CAP. V

OPERAI E DEMOCRAZIA.

PREMESSE ED EFFETTI DELL’AUTUNNO CALDO

 

 

 

 

 

1. Fascino dell'ordine e scandalo operaio

La democrazia si ferma ai cancelli delle fabbriche, suole ripetere Norberto Bobbio. L'autunno caldo italiano divelse questi cancelli. La soggettualità operaia lacerò la camicia di forza del "piano di impresa"; si ribellò alla serializzazione produttivistica; contestò il "potere discrezionale" del datore di lavoro e della "gerarchia di fabbrica"; si fece vedere e ascoltare da tutti gli altri soggetti sociali; mise in tensione i luoghi sacrali del potere; interrogò e scavalcò le istituzioni del movimento operaio e sindacale. Segni e disegni tacitali e consegnati a una smemorazione pietrificante per tutto il decennio degli anni '50 si incunearono nelle pieghe del tempo.

Portare la democrazia in fabbrica diventò discorso comuni-cativo, rivolta e istanza di cambiamento. L'ondata operaia tratteg-giò i conlorni di una comunità impossibile: la democrazia, dentro i cancelli della fabbrica, restava e resta cifra ardua dell'impossibilità. Le lotte operaie impattarono duramente alcuni dei più aspri off limits della rete democratica, rimuovendone felicemente l'intrico e i veti, scandalosamente comunicando ribellione, ansia di libertà e voglia di trasformazione. La ripresa di parola degli operai frantumò la cappa di piombo dei vallettiani anni '50, vero e proprio argine spugnoso piantato "a muso duro" in faccia alle lotte del dopoguerra; dalla mobilitazione contro i licenziamenti del 1946 al ciclo di prolesta 1947-50.

Nella mitologia della storiografia operaia c'è, ormai, un evento epocale. Fiat, 1955: il crollo della Fiom alle elezioni per il rinnovo delle commissioni interne. Il ciclo vallettiano sancì la sconfilta dell'operaio professionale italiano, con buona pace dei retaggi dell'ideologia lavorista e consiliarista messa a punto nel primo trentennio del secolo. Sarà l'operaio massa a intonare il canto funebre per l'organizzazione vallettiana della fabbrica e dello spazio/tempo sociale. Per intanto, I'ideologia lavorista dell'operaio professionale del movimento operaio e sindacale non poté che soccombere sotto i colpi del vallettismo. L'affezione al lavoro veicolò, invariabilmente, la sottomissione a moduli ideologici depauperanti e a dispositivi organizzativi gerarchici e non mobilitanti, ottundenti le capacità e le possibilità della critica, dell'espressione del dissenso, dell'organizzazione della lotta per i diritti di democrazia e per la libertà. L' operaio professionale e le sue organizzazioni assomigliarono qui a un "principe senza scettro": in altre mani rimase concentrato il "comando" sul processo produttivo, sulle figure professionali e sul complesso delle sinergie dell'organizzazione del lavoro.

C'è una trama di azioni e reazioni poco visibile, ma di tremenda efficacia, che collega resistenza, costituzione dello Stato repub-blicano, ricostruzione e sconfitta operaia negli anni '50. Trama che ha insediato la specificità italiana della risposta politica e istituzionale all'emergenza del conflitto sociale. La democrazia italiana è nata in questa trama, nel cui disegno il primato del sistema politico sulla società civile è stato un punto di svolgimento essenziale. Lo "stato di eccezione" in cui fu calata la "ricostruzione nazionale" rimosse duramente il conflitto dallo scenario: l'"interesse nazionale" fece rigidamente primato sugli interessi degli strati sociali più avvantaggiati, coincidendo deterministicamente con la ricostruzione economico-industriale. Non poteva che conseguirne una tipologia di industrializzazione assumente il conflitto come bersaglio fisso. Con ciò, si decostruì il patto di unità contro il fascismo e il nazismo e l'appena formulato patto costituzionale, i quali vennero declinati come pacificazione intensiva ed estensiva della fabbrica e della società. Quasi a voler dare finalmente soluzione democratica alle ossessioni introiettate dalla borghesia liberale e dal capitalismo italiano nel primo dopoguerra, di fronte al "biennio rosso". I governi centristi e il vallettismo costituirono le forme svelate di questa soluzione, evocante una visione catartico-esorcizzante dell'ordine e demonizzante il conflitto sociale. La democrazia venne assimilata all'ordine e, reciprocamente, l'ordine – come "valore in sé" – fu assimilato alla democrazia. All'opposto, il conflitto – come "di-svalore in sé" – venne equiparato al disordine. La sinistra ha avuto il torto di subordinarsi troppo a questa trama ideologica (governo tripartita 1944-47), dalla quale risultò collocata in una posizione di progressiva marginalità. Conseguentemente, in capo a pochi anni, fu espulsa dalle coalizioni governative. Da allora, restò e resta per essa un problema di fondo: la difficoltà di individuare una leva pensante ed agente, azionante un passaggio critico oltrepassante il modello di società che essa medesima aveva concorso a costituire. Non poteva non riconoscersi in quell'assetto sociale che, a un tempo, la cooptava e la escludeva. Forte era stato il contributo della sinistra all'edificazione della democrazia italiana; e la democrazia, d'altro canto, non poteva cessare d'essere fonte ispirativa e soglia irrinunciabile della sua azione politica. Ciò, però, non escludeva (e non esclude) il "diritto di critica" alle forme storicamente determinate che la democrazia andava e va ssumendo in Italia. Non che questa critica non vi sia stata; anzi. È che essa si è rivelata costantemente spuntata, soggiogata ideologicamente, a tutti i livelli, dalla "repressione silenziosa" degli anni '50. Questo perché la sinistra medesima rimase (e, in parte cospicua, ancora rimane) vittima della fascinazione esercitata dai paradigmi politici dell'ordine, assumendo un atteggiamento di insofferenza, se non di ostilità, nei confronti del conflitto; sopratutto laddove più pesantemente andava mettendo in questione le forme di svolgimento della democrazia italiana. Il biennio 1968-1969 mise impietosamente in luce pure questo oscuro risvolto hobbesiano della sinistra italiana. Anche per questi motivi, dal biennio nacque la sinistra rivoluzionaria che, al di là dei suoi molti limiti e molti errori, si negò alla presa stritolante dei paradigmi dell'ordine, cercando di interpretare e organizzare i cicli del conflitto.

Nelle sue originali concrezioni ed espressioni, l'evoluzione storica delle forme democratiche spiazzò e mise fuori gioco la sinistra, nel sistema politico e nella società. Allo stesso modo, il procedere impetuoso della ristrutturazione industriale e della riorganizzazione del lavoro in fabbrica, cominciate e dirette dalla Fiat di Valletta, spiazzò e mise fuori gioco la resistenza operaia e le istituzioni del movimento operaio e sindacale. Fu questa la fase in cui, sintetiz-zando, si compì il passaggio al ciclo tayloristico, in una situazione di forte disciplinamento dei comportamenti operai e di ogni altra forma di insorgenza sociale. Il movimento operaio e sindacale ebbe un atteggiamento di completa cecità di fronte al montare di questi rilevanti processi di mutamento. Non può sorprendere più di tanto, se, da questa cecità di fondo, arrivò:

a) a tacciare di "teppisti" e "provocatori fascisti" gli operai della sollevazione di Piazza Statuto del 1962;

b) a demonizzare, sul piano politico-culturale, la ricerca e la ri-flessione di R. Panzieri e dei "Quaderni rossi", l'unico tentativo serio che la sinistra avesse prodotto, per confrontarsi con le nuove forme di organizzazione del capitailsmo e della protesta operaia.

Volendo restare sul piano più strettamente culturale, non è arduo identificare un "luogo comune" (in tutti i sensi) in cui fecero intersezione tutte le forze a quel tempo agenti nel sistema politico italiano; luogo da cui si biforcarono le teorie della "integrazione sociale" variamente declinate. La cultura politica dominante, che si diramò trasversalmente per tutti i partiti politici costituzionali ita-liani, parve affascinata da questo assioma fondativo: il "consumo" di democrazia porta all'estinzione del conflitto sociale. Da qui la sorpresa e il terrore di fronte alla crescita del potenziale di conflitto, assicurato proprio dalla società democratica. Secondo l'assioma individuato, la democrazia avrebbe dovuto essere una società perfettamente aconflittuale: cioè, perfettamente integrata. Perfezione della democrazia stava qui per perfezione e chiusura perfetta dell'integrazione. La realtà si incaricò di dimostrare, ben presto, che quanti più beni (e, dunque, quanta più ricchezza sociale e democrazia) gli operai "consumavano", tanto più conflittuali e ribelli diventavano. L'autunno caldo non sarebbe spiegabile, senza questa retrostante dilatazione della sfera dei godimenti e della domanda politica, a paragone delle epoche storiche precedenti. Esso è stato, pertanto, a pieno titolo figlio legittimo della democrazia italiana. Nel contempo, ne ha indicato impietosamente i limiti strutturali. Il profilo contraddittorio dell'autunno caldo non fu compreso, soprattutto da quelle componenti del movimento operaio e sindacale che, dall'ideologia lavorista, andarono inclinando verso Ie teoriche e pratiche della scarsità. Negli anni '70, queste ultime si proiettarono e sublimarono nella strategia politica dei "sacrifici" e della "austerità". A questo approdo e per queste forze, I'assioma fondativo prima identificato si capovolse, mettendo a fuoco un postulato di filosofia politica così enunciabile: a minore consumo corrisponde maggiore stabilità democratica. Il conflitto fu qui unicamente concepito come ragione diretta di un'eccedenza nell'uso e nel consumo della democrazia: per ridurre il conflitto si doveva, dunque, ridurre la democrazia. Col che si declinò una variante di sinistra delle teorie della democrazia corporatista e dell'elitismo democratico, divenendo la restrizione della democrazia e del quadro democratico la finalità strategica dei programmi politici. Sta qui il dramma più grande dell'approdo alla "solidarietà nazionale" del Pci e di parte del movimento sindacale italiano. AlI'altezza di questo esito, la "democrazia progressiva" togliattiana viene estenuata e distorta nella democrazia corporatista ed elitista del "compro-messo storico". Se questo è uno degli elementi caratterizzanti il clima degli anni '70, ben si comprende l'atteggiamento di totale repulsione e insofferenza manifestato dal sistema politico italiano nei confronti dei ripetuti e intensi cicli di lotta succedutisi nel decennio. La fascinazione esercitata sulla sinistra, dagli anni '40 agli anni '70, dai paradigmi dell'ordine si spinse sino a questo limite estremo: la sua cooptazione in modelli di democrazia corporatista e delitista, entro i quali la risorsa democratica fu unicamente funzione della soppressione del conflitto. Nella comunità politica lo spazio della democrazia subì una compressione secca, a paragone del periodo stesso del centrosinistra. La democrazia continuò a parlare e a crescere solo nelle lotte, nella protesta sociale e nelle microrivolte quotidiane di tutto il decennio. Ancora una volta, come già all'inizio dell'autunno caldo, lotte sociali e conflitto si rappresentarono come comunità impossibile: le rappresentazioni, I'immaginario e le concrezioni politiche dell'ufficialità continuarono, più che mai, ad appiattire la democrazia all’ordine.

La miscela si fece esplosiva, ove si consideri che l'espansione della lotta armata negli anni '70 commassò perversamente con lo sterilimento corporatista della democrazia italiana. Nell'ideologia brigatista, p.es., la dilatazione dei consumi e dell'uso della demo-crazia intenzionava la "crisi irreversibile" del sistema democratico, incapace di mantenere la promessa, pur formulata: democratizzare lo sviluppo capitalistico. Per contro, secondo la democrazia corporatista ed elitista della "solidarietà nazionale", si trattò di rallentare lo "sviluppo" e ricondurlo al di sotto della soglia critica sopportabile in quella fase dal "governo democratico". Le Br intendevano far leva sul conflitto che non trovava più adeguati canali di espres-sione nel sistema democratico, per eliminare la democrazia. La "solidarietà nazionale" agì unilateralmente l'ordine di contro al con-fitto; le Br, al contrario, il conflitto contro l'ordine. La situazione politica a cui si pervenne è così schematizzabile: nel primo caso, democrazia come ordine senza conflitto; nel secondo, conflitto come ordine senza democrazia. In entrambi i casi, la democrazia fu schizofrenicamente dissociata nelle sue componenti costitutive fondanti. Solo le lotte sociali si sono sottratte, in Italia, al fascino incantatore dell'ordine politico: hanno resistito all'integrazione sof-focante che riduceva gli spazi della democrazia e hanno felice-mente deviato dalla dinamica di liquidazione della democrazia propria della lotta armata. Ciò non ha impedito che esse stesse, per limiti interni e incongruenze culturali e politiche, rimanessero stritolate da questa morsa inesorabile: alla fine, sconfitte da una crisi interna non superata e da un attacco esterno concentrico.

2. Minimalismo costituzionale e conflitto operaio

Sulla scorta di quanto siamo venuti argomentando, possiamo agevolmente concludere che l'autunno caldo è stato uno dei porta-ti della transizione della società italiana verso il capitalismo maturo. Tra l'altro, tale transizione si impiantò anche come virtuale base di riformulazione del "patto fondamentale" che reggeva la democrazia italiana. Prima di ogni altra cosa, I'autunno caldo fu un prodotto di siffatta transizione storica; non tanto e non semplicisticamente il risultato ultimo della crisi del sistema politico italiano.

Questo significa che non furono soltanto i cicli della mobilita-zione collettiva e del conilitto sociale a precipitare in una situazione di crisi generalizzata le istituzioni politiche, economiche e culturali della società italiana. Questi stessi cicli presero origine dalle strutture sottostanti delle trasformazioni sociali, culturali e di costume che scossero il paese. Da questo lato, costituirono una delle forme attive di espressione della transizione italiana al capitalismo maturo. Ecco perche averli duramente osteggiati segnò e restrinse la democrazia, costituendo la versione italiana della "carenza di democrazia" all'interno del "capitalismo maturo"; processo che interessò e interessa, in forme diverse, tutte le società occidentali avanzate. Il rapporto democrazia/capitalismo ha sempre rappresentato un che di estremamente complicato e sfuggente, con lati in luce e rovesci oscuri. Lo sviluppo del capitalismo e delle regole del mercalo e della concorrenza ha proceduto avvincendosi al restringimenlo degli spazi di espressione e comunicazione della democrazia. A fronte di questi esiti:

a) il nesso democrazia/capilalismo costituisce un rilevante "rom-picapo teorico" e una complessa problemalica storico-polilica;

b) la sconfitta dei cicli delle lotte operaie e del conflitto sociale costituì e costituisce una sconfitta per la democrazia italiana.

Con quella sconfitta venne meno una leva decisiva del processo di democratizzazione, nella direzione del mutamento delle "regole del gioco" e del "gioco" su cui la democrazia politica aveva fino ad allora giocato. Il venire meno di questa possibilità costituì, forse, una delle più grandi responsabilità dei "personaggi politici collettivo" e delle generazioni che in quei cicli di lotta e di conflitto si formarono e affermarono. Adi là delle forti resistenze esterne, quei cicli non seppero, dal loro interno, adeguatamente funzionalizzare "protesta sociale" a "svolta democrafica". Il che facilitò la frammentazione e la dispersione dei vettori della conflittualità sociale in un arcipelago di istanze, di prospettive e di rivendicazioni incomunicanti e, spesso, sterilmente in competizione. Fino ad arrivare all'ossificazione estrema di "organizzazioni di movimento" arcaicizzanti, irretite oltremodo nella sistematica del potere alternativo alle logiche del potere democratico-borghese, ereditata dalle tradizioni rivoluzionarie ottocentesche. I medesimi stimoli positivi della critica operaia degli anni '60 al "dispotismo di impresa" e alla "pianifica-zione del plusvalore", all'interno di tutto intero il rapporto sociale capitalistico di produzione e riproduzione, furono risospinti nel cul di sacco dell'universalismo operaio ("Potere operaio") e dell'avanguardia di massa ("Lotta continua"). Da qui al tracollo dell'esperienza della sinistra rivoluzionaria, irreversibilmente consumatosi tra il 1972 e il 1976, il passo fu breve.

In quegli anni e in presenza di quella dinamica di conflittualità sociale, disegnare una via di uscita dai limiti della democrazia italiana fu virtualmente possibile. Così non fu in concreto. Interro-garsi sui perché appare tanto più oggi questione cruciale. Quando la classe politica (e il ceto intellettuale ad essa più organico), anni dopo, arrivò a porsi il problema della "democrazia compiuta", produsse quel vero e proprio aborto della "solidarietà nazionale". E la democrazia italiana si "compì", strozzando e paralizzando defini-tivamente il sistema democratico. Dalla storiografia e dalla politolo-gia ufficiali è stato sempre ripetutamente fatto osservare che l'autunno caldo fu soverchiamente, se non per intero, caratterizzato da veteroideologismi e da anacronismi politici. La rilevazione, indub-biamente, colse e coglie nel segno. Nondimeno, le cose non stan-no interamente così. Poche cose come l'autunno caldo furono nella transizione al capitalismo maturo: provare ad immaginare il primo senza o al di fuori della seconda è semplicemente e storicamente impossibile. L'autunno caldo fu tutto intero dentro la transizione italiana degli anni '60, di cui fu, per molti versi, il contrassegno più perspicuo. Ciò che, invece, fece urto – e duramente urto – con questa transizione fu il "governo politico" della società, il quale rivelò un basso profilo di progettazione e gestione politico-cultura-le. Cercare le ragioni fondanti di questo attrito e della bassa soglia culturale della classe politica italiana che ha gestito la tranzione al capitalismo maturo è uno degli obiettivi precipui di questo lavoro.

Sono stati fatti molti paragoni tra i cicli di lotta dell'operaio massa americano (prolungatisi dai primi anni del '900 fino a tutti gli anni '30) e quelli dell'operaio massa italiano, a cavallo degli anni '60 e '70. Fatti i relativi distinguo, si devono riconoscere alcune linee comuni, tra le quali la più importante sembra questa: l'irruzione sulla scena dell'azione politica e sociale di figure lavorative non specializzate, ideologicamente e culturalmente distanti, se non estranee, ai modelli e ai circuiti della rappresentanza politica e sindacale tradizionale. La critica di massa che questo soggetto esercitò contro l'organizzazione del lavoro, i modi di produzione e appropriazione della ricchezza e dei beni costituì la base potenziale di una ripoliticizzazione sociale dei fondamenti e delle prospettive della democrazia italiana. La massa critica delle domande depositate nell'azione di questo nuovo soggetto sociale venne prevalentemente liquidata, dal sistema politico-culturale dominante, come pervicace dimostrazione di antidemocraticismo. Fino a far illegittimamente assumere, anni dopo e ancor oggi, il biennio 1968-69 come "palestra del terrorismo". L'attualità della categoria e dell'esistenza dell'operaio massa impattò contro gli anacronismi della democrazia italiana, tenacemente indisposta ad una rimessa in discussione dei suoi meccanismi fondanti. Ben presto, la prodigiosa rapidità dell'innovazione tecnologica e delle ristrutturazioni produttive degli anni '70 rese inattuale l'operaio massa come categoria e come soggettività; ma non cancellò la radicalità delle sue istanze di democrazia radicale. Il fatto che I'operaio massa si spense, senza essere riuscito a sedimentare irreversibili linee di modificazione degli assetti economici, politici e sociali del paese, fece spirare forti venti di restaurazione e di conservazione nei decenni successivi. Per questo complesso di motivi, I'operaio massa ha segnato una soglia altissima, forse ineguagliata, nella storia delle lotte operaie e sociali e nella storia della democrazia in Italia. Nel contempo, ha delineato una tendenza non perfettamente riuscita e alla fine sconfitta di democratizzazione della società italiana. Il profilo irrisolto della sua storicità e della sua politicità sta proprio nel mancato dispiegamento delle finalità del potenziale democratico di cui pure fu portatore, caducato da contrafinalità interne e logorato e vinto dall'esterno da reazioni di rigetto e di repressione.

Cerchiamo di seguire più da vicino alcuni tratti somatici di que-sto nuovo soggetto sociale e i relativi sconvolgimenti apportati dal-la sua azione nel sistema degli equilibri sociali vigenti.

L'autunno caldo trovò nelle lotte operaie per il rinnovo contrat-tuale dei metalmeccanici del 1962 la sua base incubativa più organicamente strutturante. Uno degli effetti più vistosi delle lotte operaie furono i consistenti aumenti salariali strappati agli impren-ditori, sganciati dai livelli di produttività e debordanti i massimali delle declaratorie contrattuali. Le lotte per il salario, ben presto, divennero una delle variabili principali della conflittualità operaia: una sorta di centro motore della mobilitazione, dell'organizzazione e delle finalizzazioni operaie. Saltarono qui alcune delle principali regole, scritte e non scritte, della democrazia italiana: la sotto-missione ferrea del lavoro salariato al capitale e la priorità assoluta del profitto rispetto al salario. Capitale e profitto come "variabili indipendenti" del sistema economico e architrave dell'impalcatura della società italiana: ecco una delle determinazioni regolative del "miracolo economico" italiano. La dura disciplina di fabbrica e la vigorosa compressione salariale furono il duro prezzo che la classe operaia italiana pagò al rilancio dell'economia italiana nel dopo-guerra. Subordinazione del salario al profitto e sussunzione del la-voro vivo nel capitale finanziarono lo sviluppo del ciclo dell'accu- mulazione e ressero, quasi per intero, il peso degli "effetti perver-si" della dinamica democratica italiana. Le lotte salariali, principiate nel 1962, attorno all'autonomia del salario cercarono di disegnare un sistema di pesi e contrappesi nel segno di una maggiore equità sociale. Il che non poteva non impattare, piuttosto virulentemente, contro le strategie e i programmi imprenditoriali e la concezione restrittiva della democrazia propria della classe politica italiana. Dal fronte padronale si faceva lamentare la contrazione secca dei margini del profitto; da quello politico-istituzionale si lamentò lo spostamento della rappresentanza degli interessi fuori dalle sedi legittime, cercando, per questa via, di delegittimare il conflitto operaio. Gli imprenditori si lamentavano della messa in crisi dei meccanismi dell"'autofinanziamento capitalistico"; la classe politica si rammaricò del venir meno delle sorgenti tradizionali della legittimazione e della rappresentanza democratiche. Né i primi e tantomeno la seconda potevano concedere che tanto il sistema economico che quello politico erano fonti di palesi storture e ingiustizie sul piano dell'accesso ai beni, della redistribuzione della ricchezza e dell'esercizio dei diritti. Ciò già sul piano costituzionale (si pensi, per es., al combinato disposto dai primi 4 articoli della Costituzione). Gli anni '50 italiani sono stati un transito decisivo nella storia italiana contemporanea. Accanto a fenomeni di indubbia valenza positiva, v'è da registrarsi un processo di minimalizzazione e restringimento dell'area dei diritti costituzionali, ulteriormente accentuato nei decenni successivi; in particolare, a cavallo degli anni '70 e '80. Minimalizzazione che diventò la fonte storico-normativa di gravi discriminazioni sul piano dell'equità, della giustizia e della libertà. Basti ricordare il clima di "guerra fredda" e di "caccia alle slreghe" in cui si sviluppò la battaglia politica negli anni '50; il fenomento di massa dell'emigrazione e dell'immigrazione in tutti gli anni '50 e '60; il livello bassissimo dei salari operai a tutt gli anni '60 (all'ultimo posto dei paesi industrializzati). Questa linea costante di sgretolamento della democrazia dall'interno della democrazia possiamo classificarla come minimalismo costituzionale: il depotenziamento dei diritti costituzionali accentuò Ie vecchie contraddizioni del sistema socio-politico italiano e ne aprì di nuove. Aprì a dismisura la forbice tra reti di "cittadinanza forte" e aree di "citta-dinanza debole". Approfondì il divario Nord/Sud; fece assumere alla sproporzione tra produzione e consumi un andamento perverso, con un completo scollamento tra domanda e offerta di beni sul mercato interno; contribuì fortemente a far collocare l'Italia in una posizione internazionale subordinata agli interessi e alle strategie degli Usa. Giustappunto da una posizione di minimalismo costituzionale, il sistema politico e la classe polilica invariabilmente affrontarono e politicisticamente risolsero i temi e i problemi del conilitto sociale e dello sviluppo economico. Le prime declinazioni di questo modello di decisione e azione politica le troviamo scritte negli anni '50 e '60. Nella transizione che va dagli anni '60 ai '70 il processo pervenne alla sua totale deflagrazione; fino alle propaggini estreme ed estremistiche della "strategia della tensione" e dello stragismo. Gli anni '80, sulla base della piattaforma consolidata dagli anni '70, stretti tra quadro dell'emergenza permanente e dilatazione rovinosa della lotta armata, hanno costituito gli anni del minimalismo costituzionale allo stato puro. La costante posizione di minorità e subalternità in cui sono stati collocati in Italia molti dei diritti fondamentali costituisce uno dei più dolorosi motivi di spiegazione della perdurante incapacilà mostrata dalla democrazia italiana di far corretto e pieno uso di tutto il suo potenziale. Negli anni '60 e '70, nel menù dei diritti particolarmente penalizzati rientrarono soprattutto i diritti del conflitto operaio; nonostante e contro lo Statuto dei lavoratori.

3. Efficacia, senso e ironia delle lotte operaie

Il conflitto operaio mise apertamente in discussione i capisaldi della valorizzazione capitalistica (profitto come variabile indipen-dente) e l'intelaiatura della democrazia italiana, procedente attra-verso una progressiva restrizione dell'area dei diritti costituzionali. Fu conseguenzialmente assunto da parte imprenditoriale e politico- istituzionale quale turbativa dell'ordine e diseconomia interna al ciclo economico. lnsomma, il conflitto fu patito come attentato politico-economico permanente. Se da parte operaia la lotta salariale era azionata come contrappeso allo strapotere del profitto e come riproporzionamento della bilancia dei poteri dentro e fuori la fabbrica, da parte imprenditoriale veniva subíta e demonizzata come rigidità anticiclica, come controfinalità del processo di accumu-lazione. Se da parte operaia il conflitto veniva agito come leva di redistribuzione dei mezzi di produzione delle risorse della politica, da parte politico-istituzionale veniva ossessivamente introiettato come "variabile impazzita" del gioco democratico. Questo tipo di reazione provocò una effettiva rigidità nei comportamenti operai. Per dire meglio: la rigidità delle richieste operaie: più salario e più democrazia, non nacque a monte; ma si determinò a valle, incrociando le posizioni di netta chiusura delle istituzioni politiche, economiche e cullurali. Le lotte operaie degli anni '60, sfocianti nel biennio '68-69, erano originariamente connotate da un tasso di notevole elasticità. Anzi, furono tra le variabili più dinamiche della società italiana del tempo. Rigido era l'assetto esistente dei poteri. Rigida era l'architettura della democrazia italiana. Rigido era il funzionamento del ciclo economico. Rigidi e obsoleti erano i modelli culturali di riferimento. Le lotte operaie rappresentarono la salutare rimessa in questione di questo sistema sclerotico multiplo, per una rideterminazione del gioco democratico e dello stesso sviluppo economico. La carica di forte contestazione che accompagnò quelle lotte trovò in ciò un circuito supplementare di alimentazione. Entro questo contesto storico e politico, "la rigidità del salario" fu un'equa controrivendicazione conflittuale, tendente a garantire l'accesso ai beni, alle risorse e alla politica degli strati sociali inferiori, ingiustamente penalizzati fino ad allora. Entro questo contesto storico e politico, la "rigidità operaia" fu efficace critica di massa al minimalismo costituzionale. Così stando le cose, tutta la questione richiede una corrosiva rivisitazione. È solo l'enunciato linguistico che attribuisce comportamenti rigidi alle lotte operaie degli anni '60. Nell'effettualilà delle cose, esse costituirono uno degli aspetti peculiari della dinamica degli anni '60 e '70; così come, all'inverso, strategie e programmi del sistema politico-istituzionale e del ceto imprenditoriale ne costituirono la statica. La rigidità vera e propria stava qui: una dinamica sociale impattò contro una statica politica ed economica. Uno dei teoremi più fortunati all'interno della sinistra rivoluzionaria, di esplicita derivazione operaista, tentò di rendere giustizia proprio a questa dinamica sociale; per quanto non fosse esente da gravi limiti sul piano scientifico e quello storico. Il teorema, che ebbe nei "Quaderni rossi" il luogo di formazione originario e in "Potere operaio" la maggiore cassa di risonanza, assunse "Ie lotte operaie come motore dello sviluppo". È innegabile l'influsso esesercitato sul modello da elementi keynesiani; particolarmente, nella Iettura negriana del "New Deal" e dello "Stato-piano" capitalistico.

Se si mantiene la riflessione sul terreno dei "bilanci aziendali", effettivamente, non si può fare a meno di concludere che la "rigidi-tà operaia" ebbe esiti scardinanti rispetto alla valorizzazione capita-listica, la quale non trovò più nel lavoro vivo la determinante funzionale ottimale. Enfatizzare questo dato, però, non appare scientificamente corretto e storicamente congruo. Le lotte per il salario, sollecitando un diverso rapporto tra domanda e offerta, stimolavano la crescita della domanda interna di beni; effettivamente, da questo lato, fungevano quale "motore dello sviluppo". Al contrario, la cultura industrialista di stampo veteroliberale del ceto imprenditoriale italiano e del personale politico deputato alla direzione dell'economia leggevano una divergenza assoluta tra dinamica del ciclo salariale e dinamica del ciclo economico. Dall'altro lato, l'ermeneutica operaista accentuò soverchiamente il carattere di autonomia della conflittualità operaia; soprattutto nella versione teorica del Tronti di "Operai e capitale" e nell'elaborazione teorico-pratica di "Potere operaio". Siffatta accentuazione fu anche il prodotto di un'aporia teoretica: da un lato, le lotte operaie furono assunte come "volano dello sviluppo"; dall'altro, furono concettualizzate come il fattore della precipitazione soggettiva della crisi della valorizzazione capitalistica. Solo Panzieri, nel suo impianto teorico, non incorse in questa aporia. Le sue analisi sulle condizioni di appropriazione e riproduzione del plusvalore, sull'insubbordinazione operaia e sul "dispotismo di impresa" nel neocapitalismo non mancarono mai di tenere in grande considerazione i fattori di recupero e di pianificazione propri del capitalismo maturo. Tantomeno la lotta operaia e il ruolo d'avanguardia del partito furono da lui ricondotti a funzioni catartiche. È sin troppo noto che proprio sul terreno dell'analisi dei movimenti del capitale, sul terreno della prospettiva delle lotte operaie e sul retaggio leniniano entro la teoria rivoluzionaria dell'organizzazione operaia si consumò una rilevante frattura tra l'area panzieriana e quella trontiana-cacciariana-negriana, la quale si distaccò dai "Quaderni rossi", dando luogo all'esperienza di "Classe operaia". In questo secondo filone operaista elementi neokeynesiani convissero con forti elementi neoleninisti, finché, per rotture successive, si arrivò:

a) alla formazione di "Potere operaio", passando per la fase intermedia di "La Classe", per quanto attiene all'area prima definita negriana;

b) alla costituzione di "Contropiano", per quanto concerne l'area di Tronti, Cacciari, Asor Rosa, ecc. che, attraverso la teoria-prassi dell'"uso operaio" del partito (comunista), recuperò l'espe-rienza operaista alla tradizione della "sinistra comunista".

L'autonomia dei comportamenti operai dalla valorizzazione capitalistica, in realtà, era il portato di un'azione di compressione del profitto esercitata dal salario; con tutto quello che ne conseguiva sul piano politico. Di per sé, non era – e non poteva essere – il fattore soggettivo dell'innesco della deflagrazione capitalistica. La "riscossa operaia", principiata nel 1960, ricordò al ceto imprenditoriale e alla classe politica che lo sviluppo capitalistico imponeva costi e non solo ricavi agli stessi detentori dei mezzi di produzione e dei poteri pubblici. Non riconducendo il calcolo aziendale e il calcolo politico a tali costi, il mercato interno divenne asfittico e la democrazia corse gravi rischi. Il ciclo riformistico avviato e messo a punto col "New Deal" portò ad esemplare conseguenza tale consapevolezza. Ceto imprendiloriale italiano e classe politica si erano, invece, abituati a un modello di sviluppo a "costo zero". È sufficiente ricordare che per più di un decennio, nell'immediato dopoguerra, si assistette:

a) ad una "tregua salariale", formalmente contrattata tra movi- mento sindacale e imprenditori, in cambio della salvaguardia dei livelli occupazionali minacciati dai grandi processi di ristrut-turazione industriale in corso;

b) al blocco della "contrattazione aziendale" (pure garantita dall'accordo per la "Costituzione ed il funzionamento delle Commissioni interne", sottoscritto il 2 settembre 1943 durante i 40 giorni del governo Badoglio), col relativo privilegiamento delle strategie degli "accordi interconfederali" e dei negoziati centralizzati. Per farsi un'idea del logoramento interno che, a causa di ciò, investì le relazioni sindacali e lo stesso "mandato di legittimità" del sindacato, basta rammentare che per registrare i primi scioperi generali, dopo quello attuato nel 1948 in occasione dell'attentato a Togliatti, bisognò attendere il 14 novembre 1965 (sciopero generale per la casa).

L'autonomia del conflitto operaio si definì come critica di massa al modello di valorizzazione capilatistica e al contesto democratico che si erano venuti edificando nel dopoguerra: contro il "costo zero" della prima e il minimalismo del secondo. Riduzione del profitto e ampliamento del quadro democratico, per una sua radicale rifondazione, furono le due lame convergenti presenti nelle lotte operaie. Il che esprimeva, piuttosto impetuosamente, I'istanza di una profonda riarticolazione e redistribuzione dei poteri. La capacità di attrazione, di mobilitazione, di tenuta e di espressione delle lotte operaie, prolungatesi per oltre un decennio, affondava in questo sostrato profondo le sue storiche ragioni d'essere e la sua legittimità. La profondità di queste ragioni assicurò alle modalità di attuazione e comunicazione del conflitto operaio linee di netto discrimine rispetlo a forme di violenza estreme ed estremistiche. Fu quando queste ragioni vennero meno o, quanto meno, subirono una caduta di tensione, nella fase calante del ciclo, che la violenza marchiò il conflitto operaio, quasi a voler esorcizzare una sconfitta, ormai, avvertita nell'aria. La creatività degli atteggiamenti operai; la flessibilità inventiva nella scelta delle forme di lotta; la pratica felice della scelta di obiettivi egualitari; la circolarità a macchia d'olio della discussione e dei meccanismi di partecipazione e di decisione introdussero nella statica della società italiana una salutare e corroborante brezza mattutina che tutto mise a soqquadro, con una forte carica dissacratoria e una spiccata componente ludico-conflit-tuale. Le lotte operaie, dallo "statu nascendi" ai livelli apicali, seppero comunicare non soltanto esigenze e bisogni di profondo mutamento politico e sociale, ma anche e soprattutto un sentimento dell'appartenenza e uno spirito di allegria per quei tempi (e per quelli che vennero dopo) largamente desueti. Fu sul piano simbolico e comunicativo che esse seppero combattere e vincere le loro più grandi battaglie, sprigionando assieme alla carica sovversiva delle loro domande un profondo senso (e gusto) dell'ironia, il quale sbeffeggiò e ridicolizzò la tronfia, grigia compostezza del sistema dei poteri consolidati. Fu, questo, uno dei portati e dei patrimoni antropologici e culturali più importanti dell'operaio massa e dei suoi cicli di lotta. E, forse, uno dei tratti somatici di quel soggetto e di quell'esperienza meno indagato e più collocato in ombra: ieri e oggi. Le stesse Ietture a quel tempo fornite dalla sinistra rivoluzionaria rivelarono, anche su questo punto, limiti consistenti, inclinando generalmente verso un'interpretazione e un'assiomatizzazione politiciste di quel ciclo di lotte e dei suoi protagonisti sociali.

Le difficoltà maggiori del sistema dei poteri consolidati, non volendo dialogare col fondo delle verità storiche di cui il ciclo delle lotte operaie fu portatore, nacquero proprio dall'impossibilità di po-ter fornire un archetipo, un'immagine simbolica e comunicativa che valessero a recuperare al gioco istituzionale il nuovo patrimonio di senso che si andava capillarmente dislocando dalla fabbrica alla società. Da qui le costanti e insormontabili difficoltà in cui si dibatterono i governi di centrosinistra guidati in quel periodo da Moro. La loro incapacità congenita di aprirsi al nuovo non poté:

a) evitare una serie di sconfitte a catena nei confronti della lotta operaia;

b) I'ulteriore e definitivo processo di consunzione interna della piattaforma politico-programmatica su cui, anni prima, si era retta la formazione del centrosinistra.

Questo cominciò ad essere vero già ben prima del biennio '68- 69, nella fase 1963-67, in cui ai problemi economici si affiancò la ripresa montante delle lotte operaie. Tale fu il contesto in cui cadde il governo Moro nel 1964; non appare casuale e né secondario, se proprio in quel frangente si svilupparono "manovre presi-denziali" (di concerto col "Piano Solo", elaborato all'interno dell'Arma dei Carabinieri) tendenti a una "svolta autoritaria" nel paese. Il secondo gabinetto Moro, subito dopo formato, non si rivelò affatto risolutore di questi problemi, accentuò il suo "ruolo d'ordine", fino al punto che un ministro socialdemocratico si fece latore della proposta di un decreto antisciopero, per reprimere Ie lotte dei doganieri allora in corso; sulla quale proposta il governo rischiò la crisi. Nel 1965, il governo Moro si impegnò in un "braccio di ferro" con Ie lotte operaie sviluppatesi un pò ovunque nel paese, allo scopo di dare una "prova di fermezza" e per recuperare parte della credibililà perduta nei confronti della Confindustria, guidata dall'ol-tranzista Costa. Moro assicurò che il governo avrebbe saputo ''dire di no" alle richieste operaie. Come espressione di questa Iinea governaliva vennero:

a) denunciate, per aver esercitato il diritto di sciopero, 5000 persone tra operai (ferrovieri, neutturbini, ospedalieri, vigili urbani) e dirigenti sindacali;

b) consumate aggressioni sugli operai gasisti di Roma, Napoli, Firenze e sulgli operai sirma di Venezia da parte delle forze dell'ordine;

c) usati i finanzieri contro Ie lotte dei doganieri, in una funzione dichiaratamente antisciopero.

Con esempi di questo tipo si potrebbe a lungo continuare. La nota politica caratteristica che emerse fu questa: nonostante la mobilitazione di tutti i poteri in chiave d'ordine e in termini repres-sivi, il ciclo di lotta operaia non si arrestò; anzi, dilagò, sconfiggen-do apertamente Ie strategie governative e padronali. Sempre nel 1965, emblematico fu il destino che incontrò la proposta del governo Moro di tagliare Ie spese per la previdenza che provocò la mobilitazione unitaria degli operai al fianco dei pensionati, sug-gellata da uno sciopero generale. Miglior sorte non toccò al III gabinetto Moro del 1966; Ie pressioni incalzanti di Costa verso il governo restarono senza efficace riscontro politico, nel mentre il fronte imprenditoriale cominciò a dare segni di divisione interna. I propositi governativi di "congelamento della spesa pubblica" e di disciplinamento restrittivo dell'esercizio del diritto di sciopero furono ampiamente aggirati e sconfitti dalla lotta operaia. Non valsero né a bloccare le rivendicazioni salariali e né ad arrestare l'ondata degli scioperi e delle lotte. Tutte le richieste di tregua rimasero senza coerente effetto politico. La totale assenza di proposte di mediazione da parte politico istituzionale e imprenditoriale trovò una surroga nell'inasprimento degli strumenti repressivi e nell'uso massiccio delle forze dell'ordine in funzione antioperaia e antimo-bilitazione. Questo fu particolarmente lo scenario sociale già nel 1966. Nel marzo di quell'anno, i 50 mila lavoratori delle piccole e medie imprese della Confapi riuscirono a strappare un accordo che prevedeva aumenti salariali consistenti e un ampliamento dei diritti e dei poteri degli operai. L'accordo divenne subito un esempio positivo da imitare, per tutti i lavoratori dell'industria; un esempio negativo da scongiurare, per tutti gli imprenditori. Torino, Milano e Genova furono attraversate da un'intensa ondata di scioperi. L'intervento delle forze dell'ordine in funzione antioperaia davanti ai cancelli delle fabbriche e nel corso delle dimostrazioni e manife-stazioni operaie fu massiccio e rilevante. La marea della lotta operaia, tuttavia, non accennò a diminuire e si allargò a tutto il paese, estendendosi anche ai braccianti della Puglia, della Calabria e della Sicilia. Finchè il 15 novembre l'Intersind firmò l'accordo Confapi, seguita poco dopo dalla stessa recalcitrante Confindustria. La linea governativa e imprenditoriale di "blocco salariale" e "blocco della contrattazione" subì un cocente smacco. Sull'onda di questo processo, nel giugno del 1968, il governo Moro, incapace di contenere la pressione operaia e indisponibile al dialogo con essa, fu sostituito da uno dei classici "governi balneari" guidati dall'onorevole Leone. In quel periodo, ad Avola la polizia sparò contro i braccianti in lotta, uccidendone due. Poco dopo questo luttuoso e tragico evento, Rumor rilevò Leone alla direzione del governo. Nel dicembre del 1968, I'Intersind firmò I'accordo che eliminò la vergogna delle "gabbie salariali", sulla scorta anche di una pressione esercitata dallo stesso esecutivo. Nel 1968 furono conquistati intorno ai 3.900 accordi; nel 1969, circa 3.400. Tutto questo nonostante nel 1969 le principali categoria dell'industria fossero già impegnate nel rinnovo del contratto nazionale di categoria. In tutto il corso degli anni '50 la massa salariale era cresciuta assai meno della massa del profitto. Le lotte operaie degli anni '60 invertirono tale tendenza. Ecco in sintesi la parabola della massa salariale degli anni '60, con il relativo aumento delle aliquote assegnate al (per meglio dire: conquistate dal) lavoro dipendente:

- 1961

60%

- 1963

65%

- 1965

60%

- 1970

64%

- 1971

69%

Il 1969 si aprì sempre all'insegna della mobilitazione e della lotta degli operai. Ma i primi mesi dell'anno furono funestati da un altro più tragico e luttuoso evento: nel mese di aprile, a Battipaglia le forze dell'ordine spararono ancora contro una manifestazione di lavoratori e studenti, provocando un eccidio. L'anno si chiuse nel segno di una violenza ancora più dirompente: il 12 dicembre fu perpetrata la strage della Banca Nazionale delI'Agricoltura di Milano. Niente meglio di queste cifre e di questi fatti nudi e crudi può testimoniare la valenza creativa e trasformativa della mobilitazione e della lotta degli operai italiani e, nel contempo, Ie cupe reazioni da parte istituzionale e imprenditoriale. Se violenza in quegli anni si vuole ricercare, essa non sta dalla parte degli operai in lotta, ma nel dispositivo dell'intervento politico-istituzionale, con punte di particolare crudezza in alcuni apparati dello Stato e settori della borghesia industriale. Le lotte operaie degli anni '60 furono lotte conflittuali – aspramente conflittuali – e non già lotte violente. Violento fu il confronto che con esse ingaggiarono sistema politico, Stato e classe imprenditoriale.

 

 

 

 

4.

Quadro politico, ciclo economico e lotte per il salario: la precoce morte del riformismo

Eppure l'encefalogramma del sistema politico negli anni '60 non fu completamente piatto. Agli inizi del decennio, in fase di impostazione della piattarorma negoziale del centrosinistra, in particolare il Psi si fece latore di una proposta di riforma dell'istruzione e del sistema pensionistico, nonché di una strategia di programmazione dell'economia italiana, atta a recuperare il paese allo standard delle società più industrializzate. Le speranze del centrosinistra si incentrarono tutte su queste prospettive, Ie quali aprirono nella società civile e politica forti attese e grandi aspettative. Che i terreni individuati fossero di rilevanza assoluta lo dimostrarono proprio gli anni successivi: su di essi si enucleò parte non irrelevante della mobilitazione e della lotta dei lavoratori. La proposta di riorganizzazione sistemica della politica, delle istituzioni e della società, attraverso il centrosinistra, contenne in sé dinamiche e problematiche di apertura che, però, vennero quasi immediatamen- te abbandonate. Anni dopo, nella fase ascendente della conflittua-lità sociale, molte di quelle problematiche vissero nelle lotte, diventando tema dell'organizzazione e del conflitto operaio. Col che si registrò un non infrequente processo di inversione storica. La soggettualità del sistema dei partiti finì col subire una massa tematica e un campo di conflitti che pure aveva originariamente messo in trama, seppure parzialmente; furono altri attori sociali e altri soggetti politici che si appropriarono di quella trama e la agitarono di contro agli originari elaboratori. Ciò indicò una subitanea ritrazione in sé della società politica: il ripiegamento in se stesso del centrosinistra, dopo la sin troppo fulminea stagione delle speranze, stron-cata dalla recessione del 1963-64 e della bassa soglia riformatrice della compagine governativa. Codesta inversione storica rese trau-matico lo scarto tra istituzioni e movimenti, tra ordine politico e conflittualità sociale, tra lotte operaie e democrazia reale. Gli impegni che il centro sinistra si era dato e che non era stato capace di mantenere, assottigliando sempre di più il suo raggio di azione e la sua capacità di dialogo con la socielà, ritornarono sulla scena dell'azione politica, dall'esterno e contro le formule di governo. ll rimosso politico ritornò in campo per merito delle lotte operaie e, proprio in qualilà di rimosso, rappresentò per il sistema dei partiti I'intollerato e l'intollerabile, il perturbato e il perturbante: I'altrimen-ti non metabolizzato e non metabolizzabile della democrazia italiana. Ciò che il sistema politico non era riuscito ad assimilare e digerire in termini di allargamento della base democratica del consenso e di ripoliticizzazione democratica della società, espulso dalla porta principale, rientrò dalla finestra aperta dalle lotte operaie in tutti gli anni '60 e nei primi anni '70. Turbò, per questa ragione in più, il sonno della classe politica e agitò oltremisura le sue ossessioni, restituendole, sotto forma di incubo, ciò che pure era stato originariamente suo. Il mito di Edipo che torna, per inverare la maledizione che incombe in capo al padre, alla madre e al figlio è l'archetipo di questa situazione politico-esistenziale del potere e della resi-stenza al potere. E, come quello di Edipo, tragico fu lo stesso destino dei cicli delle lotte operaie degli anni '60 e inizio '70: "ucci-sero" il padre (i vecchi modelli della cultura e dell'azione polilica e sindacale) e giacquero con la "madre" (la democrazia), sterili e in-capaci di consegnare eredi Iegittimi a una nuova generazione del tempo, della storia e della democrazia.

Col primo centrosinistra morì in Italia il riformismo, durato il classico "spazio di un mattino". E col riformismo morì l'innovazio- ne politica: a partire dal 1964, Ie forme di governo tornarono a in-cardinarsi univocamente sulle politiche dell'ordine consumando trasformisticamente il residuo "slancio vitale" interno alla coalizio-ne di centrosinistra. Come abbiamo appena finito di vedere, i gabi-netti di centrosinistra guidati dal 1964 al 1968 da Moro si caratte-rizzarono come "governi d'ordine" e di "scontro frontale" con le richiesle legittime inoltrate dalle lotte operaie, nella presunzione che questo strumentario valesse a domarle o, perlomeno, a fiaccar-le. La capacità del conflitto operaio di sconfiggere Ie strategie governative e imprenditoriali nel 1966 e nel 1968-69 dimostrò, sul campo, I'inadeguatezza della pura e semplice risposta repressiva. Classe politica, istituzioni e imprenditori avvertirono tale debolezza e, da qui, passarono alla elaborazione di strategie più flessibili e articolate, non imperniate esclusivamente sull'intervento repressivo, ma contemplanti elastici strumenti di controllo sociale e regolazione normativa. Accanto al dispositivo della repressione si svilupparono poliliche di controllo sociale, in un dosaggio più sapiente e dislocante della presenza istituzionale sul territorio e nel "socia-le". L'impatto istituzionale contro il conllitto operaio si articolò secondo due determinazioni principali:

a) la neutralizzazione normativa, a mezzo di una apposita Iegislazione sociale;

b) la repressione pura e semplice.

Le istituzioni politiche si collocarono tra:

a) conquiste strappate dalla lotta operaia e sociale;

b) recupero di sovranità e Iegittimità dello status quo. Lo Statuto dei lavoratori del maggio 1970, con tutto il dibattito che lo precedette e lo accompagnò (praticamenle coevo ai mesi caldi del 1969), fu il primo rilevante banco di prova di questi nuovi orienta- menti. Esso fu e resta una eccezionale vittoria delle lotte operaie e della democrazia in Italia; ma, nel contempo, rappresentò anche l'inveramento di uno schema procedimentale attraverso cui il sistema politico tentò di recuperare e regolare normativamente il conflitto di classe. Il sistema politico, non rinunciando al suo minimalismo costituzionale, tentò qui un modello di costituzionaliz- zazione minima del conflitto, ammettendo a denti stretti che esso, in una società avanzata e democratica, era da intendersi come un dato "fisiologico" e non già "patologico". Fu, così, che i poteri, in Italia, principiarono a modernizzarsi: non rinunciarono mai alla leva della repressione; ma iniziarono a dotarsi di schemi e di moduli di intervento normativo in funzione di controllo sociale: dentro e fuori la fabbrica; dentro e fuori il ciclo economico; dentro e fuori i pro-cessi produttivi. In questo senso, effettivamente, le lotte operaie precedevano e determinavano la tipologia dello "sviluppo del capi-tale", come sostenuto dal teorema principale di "Classe operaia" e di Tronti ("Operai e capitale") in particolare. La doppia lama repres-sione/controllo sociale fu particolarmente in opera lungo tutti gli anni '70, durante i quali:

a) le politiche sociali per il controllo furono di assoluto rilievo, per quantità e qualità;

b) dal 1974-75, furono varate la legislazione, la giurisprudenza e la politica dell'emergenza; tacendo dell'ondata repressiva del 1969-73, di fronte a una formidabile fase di lotta operaia.

Fu proprio la doppia lama dell'intervento delle politiche istituzionali a sconfiggere, alla fine degli anni '70, i cicli delle lotte sociali. Dove non arrivò e non poté la repressione, arrivarono e poterono la destrutturazione, la smobilitazione e il recupero normativo delle politiche di controllo sociale. Fu contro questa doppia lama che i cicli delle lotte sociali, nell'esperienza italiana, mancarono di fare il necessario salto di qualilà. La strategia flessibile e complessa delle politiche di controllo sociale, di per sé (per definizione: saremmo tentati di dire), depotenziò e disarticolò dall'interno una dinamica di mobilitazione che si era andata sempre più univocamente precisando per differenza negativa, configurandosi unicamente come contrasto del ciclo repressivo. Cosichè la lama della presenza sociale delle politiche istituzionali rimase inattaccata e inconfutata e aggredì senza incontrare apprezzabili resistenze, affondando i suoi colpi come nel burro. Il carattere sovraordinatorio del quadro politico italiano ne sortì vieppiù rafforzato, fino a tentare di eternizzarsi come dato immodificabile. Anche così vanno spiegati il minimalismo costituzionale allo stato puro e la proliferazione degli ordigni emergenziali degli anni '80.

Il primo centrosinistra fu anch'esso il sintomo del passaggio in atto da società arretrata a società avanzata. Classe politica e sistema politico avvertirono, seppur confusamente, il disagio e gli anacronismi che vennero alla luce in quel passaggio. Ne tentarono la risoluzione, avviandosi all'esperienza del centrosinistra, il cui quadro programmatico contenne, agli inizi, ipotesi e prospettive di riforme politiche e sociali, le quali suscitarono anche violente resistenze e controtendenze entro lo schieramento moderato-con- servatore e nel mondo imprenditoriale. Per quanto miranti all'inno-vazione politica del sistema e alla razionalizzazione dell'economia del paese, le ipotesi e le prospettive riformiste (particolarmente elaborate dal Psi e dal Pri), omisero di confrontarsi con il nucleo duro del modello di accumulazione e dell'ordinamento politico su cui si era fondata la repubblica italiana. Esse, pertanto, rimasero senza presa effettiva e duratura, non riuscendo a radicare e dispiegare la loro forza e il loro potere. ll modello dell'accumulazione ita-liana restò inalterato: fondato più sullo sfruttamento intensivo della forza-lavoro che sulla razionalizzazione produttiva, richiedente inve-stimenti in capitale fisso, capaci di stimolare una crescente e diffusa innovazione tecnologica. ll quadro del "governo politico" rimase ancorato alle teorie e alle pratiche dello "sviluppo senza conflitto" che avevano caratterizzato gli anni '50, riducendo la democrazia a una forma di governo qualificata come assenza del conflitto. Eppure furono proprio questi i valori teorico-pratici e politico-istituzionali che la transizione al capilalismo maturo stava più pesantemente mettendo in questione. Società e complesso delle trasformazioni sociali, culturali e materiali in atto si rivelarono progressivamente più avanzati in confronto alla situazione complessiva e particolare in cui versavano il sistema politico e la classe polilica. Ma più che di "maturità precoce" della società italiana deve parlarsi di un permanente vizio di senescenza del sistema politico e della classe politica italiana. I segni degli sconvolgimenti in corso erano sin troppo palesi: trasformazioni radicali nel modo di produrre; modifiche di rilievo del ciclo produttivo e del processo lavorativo; nuova composizione sociale della forza-lavoro e nuova composizione politica della classe operaia; rideterminazione di tutti i processi della stratificazione sociale e della mobilitazione collettiva; per limitarsi soltanto ad alcune delle evidenze più macroscopiche. L'accumulazione italiana, per lungo tempo, collocò in secondo piano gli investimenti in capitale fisso e l'innovazione tecnologica; conservò ancora negli anni '60 il "metodo Bedaux", variante spuria del taylorismo, introdotto in Italia dal fascismo e strutturato interamente come contenimento massimo delle spinte salariali. Il sistema politico e la classe politica continuarono a inserire una dinamica disgiuntiva tra consenso e conflitto. Da un lato, il sistema industriale rimase troppo rigidamente ancorato all'organizzazione del lavoro classica; nel mentre altri paesi industrializzati pervenivano ad ipotesi ed esperienze di superamento della catena di montaggio. Dall'altro, il sistema politico incardinò l'ipotesi riformista sulla rettificazione degli effetti disfunzionali del modello di sviluppo italiano, anzichè metterne in discussione alcuni presupposti fondanti. In tal modo, non si riuscì a delinearne di nuovi più democraticamente connotati.

La crisi di un modello di sviluppo pensato e costruito nei termini della decontaminazione autoritaria del conflitto operaio e del contenimento costante del salario reale non poteva non avere come suo effetto immediato la centralità delle lotte operaie. La crisi del modello ne caducò i presupposti: sviluppo senza conflitto e ciclo a bassi salari. Furono queste le determinazioni più colpite dalle lotte operaie. Le molle fondamentali del modello della democrazia italiana e dello sviluppo industriale si rivelarono i punti critici maggiori degli equilibri politici, economici e sociali consolidati negli anni '50 e difesi nei '60. Da qui il carattere di estrema politicità delle lotte operaie, completamente svincolate dalle ermeneutiche delle tradizioni tradunionista e leninista; come l'operaismo teorico e pratico ebbe l'indubbio merito di rilevare ereticamente. Su questo sfondo, i bersagli politici principali delle lotte operaie furono la cultura politica e la cultura industriale dominanti. La stessa produzione in serie basata sulla catena di montaggio sprigionò effetti boomerang, delle vere e proprie controfinalità, contro i detentori dei mezzi di produzione e dei poteri. Il modello di sfruttamento massivo e intensivo della forza-lavoro e degli impianti rese centrale la figura dell'operaio dequalificato, senza abililà tecniche particolari, parcellizato e frammentato per tutto intero il ciclo lavorativo. L'intercambiabililà, la rotazione, la polivalenza e la ripetitività delle mansioni hanno fatto giustamente definire questa nuova figura: operaio massa; il quale costituì il tallone d'Achille della serialità della catena di montaggio. L'operaio massa presentava un basso livello di scolarizzazione, di sindacalizzazione e di professionalità; sovente, era immigrato meridionale, completamenle sprovvisto di esperienza lavorativa industriale. Questo nuovo soggetto, per lo più in età giovanile, pativa particolarmente Ie politiche di contenimento salariale, la rigida disciplina di fabbrica e l'autoritarismo circolante nella società. La centralità del salario e la centralità della democrazia in fabbrica e nella società furono, quasi spontaneamente, il fulcro della sua mobilitazione e della sua azione. A sua volta, la centralità del salario e della democrazia sostanziò la rivendicazione, per quei tempi veramente incredibile, di aumenti eguali per tutti. Il che rese ancora più agevoli una generalizzazione dei conflitti e un'offensiva contro l'organizzazione del lavoro. Centralità del salario, in parlicolare, significò minorità del profitto, i cui congegni avevano articolato un vero e proprio sistema di depredazione sociale, minimizzante il costo del lavoro e massimizzante il valore aggiunto a favore delle imprese. Non appena la curva di schiacciamento dei salari venne apertamente e aspramente contestata dalle lotte operaie, uno degli assi nevralgici del modello di sviluppo industriale e della democrazia italiana vacillò paurosamente. Sviluppo economico e regime democratico furono aggrediti in uno dei loro "punti critici" interni più delicati. La tenuta e la stabilità del quadro politico e del ciclo economico vennero messe alla frusta, facendo impennare le spinte conflittuali verso il loro massimale storico. Attorno alle tematiche salariali si accorparono altri motivi e temi di conflitto: la riduzione dell'orario di lavoro; il rifiuto della disciplina aziendale; la critica dei modelli esistenti di rappresentanza sindacale e politica; la lotta per il risanamento dell'ambiente di lavoro e contro la nocività. Tutto questo incredibile e colossale edificio si resse sulle spalle dell'operaio massa.

Nel 1963, per la prima volta nell'ltalia repubblicana, le lotte operaie conquistarono aumenti salariali nettamenle superiori agli incrementi dei tassi di produttività del lavoro registrati nell'indu- stria, andando a intaccare i processi di estrazione e realizzazione del plusvalore. Con una curva dei salari in ascesa e una curva dei profitti in caduta la società italiana conobbe la crisi congiunturale del 1963-64. Alla "stretta repressiva" nei confronti del montare delle lotte operaie si affiancò la "stretta creditizia". L'uso anticon-giunturale e recessivo della leva monetaria provocò la contrazione secca degli investimenti e, per questa via, la caduta dei livelli occu-pazionali. Le prospettive riformistiche, su cui si era insediata la coalizione di centrosinistra, precipitarono, venendo completamente meno. La risposta governativa e imprenditoriale fu una delle più classiche e collaudate strategie anticrisi, da vero e proprio manuale di politica economica di stampo neoclassico. I livelli occupazionali crollarono paurosamente, contrastando efficacemente Ie spinte salariali. La manovra deflattiva inaugurata nel 1963 ebbe un raggio di azione temporale abbastanza lungo. Qualche tempo dopo, nel solo anno 1965 ben 140 mila operai dell'industria furono espulsi dall'attività produttiva e il saldo attivo del flusso migratorio si assestò sulle 90 mila unità. Si dovette aspettare il 1969-70 per vedere nuovamente la curva dei salari sopravanzare quella dei profitti. Con la risposta deflattiva del 1963-64 il ciclo riformistico italiano celebrò la sua crisi e la sua morte precoce, mettendo subitaneamente da parte l'iniziale tentativo di applicazione di schemi di derivazione keynesiana alle Ieggi di regolazione della domanda e dell'offerta. Il rifiuto del modello keynesiano configurò, in termini di principio e di fatto, il rifiuto opposto alla democratizzazione del capitalismo ilaliano. Solo negli anni '70 Keynes venne riscoperto. E tuttavia le politiche del Welfare ilaliano rimasero largamente condizionate da logiche gruppuscolari privatistiche e internamente vulnerate, soprattutto nel Meridione, da fenomeni di clientelismo e trasformismo politico. Malgrado Keynes, il capitalismo italiano non si assestò su soglie di elevata democraticità. Su queste basi storiche, veniva tolto letteralmente il terreno sotto i piedi a tutti i progetti che tendevano a "riformare il capitalismo democratico"; dopo che negli anni '60 si era tolto l'ossigeno dai polmoni della programmazione.

5.

Politiche di piano e autonomia operaia: Raniero Panzieri tra i flutti dell'operaismo

ll ciclo delle lotte operaie innestatosi nel 1960 condusse impietosamente al pettine i nodi viziosi delle politiche riformiste e, con essi, gli assai profondi limiti democratici della società italiana. Ciò che fino ad allora era stato accuratamente celato, passò trasparentemente in mostra. Le politiche di programmazione non furono in grado di sopportare e tollerare I'onda d'urto dei cicli delle lotte contrattuali del 1962-63 e del 1966. Nell'immediato, questi cicli costituirono una sorta di limite invalicabile per la filosofia e la logica della programmazione, costringendo il sistema politico ad un ricorso esagerato alle politiche e agli strumenti della repressione. Solo dopo il '68 degli studenti e degli operai e nell'imminenza dell'autunno caldo del '69 riemersero strategie e strumenti di pianificazione attorno al famoso "Progetto '80". La famosa "Nota aggiuntiva" del 1962 di U. La Malfa, pur lucidamente consapevole delle strozzature dell'economia italiana e della società politica e dei relativi meccanismi di rappresentanza, da un lato, rimase vanificata al suo interno, per effetto della logica dei due tempi: prima l'espansione economica e dopo Ie rirorme politiche; dall'altro, formulò una rigida "politica dei redditi", versione tecnocratica e più aggiornata delle tradizionali strategie di contenimento secco delle spinte salariali. Questi due lati negativi della strategia lamalfiana schiacciarono e regolarono in basso la curva della domanda, concorrendo a conservare gli elementi di rachiticità dell'economia italiana; riallineata, sì, alle grandi potenze economiche, ma in posizione di particolare vulnerabilità (si pensi, per es., alla dipendenza dalla domanda di beni e merci dai mercati esteri) e con grandi scompensi e squilibri interni (si pensi, p. es., all'accresciuto divario Nord/Sud). Ciò fece in modo che Ie strutture organizzative e gestionali che pilotarono la transizione italiana al capitalismo maturo non fossero completamenle all'altezza del compito.

La "riscossa operaia" ebbe l'indubbio merito non solo di rilevare il corto respiro delle "politiche di piano" del centrosinistra; ma anche quello di demistificarne il collegato aspetto autoritario, precipitato simbiotico del carattere apertamente disumanizzante assunto dal ciclo lavorativo e dalle relazioni industriali. Ne risultava, fuori e dentro la fabbrica, una cresente mortificazione dei processi di partecipazione democratica. Alcune linee di rivendicazione presenti nelle lotte operaie assunsero come bersaglio questo sistema articolato di veti, funzionante come un vero "rullo compressore" della democrazia. La richiesta di aumenti salariali eguali per tutti e l'"inquadramento unico" operai/impiegati (fino ad allora contrapposti in schemi contrattuali i rescissi) costituirono tra le più incisive linee di attacco al sistema delle discriminazioni vigenti. Nella stessa direzione mossero le richieste della diminuzione dell'orario di lavoro, la salvaguardia e l'incremento dei livelli occupazionali. La dinamica delle lotte contrattuali che precedettero il biennio '68-'69 può essere espressa dalla seguente tabella riassuntiva:

Anno

Nr. Contratti rinnovati

Lavoratori

interessati

Ore di sciopero

1963

56

5.456.650

134.340.000

1964

41

2.006.600

266.836.000

1965

25

1.442.500

89.244.000

1966

45

5.322.000

389.469.800

1967

65

3.124.300

186.613.800

Queste scarne cifre sono fin troppo eloquenti. Esse riassumono la dirompenza qualitativa e quantitativa delle lotte operaie che prepararono l’ulteriore esplosione del 1968-69. E questa fu anche la cornice entro cui si articolarono la posizione e l'analisi critica di Raniero Panzieri.

La critica al movimento operaio, e in particolare, al Psi e al Pci, di cui Panzieri si rese protagonista, pur largamente fondata e motivata, diede luogo a due semplificazioni:

a) l’assimilazione del riformismo socialista al riformismo del movimento operaio nel suo insieme;

b) l’omolagazione della programmazione al socialismo, nella versione revisionista della II Internazionale.

Questo punto limite della posizione di Panzieri fu, in qualche modo, dettato dalla necessità di scongiurare la "gestione riformi-sta" delle lotte operaie; sottrarre alla "pianificazione capitalistica" la "pianificazione delle lotte"; inquadrare con un nuovo strumenta-rio scientifico e analitico il rapporto tra "piano capitalistico" e "lotte operaie nello sviluppo capitalistico". Piazza Statuto e, più ancora, le lotte contrattuali del 1963 rappresentarono, per Panzieri, uno spartiacque storico e politico di decisiva importanza. Fu proprio a partire da queste sollecitazioni storiche e politiche che Panzieri si avviò a formulare la sua particolare teoria del "punto di vista operaio". Nella formulazione di cui si discostò, ad un tempo, dalla tradizione teorica del movimento operaio e del socialismo (ita-liano ed europeo) e dalle teorizzazioni cui pervennero, sullo stesso punto, altri filoni dell'operaismo, già all'interno dell'esperienza di "Quaderni rossi". Per Panzieri, il "punto di vista operaio doveva esprimere:

a) autonomia dal capitale e non coincideva con I'immediatezza e l'autonomia delle lotte operaie;

b) offensiva e analisi di attacco di contro al modo di produzione capitalislico e alle sue forme storiche di organizzazione e sviluppo.

Le lotte operaie, pur sottraendosi alla "gestione riformista", non garantivano, di per se stesse, I'elaborazione e la traduzione di questa necessaria strategia di attacco. Per Panzieri, la teoria e la prassi della rivoluzione operaia nel neocapitalismo non erano linearmente date dall'accumulo incrementale delle lotte operaie, per il motivo base che, per lui, la rivoluzione non andava più a dipendere dallo sviluppo delle forze produttive. Per Panzieri, il punto alto dello sviluppo delle forze produttive del capitale non si ribaltava automa-ticamente nell'autonomia dei comportamenti operai contro le stra-tegie di piano del capitale. Anzi, faceva osservare, nel neocapitalismo Ie forze produttive non soltanto erano plasmate dai rapporti di produzione, ma vi si trovavano direttamente implicate dentro. D'altro canto, continuava, proprio i nuovi livelli e la nuova qualità della lotta operaia incarnavano la critica pratica, definitiva e irrever-sibile, della teoria Ieniniana e leninista dell'organizzazione. Ne con-seguiva molto stringentemente che:

a) la leoria dell'organizzazione rivoluzionaria non era da assumere come inferenza più o meno diretta del punto di massimo svi-luppo del capitale;

b) la teoria dell'organizzazione rivoluzionaria non costituiva il portato lineare e teleologico delle lotte operaie;

c) Ie funzioni di organizzazione non potevano essere abbassate al rango di tattiche di antlcipazione e accelerazione della autonomia (strategica) delle lotte operaie.

Si trovavano già qui Ie linee portanti della critica di Panzieri alle posizioni sviluppate da Mario Tronti. Le differenziazioni e gli sco-stamenti teorico-politici risultano lampanti ove si proceda a un'ana-lisi parallela dei seguenli testi panzieriani e trontiani:

1) Raniero Panzieri:

a) Sull'uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in "Quaderni rossi", n. 1/1961;

b) Piano capitalistico e classe operaia, Editoriale di "Quaderni rossi", n. 3/1963;

c) Plusvalore e pianificazione, in "Quaderni rossi", n. 4/1964;

2) Mario Tronti:

a) ll piano del capitale, in "Quaderni rossi", n.3/1963;

b) Lenin in inghilterra, in "Classe Operaia", n.1/1964;

c) Marx, forza-lavoro, classe operaia, in "Operai e capitale".

Ma seguiamo meglio il discorso di Panzieri.

Autonomia delle lotte non significa ancora, in lui, autonomia politica della classe. La prima si oppone al comando capitalistico nella fabbrica e nella società; la seconda ha bisogno di un piano di rappresentazione politica che si confronti criticamenle e strategica- mente con lo Stato e il sistema politico-istituzionale dominante. Autonomia operaia non è, per Panzieri, esaltazione pura e semplice del "bisogno operaio"; bensì coniugazione politica dei bisogni operai. Il "punto di vista operaio", secondo lui, significa, rappresenta ed esprime l'autonomia solo sul piano politico; che non è e non può essere immediatamente il piano delle lotte. Anzi, è proprio il piano delle lotte che è direttamente impattato dalle strategie di recupero e adattamento del "piano del capitale". La questione non è, pertanto, riducibile alla mera "organizzazione delle lotte"; bensì richiama l'urgenza di un trascendimento.

Tra piano politico e piano delle lotte si dà uno scarto che, sostiene Panzieri, solo la teoria politica della rivoluzione e dell'or-ganizzazione rivoluzionaria e le corrispettive strategie e prassi possono colmare produttivamente. Da qui un "bisogno di teoria" che è anche "bisogno di strategia". Teoria e strategia non implicabili direttamente dai cicli di lotta operaia; ma, anzi, proprio da essi richiesti. Nello schema teorico panzieriano, l'autonomia operaia è una domanda politica che sale proprio dalle lotte operaie. Da qui una ermeneutica che non riduce le problematiche delle lotte operaie a pure e semplici "domande di organizzazione"; ma le correla dialetticamente a tematiche cruciali di teoria e prassi politica. Gli schemi dell'ermeneutica panzieriana costituiscono una critica corrosiva:

Secondo l'approccio di Panzieri, se la teoria e la prassi della rivoluzione restano tutte da scrivere e da sperimentare dentro una processualità storica, è necessario che la classe operaia si faccia soggetto politico autonomo e culturalmente al di là (e al di sopra) dell'autonomia delle lotte. L'autonomia operaia, in questa posizio-ne, sta dove la classe si fa soggetto della rivoluzione e, a tal fine, approssima e percorre un tracciato che si esprime e rappresenta politicamente e simbolicamente al di fuori e contro lo scambio capitale/lavoro vivo. Con tutta evidenza, siffatto tracciato non è risolvibile nel pur interessante schema di analisi elaborato da Tronti intorno al "doppio carattere" del lavoro vivo quale forza-lavoro e classe operaia. Il punto, seguendo Panzieri, è proprio dato dall'esi-genza di forzare strategicamente e politicamente i comportamenti operai, per accedere alla soglia nuova e discontinua della soggetti-vità. Le lotte autonome della classe operaia, dunque, reclamano una ricomposizione politica. Soltanto a questo livello, per Panzieri, si dà Ia ricomposizione di classe; soltanto a questo livello, quindi, la classe operaia può sperimentare la teoria e la pratica della rivoluzione.

Autonomia operaia è, pertanto, esperienza della classe che si fa soggetto politico della sua liberazione e vive la rivoluzione come sua liberazione totale dalle catene del ''dispotismo del capitale". Ed e a queslo livello che, secondo Panzieri, il "punto di vista operaio" ricompone nella stessa frontiera le funzioni intellettuali con le funzioni del sapere; le funzioni politiche con Ie funzioni della liberazione; Ie funzioni dell'organizzazione con Ie funzioni della rivoluzione. Qui la politicità estrema di Panzieri e il suo discorso anticonvenzionale sul potere e per il potere. Autonomia politica, potere politico e liberazione, in lui, si incastrano indissolubilmente. Il potere politico è l'istanza primaria, il problema dei problemi, per l'autonomia operaia; così come la teoria/prassi della liberazione è l'istanza primaria e l'orizzonte incomprimibile del potere operaio. Il che non può ricondurre Panzieri ad una riscrittura rovesciata dell'ordine delle priorità nel rapporto rivendicazione/potere, in cui il secondo afferma, sì, il suo primato; ma non rimuove mai la portata e il carico delle problematiche di liberazione implicati dalla prima. È lo stesso neocapitalismo, fa notare Panzieri, che ha invertito tale rapporto, per un doppio ordine di motivazioni:

a) di alcuni portati nella teoria marxiana della transizione al comunismo, laddove collegano la "rottura rivoluzionaria" allo sviluppo lineare delle forze produttive del capitale;

b) di alcuni postulati analitici e di teoria dell'organizzazione formulati da Lenin (e delle tradizioni che a lui si sono richiamate nel corso del tempo) sul presunto carattere anarchico della produ-zione capitalislica; sulla antinomia tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell'appropriazione; sulla necessità dell'intervento esterno dell'organizzazione rivoluzionaria per il recupero e il rilancio delle lotte spontanee di massa;

c) della teoria e prassi gramsciana dell'intellettuale organico e del partito come "novello Principe";

d) del modello socialdemocratico (tedesco) postulante il socialismo come allargamento lineare e democratico del capitalismo;

e) dell'elaborazione operaista coeva di Tronti e "Classe operaia" che non individua Ie linee di discontinuità tra piano delle lotte e piano politico dell'autonomia della classe operaia, esaltando strategicamente il primo e abbassando a contingenza tattica il secondo.

Per lui, il "piano" e Ie ''politiche di piano" costituiscono la risposta capitalistica alla crisi politica del capitale, e nel contempo, all'autonomia dei comportamenti della classe operaia. Soggettività e razionalità del capitale si vanno ridefinendo; motivo in più per procedere alla riarticolazione della soggettività di classe per il "potere operaio e la "liberazione dal capitale". È in alto, osserva Panzieri, che avviene il livello di ricomposizione del capitale; alto deve essere il livello di ricomposizione della classe operaia. Si tratta di due fenomenologie che procedono in parallelo e che si contrappongono interstizialmente. La capillarità e la complessità di queste nuove strategie e tattiche della lotta di classe nel neocapita- lismo mettono definitivamente fuori gioco la parzialità della condizione dell'operaio di mestiere. Ma, ora, il carattere generale delle lotte dell'operaio massa pone la classe operaia di fronte "al meccanismo capitalistico nel suo complesso", facendo divenire problema di attualità la "questione del potere", la "questione della soggettività". Sostiene Panzieri: quando il rapporto di capitale si fa direttamente "composizione sociale", il "concetto empirico" di fab-brica salta. L'autoregolazione della composizione sociale del capita-le socializza la fabbrica che, così, diviene "concetto scientifico", proprio come già appare nei momenti alti dell'elaborazione marxia-na. "Capitale sociale" e "pianificazione" diventano, dunque, i nuovi rivali che l'autonomia operaia deve essere capace di battere. Da qui una triplice necessità:

a) rigorizzare scientificamente il concetto di "autonomia operaia";

b) socializzare il discorso della/e sulla "autonomia operaia";

c) apprestare scientificamente una teoria e una prassi sulla lotta di classe e sul "potere operaio" nelle condizioni del neocapitalismo.

Stante questa piattaforma problematica, il limite invalicabile della "autoregolazione capitalistica" è dato dalla ricomposizione della classe come soggetto politico. È a questa altezza, osserva Panzieri, che le ''politiche di piano" possono essere effettivamente e durevolmente battute dall'autonomia operaia. Al di sotto di questo livello, il "piano" del "capitale sociale" finisce, nel medio-lungo periodo, col recuperare i comportamenti conflittuali della classe operaia, ristabilendo la sua sovranità politica ed economica sopra di essi. Allora, e ancora più decisamente: se il "punto di vista operaio" è incapace di intenzionare questo sfondamento politico, lo sviluppo delle forze produttive del capitale è la forma disvelata dell'incorporazione massiva del lavoro vivo entro il capitale ad una soglia mai verificatasi per il passato.

Per Panzieri, la dinamica del "capitale sociale" indica la flessibilità dell'incedere del rapporto capitalistico, capace non solo di razionalizzare e "complessificare" il ciclo, ma anche di destrutturare i comportamenti operai, recuperandone la parzialità. La dinamica del neocapitalismo, osserva Panzieri, cerca costantemente di convertire la qualità delle lotte operaie in quantità economico-politiche da stabilzzare e compatibilizzare. Le "politiche di piano" hanno, in questo senso, I'obiettivo precipuo di occludere alla classe operaia il passaggio da comportamento a soggettività autonoma, da autonomia a potere per la liberazione dal capitale. Allora, di per se stessi, gli aumenti salariali non valgono come destabilizzazione dei rapporti di produzione capitalistici; anzi, possono essere finalizzati alla loro espansione e razionalizzazione Tanto più che il dispositivo plusvalore/pianificazione, facendo aggio sull'automazione e la ristrutturazione delle tecnologie del lavoro sociale e dell'organizzazione del lavoro, approfondisce e dilata socialmente i processi di estrazione e appropriazione del plusvalore relativo, con il corrispettivo intensificarsi del saggio di sfruttamento del lavoro vivo e del saggio medio del profitto. Composizione sociale del capitale è qui crescita contemporanea della massa e del saggio del plusvalore, con relativa costituzione dei margini di profitto e della ripresa economica e politica del capitalismo. Composizione tecnica e organica del capitale, entro questo processo, tendono a stabilizzare e ripristinare la loro sovranità sulla composizione tecnica e politica della classe operaia. Uscire dalla presa di questa tenaglia, afferma Panzieri, deve voler dire inverare la ricomposizione politica della classe che, pur partendo dalle lotte, si situa ad un piano politico di autonomia soggettiva che trascende Ie forme di espressione e comunicazione dei comportamenti conflittuali operai. Qui lo specifico panzieriano. Qui la sua irriducibilità agli schemi elaborati da tutti gli altri tronconi dell'operaismo. La riproduzione funzionale del capitale sociale ha come posta in gioco la territorializzazione e la sublimazione della "sussunzione reale" del lavoro entro il capitale. Questo lato della previsione marxiana si mantiene sorprendentemente vivo. Su di esso Panzieri innesta il discorso della necessità della riproduzione funzionale della rappresentazione e comunicazione dell'autonomia operaia: vale a dire, I'esigenza storico-politica del salto della classe operaia fuori della sussunzione del capitale e fuori dai dispositivi di controllo dello Stato borghese. Con ciò Panzieri disegna i fuochi di una nuova sistematica teorica e di una nuova problematica politica: il salto dell'autonomia operaia fuori dal punto di massimo sviluppo delle forze produttive del capitale e il costituirsi, nel corso del salto, dell'autonomia operaia come soggetto politico per il "potere operaio" della liberazione dal capilale. Nell'analisi di Panzieri, senza questo salto e le sue implicazioni socio-politiche il contrattacco capitalistico avrebbe domato e incapsulato l'autonomia operaia. Ecco perché, per lui, i tempi dell'organizzazione soggettiva della classe operaia non possono che essere medio-lunghi. Tutto il suo discorso sull'organizzazione rivoluzionaria operaia si sdoppia in due determinazioni:

a) la "condizione minoritaria";

b) il terreno vero e proprio dell’organizzazione rivoluzionaria perfettamente compiuta.

Nelle condizioni storico-sociali e politiche dell'inizio degli anni '60, per Panzieri, si tratta esattamente di organizzare i tempi e i modi della transizione dalla "condizione minoritaria" alla organizzazione rivoluzionaria, in un processo tutto interno alla costituzione politica della soggettività della classe operaia. Quella di Tronti e di "Classe operaia" gli sembra una scorciatoia avviata in un vicolo cieco. Due i problemi strategici sommamente avvertiti da Panzieri:

a) elaborare "una impostazione politica totale";

b) ritradurre politicamente "le posizioni positive" di volta in volta affermate dal processo delle lotte operaie.

Per lui, la liberazione politica del lavoro salariato e dalla società intera è molto di più della organiizzazionedci "bisogni operai" espressi sul piano delle rivendicazioni economiche; i "bisogni di potere" e i "bisogni di liberazione" non possono trovare un lerreno di soddisfazione sul terreno economico. Tra "bisogni economici" e "bisogni politici" di liberazione si istituisce una dialettica politica e sociale. La teoria dell'organizzazione rivoluzionaria, osserva Panzieri, deve osservare questa dialettica. Ecco perché, in lui, teoria dell'organizzazione e teoria della crisi politica del capitale sono due facce dello stesso problema. Ecco perché, in lui, "potere operaio" non è più semplice rovesciamento e semplice rottura della linea di sviluppo descritta dalle forze produttive capitalistiche, ormai compiutamente annesse e incorporate dalla composizione sociale del capilale. Nel neocapitalismo, sostiene Panzieri, rapporti di produzione e forze produttive costituiscono un unico e articolato ordigno: impensabile ritenere di poter ribaltare Ie forze produttive del capitale contro i rapporti di produzione capitalistici, "liberando" le prime dai secondi. Lo stesso scenario politico-istituzionale risulta profondamente modificato, per effetto delle rilevanti integrazioni intervenute tra i poteri politici e quelli economici, a partire dalle forme dell'intervento statuale. Tutto questo, rileva Panzieri, fa in modo che la necessità "del carattere poliltico dell'azione operaia", ben lungi dall’attenuarsi, si vada vieppiù "rafforzando". L'estra-neità operaia ai processi di valorizzazione capitalistica non è, dunque, di per sé, condizione sufficiente della strategia rivoluzionaria. Di fronte al processo di totalizzazione sociale dei rapporti di capitale e alle forme altamente integrate dei poteri politico-economici, la pura e semplice strategia del "rifiuto del lavoro", osserva Panzieri, rivela la sua bassa soglia teorico-pratica; arma spuntata al cospetto del ridefinirsi del "piano sociale" del capitale e delle politiche di intervento dello Stato nel ciclo e nell'ordito sociale. "Composizione sociale" del capitale, "politiche di piano" e integrazione dei poteri, afferma Panzieri, rappresentano l'inveramento della democrazia del capitale; una forma particolare della democrazia borghese al suo più allo livello di sviluppo, capace di "dialogare" col conflitto operaio per fagocitarlo e sussumerlo.

Poniamo qui termine all'excursus sulla posizione di Panzieri. Per intanto, abbiamo voluto semplicemente mettere in luce come il discorso di Panzieri, di tutto il firmamento dell'operaismo teorico degli anni '60, sia stato quello che ha meglio retto all'usura del tempo. Una critica dei limiti del discorso di Panzieri va più pertinentemente inqquadrata all’interno della confutazione degli universali dell’operaismo teorico italiano.

6. Il '68 operaio: l'impronta e i chiaroscuri

Col '68 operaio, cominciato nel 1960 e finito nel 1969, iniziò un'"altra storia" nella vita sociale e culturale del paese. Le lotte operaie, più ancora delle lotte studentesche del 1967-68, incentivarono processi i cui effetti di "lunga durata" modificarono per sempre la società italiana. Per quanto si sia ossessivamente applicata, la classe politica italiana (sotto tutte le latitudini) non è mai riuscita a liquidare e a sradicare del tutto quegli effetti. È stato possibile rimuoverli, questo sì.

Se restaurazione e conservatorismo, pur dilaganti in tutti gli anni '70 e '80, non sono mai riusciti a desertificare del tutto il panorama italiano, questo lo si deve proprio alle sedimentazioni stratificate in profondità del '68 operaio, la cui discontinuità culturale non ha cessato di dimorare, seppur flebilmente, nella struttura etico-politica della società italiana. Il '68 operaio ha inserito una linea di frattura inestirpabile nella ciclicità dei corsi e dei ricorsi storici della storia politica e civile italiana, dalla fase post-unitaria a quella repubblicana. I poli dell'ordine, della reazione, del conservatorismo, del trasformismo e del clientelismo sono stati gli assi immutanti di questa storia. È contro tale invarianza conservativa che il '68 operaio duramente impattò. Più di un ventennio di guerre ideologiche, di bombardamenti semantici e di manipolazioni storico-culturali non è stato sufficiente a sradicare dalla democrazia italiana la critica del '68 operaio alla democrazia italiana. Nemmeno la disavventura terribile della lotta armata e l'uso ideologico-simbo-lico che ne è stato fatto hanno consentito di cancellare il '68 operaio.

L'ondata lunga del '68 operaio, con le sue non compromissorie domande di democrazia e di libertà, ha resistito, continuando ad emettere messaggi, segni, suoni. Ecco perche è stato ed è supremamente intollerato e intollerabile per la quasi totalità della classe politica italiana; è stato ed è totalmente indigesto per il mandarinato intellettuale italiano. La reazione politica, culturale e sociale che questi ambiti hanno indirizzalo verso il '68 operaio fu e rimane virulenta, capillare e prolungata. Cionostante il tanto agognato Eden della pacificazione coatta non è stato edificato. Il fuoco ha sempre covato sotto le ceneri.

Numerose e variegate sono state le controriforme che si sono succedute in Italia negli anni '70 e '80. Unica la linea d'azione: neutralizzare l'acceso di massa alla politica, alla democrazia e alla decisione politica. Unico I'obiettivo strategico: conservare l'aspetto elitistico della democrazia italiana. È per questo che lo scandalo operaio conserva ancora tutta la sua bruciante attualità, al di là dei molti e decisivi limiti che l'hanno solcato. Tutta la politica italiana si è sordamente animata come contromossa rispetto al '68 operaio. Il progetto stesso della lotta armata ha compreso tra i suoi obiettivi primari la resa dei conti alle sue istanze di democrazia radicale, di discussione pubblica e democratica; alla sua idea di organizzazione partecipata e non delegata. La lotta armata ha rappresentato se stessa come controtendenza di valicamento del '68 operaio. Da qui il ritorno alla teoria e prassi dell'organizzazione combattente, al "centralismo democratico" belligerante, alla clan-destinizzazione della decisione politica. L'élite armata si è posta in un rapporto di alterità di comando nei confronti del '68 e dei movimenti più significativi che dal suo ventre erano sortiti. Dal 1973-75 in avanti, gli stessi gruppi della sinistra rivoluzionaria germinati dal e col '68 operaio hanno posto la conservazione e riproduzione di se stessi come contromossa rispetto al '68. Il ceto politico dirigente della sinistra rivoluzionaria, secondo modelli e stilemi culturali diversificati, si pensò e insediò come élite rivoluzio-naria, avocante a sé e per sé la titolarità della decisione politica e il diritto/dovere della progettazione politica antagonista.

Il potenziale di democrazia, di autodeterminazione e di parteci-pazione del '68 operaio è stato frontalmente denegato, nel caso della lotta armata; deviato ed evirato, nel caso dei gruppi della sini-stra rivoluzionaria. Le teorie eliliste della democrazia hanno debor-dato il sistema politico-culturale ufficiale, prolungandosi e interio-rizzandosi nell'attore che ha funzionato come contestatore armato e nell'attore che ha operato come contestatore rivoluzionario. Il tradizionalismo culturale e il conservatorismo politico hanno impe-rato, con moduli strategicamente differenziati, in tutte Ie sfere e sotto tutte le latitudini, penalizzando proprio la risultante forte del '68 operaio: il movimento politico di massa. Movimento politico di massa ha significato socializzazione della politica. Ha significato ingresso delle masse sulla scena della politica. Ha significato "pre-sa di parola" per la formulazione e I'elaborazione di un nuovo linguaggio della politica, ben dentro il processo di formazione e risoluzione delle problematiche della politica e della vita quotidiana. Più che politicizzarsi la società, si e socializzata la politica. Strati sociali, aree di società, soggetti sociali, singoli individui e persone, uomini e donne hanno fatto ingresso in nuove forme e in nuovi linguaggi della poliltca. Da qui effetti liberatori a cascata: la socializzazione della politica ha dappertutto funzionato come democratizzazione integrale della società e degli ambiti di vita.

A quei tempi, la socializzazione della politica era sconosciuta alla democrazia italiana, tutta foderata e rinserrata nella privatizza-zione delle risorse e dei poteri pubblici. Il movimento politico di massa è stato il primo esempio di socializzazione della politica che la storia post-unitaria ha conosciuto, se si fa eccezione della resistenza al nazifascismo; che, peraltro, costituì un modello più arcaico di socializzazione politica. L'ltalia del "miracolo economico" e del centrosinislra era un sistema che, più che sulla socializzazione, si reggeva sulla privatizzazione della politica. In quanto portatore e titolare della socializzazione della politica, il '68 operaio fu vero soggetto maturo della transizione alla società avanzata, di contro all'arcaicità della società politica del sistema politico.

Il dispositivo politico terribile contro cui il '68 operaio elevò la sua critica furono le forme articolate della democrazia elilista, i disegni universalistici di statalizzazione della società, le concezioni elitarie della rivoluzione nelle loro innumerevoli tradizioni e traduzioni. Col '68 operaio, I'ideale classico della democrazia diretta –dalla polis greca a Rousseau – ritornò ad occupare la scena della politica e del conflitto sociale. In un documento del 4 giugno del 1969 del Comitato Unitario di Base della Pirelli ("la lotta continua") significativamente si sosteneva: "Democrazia vuol dire: informazione, discussione e dibattito di tutti su problemi comuni, e decidere la lotta, e scegliere tempi e metodi di lotta solo dopo questa discussione comune. Ma se la democrazia non è diretta, non è democrazia. Democrazia diretta vuol dire che tutti noi, diret-tamente e responsabilmente ci interessiamo dei nostri problemi e del modo di risolverli".

L'evocazione del modello della democrazia diretta fu un tramite per la coniugazione di forme di rappresentanza e di potere direttamente in mano agli operai. La prospettiva era politicamente chiara: "potere decisionale agli operai". La forma svelata della democrazia diretta non poteva qui che essere una e soltanto una: potere operaio. La rappresentanza politica democratica diretta conferiva legittimità e legittimazione a questo potere. All'inverso, delegittimava il potere padronale e ogni forma di potere delegato. In particolare, il potere padronale era ritenuto privo di fondazione democratica, unicamente ancorato su se stesso e sulla propria autolegittimazione.

Certo, la democrazia diretta rivendicata e sostenuta dagli operai in lotta (unitamente all'ideologia autogestionaria che le era sottesa), costituì e costituisce una risposta debole e difensiva di fronte alla crescita e alla integrazione di poteri politici ed economici; di fronte allo sviluppo complesso assunto dalle forme della società borghese-capitalistica. Tuttavia, essa contribuì non poco a puntare diritto il dito nella piaga: la fabbrica capitalistica era ed è un Iuogo extraterritoriale in cui la democrazia era ed è interdetta. La fonte del potere padronale – comunicò il '68 operaio – non è nella democrazia; ma direttamente nel (suo) potere. Qui la ragione di fondo che faceva e fa arrestare la democrazia davanti ai cancelli delle fabbriche. Un potere legittimo – comunicò il '68 operaio – deve avere fonti democratiche; altrimenti è illegittimo e, in quanto tale, va sottoposto a critica e rimpiazzato.

Nel capitalismo maturo, l'ideale della democrazia diretta si rivelò e si rivela utopia a bassa soglia e prospettiva politica indeclinabile, per l'elementarità, l'acomplessità e la selettività riduttiva delle sue domande e delle sue risposte. Tanto più il problema politico coestensivo del potere operaio risultò e risulta non edificabile. Nondimeno, deficit della democrazia diretta e ristrettezza del pote-re operaio valsero a sviluppare un discorso – tuttora pregnante – sulla legittimità e sulla democraticità delle fonti dei poteri, nella fabbrica e nella società. Discorso che fu ed è anche fissazione di un orizzonte autoriflessivo per le forme politiche, nel senso della loro autorettificazione e della rimessa in questione del loro statuto e delle loro prassi. Questo discorso minava e mina le basi dei poteri antidemocratici: la loro fonte di (il)legittimazione. La posta in gioco diventò e diventa la democratizzazione e lo sviluppo democratico delle fonti dei poteri. In un paese come l'Italia, con una recente e breve storia democratica, il punto costituiva e costituisce una questione cruciale e delicata. Gli equilibri sociali e politici consolidati furono investiti da questa onda d'urto. Il repertorio delle risposte fornite dai poteri delimitò progressivamente un campionario estremamente articolato: dalla "strategia della tensione" allo "stra-gismo"; dalle politiche dell'ordine al gigantismo repressivo; dalle politiche flessibili di controllo sociale al contenimento e recupero istituzionale del conflitto. La forte carica conflittuale e di radicamento delle lotte e il carattere non univoco delle risposte dei poteri bloccò, in origine, la soluzione dittatoriale, sulla falsariga di quanto era accaduto in Italia col fascismo e in Germania con la crisi della Repubblica di Weimar. Tuttavia, a differenza della Francia del 1871 e degli USA degli anni '30, i cicli sociali del conflitto operaio non valsero a rifondare la democrazia, né furono in grado di potenziarla, oltre i limiti ritenuti compatibili dall'assetto preesistente dei poteri. Ciò fu ed e indicativo sia dei limiti interni del repertorio del conflitto operaio e del suo sistema di finalizzazione; sia della pesante ipoteca elitista gravante sulle politiche statuali e istituzionali. Il conflitto operaio non riuscì a sfondare il blocco della democrazia elitista italiana; I'ipoteca elistica originaria riscrisse e ammodernò lo statuto della democrazia bloccata. Ne conseguì, in ogni caso, un mutamento di scenario non indifferente.

La circolazione delle istanze democratiche fu messa sotto controllo da un modello di democrazia elitista che, confermando i suoi blocchi, imparò a dialogare coi cicli del conflitto, per destrut-turarne la carica contestativa interiore. La "sfida simbolica" e politi-ca lanciata ai poteri dal '68 operaio fu parzialmente raccolta; a loro volta, i poteri sfidarono il '68 operaio, innovandosi e trasformando-si, per sopportare razionalmente il carico del conflitto e sperimentare nuove strategie di istituzionalizzazione e integrazione sociale. lmpattando il '68 operaio, la democrazia elitista italiana fu costret-ta a compiere, tortuosamente e non senza contraddizioni, un "salto di complessità" grazie al quale, alla lunga, ebbe ragione del '68 operaio, sterilizzando molte delle sue conquiste più dirompenti e sottoponendo a rimozione le fratture storiche e culturali introdotte. ll potere vale anche come mezzo di comunicazione; così come l'in-dirizzo sistemico-funzionalista – da Parsons a Luhmann – ci ha insegnato. ll potere della democrazia elitista italiana, nel post-Ses-santotto, ha cercato furiosamente di comunicare l'estinzione storica e la senescenza simbolica del conflitto. Su questa base, ha procedimentalizzato e territorializzato le sue agenzie di controllo e le sue strategie di recupero/neutralizzazione, lungo tutta quanta la trama dei rapporti e delle relazioni sociali. Democrazia diretta e potere operaio avevano e hanno, al riguardo, una più bassa soglia di codificazione comunicativa. Ma, soprattutto, erano e sono facil-mente sfaldabili e aggirabili dai processi di complessità istituzionale/amministrativa in atto e dai livelli di assiomatizzazione decentrata e capillare della decisione politica. Sulla spinta dell'ondata d'urto del '68 operaio e dei cicli di lotta che ad esso hanno fatto seguito, negli anni '70, la democrazia elitista italiana ridisegnò Ietteralmente le sue strutture portanti e rielaborò i suoi codici di funzionamento e di rappresentazione. Da questa postazione lanciò – essa – una ''sfida simbolica" ai movimenti sociali; sfida rimasta, a tutt'oggi, non raccolta.

Con tutta evidenza, il campo delle contromosse vincenti al '68 operaio non può essere circoscritto alla metamorfosi che interessò la fenomenologia dell'azione politica. Gli anni '70 si aprirono all'insegna della rivoluzione informatico-elettronica dei processi produttivi, la quale abrogò la base storico-materiale della microconflittualità permanente e diffusa dell'operaio massa, disidratando Ie riserve della sua potenza politica. Lo stravolgimento della composizione tecnica e politica della classe operaia fece franare le basi teoretiche del potere operaio. L'estinzione dell'operaio massa vulnerò e cortocicuitò dall'interno il discorso del/e sul potere operaio. La problematica del potere antagonista Iegittimato da fonti democratico-egualitarie si popolò di una incognita rimasta a tutt'oggi insoluta. Le piste teoretiche e pratiche da allora esperite si spensero mestamente e, qualche volta, tragicamente in un vicolo cieco.

Tutto ciò che con l'operaio massa appariva semplice e chiaro, con la sua scomparsa diventò complicato e oscuro. ll salto di contemporaneità che la sua presenza e le sue lotte avevano guadagnato alla teoria e prassi della democrazia e della rivoluzione nel capitalismo maturo, all'improvviso, si smarrì, ripiegando dentro e dietro scorciatoie e semplificazioni, lungo un movimento direzionale assai frastagliato e vario. La soggettualità rivoluzionaria fu incapace di immaginare il dopo e l'oltre dell'operaio massa, proprio nel mentre le ristrutturazioni capitalistiche lo stavano estirpando e cancellando dalle fabbriche e dal rapporto interattivo fabbrica-società. Essa rispose alla crisi storica dell'operaio massa o eternizzandone simulatoriamente la sopravvivenza, oppure regredendo a concettualizzazioni e a prassi che proprio le lotte dell'operaio massa avevano contribuito a riporre definitivamente nel cassetto. Le stesse teorizzazioni intorno all"'operaio sociale", pur avendo il merito di prendere atto della crisi dell'operaio massa, non riuscirono ad affrancarsi del tutto dall'operaismo come modello teorico, come paradigma culturale e come modalilà politica. La crisi dell'operaio massa fu il punto di innesco che veicolò all'interno della soggettualità rivoluzionaria e della soggettività critica la crisi delle macroetiche e delle macrosoggettualità della rivoluzione codi-ficale dalle ermeneutiche della tradizione. Con la scomparsa dell'operaio massa la rivoluzione perdeva finalmente figure centrali, fondanti e fondazionali: poteva, con ciò, finalmente e definitivamente purgarsi dalle sue stigmate prometeiche. Così non fu e non è. l soggetti rivoluzionari e il ceto politico rivoluzionario tardarono fatalmente a consapevolizzarsi della possibilità di questa opera di affrancamento culturale ed emancipazione simbolica. In vaste aree di movimento ed aggregazione politica la rivoluzione assunse la forma mitico-tragica di Prometeo incatenato. In aperta dissociazio-ne da questa figura mitopoietica sacrale si coagularono e frantumarono un'idea e un percorso puntiformi e interstiziali della rivoluzione, secondo gli orizzonti dell'esperienza esperibile, mettendo in scena movenze liberatorie sotto forma di Narciso resuscitato.

Si trattava e si tratta, invece, di disincatenare Prometeo, libe-randolo dalla sindrome di titanismo che lo corrodeva e corrode dall'interno; purtroppo, gli si scagliò contro Narciso. Si trattava e si tratta, invece, di riconquistare la bellezza di Narciso, distraendola dallo specchio e dal rito autodissolutorio del consumo di sé; pur-troppo, gli si montò contro Prometeo. Massimalismo rivoluzionario e minimalismo rivoluzionario, di nuovo e come già a principiare dal-l'Ottocento, tornarono esizialmente ad occupare la scena, vestendo per l'occasione abiti nuovi e sgargianti. La rivoluzione fu codificata come figura mitica grandiosa; oppure, specularmente, come mito della liberazione della quotidianità. Fu ridotta a narrazione ideologico-fabulatoria, da una parte; dall'altra, fu compressa nei micro-miti della diffusività e orizzontalità delle istanze rivoluzionarie. Ad un polo, fu appiattita alle teoriche della tradizione rivoluzionaria, lungo tutto quanto il loro spettro espressivo. Dall'altro polo, si consegnò all'immanenza fabulatoria del quotidiano alternativo. Non fu ripensata, ricodificata, attualizzata e riproblematizzata radicalmente. Col XX secolo e Ie trasformazioni a tutti i livelli inaugurate dal secondo dopoguerra, l'epoca classica delle rivoluzioni, a partire dalla "gloriosa rivoluzione" inglese del 1688, si era definitivamente chiusa. L'epoca nuova esigeva rivoluzioni nuove, esperienze rivoluzionarie nuove, culture rivoluzionarie nuove. Richiedeva una profonda rimessa in discussione della trama concettuale, delle basi analiliche, delle reti progettuali, delle mappe di senso della figura/concetto classica di rivoluzione.

L'esperienza poliedrica e liberatoria dell'operaio massa, pur con tutti i suoi limiti datati, imponeva un profondo ripensamento del nesso democrazia/rivoluzione, rivisitando criticamente e dall'inter-no tutta l'esperienza rivoluzionaria del XVII, XVIII, XIX e XX secolo. Fu proprio il posizionamento del nesso problematico democrazia/rivoluzione l'interrogativo più denso e inquietante inoltrato dal '68 operaio. lnterrogativo che lo stesso '68 operaio lasciò senza risposta, come campo di ricerca aperto e che i successivi movimenti di lotta smarrirono in parte, se non del tutto in qualche caso. La questione democrazia/rivoluzione restò, da allora, appesa. Ciò condannò il progetto rivoluzionario a rimanere al di qua della democrazia, dalla quale fu sconfitto; e la democrazia a corrodersi e autolimitarsi al di qua della trasformazione rivoluzionaria.

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