CAP. III

MOVIMENTI, IDENTITÀ E COMPLESSITÀ

 

 

 

 

 

 

1.

La ricaduta sociale dei nuovi saperi

La ridondanza e la saturazione degli ambiti della comunicazione, col loro tasso di velocizzazione estrema, per effetto delle forme e degli strumenti della tecnica informatica, hanno profondamente modificato la scena entro cui agiscono i movimenti e il potere. Il complesso di queste tendenze fa tutt'uno con quello che Salvatore Natoli ha pregnantemente definito il "neo-paganesimo contemporaneo"; situazione storico-culturale in cui, proprio sulla base dell'enorme accumulo di forza produttiva e potenziale energetico culturale e scientifico, è andata germinando una nuova e radicale istanza di "rifiuto del lavoro" che rovescia i termini con cui questa si era presentata nelle società pagane dell'antichità1. Nell'antichità "il rifiuto del lavoro" aveva una finalizzazione classica restrittiva, per consentire ai liberi di dedicarsi all'attività superiore dell'ozio e della cura della loro propria libertà: il lavoro era esclusivamente riservato agli schiavi che, così, erano privati di ozio e, quindi, di libertà. Diceva pregnantemente Aristotele — e lo rileva puntualmente Natoli2 —: "non c'è ozio per gli schiavi" (Politica, vii, 15). Per il neo-paganesimo, il "rifiuto del lavoro", invece, si incardina sulla liberazione degli schiavi salariati, la cui libertà viene ritenuta incompatibile con la sussunzione formale e reale del lavoro nel capitale, essendo possibile trasferire e delegare il lavoro umano al sistema (semi) automatico delle macchine. Ciò in forza dell'incorporazione della scienza e della conoscenza direttamente nel rapporto di riproduzione capitalistico3. Nella situazione capitalistica v'è da registrarsi uno scostamento duplice: (i) dalle società pagane antiche, imperniate sul "rifiuto del lavoro" nei termini della liberazione dal lavoro; (ii) dalla società signorile, in cui il "rifiuto del lavoro" vige come liberazione del lavoro4. Pertanto, quella capitalistica è caratterizzabile come situazione del lavoro per il lavoro, produzione per la produzione, come genialmente fatto rilevare da Marx. Ne discende che il lavoro viene definalizzato, divenendo un che di disumano e sommamente alienato e alienante: "Se il lavoro è definalizzato è assenza d'opera e come tale disumano. Da qui il rifiuto. Questo rifiuto è la logica contropartita per una società modellata "suI lavoro per il lavoro (il capitalismo)", che tuttavia ha prodotto l'abbondanza (o quanto meno la non necessità) ed ha intellettualizzato come non mai la fatica. Una società intelligente che produce intelligenza: una società informatica"5. Società informatica e lavoro intelligente, dunque. L'intellettualizzazione rende il lavoro sempre più un'entità eterea e opaca, le cui articolazioni interne si vanno miniaturizzando in un rapporto di permutabilità reciproca, facendosi sempre più faticosamente discernere. Divenuto una sostanza intellettuale volatile, il lavoro si va oltremodo livellando e livella entro ritmiche e forme amorfe, replicanti e debilitate, per quanto cariche di contenuti cognitivo-scientifici sempre più densi6. Intellettualizzandosi, il lavoro si fa sempre meno visibile. La stessa classe operaia tradizionale pare scomparire e diviene invisibile, risospinta costantemente nei gironi infernali della ripetitività e della fatica estreme, appendice insignificante e non vista non sem-plicemente della macchina singola; bensì del sistema automatico e del flusso intelligente del lavoro informatico. Le nuove tirannidi si sommano alle vecchie. Nel medesimo modo la società informatica, producendo intelligenza, si trincera e si nasconde dietro i sistemi produttivi e comunicativi di intelligenza. ln sistemi così congegnati, rilievo fondamentale acquisisce l'innovazione tecnologica7. Entro questo contesto, il lavoro si socializza all'estremo grado, estendendo e dilatando all'infinito le forme e le movenze dell'iterazione e dell'opacità che, per così dire, planetarizzano il quotidiano. La "critica della vita quotidiana"8 è, quindi, inscindibile dalla critica del profilo ipertrofico assunto dal lavoro, risucchiante lo spazio e il tempo, rendendoli inermi e inerti. L'automazione è soltanto il lato più appariscente della metamorfosi che ha investito la forma lavoro, rideterminandone integralmente la relazione col tempo e con lo spazio, con l'esistenza e l'ambiente, con le strutture della produzione e della comunicazione. Non si ha a che fare con trasformazioni riconducibili meramente entro I'alveo del processo produttivo e/o lavorativo. Marco Mastretta fa rilevare che le fenomenologie dell'automazione dei processi produttivi non sono, ipso facto, incremento qualitativo della flessibilità; ma elemento costrittivo e penalizzante della flessibilità del lavoro umano in senso lato e pregnante; "si può affermare che il maggior grado di flessibilità possibile lo si ha potenzialmente impiegando solo il lavoro umano, mentre l'impiego di automazione riduce questo spazio di libertà"9. Si può dire: qui compresso, a fronte dell'automazione messa in codice e in prassi dalle ideologie produttivistiche, è il bisogno di libertà dell'uomo, a mezzo dell'evirazione del carattere fortemente poietico-creativo del lavoro umano. Il punto stringente diviene il seguente: tenere ben distinto il tempo di lavoro delle macchine dal tempo di lavoro (in senso lato) degli uomini e delle donne, affinché dalla sproporzione crescente tra "lavoro necessario" e "tempo di lavoro disponibile" risulti un quadro di libertà sempre più largo e dotato di senso. Una ipotesi del genere formula Marx nel "Frammento sulle macchine", analizzando lo sviluppo del macchinismo e il ruolo della scienza quale grande pilone di sostegno della produzione della ricchezza sociale10. Sulla scia dell'analisi marxiana, Natoli può congruamente affermare: "... I'organizzazione moderna del lavoro ha materializzato lo spirito e ha spiritualizzato la materia; ha liberato la mano per il pensiero creando le condizioni di una possibile ricomposizione tra produzione e fruizione; certo non il lavoro come gioco, che fu un'utopia che ignorava il contrasto della trasformazione, ma come impresa umana creativa"11. Ciò ridefinisce e ricontestualizza due determinazioni di rilievo: (i) la connessione conflittuale tra capitale e lavoro; (ii) il significato di libertà immanente al lavoro. La contraddizione tra capitale e lavoro salariato non occupa più il centro della scena; non per questo perde di vigenza. Anzi, si disloca in ambiti diffusivi, in cui crescenti sono ruolo e peso giocati dalle tecnologie informatiche. "Centralità del lavoro" e "centralità operaia" non coincidono più. Sono proprio le componenti tecnico-informatiche a risucchiare la classe operaia tradizionale (parliamo qui di operaio massa) in un doppio mulinello: (i) da un lato, risospingendola verso figure tecnicizzate; (ii) dall'altro, abbassandola al profilo professionale, come profeticamente anticipato da Marx, di mera sorveglianza del ciclo lavorativo. V'è, ormai, una distanza stellare tra "centralità del lavoro" e "centralità operaia": le forme e le modalità assolutamente originali della prima segnano una sorta di crepuscolo per la seconda. Nuovo diviene il processo di sussunzione del lavoro sotto il capitale e, per il tramite delle tecniche di produzione e organizzazione informatiche, nuove le procedure di controllo e i codici disciplinatori a cui sono sottoposti i lavoratori. Osserva L. Cillario: "il processo capitalistico di accumulazione ha intrapreso una "lunga marcia" di trasferimento ad una dimensione psichica e cognitiva"12. E ancora più chiaramente: "in sostanza il lavoro umano entra nelle fasi del ciclo di produzione in cui prevalgono le necessità (capitalistiche) di accentramento e di organicità dei flussi (informativi); va invece progressivamente uscendo dalle fasi contrassegnate dall'eterogeneità e dalla flessibilità dei flussi (beni manufatti, prodotti in lavorazione)"13. L'accentramento dei flussi informativi e l'integrazione tra questi e il lavoro umano conferiscono al rapporto capitale/lavoro una nuova cognitività e una nuova psicopatologia quotidiana. Mai come prima gli ambiti psico-cognitivi sono stati così immanenti alle prestazioni lavorative14. Una analisi logico-linguistica e psico-relazionale del lavoro nella società informatica darebbe, presumibilmente, risultati assai interessanti. Primi passi in questa direzione, con un ancoramento all'analisi marxiana e al "se-condo Wittgenstein", sono stati fatti da Ferruccio Rossi-Landi, con le categorie di "forza-lavoro linguistica" e "plusvalore linguistico"15. II fatto è che, come non manca di osservare L. Cillario: "... I'elemento peculiare dell'accentramento e della organicità dei flussi Informativi è di operare in senso prescrittivo sulle strutture mentali e psichiche, di costruire e interiorizzare i codici che regolano i comportamenti comunicativi tra gli individui e il modo di pensare"16. La sequenza trasformatrice importata da questa progressiva metamorfosi della forma del lavoro e dei corrispettivi processi produttivi e comunicativi ha contrassegnato il rapido spegnersi, entro poco più di un ventennio, delle figure portanti (prima) dell'operaio professionale e (dopo) dell'operaio massa. Ciò ha modificato in maniera assai cospicua il profilo delle lotte operaie e sociali degli anni Settanta a paragone di quelle degli anni Sessanta. Se negli anni Sessanta è l'operaio massa la figura portante della mobilitazione collettiva, nei Settanta già non lo è più 17. Ma la crisi dell'operaio massa è ben più della crisi di un soggetto sociale. Più al fondo, segna l'attivazione di: (i) un irreversibile processo di eclissi della possibilità che si diano figure centrali nel processo della riproduzione sociale e nella dinamica dell'azione collettiva; (ii) una fluidificazione impressionante di quella che era stata denominata "composizione di classe", la quale si sfrangia, frammenta e disloca a raggiera, ormai definitivamente irricomponibile in un aggregato univoco. A fronte di questa duplice evidenza, è possibile registrare il limite precipuo della teoria negriana dell'"operaio sociale" che, purtuttavia, parte dall'interpretazione degli effetti di novità presenti nel nuovo scenario. Non che entro le nuove composizioni di classe che si vanno ridisegnando non siano più possibili operazioni di riaggregazione delle varie figure sociali attivanti la mobilitazione collettiva; solo che ora rimangono da individuare gli assi perspicui intorno cui ruotano le differenze, lungo i quali sia possibile dislocare una dialogica comunicativa e un'etica della libertà. La compattezza — soggettiva e collettiva — del paradigma dell'"operaio sociale" non rende ragione del nesso assai disseminatore e decentrante che ora vige tra identità e differenza e della vera e propria fibrillazione del tempo/spazio sociale e individuale. Nel quadro di queste nuove realtà nascono impegni e ostacoli di vario genere per i processi costitutivi della identità e delle identificazioni collettive che, per un canto, non possono smarrirsi nel labirinto delle differenze e, per l'altro, non possono più trovare ricovero nelle sintesi organicistiche superiori. La pervasività della tecnica e del processo di valorizzazione cognitiva attiene sia alle sfere del macro che a quelle del micro; nondimeno, il comando sul macro e sul micro non è riconducibile a una procedura univoca. Ciò che qui veramente si flessibilizza è lo statuto cognitivo e performativo della tecnica e del lavoro, dando luogo all'incarnazione di processi proteiformi, dotati di una capacità di trasmissione, mutevolezza e velocità sorprendenti. Trovare il punto comune di questa specie di Proteo sociale è, sovente, una fatica di Sisifo. Altrettanto deve dirsi per la rilevazione del punto di differenza. Ma rimane indubbio che punto di unità e punto di differenza rimangano operanti in maniera cogente. Tanto più cogente quanto più si sottraggono all'occhio e si nascondono agli occhiali dell'osservatore. L'impasse è superabile soltanto inserendo il medesimo osservatore nel campo di azione del sistema osservato; come variamente hanno principiato a fare le epistemologie della complessità18. In virtù di questa sollecitazione, è possibile con maggiore efficacia delineare il campo dell'unità e della differenza del sistema complesso lavoro/tecnica/politica/etica.

2.

L’identità in bilico tra scienza ed etica: quale responsabilità

Nell'indagare il nesso tra scienza ed etica nelle società avanzate, K.O. Apel parte dal dato storico rappresentato dalle conseguenze "pratico-tecniche per la vita nella contemporanea società industriale — fino ad arrivare alla crisi strategico-nucleare ed ecologica. Per la prima volta nella storia umana questa sfida esterna fa apparire come urgente qualcosa come una macroetica, a livello planetario, della responsabilità solidale dell'umanità"19. Ma, aggiunge Apel, accanto alla sfida esterna della scienza alI'etica filosofica, è da prendere in considerazione anche una sfida interna: "La sfida interna all'etica filosofica da parte della scienza consiste, invece, nel modello o paradigma della razionalità scientifica, il quale sembra vincolante anche per la filosofia. Questo paradigma della razionalità però sembra dimostrare proprio come impossibile una fondazione razionale ultima della valutazione etica delle conseguenze della scienza"20. Apel scioglie questo dilemma nel seguente modo: "C'è una risposta della ragione filosofica a questa duplice sfida? Ecco la mia risposta a questa domanda: sì, se si presuppone che la razionalità della regione filosofica, la razionalità metodica della fondazione-riflessivo-trascendentale ultima di ciò che è normativamente vincolante, non sia identica con la razionalità logico-formale (ariflessiva, e pertanto autobliatasi) del padroneggiamento scientifico del mondo"21. Appare chiaro che il nesso tra etica filosofica e razionalità è soltanto un lato del problema; l'altro, a cui invariabilmente ci si deve ricondurre, è costituito dal legame sussistente tra tecnica e politica22. Nel posizionamento del problema e nella relativa soluzione fornita da Apel, la riflessione arriva a questo lato; nel nostro discorso, invece, partiamo da questo lato.

In Aristotele, il nesso tecnica/politica è come rattenuto e incamerato in quello etica/filosofia. Solo con la modernità l'intreccio categoriale tecnica/politica fuoriesce dal guscio protettivo e finalizzante dato dagli universali etico-filosofici. Partire da questo momento secondo appare, perciò, di grande rilevanza. Tanto più se si pone mente a quell'ulteriore processo che dall'homo faber ha condotto fino alle società capitalistiche sviluppate, lungo il quale la tecnica si è progressivamente separata dalla politica, tentando di infeudarla23. Come è noto, con Heidegger il capovolgimento di sovranità tra politica e tecnica si corona e totalizza: la tecnica, non più la politica, diviene la nuova immagine del mondo24. Così Heidegger infrange quell'estremo bordo da cui Weber aveva ancora disperatamente tentato di riconnettere razionalità tecnica e valori etici, poiesis tecnica e praxis politica25. La posizione heideggeriana, del pari, è irriducibile a quella di Marcuse che, pur assumendo il dominio della tecnica sulla politica nelle società post-liberali26, non si mette, come Heidegger, alla ricerca di uno spazio/tempo post-metafisico e post-tecnico27. Ora, per Heidegger, assumere che la tecnica abbia affermato il suo incontrollato dominio sulla politica postula la morte della politica, in un modo che ricorda assai da vicino la riflessione hegeliana intorno alla morte dell'arte. Da qui il tentativo heideggeriano di tentare una via d'uscita non-politica, una redenzione impolitica. Diversamente da Heidegger, un'altra inquietante presenza del Novecento — C. Schmitt — argomenta non già di morte del 'politico'; bensì della morte della politica dello Stato e dello Stato quale forma politica, poiché entrambi finiti avvolti nelle spirali della spoliticizzazione e tecnicizzazione28. Ultimamente, N. Matteucci a fronte del dilemma: morte o trasfigurazione della politica, ha esplorato la possibilità di una "terza via": "quella di una nuova di-slocazione della politica in altri ambiti e in diverse strutture. È difficile decifrare il nostro futuro, sulla base di una tendenza in atto, in una situazione così complessa e contraddittoria: ci potrà anche essere la morte della politica nel suo basso profilo o nel suo senso banale, quello di professionisti della politica e, insieme, il trionfo della politica nel suo senso forte, quello dell'utopia della polis"29. Ma, ora, nella diagnostica appena riferita, la morte della politica si trascina dietro irrimediabilmente la morte della filosofia: filosofia e politica non sono, forse, nate insieme? A questo doppio tragico e fatale destino siamo condotti da Max Horkheimer30. La consustanzialità di teoria e filosofia nel pensiero antico è anche strettissima correlazione di filosofia e politica. A partire da questa correlazione e attraverso smottamenti successivi, nell'ambito filosofico non cade soltanto la praxis, ma anche l'etica. Emblematico il caso di Aristotele, a proposito del quale lucidamente osserva J. Ritter: "il concetto filosofico della Politica, origine di tutto ciò che ora si chiama politica e politico, è emigrato dalla filosofia. Con ciò la "politica" si è staccata da quella connessione in cui essa si trovava a partire da Aristotele e nella tradizione dottrinale da lui derivante: qui essa era limitata alle questioni del dominio e dell'ordinamento politico, ma era sinonimo di "filosofia pratica", che comprendeva anche "etica" ed "economia""31. Ritornando ai postulati della morte della politica, osserviamo, dunque: con l'emigrante si smarrisce pure la fenditura originaria da cui ha preso cominciamento e vigore l'emigrazione. È ravvisabile, in proposito, un'estrema cinicità del destino: muoiono la patria originaria (la filosofia) e la patria seconda (la politica), poiché tra le due si sarebbe incuneato il dominio straniero della tecnica. Quest'ultima, pare di capire, è qui avvertita come dominio dell'estraneità e dello straneamento che perverte, smemora e atterra le dimore madri dell'origine. Senonché l'artificialità della tecnica va anche decodificata come correlato semantico della cultura, essendo la cultura la vera natura degli esseri umani. È la natura dell'umanità, dunque, ad essere costitutivamente artificiale. Su siffatta artificialità alligna e dimora la casa delle donne e degli uomini come casa della libertà e della felicità; come possibile necessario della libertà e della felicità. La natura artificiale delle donne e degli uomini significa il loro bisogno di dimore libere. Ecco il lato rimosso dai teoremi variamente declinati dal Kulturpessimismus, a partire dalla "grande narrazione" di inizio secolo, da Splenger argomentata, intorno al "tramonto dell'Occidente". È tutto l'annoso dibattito polemico tra Kultur e Zivilisation32 che, obliterato il tema cultura nella profondità dei suoi attributi di senso, risulta ozioso e fuorviante: esso, sì, esposto alle ventose onnivore delle dominazioni delle tecniche. Se di crisi epocale di un paradigma fondante si deve parlare, lo si deve specificamente per il fatto che l'irruzione della tecnica ha condotto oltre il vecchio aut aut: tecnica o politica? Il dispotismo onnilaterale della tecnica mette impietosamente a nudo la povertà di pensiero e di vita del ragionamento dicotomico: è proprio la techne a comandare e a farsi beffe delle antinomie, trapassando con irrisoria facilità demiurgica da una forma all'altra, secondo lo spettro completo delle opposizioni. Calcolo, piano e movenze pervasive della tecnica: ecco la sintesi disvelata che nemmeno Hegel e Marx potevano pensare.

La tecnica, più che ancora la dialettica materialistica, diviene il paese dell'"unità degli opposti". Niente più della tecnica incarna il mito di Proteo e quello di Pirandello dell"uno, nessuno e centomila". Ma queste, per l'appunto, sono figure mitiche, rappresentazioni fortemente drammatizzate e ricettacolo, non di rado, di grande angoscia. Quale, ora, sotto l'evidenza reale, il rimosso del mito? Quale l'arcano primordiale dell'angoscia? Pare indubbio che è questa scorza dura che urge penetrare. Si tratta di scavare tra il dolore e le macerie del "negativo", senza rimanere invischiati nella palude della negatività ed evitando, all'opposto, di finire preda degli archetipi del "po-sitivo" più brutale e banale. E si tratta di farlo, calandosi in una situazione storica, simbolica e comunicativa che non ha eguali in passato. D'altronde, sempre la storia si è posta e ci pone di fronte al pensiero e alla vita come forme originarie e non come ricalco: in prima approssimazione, si pone e ci pone sempre come presente. Pensiero e azione hanno dovuto, poi, districare le tracce e le origini del presente: dalla natalità prima fino alla linea d'orizzonte del futuro. Ma adesso abitiamo un presente che pare non avere radici e nemmeno un futuro che preme: sembra che tutto sia disperatamente privo di storia e di tempo. Lo sradicamento del tempo e delI'essere viene inestricabilmente affiancato alla fine tragica della modernità e alla efflorescenza cava del "post-moderno", letto come aurora del rovesciarsi del senso nell'insensatezza più rovinosa. Ma, al di là del sembrare delle apparenze, dobbiamo renderci consapevoli che abitiamo una nuova assialità del tempo, dello spazio e dell'esistenza, a cui stanno strette sia l'ermeneutica delI'apocalisse e sia quella del silenzio pietrificato. Che la nostra aurora sia tragica è innegabile. Che sia portatrice di un messaggio di libertà e verità che rimane tutto da decifrare ed esplorare pare altrettanto indubitabile. Se ci diamo a questo preludio, una filosofia dell'avvenire si può preludere. Ricercare le verità che nel nostro tempo più ci appartengono equivale ad assumere come dato di partenza la non verità, attraverso cui falsifichiamo il mondo e il tempo in cui viviamo. La posizione del problema, in Nietzsche, è quanto mai chiara e intensa: "Ammettere la non verità come condizione della vita: ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valore: e una filosofia che osa questo si pone, già soltanto per ciò, al di là del bene e del male"33. Quale politica potrà mai avere un legame di consanguineità e, allo stesso tempo, di alterità con una filosofia siffatta? Qui, come spinge Nietzsche, pensare è dare vita a un pensiero oltre e contro i "pregiudizi filosofici"; pensare e agire politicamente significa sagomare un pensiero politico oltre i pregiudizi del pensiero politico, una prassi politica oltre i pregiudizi della prassi politica. E cosa è, mai, la soccombenza della filosofia sotto l'imperio della scienza, se non pregiudizio filosofico? E cosa è, mai, la soggiacenza della politica sotto il comando della tecnica, se non pregiudizio politico ?

Se ci conduciamo al campo relazionale politica/etica, ci imbattiamo nella raffigurazione di un non meno rilevante processo di chiusura. Il teorema pessimista: la tecnica comanda la politica, si prolunga nel corollario: la politica comanda sulla morale. Per restare ad Horkheimer: "La morale scompare. Era la versione autonoma della fede. Ora è sostituita dall'estensione delle direttive politiche e sociali. Con ciò svanisce la sovranità individuale e sociale, così come scompare l'illusione degli obblighi umani che le era connessa ...ll mondo si accinge a fare a meno della morale, diventando organizzazione totale ovvero distruzione totale. Le due cose sono vicine. Il progresso tende a sfociare nella catastrofe, poiché si limita a lasciarsi alle spalle ciò che è arretrato"34. Con N. Matteucci, possiamo dire: "La morte della politica, sottintesa dalle moderne tendenze della scienza e della sociologia politica di ispirazione anglosassone, è forse soltanto un'illusione, un'illusione dovuta, in parte, ad una forma di moralismo, per mezzo del quale esorcizzare il demone del potere e, in parte, al fatto organizzativo-amministrativo, che — nella vita associata — ha assunto — sotto lo stimolo della scienza — una rilevanza ignota ai tempi passati, nei quali, forse, si poteva parlare soltanto di politica pura, solo incentrata sui valori e non tanto sui mezzi (scientifici e neutrali perché calcolabili), necessari per raggiungere i fini e gli obiettivi di una comunità, che ha comuni valori politici"35. E la morte della morale non è, forse, il corrispettivo analogico di siffatto moralismo ? Solo che qui il pregiudizio non è moralistico; bensì politicista. Come il pregiudizio morale era un modo per esorcizzare il demone del potere, così il pregiudizio politico è un modo per esorcizzare l'angelo vendicatore dell'etica. Questa doppia azione del pregiudizio trova la sua sca-turigine in quella dissociazione tra etica e politica inaugurata dalla rivoluzione politica e scientifica moderna, conducente alla formazione dello Stato moderno e saturatasi con l'attuale primato della scienza sulla filosofia. Osserva con pertinenza Matteucci: "La razionalizzazione della vita sociale, conseguenza della rivoluzione scientifica, non elimina gli impulsi irrazionali, anzi permette loro di sfuggire al controllo della tradizione, del sacro, dei costumi e, anche, di una ragione pensante, e di manifestarsi così allo stato puro, con un bisogno di integrazione mitico-simbolica. Infatti con la rivoluzione scientifica si attua nella vita dell'individuo una profonda dissociazione: da un lato c'è il mondo della vita, delle esperienze esperite e vissute dell'individuo, e, dall'altro, c'è un sapore quantificato e matematizzato, che è proprio della scienza, il quale domina sempre più la sua vita quotidiana"36. Ne discende uno stato febbrile delle passioni, laterali e avverse al senso astrattizzato e matematizzato della scienza. A misura in cui i paradigmi del sapere costituiscono un'ostile lateralità a questo stato febbrile, il sociale subisce un frenetico dissolvimento e si atomizza e disperde lungo una miriade di interessi non comunicanti. Su questo cortocircuito interviene la telematica, la quale tenta di ricondurre ai propri linguaggi asettici e simbolicamente ripuliti l'enorme turbine delle passioni e degli interessi. Ancora Matteucci: "Avremo, così, un' atomizzazione sociale, ma organizzata dalla telematica con i suoi linguaggi e i suoi cifrari, che non appartengono al mondo del vissuto. Quando ci si rivolgerà alle masse con i mass-media, il messaggio vissuto sul video, diventerà subito la verità, ma in un vissuto non esperito. Così al generale degrado delle "istituzioni" che hanno sempre consentito un sostegno all'azione umana, ancorandole ad un valore e dando loro stabilità e coerenza, avremo, invece, il dilagare nella società di "organizzazioni" scientificamente orientate, perché create in vista dell'efficienza ... Tuttavia la rivoluzione tecno-tronica sarà incapace di controllare le emozioni e le passioni umane: il rischio che essa corre, è quello di scatenarle soltanto"37. Questa processualità assai intricata è stata acutamente investigata da J. Baudrillard38. In particolare, sui media Baudrillard è assai esplicito: "L'informazione dissolve il senso e dissolve il sociale, in una sorta di nebulosa che non tende per nulla verso un sovrappiù di informazione, ma, proprio al contrario, verso l'entropia totale. Ciò che i media portano a compimento non è la socializzazione, ma all'opposto l'implosione del sociale nelle masse ... L'informazlone divora i suoi propri contenuti. Divora la comunicazione così come il sociale. E questo per due ragioni: invece di fare comunicare, essa si esaurisce nella messa in scena della comunicazione ...; invece di trasformare la massa in energia, l'informazione produce una sempre maggiore quantità di massa"39. Ecco che, allora, è possibile far cadere le maschere. Il pregiudizio moralistico e quello politicista convergono in un'area comune: il disancoramento dalle regole etico-politiche della "felicità pubblica", contestuale alla proclamazione della loro avvenuta morte.

3.

Libertà e ‘politico’ nella morsa dei poteri complessi

Se l'ideologia della morte della politica soccombe di fronte all'onnivoro comando che promana dalla tecnica, l'ideologia della soccombenza dell'etica sotto i colpi di maglio della politica rimane abbacinata davanti al vortice in cui passioni, emozioni e affetti sono furiosamente risospinti dall'assiomatica scientifica che evira i mondi vitali. Il pregiudizio moralistico si affloscia dinanzi al demone del potere; quello politicista, davanti al demone della scienza. Una filosofia e una politica senza pregiudizi costituiscono le loro prime ragioni d'essere proprio nel disvelamento di queste maschere. Da qui ri-cominciano. Non arretrano davanti al male e non sono atterrite di fronte al quantum entropico e "diabolico" che solca l'esistenza e il vivere sociale. Se il 'politico', in quanto tale, non è identificabile col demone del potere, è altrettanto vero che l'etica non è l'angelo vendicatore fatto carne e ossa. Una filosofia e una politica senza pregiudizi debbono sommamente vigilare e lottare contro demoni e angeli vendicatori. Solo a questo livello di verità, è possibile far cadere tutti i veli: l'ideologia della morte della politica è semplicemente una contraddizione in termini, poiché aumento del potere della tecnica è aumento del potere politico di chi governa, sin dalla costruzione dello Stato-macchina hobbesiano40. Altro che morte della politica! Che la scientificizzazione dello Stato e della società crei campi sottratti al monopolio politico non importa, per effetto di un automatismo logico, l'estinzione del 'politico'. Anzi: quanto più si restringe, tanto più il campo del 'politico' si rigorizza in forme di intensa potenza e rappresentazione; quanto più si sgrava di funzioni collaterali o non riconducibili ontologicamente al suo nucleo vitale, tanto più si fa "potente" e comunica la sua potenza. Lo abbiamo visto: diviene mezzo di comunicazione, serrato in una cogente maglia di fini. Questa intensa metamorfosi del 'politico', semmai, offre il terreno ottimale per la transizione da forza a potere: da potere come forza, finalmente, a potere come potere. Nella coppia forza/potere è, ora, il secondo termine l'elemento ontologicamente fondante e strategicamente rilevante. Ed è questa potenza accresciuta e intensificata che si nasconde dietro le maschere della morte della politica! Dire ora che il potere non è più "centro" o "vertice" non significa celebrare il funerale del 'politico'. Semplicemente, indica che fuori del suo dominio non comanda: sta qui la sua rinnovata saggezza, quasi seguendo la precettistica di Pascal (Pensieri, V, 4, n. 341). finalmente, il 'politico' è solo ed esclusivamente 'politico'. Occorre imparare a gettare l'occhio verso questo nuovo orizzonte, difendendosene e discernendone il possibile progettuale utopico, disancorando la costituzione della libertà dalle barriere sociali e politiciste delle rivoluzioni del passato. Un 'politico' purificatosi in queste forme atomiche può essere sia la leva per un dispotismo tirannico quanto mai intenso e largo, sia la base per una metamorfosi gravida di libertà, come aveva cominciato genialmente a intuire Hannah Arendt. Ma è un 'politico' che come non demonizza la tecnica, così non la teme; come non brutalizza l'etica, così non le si sottomette acriticamente. Qui il gioco si apre e si fa visibile, rendendo visibile la menzogna della politica, la tirannia della tecnica e il pregiudizio moralistico; solo che il pensiero faccia ritorno alle regioni dell'autentico e ridiventi un pensare che non domina la vita. La società informatica, paradossalmente, meglio concorre a localizzare la cornice del 'politico': decentrando il flusso informativo dal 'politico', fissa di questo i contorni e i confini. Il sistema informativo e comunicativo accentra il flusso e il deflusso dell'informazione in una serie infinita e rinnovantesi che taglia trasversalmente il sistema politico, come tutti gli altri sistemi e sottosistemi sociali. Ma la politica è attività, come ci ha insegnato Aristotele. E il 'politico' è discorso, progetto, come ci ha insegnato Platone. Attività, progetto e discorso non sono mai riducibili alla sostanza comune dell'informazione e comunicazione, nonostante il potere sia divenuto mezzo di comunicazione. Soccorrono ancora le lucide osservazioni di N. Matteucci: "L'ultima grande illusione è che l'elettronica possa finalmente consentire una democrazia diretta, dove ciascuno decide davanti al proprio elaboratore. La micro-informatica potrà anche servire al decentramento, alle iniziative di base, a un nuovo individualismo, ma l'agorà politica si fonda sul discorso e non sull'informazione, sull'esperienza vissuta e non sulla scienza, sul rapporto faccia a faccia, non mediato dall'elaboratore"41. La preminenza del discorso, del progetto e dell'attività chiama in causa la dialogica, I'etica della comunicazione quali partners e interlocutori del 'politico' e della politica. Questa curvatura della riflessione consente di sottrarsi alla vischiosità spossessante dell'euforia dei media, facendo ritorno all'esperibile vissuto, alle emozioni e alle passioni, al di qua e al di là della mediazione ottusa, appiattente e video-digitale dei mezzi della comunicazione, traforandoli.

Che la tecnica fosse non già autorità sovrana, ma uno strumento, è stato supremamente chiaro a E. Jünger: strumento della "mobilita-zione totale", della "planetarizzazione" e della "glacializzazione" dell'esistenza, nella finzione estrema dell'assenza di conflitto42. Le nuove categorie dell'ordine politico vanno formandosi proprio tra "magma vulcanico" delle passioni e "mondo di ghiaccio" della tecnica. Il secondo cerca disperatamente e spettralmente di congelare il primo sotto postulati universalistici, cercando di domarlo e di svilirlo in rappresentazioni di uniformità fantasmatica. Il primo si difende e resiste e non è mai domo; purtuttavia, si dibatte nel mirare e rimirare la sua impotenza, come nel riflesso di uno specchio sofferente. L'uomo della regola — l"'uomo calcolabile" di Nietzsche43 — è, in pari tempo, I'uomo che resiste alla regola e che si rivolta contro, patendone la volontà di comando. Osserva M. Galzigna: "Nessuna ontologia del potere potrà annullare lo scarto e la differenza tra queste due dimensioni della soggettività, rendendo la seconda un prodotto e un'articolazione della prima. D'altro canto, è anche vero che nessuna metafisica del vissuto potrà slegare la trama delle resistenze, delle lotte e degli antagonismi dalla loro stretta inerenza alle tecniche del comando e alle strategie delI'assoggettamento. Il gioco bellicoso tra queste due istanze, che attraversa il nostro scenario sociale, non sopporta il peso di tali patetiche riduzioni'"44. La condizione della contemporaneità inibisce all'ordine politico il governo dell'anima45, ancor più che nelle epoche passate. Anzi, nel presente questa sfrenata forma di tirannia si dà come impossibilità e, insieme, come zavorra da cui sgravarsi. Per il codice del "governo dell'anima" rimane l'esigenza primaria di mettersi al riparo dal cratere vulcanico delle passioni e dalle esigenze di verità avvertite dall'interiorità. Se viene lasciato operante l'(impos-sibile)impegno di governare politicamente le passioni e l'interiorità, politicamente esse vengono fatte deflagrare in silenzio, urlare senza voce, vedere senza occhio, ascoltare senza orecchio. L'esito preparato e incoraggiato è qui quello di fare in modo che toccare ed esperire non abbiano più né anima e né corpo. Messaggio informazionale, codice dell'informazione, flusso semantico e simbolico della comunicazione video-digitale fanno annaspare passioni e interiorità, annegandole nel loro stesso mare in tempesta, senza possibilità alcuna di guadagnare la riva della parola e dell'espressione. Lacerante è questa perdita e disperante questo urlo in cerca di voce. La ricerca della parola e dell'espressione si frange duramente contro lo spazio/tempo dell'esistente informazionale. Ma l'ordito informazionale non è un muro di gomma che rimanda indietro integro tutto ciò che non assimila e integra. Le sue pareti rifrangono e restituiscono parole, segni e messaggi obliqui: restituiscono con modalità e misure deviate e stravolte ciò che fa con loro attrito. Profondità e interiorità vengono come prosciugate; costrette e veicolate verso una scarica spossessante e automutilante; succhiate e divorate dal segno e dall'immagine video-digitale. Non per questo muoiono, nel senso letterale del termine; piuttosto, si tenta, in questo modo, di condannarle ad un'esistenza spettrale e larvale. Questi gli esiti letali di una implosione del senso che ha lontani natali e che contrassegna, ab initio, il complicato rapporto tra uomo e techne, tra techne e poiesis e che Canetti ha magistralmente individuato fin nell'orda selvaggia46. Assistiamo a un processo assai multiforme e capillare di videalizzazione e digitalizzazione dell'anima. Siffatta fenomenologia è al centro della critica articolata avverso la comunicazione e i mass-media, di cui Baudrillard è uno degli esponenti meglio qualificati47. L'anima è come costretta a ballare sulle sue rovine, attorno a un fuoco fatuo che fa colare i ceroni del trucco video-digitale. Da qui la necessità imperiosa — I'imperativo categorico dei media — di proporre all'infinito e con movenze/passi di felinità ultrarapida danze nuove e ceroni nuovi, prima che il trucco si sfaldi come quintessenza della menzogna. Quest'ultima, per occultarsi, non ha niente altro a disposizione che produrre e inverare una catena seriale di menzogne infinite; come non era dato immaginare nemmeno alle più radicali anti-utopie48 e come, invece, oggi è evidenza banale già nella pubblicità. Si cela qui il nucleo portante di quell'immane trivializzazione del senso comune che si celebra sotto i nostri sguardi attoniti: quasi a voler ratificare ed estremizzare il dispregio positivista e tecno-specialistico del senso comune. Ma tale trivializzazione è, piuttosto, uno sradicamento di senso: strappare donne, uomini e cose alle loro origini e ai loro percorsi di verità e libertà. Il senso comune, come sappiamo da articolati e non convergenti filoni di pensiero che vanno da Vico a Wittgenstein, è ricordo, memoria e immagine di tali percorsi, per quanto in forme spesso confuse e decodificabili con fatica. Dei contenuti di verità il senso comune conserva una traccia e, in vista della loro ricerca, ci offre delle tracce. Come il mito, il senso comune è narrazione che ci riconduce ai luoghi pulsanti dell'esistenza; alle zone palpitanti dell'interiorità e delI'etica, dell' immaginazione e dell'espressione. Trivializzarlo è, perciò, il modo più acuminato e tirannico per interdire all'umanità questo ritorno-pas-saggio verso i piani superiori della vita; cioè: verso i territori e dilemmi veri della vita (Wittgenstein). È, questo, un transito specificamente filosofico49.

4.

Critica della complessità: per un’identità innocente e responsabile

Il potere di prosciugamento degli ambiti vitali viene da lontano; lontano deve, dunque, dilatarsi lo sguardo dell'analisi. Tutto nasce intorno alla doppia natura dell'etica della scienza. Ci ricorda Emanuele Severino che la scienza è: (i) razionalità teorica; (ii) trasformazione del mondo, techne50. In questa sua duplice veste, cerca di sottrarsi al vincolo etico che le viene imposto dall'esterno. Derogare dal vincolo è, per essa, questione di vita o di morte: ne va della crescita infinita, senza ostacoli, del proprio potere. Da qui quella tendenza, alimentata dalla scienza medesima, di rafforzare il monopolio di quello che Severino definisce "Apparato tecnologico-scientifico"51. Sicché, conclude Severino, si dispiega non un vincolo esterno alla scienza, bensì l'etica intrinseca della scienza: "I'etica cioè che non è né la semplice fedeltà della scienza al proprio tipo di razionalità, né la subordinazione della scienza agli scopi che le vengono assegnati dall'esterno. L'etica intrinseca della scienza è appunto la volontà della scienza di realizzare lo scopo supremo che essa possiede di per se stessa: I'incremento infinito della propria potenza, la capacità di realizzare insiemi sempre più ampi e differenziati di scopi ... L'etica intrinseca della scienza — la volontà di potere sempre più — sta imponendosi su ogni altra forza etica (cristianesimo, democrazia, capitalismo, comunismo, ecc.) che ha considerato l'Apparato come mezzo per la realizzazione dei propri scopi; mirando a impadronirsi di esso e a renderlo sempre più potente per usarlo nel conflitto con le forze antagoniste; è inevitabile che le stesse etiche non scientifiche finiscano col subordinare i loro scopi peculiari allo scopo intrinseco dell'Apparato, ossia alla realizzazione dell'infinito incremento della potenza. Inevitabile che l'Apparato divenga, da mezzo, scopo supremo di quelle stesse forze che vorrebbero servirsene come mezzo ..."52. È il dominio dell'etica della scienza, pertanto, la tendenza di fondo, il futuribile reale già realisticamente all'opera. Ancora Severino: "Si tratta del futuro dove l'etica della scienza domina incontrastata il pianeta. Proprio perché è l'etica della creatività assoluta, essa è insieme l'etica dell'assoluta distruttività: essa distrugge ogni stato del mondo che impedisce l'indefinito espandersi della potenza"53.

Si tratta di osservazioni illuminanti e il quadro che rappresentano è difficilmente contestabile. Ma proprio qui si dischiude un orizzonte nuovo che riprecisa come non mai lo statuto dell'etica: il contrasto della volontà di potenza dall'interno della volontà di potenza. Qui un gioco etico nuovo: se si vuole, un gioco bellicoso. Scopo dell'etica è ora questo gioco. Nessun Apparato da dominare rientra nei suoi fini ultimi o immediati: né un Apparato tecnologico-scientifico, né un Apparato di architetture interiori asservite e comandate. Volontà di potenza, in adesione al nucleo del discorso di Nietzsche, non è soltanto delirio di onnipotenza; ma anche volontà (della potenza) della resistenza al dominio; volontà (della potenza) della creazione e della liberazione, al di là della sindrome tirannica che deturpa le forme del potere. Un'insopprimibile dialettica esistenziale e destinale mantiene costantemente in bilico il discorso di Nietzsche sul limite, su quell'orizzonte di frontiera in cui pace e guerra, amore ed esistenza sono indissociabilmente tesi e avvinti. L'etica è un sostegno alla virtualità creativa e liberante delle forze dell'interiorità, il vincolo interno dell'agire pubblico: è sostegno interno e dialogica esterna; misura del limite della potenza e suo vettore liberante. Qui la lezione dei classici antichi e moderni non solo può essere radicalmente accettata, ma va anche radicalmente ripensata.

Proviamo a riferirci a un fondale di profondità ancora più vertiginoso, in cui la volontà di potenza, nel suo risvolto terribile, compare come presenza della morte e come lotta contro la morte. A un singolare e denso incrocio tra antropologia, filosofia, psicologia e poesia, Elias Canetti è tra coloro che più hanno ispezionato questo fondo del profondo: "Perché ti ribelli che la morte sia già nei vivi? Non è forse in te? La morte è in me perché devo attaccarla. Questo e nessun altro è lo scopo per cui ne ho bisogno, per cui sono andato a cercarmela"54. È una lotta contro la corruzione e la corruzione per eccellenza: " ... Ia corruzione assolutamente irrimediabile è quella operata dalla morte"55. Di nuovo, innocenza e responsabilità si coniugano al massimo di tensione relativa. E che cosa è l'etica come sostegno interno e dialogica esterna, contrasto della volontà di potenza dal di dentro della volontà di potenza, se non misura svelata, equilibrio creativo di innocenza e responsabilità? La sindrome di potenza spinta all'eccesso si rovescia nel suo contrario: diventa morte, catastrofe, rovina. La sua sete di infinita crescita, all'apogeo, incarna una rappresentazione sublime della morte: niente di ciò che esiste, preesiste ed esisterà sfugge ai suoi tentacoli e tutto finisce col somigliarle e subordinarsi. Se questa rappresentazione e incarnazione della morte non può essere accettata, pena la perdita del Sé e di tutto, è la paura della morte, invece, che va accettata, per non essere dominati e ossessionati da essa. L'accettazione della morte è perdita dell'onore: "Così tu contrapponi la morte a te stesso, come se essa fosse il senso, la magnificenza, I'onore. Ma essa lo è soltanto perché non deve essere. Lo è perché io innalzo il morto contro di lei. La morte accettata non ha alcun onore"56. Ma accettare la paura della morte significa ritrovare e conservare l'onore: innalzare non solo il morto contro la morte; ma anche e soprattutto il vivo e ciò che resta da vivere. Accettare la paura della morte vuole dire percorrere la distanza polare che perfino in un attimo vertiginoso distingue e separa vita e morte, ritrovando la paura e la voglia di vivere. Dalla paura della morte alla paura della vita, dal desiderio di morte alla voglia di vivere: accettare la paura e la voglia di vivere è, forse, ancora più arduo che accettare la paura della morte. Forme della vita e della morte e desiderio di vita inquietano l'esistenza e il suo destino. Se sono condannati all'oblio, demoliscono l'esistenza; se sono risollevati dall'oblio, sono occasione di vita e di rinascita nella vita e nella morte. Non si tratta di essere soltanto nemico mortale della morte; e della propria, in particolare; ma di averne anche rispetto e cura, senza per questo esserne gli esecutori testamentari. Ognuno può e deve rivendicare in proprio il proprio diritto alla morte57; ma non meramente come fatto biologico. Ma più densamente: per sottrarre la morte stessa — e non solo la vita — alla volontà tirannicamente demiurgica che l'impregna. Ecco il lato del problema che sfugge alla, pur profonda, riflessione di Canetti; ma non a quella di Maurice Blanchot. Quale azione di contrasto significativo ed efficace dell'etica dell'infinita e ripiegata volontà di potenza, per opera di un'etica dell'innocenza e della responsabilità, può essere, mai, intenzionata, se innocenza, responsabilità ed etica non si posizionano a partire dalle questioni cruciali della vita e della morte? Solo da questa posizionalità l'etica dell'innocenza e della libertà si situa al di là del bene e del male; vale a dire: al di là della vita e della morte.

Aver recato in sé tracce di questa posizionalità e non averlo mai nemmeno sospettato: ecco quale è stato il dramma dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Ora sono proprio questi i temi che si adunano in maniera terribile, sfrondati dall'inessenziale e dal vacuo. Questo immane condensato tematico non è pensabile, rappresentabile e organizzabile dalla politica: politicamente, anzi, è mistificabile e aggiogabile. Fare spazio a un'etica dell'innocenza e della responsabilità è, però, anche dire di una ricostruita intersezione tra le dislocazioni etiche e quelle politiche. Se innocenza e responsabilità veicolano una critica serrata e insopprimibile delle sindromi dispoticamente demiurgiche, non può, certo essere l'etica — qualunque siano le sue sembianze e movenze — il nuovo demiurgo. Nella critica alle forme del dominio politico e del governo dell'anima etica e politica ridisegnano il loro rapporto e ricostruiscono un posto per l'istituzione quale pilone di sostegno della "felicità pubblica" e dell'interiorità. A fronte del possibile e necessario di questa complessa riscrittura, torna utile richiamarsi al linguaggio dello scrittore così come configurato da Blanchot: "ll linguaggio dello scrittore, anche rivoluzionario, non è linguaggio del comando. Non ordina, presenta e non presenta rendendo presente ciò che mostra, ma mostrandolo dietro tutte le cose, come il senso e l'assenza di tutto"58. Occorre ricercare e inverare i linguaggi etici e i linguaggi politici dell'umiltà creativa, del senso dell'osservazione, entro i quali la presenza non si capovolge mai in comando e l'assenza mai diviene cristallizzazione imperiale. Ciò significa che il "tutto è possibile" non è mai realizzazione euforica dell'attimo, bensì cammino: sia nelle cavità dell'interiorità che nelle sfere delle produzioni e rappresentazioni pubbliche. La rivoluzione stessa non è quell’euforia istantanea, ma questo cammino. Solo così si può sfuggire all'estasi favolistica e catartica dell'azione quale assoluto, evento finalistico e salvifico. Puntuale Blanchot: "Quest'ultimo atto è la libertà e la scelta è soltanto tra libertà e il nulla. Perciò l'unica parola d'ordine sopportabile è: libertà o morte. Così fece la sua apparizione il Terrore"59. E che cosa è il Terrore, se non presenza che si rovescia in comando; se non linguaggio del presente che signoreggia il presente, riducendolo a un suo testo lineare e incrementale? Qui la realtà vaporizzata del linguaggio, ridotto ad artefatto simulatorio, ripudia e scaccia la realtà viva, spossessandola e deprivandola dei suoi linguaggi. Questa la cuspide della parabola del Terrore e il rovesciarsi dell'atto rivoluzionario in Terrore.

Afferma genialmente e dolorosamente Hegel: "Il pensiero è divenuto violenza là dove esso aveva di fronte il positivo come violenza" (Lezioni sulla filosofia della storia). E con ciò si positivizza esso medesimo, positivizzando l'atto. Il Terrore, dice Hegel, è "negatività": doloroso e ossessivo dominio della negatività estrema (Fenomeno-logia dello spirito). Ma qui il dramma vero non è solo nell'evidenza, colta da Hegel, che questa carica e questa mole di "negativo" sono incapaci di ricostruire un "positivo"; ma, più ancora, nella circostanza evidente che è la negatività che si positivizza e afferma come "posi-tivo". Qui, per rimanere nelI'universo concettuale e lessicale hegeliano, la negatività non riesce ad affermarsi come "negazione del negativo": non riesce, in breve, a operare come "negazione della nega-zione". Ciò non elimina la base storica e la cifra di giustizia su cui germina, per Hegel stesso, la Rivoluzione francese: ormai, le antiche istituzioni "non corrispondevano più allo spirito che le aveva fatte sorgere" (Lezioni sulla storia della filosofia). Scardinare il positivo come violenza, dunque, richiede al pensiero di non tramutarsi mai in violenza. Da questa trasmutazione prende corpo il depravarsi dell'atto puro in violenza pura: un puro e semplice "positivo" in contrasto col dispotismo del "positivo" dominante. Azione violenta e pensiero violento ripiegano, così, in se stessi: impazziscono e, per credersi sani e salvifici, tentano di condurre storia e mondo sul baratro di una permanente follia. Qui la rivoluzione, più che essere tradita, viene secolarizzata, positivizzata. La lotta armata, nel corso degli anni Settanta, si insedia su questo rovesciamento della rivoluzione, senza minimamente avvedersene. In forza di questo stravolgimento tra realtà e linguaggi reali, essa non è più né Terrore né Rivoluzione. È orfana tanto di Robespierre e Sant-Just quanto di Marx e Lenin. Essa non si pone il problema della "catastrofe" della Rivoluzione che trascorre in Terrore: non tenta di chiarirsela e di venirne a capo, differentemente da quanto fatto da Marx e Lenin. Si rattrappisce, di conseguenza, nella strettoia: o comunismo o morte! Quando l'esistenza politica e i sistemi relazionali si comprimono e si labilizzano fino a tal punto, è segno che, ormai, del comunismo e della libertà si finisce con l'avere un'idea mortuaria. Significa che non si hanno più occhi per vedere e sensi per sentire ciò che di morto e ciò che di vivo c'è nelle cose morte e nelle cose vive. Ognuno ha diritto alla propria morte. Ma una cosa è morire, per accedere a una mutazione di senso nel segno della libertà; un'altra, finendo annichiliti in un ossario senza lacrime. Dice Blanchot: "Ogni cittadino ha, per così dire, diritto alla morte: la morte non è la sua condanna, è l'essenza del suo diritto; non è soppresso perché colpevole, ma ha bisogno della morte per affermarsi come cittadino ed è nella scomparsa della morte che la libertà lo fa nascere"60. La libertà come non può negare la vita, così non può negare la morte: essa non può mai giocare l'una contro l'altra. Quando lo fa, mette in scena tragedie collettive e drammi individuali, entro cui la morte e la vita perdono di rilevanza, smarriscono il loro senso e il loro valore. L'iper-realtà della vita e della morte sostituisce la realtà della vita e della morte. Esistenza e tempo si stralunano: come la luna, tentano di mostrarsi in eterno sempre con la stessa faccia. Questo fitto gioco di apparenze salta, laddove ci si mette in cammino verso "I'altra faccia della luna", verso il volto nascosto dell'aggregazione vita/morte. Allora, non è più questione di libertà o morte; bensì di: libertà che vive-e-muore. La libertà non è mai completamente morta; non è mai del tutto viva. È sempre in cammino, come un testo mai concluso e un insieme linguistico che non ha mai parole ultime. È una tela spesso sfatta e traforata brutalmente; ma sempre il suo filo è riafferrabile e sbrogliabile nella matassa in cui vita e morte coesistono, collidono e colloquiano. Ogni ostacolo è non soltanto pericolo, minaccia; ma pure chance. Così è per la morte: pericolo estremo e minaccia suprema; così è per la vita: dono supremo e occasione suprema. Ma il gioco bellicoso tra vita e morte ha anche esiti rovesciati: la vita compare come minaccia e la morte come chance. La vita quale chance infinita è anche pericolo infinito; la morte come minaccia letale è anche chance vitale. Nel cerchio di fuoco ed essenziale dell'esistenza e del tempo vita e morte si rigenerano a vicenda e mutano vorticosamente di posizione. Fino al punto limite del rovesciamento integrale dei ruoli, in un ben architettato gioco delle parti: la vita nullifica e la morte conduce all'esistenza, acconsentendo a una rinascita. Presa così come brutalmente è, la vita è: impossibilità di vivere. Analogamente la morte, nel suo risvolto immediato, è impossibilità di morire61. La prima è scacco del vivente; la seconda è scacco del morente. Chi vuole vivere e solo vivere, si condanna al naufragio; così come chi vuole morire e solo morire. Non c'è conservazione e creazione o soltanto nella vita o soltanto nella morte. Nella presenza più forte e vitale rimane pur sempre (presente) uno scarto, un'assenza; nell'assenza più intensa è, in ogni caso, avvertibile la presenza, la traccia del tutto e dell'Altro. Qui codice binario e riflessione introspettiva saltano per aria, disvelabili in tutta la loro tremenda e mutilante unilateralità. Qui una dialogica etica e un'etica della comunicazione mostrano la loro significanza e il loro senso, a mò di chiavi che aprono le porte più segrete dell'essere, del vivere e del morire. E qui le porte aperte non possono mai essere chiuse alle spalle; costituiscono la filigrana di un camminamento non lineare che come ritorna spesso sui suoi passi, così spinge in avanti, verso il valicamento dei confini esperiti, percepiti e immaginati. Qui il passo della dialogica e dell'etica, dell'innocenza e della responsabilità non confina e non esilia in isole di vacuo appagamento, oppure in frontiere di irrisolvibile sofferenza. Nuovamente Blanchot: "Per parlare dobbiamo vedere la morte, vederla dietro di noi"62.I linguaggi dell'etica vengono partoriti in questo fiotto di sangue caldo, in cui vita e morte fluiscono all'unisono in un gioco bellicoso e in una collisione giocosa. In questa regione sorgiva niente è pietrificabile e tutto è fluido. Siamo vivi — veramente vivi — solo se vediamo la morte dietro di noi, dopo averla avuta dentro e di fronte. Solo allora possiamo parlare, comunicare e dire parole vere, come disperatamente e giocosamente voleva la grande Ingeborg Bachmann. Così pensando, immaginando e creando mondi nuovi, facendo di essi ambienti per le donne e gli uomini, degni della loro dignità e del loro onore. È la vita che si comprime, assieme alla morte, nel destino delle donne e degli uomini; è essa che assieme alla morte li accerchia dall'esterno63. Traversare il bene e il male che li costringe e li assedia è un transito ineludibile. È l'esordio di un ricominciamento che ritorna all'inizio, ma che non ne ripete la parabola, definitivamente fuori da quel punto limite a cui quell'inizio era approdato e dove, esausto, si era sfiancato e smunto. Questo vuole dire Canetti, quando afferma: "Ognuno deve ricominciare da capo a fare i conti con la morte. Qui non ci sono regole tramandate che si possono riprendere"64. Ognuno deve ricominciare da capo: perciò, vive, sopravvive e si mantiene in vita. Nel conservarsi in vita, comincia dalla morte: con lei fa i conti. Ci si mantiene in vita e si ricomincia a fare i conti con la morte fuori dal tramandato. In tal modo, si tramanda e si può tramandare se stessi, la propria vita e la propria morte. Cioè: si fa proprio e si riscrive il testo della propria biografia e la relazione tra esistenza e tempo. Il testo di questa appropriazione e l'approssimazione di questo testo ognuno deve donare a se stesso e all'Altro, nel suo donarsi al tempo e nel suo resistergli. Vivere e morire nell'in-nocenza e nella responsabilità: il resto è silenzio, direbbe Bataille. Il resto è fotocopia edulcorata e immaginifica della vita e della morte. È il colare a picco della dialogica e dell'etica: "La morale è angusta quando ci si va a sbattere. La vera morale è diventata ossatura di una persona"65. Tale ossatura non concerne limitativamente la persona e le relazioni interpersonali.

5.

Una filosofia pubblica per la complessità

L'approccio antropologico non è antropocentrismo. Anzi: portato ineliminabile dell'antropologia è l'apertura al mondo; il distanziamento differenziatore rispetto all'ambiente; il riconoscimento della costitutiva debolezza dell'esistenza. Esplorando l'innervazione tra persona e ambiente e tra sistema e ambiente, può essere letto con luce nuova il rapporto tra etica e politica. Un tentativo di tal fatta è stato compiuto dal pensiero pacifista contemporaneo più avveduto66. A questo snodo, diviene possibile parlare tanto di un'etica della persona quanto di un'etica ecologica67. Nel quadro di questa sinergia etica possibile e necessaria vanno inseriti anche i "diritti degli animali"68. È proprio il carattere innovativo delle sinergie in campo che richiede la definizione rigorosa dell'area assiale dei problemi. Da ciò la necessità di definire, in linea preliminare, quale sia il campo della filosofia pubblica in relazione all'ambiente: "quale filosofia per quale ambiente", insomma. Ci avvaliamo, a tal fine, dell'esplorazione condotta da Sebastiano Maffettone69.

La prospettiva ecologista è, per definizione, la confutazione di quella antropocentrica; ma lo erano già — come si è tentato di lumeggiare — quella antropologica e quella etica. È chiaro che l'approccio antropocentrico ha e conserva un significato di valore "as-soluto", per quanto fatto vivere in maniera unilaterale, ponendosi il problema specifico della vita dell'uomo. Nella necessaria e doverosa critica all'antropocentrismo non è questo significato di valore che può essere sospeso; piuttosto, va caducata la sua unilateralità. Ed è qui che la "rivoluzione metafisica" sostenuta da J. Passmore, postulante il primato ontologico-strategico di quella che viene denominata "co-munità biotica", appare sprovvista di una rigorosa base fondazionale; non diverso è il ragionamento articolabile nei confronti del naturalismo della "comunità biotica" teorizzato da A. Leopold70. La rimessa in questione, più esattamente, pertiene alla prospettiva assolutistica dell'antropocentrismo: il suo coniugare, vita, natura, ambiente, tempo e cosmo solo ed esclusivamente in funzione dell'uomo e dei suoi interessi vitali utili. Se questo è vero — ed è vero —, ne viene che parimenti illegittima appare quella prospettiva naturalistico-comunitaria che si relaziona al vivente umano e non umano in termini universalistici e metafisici. A niente vale — sia sul piano metateorico che su quello metaetico — delimitare un referente il più vasto e onnicomprensivo possibile e perciò stesso includente tutti i soggetti viventi71. Questo modo di dire etica e natura fa ammutolire il dire specifico di etica e natura. Da qui quello strano paradosso che sarebbe proprio il "non dire" il più profondo "dire" dell'etica e della natura. Questo esi-to ha un effetto pernicioso, soprattutto nel suo relazionarsi inevitabile, diretto o indiretto, alla politica: o si finisce aggiogati al dire della politica; oppure si avanza la richiesta assolutistica che sia il non dire di etica e natura a dover sostituire il dire politico. Nel primo caso, la situazione teorico-pratica è tipica della modernità: la dissociazione tra etica e politica, con contestuale primato della politica; nel secondo, la riassociazione di etica e politica trascorre nella supremazia dell'etica72. Il rischio, come avverte Maffettone (discutendo il modello etico-fenomenologico proposto da Marietta), è qui quello di incorrere nel soggettivismo etico, visto che le questioni etiche non sarebbero posizionabili e argomentabili in ambiti cognitivo-relazionali precipui e razionalmente fondati73. Nella consapevolezza dell'insieme di questi li-miti, Maffettone propone una prospettiva intermedia: "La nostra proposta di realizzare in pieno l'etica tradizionale, piuttosto che rivoluzionarla, potrebbe partire applicando princípi, umanisti e antropocentrici, al problema delle generazioni future"74. Ne discende il seguente corollario: " ... Per inverarsi gli standard qualitativi proposti dai filosofi dell'ambiente debbono in qualche modo collegarsi agli interessi reali di un mondo come quello in cui viviamo"75. Per contro, gli interessi reali del mondo che abitiamo non possono ridurre il "bene" ambiente e i valori ambientali alla logica del mercato, trattandosi di beni e valori indisponibili, infungibili e insostituibili76. Qui l'istanza ecologico- ambientalista solleva un interrogativo radicale che va preso sul serio, al livello di rilevanza che gli compete. Osserva Maffettone: "L'insosti-tuibilità della natura, della comunità biotica nel senso di Leopold, ci obbliga a prendere sul serio un argomento basato su diritti e non su scopi, sui princípi e non sul mercato. Questi diritti, che incorporano princípi, servono a tutelare valori collettivi, oggettivi nel significato che chiariamo qui di seguito"77. Dunque: "... il problema fondamentale dell’applicazione di strumenti economici a questioni ambientali non è equità distributiva. Non consiste, cioè, nel discutere se il mercato sia in grado di ripartire le risorse ambientali con equità, e cioè di trattare con equità e giustizia le persone e le loro pretese"78. Nello sviluppo della sua argomentazione, basandosi sulle tesi di Scanlon relative sulla differenza tra il "modo soggettivo" e il "modo oggettivo" di prendere in considerazione le "preferenze individuali" su questioni attinenti al "benessere sociale", Maffettone perviene a una stringente contestualizzazione definitoria. È chiaro che in materia di questioni richiamanti il "benessere sociale" ciò che va dispiegandosi è una classica discussione pubblica. Ora, quello che nella discussione pubblica ci interessa: "è un risultato particolare, legato in qualche modo a valori condivisi dalla comunità in cui viviamo. Questo è il modo oggettivo. ll modo soggettivo, invece, è indifferente al risultato in quanto tale, e bada esclusivamente alla procedura aggregativa con cui a esso si perviene"79. Il modo oggettivo rimanda a valori e princípi intrinseci; quello soggettivo, a valori e princípi estrinseci imperniati sull'efficacia dei risultati e delle aggregazioni procedurali per il tramite delle quali sono conseguiti. ll fatto è che, precisa Maffettone: "Nella comunità biotica, anche se non vogliamo riconoscervi autonomia etica, non riconosciamo, infatti, valori intrinseci"; ne consegue che: "la cura dei valori intrinseci pare meglio affidata al modo oggettivo con la sua insistenza su un'etica di princípi che riflettono i valori, i gusti e le tradizioni di una comunità data"80. Così posto il problema, diventa chiaro che il nocciolo e la base portante di una filosofia (pub-blica) per l'ambiente stanno nella postazione di un'etica pubblica che di questi valori intrinseci diventi sostrato oggettivo e referente prospettico81. Si inserisce a questo tornante l'interessante tentativo di Maffettone di coniugare una "teoria del valore" in campo filosofico-etico, sottratta alla griglia economicista82; e, per questo, disvelante l'infondatezza del pregiudizio epistemologico schmittiano, secondo cui ogni "teoria del valore" è asservita alla tirannia del mercato e, dunque, assoggetta alla neutralizzazione e alla spoliticizzazione83. Si tratta di stornare la "teoria del valore", in campo etico, tanto dalI'assiologia kantiana che dalla ventosa libero-scambista del mercato, entro cui rimangono impigliati sia il marxismo che il liberalismo. Rileva considerare il punto di avvio individuato da Maffettone: "Nella mia versione di etica pubblica interessa prioritariamente collegare le virtù del singoli al contesto sociale"; dunque, una concezione del valore antisoggettivistica e antiscambista deve incardinarsi su ideali portanti intrinseci, assolutamente infungibili e insostituibili, i quali sono "ideali di autonomia e integrità della persona"84. Si è, così, in grado di definire lo scopo di un'etica pubblica fondata su una teoria del valore: "Lo scopo ultimo di questa, come di ogni altra, teoria del valore è quello di costruire un argomento a difesa di ciò che in ultima analisi vale ed è valutabile più di ogni altro. Per noi, questa decisione capace di mettere in second'ordine altri motivi e ragioni dipende dalla corrispondenza con gli ideali di autonomia e integrità. La scelta ottima e raccomandabile è quella capace di realizzare in massimo grado gli ideali di integrità e autonomia della persona"85. Ricordiamo che, per Maffettone: "Per me, I'integrità è essenzialmente una virtù pubblica. Si tratta di quegli aspetti ultimi che rendono veramente tale una comunità"; ne discende che: "La teoria dell'integrità assume un legame forte e necessario tra concezione dell'io e processi collettivi. La persona è quello che è in quanto partecipa a forme di vita comuni con altri. Non esistono persone senza interazione"86. Una teoria del valore in campo etico, fondata sugli ideali di autonomia e integrità della persona, consente di approcciarsi fruttuosamente proprio al nesso tra concezione dell'lo e processi collettivi. Se la categoria integrità è qui richiamo ineliminabile alla categoria relazione, l'autonomia richiama indissolubilmente la razionalità; e la razionalità tutta affatto particolare dei valori etici. La trama assai fitta di queste interrelazioni, a sua volta, permette di connettere fattivamente la concezione dell'Io, processi collettivi, interazione sociale e dialogica etica al problema fondamentale costituito dall'ambiente. Qualunque approccio al problema ambiente che non abbia alle spalle questa intricata e insostituibile trama si condanna all'insuccesso: o al soggettivismo etico, oppure alla trasvalutazione economicista dell'etica; o alla metafisica etica, oppure alla razionalizzazione politica dei valori etici. Il richiamo necessario alla razionalità è qui decisivo per la gerarchia formale del rapporto teoria/prassi, conoscenza/azione. Si ingenera, su questi pre-supposti epistemologici e analitici, una vera e propria problematica etica realistica, la quale si riferisce densamente al valore, non omettendo di rinviare alla realtà. Maffettone concettualizza assai precisamente questo passaggio delicato: "Lo scopo generale di una teoria razionalistica dell'etica è costituito della costruzione di un rapporto tra formazione riflessiva della volontà e decisione ultima o risolutiva. In questo senso, si può dire che un teoria etica razionalista è una teoria delle ragioni per agire. Questa affermazione, presa da sola, non può che suonare terribilmente vaga. Occorre, perciò, ricorrere ad una ricostruzione analitica del percorso seguendo il quale vi perveniamo. I problemi etici, di cui ci occupiamo non nascono dai libri di filosofia, ma nella prassi"87. Come sua precondizione, un'etica razionalista deve, pertanto, distinguere e separare razionalità e moralità.

Questa distinzione basale consente di concentrarci nella identificazione e discussione della "moralità e dei suoi problemi"88. Attraverso tutte queste progressioni selettive giungiamo, con Maffettone, ad approssimare e individuare il campo della decisione etica 89. Inevitabilmente, la decisione etica rimanda alla norma che eticamente ci vincola e obbliga: per quanto le nostre decisioni etiche possano oscil-lare, ed effettivamente oscillano, assumiamo sempre un sostrato normativo–vincolante come ambito referenziale e motivazionale. Ogni nostra decisione etica è accettazione di una norma e confutazione di quella ad essa antitetica: validando se stessa, falsifica la sua antitesi. Però, la fenomenologia della decisione etica è anche riflessiva; vale a dire: si mette in questione. Ne viene che, falsificando se stessa, valida la sua alternativa. Verificazione e confutazione si spostano da una proposizione etica all'altra, ridefinendo costantemente i corrispettivi enunciati linguistici. Osserva Maffettone: "Ma perché dovremmo accettare alcune norme come valide, o anche soltanto interessanti? La risposta a questa domanda presuppone una teoria, o anche soltanto un'idea, di valore. Noi ci sentiamo obbligati a rispettare alcune norme, a cominciare da quelle fondamentali, perché esse sono basate su princípi. I princípi che costituiscono la teoria del valore ci consentono di distinguere le azioni o gli oggetti in buoni e cattivi, perseguibili o non"90. Ecco che, quindi, il campo teorico-epistemo-logico si duplica: "L'etica razionalista si può così considerare divisa in due grandi aree, una teoria dell'obbligo che presuppone un'analisi delle norme, e una teoria del valore che presuppone un'analisi dei princípi"91. Questo il modello astratto. Nella realtà, tuttavia, I'isomorfismo decisionale non è possibile, poiché non si dà mai una simmetria precisa tra l'area delle norme e degli obblighi opzionati e la sua alternativa refutata: il meccanismo attivato dalla decisione etica non è una selezione binaria del tipo Sì/No. Opportunamente Maffettone: "Le situazioni decisionali non sono tra loro isomorfe, né lo sono gli agenti reali. Per questo, spesso, per decidere al meglio è opportuno un processo di interpretazione della situazione iniziale, e qualcosa del genere e così importante nella scelta finale da non potere essere trascurato92. Più chiaramente ancora: "Il semplice rinvio della decisione a norme vincolanti, e da queste, in caso di esigenze giustificative o critiche, a valori è semplicistico se confrontato con la complessità delle situazioni reali"93.

Si può, a questo punto, estrapolare un preludio da una conclusione stringente: "Si tratta di una difficoltà per così dire strutturale. Se, come pare ovvio, non esistono valori assoluti, e se non si può fare a meno di un'idea di valore in una teoria razionalista, come abbiamo finora argomentato, allora si dovranno ricavare questi valori da un' interazione storica. La complessità delle situazioni decisionali non è che un modo, e forse il più chiaro, in cui percepiamo questo fatto"94. Ecco il punto: I'interazione storica ci mette sempre di fronte a casi non rientranti nella normativa teorica e nei princípi (di valore) che la sorreggono. Sicché dobbiamo metterci alla ricerca storica di nuovi valori e nuovi princípi che puntellino la decisione: "noi non troviamo valori come oggetti già presenti. Piuttosto li costruiamo, li formiamo nel momento stesso in cui vi ricorriamo. Lo sforzo stesso dell'interpretazione ci guida alla costruzione dei valori in una circolarità che può ben essere virtuosa"95. Arrivati a questo terminale, risaliamo a un nesso epistemologico: quello esistente tra l'insieme verità/pensiero e l'insieme valore/azione (morale). A ciò ci conduce Maffettone: "In qualche modo, il valore e per l'azione morale ciò che la verità è per il pensiero teorico. Ora — dopo Kant, Wittgenstein e Quine — nessuno dovrebbe sorprendersi che ogni verità è una verità di struttura. Analogamente, noi cerchiamo la struttura entro cui possiamo cogliere la presenza di valori convinti che la forma di questa struttura ci dia elementi per la comprensione del contenuto stesso del valore"96. A questo stadio, tutto è dato e predisposto per enucleare la conclusione: "... non si dà, e anzi non può darsi, completa teoria del valore, perché si tratta di un compito infinito. Può darsi, però, un'indicazione sistematica sulle esigenze, le possibilità e i limiti di tale teoria"97. Quale implicanza ha tale conclusione con lo sforzo di mettere in categoria l'integrità?, visto che Maffettone ritiene che l'integrità sia da concepirsi come base e fondamento del valore98. L'implicazione è immediata e di rilievo: "Se anche il valore, come abbiamo sostenuto, non è una posizione ma una costruzione da interpretare, allora anche l'integrità va interpretata più che misurata"99. Quello che, però, si può posizionare, giunti a queste conclusioni, è il correlato tra autonomia e integrità: "La qualità sostanziale dell'integrità è costituita dal suo essere la congiunzione massimale tra un principio di autonomia e rispetto della persona da un lato, e da un principio di giustizia sociale dall'altro. In questo senso, l'integrità si qualifica come grado del valore in un contesto interattivo, in cui si confrontano io e società"100. Se da qui riverberiamo l'analisi sul nesso di identità/differenza e quello di essere/uomo, in cui l'identità e il posizionarsi della differenza e la differenza discopre il differente in se stessa, non ci possono stupire le assonanze tra il discorso, sul punto, argomentato da Maffettone e quello che abbiamo tentato di enucleare nelle pagine precedenti. Più trasparentemente ancora si appalesa la convergenza in questa citazione di Maffettone: "Il divenire dell'io nel tempo, i suoi tipici processi di accettazione, autoconoscenza, presumono la capacità che rende l'io capace di raggiungere i più alti livelli di valore, nell'esperienza estetica non meno che in quella etica. Da questo punto di vista, autonomia e pluralismo rendono più ricco il menù di partenza da cui dipende l'integrazione finale. E l'interazione con gli altri rende operante al massimo livello questa capacità di crescere in sé in rapporto agli altri nel dominio del valore. Questa struttura va ancora interpretata alla luce dei casi concreti, e solo questo lavoro ermeneutico ci dice in ultima analisi cosa sia l'integrità. Possiamo solo dire che da un estremo c'è il solipsismo, inteso come mancanza di considerazione per gli altri, ed all'altro il totalitarismo inteso come prevalenza assoluta dell'interesse pubblico sui diritti della persona. Solipsismo e totalitarismo sono così i gradi minimali dell'integrità, che è invece massimale quando le pretese della persona e della comunità siano pienamente perseguite"101. La trama degli incroci può essere più sodamente ripercorsa, ove si ponga mente alla sostantivizzazione dell'analisi di Maffettone, laddove egli concettualizza le proprietà dell'integrità: nell'ordine, continuità, coerenza, significato sociale, interdipendenza e partecipazione comunitaria102. Col che viene alluso un altro e decisivo parallelismo: quello tra enunciati linguistici e proposizioni etiche. In ambedue i casi, fondante è il legame di struttura tra testo e interpretazione, con l'ermeneutica a far da medium tra l'autotrasformazione della realtà e dei valori, da un lato, i significati sociali della stabiliz-zazione antropologico-simbolica, dall'altro103. Ma tutto ciò non è oggetto specifico della riflessione proposta da queste pagine. Ci basta qui riferirci a una considerazione finale, di tipo habermasiano, avanzata da Maffettone: "Una teoria dell'integrità è soprattutto una che basa le modalità deontologiche (le norme) su modalità assiologiche (i valori). Questi valori sono al fondo valori di identità personale e rispetto di sé attraverso le culture e le epoche. Ed è forse quest'ultima la proprietà più tipica dell'integrità, una proprietà morale comunicativa"104. Anche qui trova supporto la postazione di quell'etica della comunicazione e di quella dialogica della libertà che ci siamo sforzati di schizzare nella nostra discussione. In base al quale schizzo è emersa la legittimità (e la necessità) del conflitto di valori nel campo della problematica della decisione etica. Nella stessa ricerca "post- empirista" di Maffettone viene alla luce questo insieme di necessità inderogabili. Giova, sotto quest'ultimo riguardo, ricordare che per Maffettone la catena teorico-normativa della sovrapposizione del consenso (overlapping consensus), nelle posizioni ultime affermate da Rawls, ha il torto di non prevedere, accanto all'"area comune di consenso", il ruolo decisivo giocato dalle "priorità tra valori pubblici alternativi e conflittuali"105.

6.

Il risvolto oscuro dell’identità: il primato dell’uomo sull’ambiente e sul vivente

Spostandoci, ora, su un versante più classicamente filosofico-eti-co, corre obbligo ribadire che l'identificazione della precisa distinzione tra uomo e animale e uomo e ambiente non è equipollente a una teorizzazione della superiorità dell'uomo sull'animale e dell'uomo sull' ambiente. Maria Isnardi Parente, in un suggestivo e assai bel testo (significativamente dedicato alla memoria di Mario Untersteiner), risale alle radici greche di una filosofia non antropocentrica, partendo dalla polemica del cristiano Origene contro il pagano Celso. Per parte sua, J. Nida-Rumelin, rinviando a una vastissima bibliografia (in gran parte di matrice anglosassone), ha buon gioco nel ripercorrere gli elementi strutturali di un'etica non antropocentrica. Anzi, ritransitando per il "il discorso antropologico" (a cui è dedicato il prossimo capitolo), I'uomo è morfogeneticamente e biologicamente inferiore agli animali e all'ambiente. Ed è già la scuola cinica, cui si richiama espressamente Celso, ad affermare la superiorità naturale degli animali e della natura sugli uomini. Significativamente, la Isnardi Parente: "Perché dire che l'uomo è superiore per natura agli altri animali? Essi (e qui Celso riprendeva argomenti di lontana origine cinica) hanno una superiorità naturale su di noi, che dobbiamo procacciarci il cibo con la fatica e con l'ingegno, mentre all'animale, àlogon, "non ragionevole", esso si offre spontaneo: se noi, per dar la caccia agli animali, abbiamo bisogno di armi e cani, essi dispongono di armi fornite loro dalla natura"106. Ancora: "Celso perseguiva, inoltre, temi assai cari, come meglio vedremo, al pensiero greco, quello delI'intelligenza dell'animale "non ragionevole" (la sua capacità di costruire città e di avere governi veri e propri, come nel caso delle api e delle formiche) e quello delle sue capacità etiche (egli sembra si soffermasse ancora sull'esempio delle formiche, che provano compassione delle compagne cadute e le soccorrono; ma l'esemplificazione tradizionale delle virtù degli animali era ricchissima, e certo la trattazione non si limitava ad una sola specie animale). Gli animali, Celso diceva, pur se chiamati àloga hanno capacità di comunicazione reciproca, di reciproco colloquio: se il riferimento di Origene è esatto, egli usava il verbo diàlégesthai, quello che si addice al discorso ad alto livello, al dialogo filosofico"107. Infine: "E perché dunque dovremmo credere che l'universo sia fatto per noi più di quanto non lo sia per l'aquila, per il delfino, per l'elefante?"108. Proverbiali sono il rispetto e la venerazione dei pitagorici verso tutto il vivente non umano; piante e animali che, anzi, essi tentano di unificare nella categoria di vivente109. Eguale atteggiamento è rinviabile in relazione alla specificità delle piante: "...Empedocle, cui si deve il grande poema Le purificazioni (Ka-tharmol), attribuisce anche alle piante intelligenza e ragionamento, phrònesis e logikà"110. E, ancora, sull'ingegnosità degli animali: "De-mocrito (su questo punto non a caso ragguaglia Plutarco) descriveva le opere tipiche dell'ingegnosità di animali quali i ragni tessitori e gli uccelli; costruttori di nidi, attribuendo loro una techne; si sa quale importanza la techne abbia nelI'am-bito della filosofia greca"111.

Queste posizioni costituiscono una sorta di premessa a Platone e Aristotele. Osserva Maria Isnardi Parente: "Ma bisogna attendere Aristotele, perché sia data una trattazione sistematica delle facoltà psichiche degli animali — la sensazione, la memoria, la capacità di discernimento che li rendono simili a noi — e perché sia isolata la facoltà vegetativa allo stato puro, il threptikòn, che caratterizza le piante e stabilisce il confine tra i due regni"112. In epoca contemporanea la vita e la crescita della pianta, che trae da se stessa la linfa vitale, diventano riferimento di alto significato in Rilke ed Enzo Paci: vivere e crescere come una pianta, ripeteva, con Rilke, Enzo Paci113. La rassegna genealogica della Insardi Parente scorre, incentrandosi sul medioplatonico Plutarco (I e II secolo d. C.), sul neoplatonico Porfirio (Ill e IV secolo d.C.) e sull'epicureo Ermarco, titolare del Giardino dopo la morte di Epicuro114. Ci interessa esaminare come, su questa base, la Isnardi Parente demistifichi tre grossolane credenze, pur ammantate di rigore filosofico e storico-filologico. Tre sono i pregiudizi in questione. Il primo: quello sul presunto continuum tra pensiero greco e pensiero cristiano sulla fondazionalità antropocentrica della filosofia e dell'etica. Sostiene la Isnardi Parenti: "Non si potrebbe fare più marchiana confusione. Il pensiero greco (e in una tradizione filosofica, si è visto, tutt'altro che secondaria quale quella pitagorico- platonico-aristotelica, con i più tardi sviluppi del medio e neoplatonismo) fu il primo, e credo l'unico, a teorizzare coerentemente e a razionalmente argomentare i temi della nostra parentela psichica con altri viventi e della necessità del rispetto che ne scaturisce. Se in esso non mancò anche la posizione antropocentrica, ciò vuole dire semplicemente che in qualche modo tutti i temi della speculazione ulteriore vi sono anticipati; ma questo è altro discorso"115. Il secondo pregiudizio attiene all'uso delle categorie aristoteliche: qui si "fa di Aristotele il principale punto di riferimento o, se si vuole, il principale colpevole di questa operazione. Aristotele fu certamente il primo a introdurre nell'universo un ordine gerarchico finalistico, per cui l'animale "non ragionevole" è potenziale di fronte alla superiore attualità dell'essere umano pensante. Ma perché la dottrina di Aristotele potesse diventare base effettiva di una teologia e di una teodicea antropocentrica le mancava un aspetto fondamentale, quello del provvidenzialismo. L'ordine gerarchico che Aristotele istituisce fra gli esseri non è provvidenziale; esso culmina in un intelletto divino che è "pensiero di pensiero", non esce da sé pena il perdere la sua caratterizzazione di atto assoluto, non può quindi guardare ad alcun essere dell'universo, neanche all'uomo, in forma privilegiata. Né va dimenticato che, come si è già rilevato, Aristotele con la sua analisi delle sue facoltà psichiche senzienti proprie degli animali aveva aperto la strada alla teoria teofrastea della nostra parentela con essi, della parentela universale fra viventi"116. Il terzo pregiudizio concerne il presunto travaso positivizzante del patrimonio greco in quello cristiano: qui si ritiene che "tutto quello che vi era di positivo e vivente nel pensiero greco sia stato trasfuso nel nascente pensiero cristiano per formarlo e strut-turarlo. Ciò non è vero ed è chiaro che gli apologeti cristiani scelsero in esso solo i motivi loro più consoni — le argomentazioni, ad esempio, tipiche del provvidenzialismo stoico lasciando cadere motivi altrettanto vitali e altrettanto teoricamente fondati. Una delle correnti più vive e vitali del pensiero pagano — il platonismo —, restava estranea a questo modo di concepire la provvidenza, ed essa continuò la sua vita storica indipendentemente fino a che il verbo cristiano non prevalse. In altri termini, non morì di morte naturale, né indolore" 117. A conclusione e intensamente: "Il razionalismo greco raggiunse una coscienza critica altissima del carattere problematico che riveste il rapporto tra viventi. Dubito che essa sia stata di nuovo raggiunta in tale misura, e con un dibattito così ampio, nel corso della storia dell'Occidente, anche se vediamo riemergere questi temi isolatamente, in spiriti pensosi (basti pensare a Michel de Montaigne: "nous ne les entendons non plus qu'elles nous. Par cette mesme raison, elles mos peuvent estimer bestes, comme nous les en estimons"). Si tratta di un filone di pensiero e di riflessione che andò per lo più obliterato sotto la pressione di un universo teologico incompatibile con esso; ma il fatto che esso fosse e rimanesse vitale, per le sue motivazioni di fondo, lo dimostra il suo riproporsi oggi con l'ampiezza di un movimento d'opinione"118.

7.

Responsabilità e complessità: l’identità oltre i movimenti

Ricondottici, con Maria Isnardi Parenti, alle origini greche di una filosofia non antropocentrica, con ella, ci troviamo di fronte, nell'approdo della riflessione, a qualche cosa di profondo e ancestrale, oggi reperibile, addirittura, sotto forma di movimento. Radicali istanze antropologiche, filosofiche ed etiche, dopo più di due millenni, si sono talmente interiorizzate nella coscienza e nell'immaginario collettivo fino a squarciare la struttura dell'azione collettiva nelle società altamente sviluppate. Cosa resta dei movimenti della tradizione degli anni Sessanta e Settanta, allorché istanze di tale radicalità si introiettano nell'azione collettiva, fino a riscriverne il testo e ritesserne l'ordito? È da questo interrogativo, assolutamente impensabile soltanto fino a qualche anno fa, che prende le mosse un importante libro di Alberto Melucci: "Ma si può ancora parlare di "movimenti" quando ci si riferisce alle forme di azione collettiva contemporanee che investono la differenza tra l'uomo e la donna, che si interrogano su che cosa sia la natura e sui limiti dell'intervento umano, che si occupano della salute, della malattia e della morte?... La comprensione dei processi di trasformazione contemporanei non è possibile se non si tiene conto del filo che lega l'azione collettiva e l'esperienza degli individui"119. A questo tornante storico, non soltanto si ricompongono gli elementi antropologici, filosofici ed etici con l'architettura dell'azione collettiva, ma nel testo di quest'ultima si associano i temi dell'individuo con quelli del gruppo, in un campo relazionale i cui processi ed effetti sono indisgiungibili. Afferma Melucci "Ciò che è in gioco dunque nei movimenti contemporanei, e in quello per la pace in particolare, è produrre il destino della specie e del suo ambiente, a livello individuale e collettivo: la possibilità cioè per gli uomini di controllare non soltanto i loro prodotti, ma il loro stesso "farsi" culturale e sociale, come individui e come specie. Ciò che è in gioco è la produzione dell'esistenza individuale e sociale e la qualità di tale esistenza"120. E ancora: "La salvaguardia della specie che può essere garantita solo da un diverso equilibrio tra l'uomo e la natura è oggi problema che investe la vita di ciascuno. Il cambiamento non è allora separabile dall'agire individuale, I'investimento diretto e personale diventa condizione e risorsa per l'intervento sul sistema"121. Il cambiamento fa perno sull'agire individuale, fin negli interstizi più incandescenti e reconditi dell'essere: nell'amore e nella passione che avvince all'Altro e rapisce nel Noi l'estasi dell'Io. Qui la sessualità è sottratta alla genitalità e restituita all'Eros. Il contesto storico-sociale è quello in cui culture e tecnologie hanno disgiunto l'Eros dalla riproduzione, attraverso le pratiche della fecondazione artificiale: riproduzione senza sessualità, e della contraccezione e sterilizzazione: sessualità senza riproduzione122. In questo modo, non muta soltanto il rapporto tra partners, ma anche quello tra genitori e figli e, più in generale, tra adulti e bambini. È un mutamento in chiave di scelta, di responsabilità, di creatività e rischio. Partner non è solo l'amante all'amante; ma la natura e le cose agli amanti; il bambino all'adulto e l'adulto al bambino. Tutti diventano partners di gioco: giocosamente e rischiosamente insieme. Giocosamente si districa e impianta la confutazione della calcolabilità. Rischiosamente si affermano comunioni che scardinano il sinallagma genitale, regolato dal libero-scambismo sessuale. Il gioco qui è responsabilmente, innocentemente e rischiosamente attivato, innovato, alimentato e ricominciato da capo. Osserva Melucci: "Nei rapporti tra gli individui e nei rapporti con le cose, I'eros svincolato dagli obblighi riproduttivi è una forza che alimenta la spinta creativa, la trasformazione non guidata dal calcolo. Ma lungi dal prefigurare una società trasparente della creatività, dell'espressione e della comunicazione pura, questa prospettiva accentua l'ambivalenza dell'azione umana, individuale e collettiva. La gratuità significa accettazione dell'insicurezza e del rischio, assunzione di responsabilità verso di sé e verso l'altro, in una situazione in cui vengono meno le garanzie esterne alla relazione stessa"123. Gratuità e rischio significano: fedeltà. Nel rischio, gratuitamente e unilateralmente, si va ad assumere la responsabilità della fedeltà e la sua innocenza. Ma fedeltà a che? e a chi?: fedeltà all'amore. È I'amore che si perde, se si smarrisce la fedeltà. Nel rischio dell'amore, perdiamo veramente non se tradiamo o veniamo traditi, ma allorché slealmente abbandoniamo e slealmente siamo abbandonati. Perdiamo veramente, quando noi stessi, ancor prima dell'amante, tradiamo l'amore. Tradire l'amore è la più virulenta forma di infedeltà all'AItro e dell'Io a se stesso. Ma è possibile tradire l'amore, soltanto se si tradisce se stessi. Solo se è attore di questo tradimento, I'Io colpisce alle spalle l'Altro. In questo cerchio rovente, magico e terribile insieme, diventa ancora più vero che: "Il rischio della disgregazione e di un individualismo catastrofico non può essere ignorato. Ma è proprio a partire da questa fragilità che può cominciare il cambiamento degli orientamenti etici che stanno alla base della convivenza"124. In un densissimo aforisma di un libro chiave, ingiustamente dimenticato, T. W. Adorno afferma: "Amare significa saper impedire che l'immediatezza sia soffocata dall'onnipresente mediazione, dall'economia, e in questa fedeltà l'amore si media in se stesso, accanita contropressione. Non ama se non chi ha la forza di tener fermo all'amore... L'ordine della fedeltà, che la società impartisce, è strumento di illibertà, ma è solo nella fedeltà che la libertà si ribella all'ordine della società"125. Non può essere fedele chi vuole (e si vuole) possedere. Amore è rinuncia al possesso: distanza allontanante dal possesso; vicinanza impressionante al dono. Nella distanza dalla tirannia del possesso e nella prossimità alla generosità del dono germina un mutamento di orizzonte nelle opzioni etiche: nonostante e contro l'imperio della tecnica, del calcolo e della economia scambista del "piano". Non può cambiare l'oppressione che abita la società chi non sa amare e non si risolve ad apprenderlo.

 

Note

1 S. Natoli, Lavoro (voce), in G. Zaccaria (a cura di), Lessico della politica, Roma, Edizioni Lavoro, 1987, pp. 315-317, 322-323. Il lavoro di Natoli in questione è la riproduzione di un suo antico intervento, Parole/chiave: Il lavoro, "Il Progetto", n. 22, 1984. Su questi temi cfr. anche A. Chiocchi-C. Toffolo, Il lavoro come forma e come oggetto, "Società e conflitto", n. 00, 1989; ora in Passaggi. Scene dalla società italiana degli anni ‘70 e ‘80, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 7, 1995.

2 S. Natoli, op. cit., p. 315.

3 Come è noto, è questo uno dei supporti fondanti dell'operaismo teorico italiano, la cui progressione e diversificazione cognitiva, concettuale e politica può essere emblematizzata nelle tre figure distinte di Panzieri, Tronti e Negri. Di Panzieri rilevanti sono: Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo e Plusvalore e pianificazione, reperibili in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Torino, Einaudi, 1976. Di Tronti è qui essenziale Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966. Toni Negri è ultimamente tornato al concetto teorico dell’"operaio sociale", sottoponendolo a qualche non lieve riaggiustamento, in Fine secolo, Milano, SugarCo 1988. È risaputo che la matrice genetica di siffatte e varie teorizzazioni è il giustamente celebre Frammento sulle macchine di Marx, tradotto per la prima volta da R. Solmi per il n. 4 di "Quaderni Rossi". Ulteriori traduzioni del testo marxiano sono state proposte da E. Grillo, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, vol. II, Firenze, La Nuova Italia, 1970; e da G. Backaus, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, Torino, Einaudi, vol. I, 1976.

4 S. Natoli, op. cit., pp. 315-321.

5 Ibidem, p. 323.

6 Il tema è discusso in A. Chiocchi, Rivoluzione e conflitto. Categorie politiche, Avellino, Associazione culturale Relazioni, 1995; segnatamente, cap. II, §§ 12 e 14.

7 Sulle conseguenze politico-sociali dell’innovazione tecnologica hanno particolarmente insistito i numeri 1 e 2 del 1988 e 1 del 1989 di "Eureta Newsletter", edita dall'"aaster di Milano per conto della Comunità Europea. L'angolo di osservazione del "progetto Eureta" (European Regional Technology Assessment) è il titanismo delle spinte mercatistiche, da cui si ingenera la nuova domanda di scienza e tecnologia, per una messa in forma di ciò che, altrimenti, resterebbe senza forme. Da qui un effetto di riverberazione che cagiona una profonda metamorfosi degli assetti regionali. Uno dei punti forti teorico-cognitivi di questa posizione è il seguente: "I veri e propri mutamenti strutturali, cioè, operano e sono percepiti al livello dei micro-sistemi locali (una città, una regione)" (così F. Petrella, direttore del Fast - Dipartimento della Comunità Europea operante nel campo della domanda di scienza e tecnologia -, nel numero 1/1988 di "Eureta Newsletter"). Sta qui, in questa nuova mappa di senso e questa nuova collocazione tecno-sociale, ribadisce Petrella, il polo principale di una rideterminazione dell'intreccio tra globale e locale e di una nuova semantica del locale: "La ragion d'essere di un Technology Assessment a livello regionale si definisce in un'unica frase: capacità specifica in loco di conoscenza del contesto circostante per poter meglio agire localmente in modo efficace e 'coerente' con il mondo in mutamento". Se è sul locale che l'innovazione tecnologica dispiega i suoi effetti più gravidi di mutazione, i contraccolpi teorico- epistemologici non si lasciano attendere. Se questa è la base, in sede di bilancio del primo anno di "Eureta", A. Bonomi può coerentemente ribadire l'assunto: "Ci siamo trovati di fronte ad una crisi dei grandi disegni ideologici e programmatici che ci permettono di definire con certezza e tranquillità uno scenario di impatto dei processi di innovazione tecnologica in atto, ad una crisi di certezza di ciascuno degli attori (imprese, sindacati, amministrazione) che permetta di disegnare un loro ruolo ed un futuro nella realtà di domani" ("Eureta", n. 2/1988). Di fronte all'innovazione, le "grandi ideologie" e le "grandi certezze" si dissolvono. Questo il dramma dell'eccesso di modernità, dell'intreccio dei nuovi saperi con le nuove tecniche. Ora, la sdrammatizzazione del trauma della modernità, nell'ipotesi di "Eureta", ha una duplice valenza: (i) si rivolta contro l'immobilismo delle forme tipiche di una "teoria della gestalt" che abbina alla "grande narrazione" una grande stabilità formale, plasticizzando forme inamovibili; (ii) non si piega all'informale caotico che nel vorticoso mulinare e mutare delle forme, nell'innovazione, non riesce a distinguere e rappresentare la forma e le sue metamorfosi. Ciò che fa di "Eureta" un'esperienza di estremo interesse è la sua ribellione, criticamente motivata e argomentata, alle teoriche della "grande quiete" e a quelle speculari della "grande instabilità" delle forme. In tutti e due i casi, interdetta è una visione realistica e oggettivabile delle forme nella loro storicità e nel loro mutamento. Vedere, rappresentare e oggettivare, invece, forme nel mutamento e il mutamento delle forme diventa la più stimolante scommessa di "Eureta". Risulta agevole comprendere quanto tutto ciò sia estraneo e ostico al corredo genetico delle culture della Sinistra, passata dalle "grandi certezze" ai "grandi ottundimenti". Se uno dei problemi cardine è quello del nesso forme/mutamento, l’approccio non poteva essere che locale: è a questo livello che il mutamento prende cominciamento; ed è sempre qui che congruamente sono giocabili la sua falsicabilità e la sua verificabilità. Palese diviene, a questo punto, un collegamento epistemologico con la teoria morfogenetica della stabilità strutturale di R. Thom, egualmente incardinata sul locale (Stabilità strutturale e morfogenesi, Torino, Einaudi, 1980). Se si ha chiaro questo sfondo, può risultare più riccamente esplicativa e gravida di indicazioni la critica della ristrutturazione che proprio l'approccio morfogenetico-locale mette impietosamente a fuoco. Ancora Bonomi: "...oggi non basta un aumento forte dei processi di ristrutturazione e razionalizzazione della divisione internazionale del lavoro, delle economie nazionali, delle imprese per dar senso e progressione allo sviluppo. La ristrutturazione anche se vista come un processo continuato non è sufficiente in un mondo che impone continua innovazione strategica" ("Eureta", n. 2/1988). Saltano, così, i paradigmi continuisti e lineari; soprattutto, quelli a forte ascendenza economicista, postulanti la progressione illimitata della parabola del progresso. Rompere con questi paradigmi vuole dire separarsi dalle aporie filosofico-scientiste dell’Ottocento. Inoltre, significa invertire e ricombinare una direzionalità di senso: non più soltanto dagli assetti macro-economici al territorio dei significanti dell’innovazione; ma anche dalle microcostellazioni del sociale alle strutture generali e generalizzate dell’ economia. È ancora Bonomi che si incarica di esplicitare questo passaggio: "... non basta aver un fideistico atteggiamento nel progresso scientifico e tecnologico. Non c'è solo la sequenza che va dalle invenzioni, dall'innovazione all'economia ma anche la sequenza opposta, dal sociale all'economico, all'innovazione: la compatibilità delle tecnologie" ("Eureta", n° 2/1988). Questa doppia azione e direzione di senso è alla base di quella che Bonomi definisce: "consuetudine alla cooperazione" ("Eureta", n° 2/1988). Col che il percorso dai presupposti teorico-cognitivi alle prassi (cooperanti) può dirsi ripercorso nei suoi nodi focali. L'approccio e le conclusioni sono ribaditi nell'Editoriale del n° 1/1989 di "Eureta Newsletter". Le prospettive di tutta intera l'esperienza sono riassunte in tre scelte di campo: (i) l'ambito regionale; (ii) "muoversi come network e non come progetto"; (iii) l'intermediazione tra i "processi di analisi" e gli "elementi di metodo". Vediamo partitamente. Con riferimento alla prima scelta: "... ambito regionale come luogo critico ove sia possibile osservare, informare e promuovere alcune iniziative di T. A. È una scelta di campo che ha come punto di riferimento sia il dibattito teorico sia esperienze di interventi sociali che privilegiano i sistemi locali, i distretti, l'agire localmente come punti di forza ove identità, culture, decisioni istituzionali sono in grado di confrontarsi con i grandi apparati e processi di un mercato mondializzato". Per quanto attiene alla seconda: "È necessario verificare attraverso un processo di animazione, informazione e scambio lo stato dell'arte del T. A. negli ambiti regionali coordinati prima di giungere a una definizione che permetta il fare progetto per raggiungere obiettivi precisi". E, infine, la terza: "Riteniamo che tra inserimento caldo dell'agire e del conoscere il sociale e il decidere freddo della politica che caratterizza il T. A. e la sua istituzionalizzazione vada inserita una capacità di essere mediatori tra bisogni e decisioni". Grosso modo, questo è il nerbo della struttura portante delle prospettive di "Eureta". Per un'interessante lettura filosofico-antropologica del "progetto Eureta", cfr. P. Virno, Il nuovo per tradizione, "il manifesto", 15 settembre 1988.

8 Come si sa, è stato H. Lefebvre a fare il primo tentativo metodico in questa direzione con la sua Critica della vita quotidiana, Bari, Dedalo, 1977. Sul punto, ma da un'altra angolazione, si è intrattenuta anche A. Heller, Sociologia della vita quotidiana, Roma, Editori Riuniti, 1970. Con una ricognizione critica, è tornata sul tema Donatella Carraro, Critica e riabilitazione della vita quotidiana, "Marx centouno", n. 4, 1986.

9 M. Mastretta, Automazione non vuol dire flessibilità, "Scienza esperienza", novembre 1984; cit. da L. Cillario, Per una critica dell'ideologia dell'automazione flessibile, "Marx centouno", n. 4, 1986, p. 113.

10 K. Marx, Grundrisse (si cita dalla traduzione di G. Backaus). Qualche esempio: "Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro, la quale a sua volta -questa la loro poderosa efficacia- non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e del progresso della tecnologia, o dell'applicazione di questa scienza alla produzione" (vol. 1, p. 716). "La ricchezza reale si manifesta piuttosto -e ciò viene messo in luce dalla grande industria- nella straordinaria sproporzione tra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto a pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso sorveglia. Il lavoro non si presenta più tanto come incluso nel processo produttivo, in quanto è piuttosto l'uomo a porsi come sorvegliante e regolatore nei confronti del processo produttivo ... In questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall'uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l'appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale -in breve lo sviluppo dell'individuo sociale, che si presenta come il grande pilastro della produzione della scienza. Il furto di tempo di lavoro altrui, sul quale si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile in confronto a questa nuova base creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore d'uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle potenze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell'antagonismo. Il libero sviluppo della individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per la società a cui poi va a corrispondere la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo di lavoro divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti" (ibidem, pp. 717-718). Per una considerazione critica della posizione, in proposito, espressa da Marx, si rinvia ad A. Chiocchi, Rivoluzione e conflitto..., cit.; segnatamente, cap. II, § 13

11 S. Natoli, op. cit., p. 323. Assai importante di Natoli, soprattutto con riferimento alle tematiche della vita, della morte e della sofferenza, trattate in quest'ultimo paragrafo, è il bellissimo L'esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 1987.

12 L. Cillario, op. cit., p. 114.

13 Ibidem, p.116.

14 Sul punto, cfr. A. Chiocchi-C. Toffolo, Il lavoro come forma e come oggetto, cit.

15 F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, cit.; Id., Semiotica e ideologia, Milano, Bompiani, 1978.

16 L. Cillario, op. cit., p. 119.

17 È noto che Negri -uno dei punti di riferimento teorici principali della galassia costituita dalla Autonomia Operaia-, intorno al 1974-76, legge la crisi dell'operaio massa nei termini dell'insorgenza dell'operaio sociale, nella prospettiva della "autovalorizzazione" e della "autodeterminazione operaia e proletaria". Le opere di Negri determinanti sul punto sono: Proletari e stato, Milano, Feltrinelli, 1976; Il dominio e il sabotaggio, Milano, Feltrinelli, 1978; Marx oltre Marx, Milano, Feltrinelli, 1979; Dall'operaio massa all'operaio sociale, Milano, Multhipla, 1979. In Fine secolo (cit.), Negri introduce alcuni correttivi in questo contesto storico. Rispetto all'operaio massa Negri parla, senza mezzi termini, di illusione: "La rivoluzione capitalistica che aveva prodotto l'operaio massa e che aveva imputato il lavoro massificato alla produzione di valore, aveva avuto il suo apogeo nella crisi del '29 -ma era in corso fin dalla prima guerra mondiale. Dopo la crisi, il roosweltismo determinò, attraverso l'intervento dello Stato, un consumo di massa laddove una produzione di massa era in movimento forse dall'inizio del secolo, certo dal periodo bellico. L'operaio massa è una bestia strana, nasce tra campagna e città, fra le due coste dell'Atlantico ... Quando noi, di fronte alla straordinaria accumulazione di forza lavoro massificata fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, gridavamo alla nascita dell'operaio massa, in realtà onoriamo il tramonto del ciclo" (p. 54). All'opposto: "Di contro, l'intuizione del costituirsi dell'operaio sociale fu una vera e propria anticipazione (p. 54) ... L'operaio sociale è dunque il produttore della cooperazione sociale lavorativa. Egli non vuole avere padroni perché non può avere padroni -se questi si dessero verrebbe meno la sua definizione stessa, e non sarebbero tali la sua natura e la sua identità. Identità collettiva perché la coscienza operaia è sempre collettiva, e tanto più lo è la coscienza di sé nel momento in cui ci si riconosce come esclusivi organizzatori del lavoro collettivo ... L'operaio sociale è il momento nel quale la dialettica di emancipazione e di liberazione si risolve definitivamente sul polo della liberazione -d'ora in innanzi l'emancipazione sarà un sottoprodotto della liberazione ... Ogni giustificazione storica, progressiva, della funzione del capitale, viene così meno (p. 61) ... Il collettivo è dato come soggetto" ( p. 67).

18 Per una prima presa d'atto, si rinvia a E. Morin, Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione, Milano, Feltrinelli, 1983; G. Bocchi-M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Milano, Feltrinelli, 1986; H. Altan, Tra il cristallo e il fumo, Firenze, Hopefulmonster, 1986.

19 K. O. Apel, L'etica della responsabilità nell'era della scienza, "Il Mulino", n. 297, 1985, p. 52.

20 Ibidem, p. 52.

21 Ibidem, p. 53.

22 Una densa disamina categoriale di questo nesso, in epoca moderna e contemporanea , con un preliminare rinvio all'"Etica nicomachea" di Aristolele, è proposta da C. Galli, Tecnica e politica: modelli di categorizzazione, in Modernità. Categorie e profili critici, Bologna, I1 Mulino, 1988, pp. 79-105. Si tratta di una parziale rielaborazione di Tecnica e politica fra epocalità e lungo periodo, "I1 Mulino", n. 297, 1985, pp. 74-97.

23 Sul tema, cfr. C. Galli, op. cit., pp. 84-88, 96-97. Sulle tendenze più profonde operanti all'interno del processo in questione, cfr. le osservazioni di G. Marramao, Potere e secolarizzazione, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 3-66. 67-88. Sulla secolarizzazione, cfr., altresì, la densa ricognizione critica proposta da G. Pirola, La secolarizzazione in "Filosofia ‘86" e in "Filosofia ‘87", "Fenomenologia e Società", n. 2, 1989. Va rilevato che il fascicolo 2/1989 appena segnalato di "Fenomenologia e Società" è monografico sul tema: "Problemi della secolarizzazione", con contributi sulla secolarizzazione nella teologia tedesca (W. Sparn), in Blumenberg (M. Sommer), in Weber (F. Ingravalle), in Heidegger (A. Bertin) e in Gogarten (F. Coppellotti).

24 M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968. Sulla questione della tecnica in Heidegger, assai importante M. Cacciari, Salvezza che cade, "Il Centauro", n. 6, 1982, pp. 70-101.

25 Cfr., sul punto, C. Galli, op. cit., pp. 88-89, 160-162, 164-167, 170-174. Si veda, altresì, P. P. Portinaro, Il dibattito sulla razionalizzazione nella recente letteratura weberiana, "Teoria politica", n. 1, 1985; segnatamente, per i temi in questione, pp. 138-147. Cfr., infine, G. Marramao, op. ult. cit., pp. 92-101.

26 Le posizioni di Marcuse, Horkheimer, Pollock, Gurland e Kirchheimer e Neuman sono riportate in Tecnologia e potere nelle società post-liberali (a cura di G. Marramao), cit.; da vedere anche l'lntroduzione di Marramao all'appena citata antologia, pp. 9-48.

27 Sulla convergenza in Heidegger di tecnica e politica, cfr. C. Galli, op. cit., pp. 100-102.

28 Su questo topos schmittiano, cfr. G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia, 1981.

29 N. Matteucci, La società scientificizzata: morte o trasfigurazione della politica?, "I1 Mulino, n. 297, 1985, p. 99.

30 M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, Brescia, Queriniana, 1972, p. 103. L'evidenza è prontamente rilevata da Matteucci, op. cit., p. 99.

31 J. Ritter, Metafisica e politica, Casale Monferrato, Marietti, 1983, p. 94.

32 Sul punto, cfr. G. Marramao, Potere e secolarizzazione, cit., pp. 189- 223.

33 F. Nietzsche, Al dl là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1968, p. 10.

34 M. Horkheimer, Taccuini 1950-1960, Genova, Marietti, 1988, pp. 77.

35 N. Matteucci, op. cit., p. 105.

36 Ibidem, p. 108.

37 Ibidem, p. 109.

38 Cfr. J. Baudrillard, Per la critica dell'economia politica del segno, cit.; Id., Lo scambio simbolico e la morte, cit.

39 J. Baudrillard, L'implosione del senso nei media e l'implosione nelle masse, "aut aut", n. 169, 1979, pp. 105-116.

40 Ribadito da N. Matteucci, op. cit., p. 110.

41 Ibidem, p. 112.

42 Di E. Jünger, cfr.: La mobilitazione totale (trad. di C. Galli), "Il Mulino", n 301, 1985, pp. 753-770; L'operaio, Milano, Longanesi, 1981; Il nodo di Gordio, Bologna, Il Mulino, 1987. Sul pensiero di E. Jünger si veda: C. Galli, Al di là del progresso secondo Ernst Jünger: "magma vulcanico" e "mondo dl ghiaccio", "I1 Mulino", n. 301, 1985, pp. 771-786; Id., E. Jünger. La mobilitazione totale, in Modernità, cit., pp. 191-204; Id., Introduzione a Il nodo di Gordio, cit., pp. 7-25; F. Masini, E. Jünger: dall'"arbeiter" all'"anarca", "Il Mulino", n. 301, 1985, pp. 787-801; M. Cacciari, Salvezza che cade, cit., pp. 87-90; R. Esposito, Categorie dell'impolitico, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 268-278.

43 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1984. Su questo fondamentale topos della filosofia di Nietzsche è tornato M. Galzigna, Il teatro del Sé. Dimensioni quasi utopiche della comunicazione, in U. Curi (a cura di), La comunicazione umana, Milano, Angeli, 1985, pp. 145-146.

44 M. Galzigna, op. cit., p. 146.

45 L'espressione è di M. Galzigna, op. cit., p. 148. Galzigna si rifà a un importante e dimenticato passo (del 1814) di B. Constant: "Gli interessi e i ricordi che nascono dalle abitudini contengono un germe di resistenza che l'autorità sopporta a malincuore, e che si affretta a dimenticare; la nuova volontà di tirannia, che si impone attraverso la cancellazione e la memoria, produce l'uniformità, ammirata da qualche spirito limitato, desiderata da molti spiriti servili. L'autorità rovescia così, senza fatica, il suo enorme peso sugli individui, come se fossero sabbia" (cit., p. 148).

46 E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1982. M. Galzigna, per parte sua, ha rapidamente schematizzato questa genealogia, per quanto attiene allo specifico delle età liberale, positivista e informatica (op. cit., pp. 146-147). Sul punto, importante anche U. Galimberti, Gli equivoci dell'anima, Milano, Feltrinelli, 1987. Su questa "natalità", cfr. il pregevole E. Enriquez, Dall'orda allo Stato, Bologna, I1 Mulino, 1986.

47 Si esamini, in proposito, il contributo di J. Baudrillard, Lo showman politico nello spazio pubblicitario, in A. Bolaffi-M. Ilardi (a cura di), Fine della politica?, Roma, Editori Riuniti, 1986.

48 Sullo statuto e sulle categorie delle anti-utopie contemporanee è fondamentale S. Manferlotti, Anti-utopia, Palermo, Sellerio, 1984.

49 Su questo campo dialogico di ascendenza socratica è densamente e criticamente intervenuto G. Marramao, Gli scacchi del sapere, "I1 Mattino", 26 gennaio 1989. Nella stessa direzione anche il precedente articolo della rubrica di Marramao ("Lessico filosofico"), Le parole per dirla, "Il Mattino", 12 gennaio 1989 Attinente al tema è anche un precedente articolo di Marramao, comparso nella rubrica "Lessico politico", L'eco veloce del tempo umano, "I1 Mattino", 23 ottobre 1988.

50 E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano, Edizioni CDE, 1988, p. 69.

51 Ibidem, p. 70.

52 Ibidem, p. 71.

53 Ibidem, p. 72.

54 E. Canetti, Il cuore segreto dell'orologio, Milano, Adelphi, 1987, pp. 9-10. Sul tema della morte, oltre alle note e struggenti pagine di "Massa e potere", si legga anche il bellissimo colloquio tra Adorno e Canetti, Dialogo sulle masse, la paura e la morte, "MicroMega", n. 2, 1986, pp. 193-212.

55 E. Canetti, Il cuore segreto dell'orologio, cit., p. 10.

56 Ibidem, p. 33.

57 M. Blanchot, La letteratura e il diritto alla morte, in Da Kafka a Kafka, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 9-47.

58 Ibidem, p. 23. Sul pensiero di Blanchot si rinvia al pregevole saggio di Wanda Tommasi, Maurice Blanchot. La parola errante, Verona, Bertani, 1984; segnatamente, per i temi qui affrontati, pp. 51-83. Nel libro della Tommasi è anche egregiamente messo in luce il rapporto tra Blanchot e Levinas (pp. 143-167). Nelle nostre pagine, la presenza di quest’ultimo è solo e ripetutamente evocata. Per un primo colpo d'occhio sul pensiero di Levinas, comunque, cfr. il numero monografico di "aut aut", n. 209-210, 1985; O. Di Grazia, Dall’essere al volto. Itinerari, in AA.VV., Metafisica, anti-meta-fisica, post-metafisica, Palermo, Edizioni Augustinus, 1989.

59 M. Blanchot, op. cit., pp. 24-25.

60 Ibidem, p. 25.

61 Ibidem, p. 40.

62 Ibidem, p. 39.

63 Orientata in altre direzioni e incentrata su altri autori (S. Weil e G. Bataille) è la riflessione che sul tema della morte e del bene propone R. Esposito, op. cit., pp. 245-312; ma sulla Weil specificamente anche pp. 201-244. Sul tema della morte in Canetti, Esposito si sofferma alle pp. 190-220; su quello del potere, pp. 171-187.

64 E. Canetti, Il cuore segreto dell’orologio, cit., p. 42.

65 Ibidem, p. 92.

66 Cfr., sul punto, P. P. Portinaro, La società ad alto rischio, "Teoria politica", n. 2, 1987, pp. 135-143; A. Chiocchi-R. Marrone, L'etica tra pace e guerra, "1l Tetto", n. 145, 1988, pp. 88-90, successivamente anche in "Società e conflitto", n. 2/3, 1990-1991, pp. 230-232.

67 Per una riflessione iniziale e una messa a punto assai articolata della nuova "disciplina" dell’etica ecologica, si rinvia a: J. Nida-Rümelin, Etica ecologica, "I1 Mulino", n. 319, 1988; S. Bartolommei, Esiste un'etica ecologica?, "Biblioteca della libertà", n. 101, 1988; Id., Etica, filosofia ed ecologia. Introduzione a Leopold, "Critica marxista", n. 4, 1987; A. Leopold, L'etica della terra, "Critica marxista", n. 4, 1987; P. degli Espinosa, Ambiente e qualità della vita: rapporti tra soggettività e produzione, "Demo-crazia e diritto", n 2/3, 1988; L. Pagodi, Politica e cultura dei verdi, "Teoria politica", n. 3, 1987. Per la questione dell'etica pubblica, si rinvia ai fascicoli monografici: "Verso un'etica pubblica" e "Diritto ed etica pubblica" rispettivamente, nn. 2 e 3, 1988 di "Fenomenologia e Società"; E. Morin, I1 pensiero ecologico, Firenze, Hopefulmonster, 1988; R. Biorcio, Ecologia e politica nell'opinione pubblica italiana, "Polis", n. 3, 1987.

68 Sul punto, oltre ai classici lavori di P. Singer, fondamentali: L. Battaglia, Nazismo e diritti degli animali, "Biblioteca della liberà", n. 102, 1988; M. Isnardi Parente, Le radici greche dl una filosofia non antropologica, "Biblioteca della libertà", n. 103, 1988; E. Vitale, Quali diritti per gli animali? , "Teoria politica", n. 1, 1988.

69 S. Maffettone, Una filosofia pubblica per l'ambiente, "Teoria politica", n. 3, 1986. Più in generale, sul rapporto tra diritto ed etica pubblica, cfr. il già segnalato fascicolo monografico n. 3/1988 di "Fenomenologia e Società". Insiste felicemente sul nesso tra dialogica ed etica, L. Mengoni, La questione del "diritto giusto" nella società post-liberale, "Fenomenologia e Società", n. 3, 1988. Nelle nostre pagine si pone molto l’accento sulla relazione tra dialogica (della libertà) ed etica (della comunicazione).

70 Cfr. S. Maffettone, op. ult. cit., pp. 23-28

71 Ibidem, pp. 21-22, 23-25, 27-29.

72 Su questo punto, ai fini delle prospettive qui discusse, ha velocemente portato l’attenzione D. Gobetti, Alla ricerca di una morale pubblica, "Teoria politica", n. 2, 1985. Su problematiche più o meno laterali a quelle qui prese in esame della Gobetti è da segnalare Privato/pubblico, "Teoria politica", n. 3, 1986.

73 S. Maffettone, op. cit., p. 27 e p. 45 (nota n. 17). Sulla fondazione razionale dell'etica, come si è visto, ha insistito anche K.O. Apel, op. cit.

74 Ibidem, p. 28.

75 Ibidem, p. 28.

76 Ibidem, p. 29-39.

77 Ibidem, p. 36.

78 Ibidem, p. 36.

79 Ibidem, p. 38.

80 Ibidem, p. 38.

81 Maffettone insiste su questo tema in: Etica pubblica liberale, "Teoria politica", n. 3, 1987; Razionalità e integrità, "Fenomenologia e Società", n. 2, 1988. Sull'implicanza tra persona, valore e bene Maffettone ritorna lateralmente, commentando la produzione rawlsiana più rilevante successiva a Una teoria della giustizia: All'ultimo Rawls, "Il Mulino", n. 319, 1988; di uno di questi lavori rawlsiani, quello sul "costruzionismo kantiano", si era già occupato ripetutamente in Razionalità e integrità, cit.

82 Della critica di Maffettone al paradigma economicista e utilitarista si sono appena passati in rassegna alcuni passaggi fondamentali.

83 S. Maffettone, Etica pubblica liberale, cit., pp. 84-86. Il riferimento critico è al testo di C. Schmitt, La tirannia dei valori, "Rassegna di diritto pubblico", n. 1, 1970; nel 1987 edito da Antonio Pellicani Editore, Roma. Su questo lavoro schmittiano cfr. G. Duso, Tirannia dei valori e forma politica in C. Schmitt, "Il Centauro", n. 2, 1981. Si veda, altresì, la recensione dell’edizione Pellicani fatta da R. Fassa in "Fenomenologia e Società", n. 3, 1988, pp. 176-178. Maffettone ritorna sul tema della teoria del valore, discutendolo in termini generali, in Razionalità e integrità, pp. 28-29.

84 S. Maffettone, Etica pubblica liberale, cit., p. 85. Sul punto, Maffettone ritorna in Razionalità e integrità, cit., pp. 36-43

85 S. Maffettone, Etica pubblica liberale, cit., p. 85. Ma, in tal senso, Maffettone già in Liberalismo, socialismo e democrazia, "Biblioteca della libertà", n. 97, 1987, pp. 20-21, 24; cfr. anche A. Chiocchi, Note sulla democrazia italiana, Avellino, Quaderni di "Società e conflitto", n. 1, 1989; segnatamente il cap. III, lettere c) e d).

86 S. Maffettone, Liberalismo ..., cit., p. 24.

87 S. Maffettone, Razionalità e integrità, cit., p. 22. Qui Maffettone si riferisce, richiamandolo in nota, a D. Richards, A Theory Of Reason For Action, 1971.

88 Ibidem, p. 22, nota n. 1.

89 Ibidem, p. 23 ss.

90 Ibidem, p. 23.

91 Ibidem, p. 24.

92 Ibidem, p. 24.

93 Ibidem, p. 34.

94 Ibidem, p. 34.

95 Ibidem, p. 35. Il riferimento di Maffettone è qui a R. Dworkin, Law's Empire, 1986; cit. p. 35, nota n. 20.

96 Ibidem, p. 35.

97 Ibidem, p. 35.

98 Ibidem, p. 39 e passim.

99 Ibidem, p. 36.

100 Ibidem, p. 36.

101 Ibidem, p. 37.

102 Ibidem, pp. 39-43.

103 Ibidem, pp. 40-41.

104 Ibidem, p. 42.

105 S. Maffettone, All'ultimo Rawls, cit., p. 767; sulla produzione di Rawls degli anni ‘80, cfr. anche A. Villani, L’evoluzione rawlsiana degli anni Ottanta, "Fenomenologia e Società", n. 1, 1990, nel quale l’autore considera criticamente le tesi avanzate dall’articolo appena citato di Maffettone. Di Villani si segnalano altri avori su Rawls: Giustizia distributiva e principio di libertà. Intorno al dibattito tra Rawls e Nozick, "Fenomenologia e Società", n. 2, 1989; Sfere di giustizia e arte della separazione, "Feno-menologia e Società", n. 3, 1989.

106 M. Isnardi Parente, op. cit., p. 74.

107 Ibidem, p. 74.

108 Ibidem, p. 75.

109 Ibidem, p. 76.

110 Ibidem, p. 76.

111 Ibidem, pp. 76-77.

112 Ibidem, p. 77.

113 E. Paci, Colloqui con Banfi, "aut aut", n. 214/215, 1986, p. 76.

114 M. Isnardi Parenti, op. cit., pp. 77-81.

115 Ibidem, pp. 81-82.

116 Ibidem, p. 82.

117 Ibidem, pp. 82-83.

118 Ibidem, p. 84.

119 A. Melucci, Libertà che cambia. Un’ecologia del quotidiano, Milano, Unicopli, 1987, pp. 10-11. Non possiamo occuparci in questa sede della ricchezza tematica e analitica di questo lavoro di Melucci. Limitiamo l'attenzione ad alcuni argomenti strettamente connessi alla riflessione conclusiva che stiamo tentando di articolare.

120 Ibidem, p. 113.

121 Ibidem, p. 120.

122 Ibidem, p. 167.

123 Ibidem, p. 176.

124 Ibidem, p. 177.

125 T. W. Adorno, Minima moralia, Milano, Edizione CDE, 1987, p. 203.