prospettiva di analisi storica che si sta tentando di enucleare in queste pagine. Infine, restano da esaminare gli studi che applicano i paradigmi del "sistema mondo" all’analisi dei movimenti: G. Arrighi-T. K. Hopkins-I. Wallerstein, Il 1968: la grande prova, "Marx centouno", n. 8, 1988; G. Arrighi-T. Hopkins-I. Wallerstein, Antisystemic Movements, Roma, Manifestolibri, 1992. Intorno al tema e rifacendosi largamente al paradigma del "sistema mondo" si è, ultimamente intrattenuta la sezione "al-fabeti" (dedicata ai "movimenti", appunto), della rivista "Onde-lunghe", n. 1, 1994, con contributi di M. Pianta, Hilary Wainwright, I. Wallerstein, S. Andreis, L. Manconi. Rileva, sul punto, anche M. Revelli, 1848-1968: anni della rivoluzione? (recensione al libro del 1992 di Arrighi-Hopkins-Wallerstein dianzi citato), "l’Unità", 8 febbraio 1993. Da vedere, infine, R. Luperini, 1968: una interpretazione, "Marx centouno", n. 8, 1988, nel quale emerge, seppure da un percorso di analisi più vicino al "marxismo classico", egualmente la natura "anti-sistema" dei movimenti.31 Cfr., sul punto, A. Petrillo, Conflittualità sociale e lotta armata nel caso italiano, "La Gazzetta dell'Irpinia", n. 3, 1988, p. 10.
32 Ibidem, p. 10.
33 Nelle sue varie coniugazioni, il termine è stato largamente usato (intorno al 1983-84) da aree trasversali di donne della lotta armata, recluse nel carcere speciale di Voghera; la cornice di senso in cui viene usato in queste pagine è, ovviamente, assai diversa.
34 Sul tema, è d'obbligo il rinvio alla ricerca di J. Baudrillard, di cui si ricordano qui solo le tappe essenziali: Per la critica dell’economia politica del segno, Milano, Mazzotta, 1974; All’ombra delle maggioranze silenziose, Bologna, Cappelli, 1978; Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1979. Egualmente meritevole di considerazione è il contributo di C. Formenti, La fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, Milano, Feltrinelli, 1980.
35 Ecco come si esprime lucidamente S. Natoli: "Evidentemente l'uomo è istituito nel bisogno poiché è insieme energia e desiderio; tuttavia, esiste per lui una scala di bisogni che va da quelli assolutamente ed immediatamente necessari per riprodursi e vivere a quelli sempre meno cogenti e perciò opzionabili ed elettivi. L'ascesa non è dal necessario al voluttuario (questa sarebbe un'errata interpretazione), ma dai vincoli della necessità al gioco della libertà. In altri termini, quando l'uomo si libera dall'immediatezza del bisogno continua ad avere bisogno di esser libero..." (Lavoro (voce), in G. Zaccaria (a cura di), Lessico della politica, Roma, Edizioni Lavoro, 1987, p. 314; corsivo nostro).
36 In una cornice critica delle tesi del "rifiuto del lavoro", a quel tempo diffuse da "Potere Operaio", questo tema specifico viene svolto dalla rivista "Ideologie" nell'Editoriale: Rivoluzione e studio, n. 9/10, 1969. Ma la riflessione rigorosa del tema è anticipata dall'importante libro di F. Rossi- Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano, Bompiani, 1968. Come è noto, Rossi-Landi fu direttore e principale animatore di "Ideologie". In una prospettiva analoga, più recentemente anche R. Màdera, Il lavoro fra tecnica e prassi, "Marx centouno", n. 7, 1988, pp. 91-112. Si tratta di un intervento denso il cui presupposto è la confutazione di tutti quegli approcci che variamente, e con esiti politicamente contrastanti, inglobano il lavoro nella tecnica. È su questa metafisica tecnicista che, poi, si reggono tanto l'apologia del lavoro (salariato) che la negazione radicale del lavoro in quanto tale. Sul tema, si rinvia anche ad A. Chiocchi-C. Toffolo, Il lavoro come forma e come oggetto, cit.
37 Per i testi di Wittgenstein qui evocati si rimanda alla nota n. 16 del primo capitolo.
38 In questo senso va procedendo e riprecisandosi l'ultima fase della ricerca sui movimenti di A. Melucci, Libertà che cambia. Una ecologia del quotidiano, Milano, Unicopli, 1987 cit.; vedasi anche la bella recensione che al libro è stata fatta da Paola Messina, Esperienza individuale ed esperienza collettiva, "Teoria politica", n. 2, 1988.
39 Nel biennio 1986-87, il pensiero femminista si è caratterizzato per una ripresa assai interessante e contenutisticamente articolata. Si rammentano qui soltanto alcuni dei passaggi più importanti: Libreria delle Donne, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987; AA. VV., Il pensiero della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1987; Paola Melchiori (a cura di), Verifica d'identità, Roma, Utopia, 1987; Franca Pieroni Bortolotti, Sul movimento politico delle donne, Roma, Utopia, 1987. Vanno ricordate le pubblicazioni di riviste come "Reti" e "Lapis", nonché l'attenzione costante che "il manifesto", negli anni Ottanta così come in questi Novanta, ha dedicato alle tematiche e problematiche femminili.