CAP. VI

NODI ED EREDITÀ DEI MOVIMENTI DEL ‘68

 

 

 

1. QUADRI STORICI, DOMANDE SOCIALI E ARENA POLITICA

 

1.1. Formazione e contesto dei cicli di lotta

Nella situazione storica italiana degli anni ‘60 e ‘70, la colonizzazione politica della società, le trasformazioni del processo di governo e l’emergenza hanno ingabbiato costantemente la società civile; ma non sono mai riuscite a infeudarla integralmente. Linee di resistenza, fenomeni e processi di alterità alla situazione politico-culturale prevalente e dominante trovano modo di manifestarsi persino nel terribile periodo della "repressione silenziosa" degli anni '50. Tutto il "movimento delle riviste" degli anni '50, pur con enormi limiti e anacronismi politico-culturali, è una preziosa traccia di questi sedimenti conflittuali sotterranei. Senza questo fermento sotterraneo difficilmente, con tutte le discontinuità pur registrate, avremmo avuto l'esplosione culturale delle riviste dei primi anni '60 e quella ancora più dirompente del 1967 .

Col movimento del "luglio 1960"e con la mobilitazione di Piazza Statuto del 1962 questo sottosuolo a lungo compresso trova le prime significative forme di espressione. Possiamo, difatti, datare alle manifestazioni popolari di Genova, Roma, Reggio Emilia e altre città contro il governo Tambroni (appoggiato dal Msi e ispirato dal presidente della repubblica G. Gronchi) e alla rivolta degli operai torinesi contro la firma dell'accordo separato da parte della Uilm la formazione di un ciclo di protesta che va assumendo sempre più un carattere collettivo e che si estende per più di un decennio e mezzo. In questo ciclo collettivo di lunga durata e vario nelle sue modalità di espressione si formano e declinano i movimenti del '68. Possiamo, infine, assumere tale ciclo di protesta, sin dal suo atto sorgivo, come la resistenza aperta (prima) e l'aperta ribellione (dopo) della società civile contro la società politica.

Stando così le cose, dobbiamo immediatamente rilevare che incubazione e nascita del ciclo di protesta in questione accompagnano incubazione e nascita del centrosinistra. Le risposte del sistema politico e dei movimenti ai problemi della società italiana degli anni '60 si originano in parallelo. Certamente, si condizionano e interferiscono tra di loro. Però, evidenza storica e prudenza teorica impediscono di stipulare un nesso di causa/effetto tra crisi del centrosinistra e insorgenza dei movimenti collettivi. La crisi del cen-trosinistra non è la causa prima della crisi italiana esplosa negli anni '70 e nemmeno la ragione fondamentale della rottura dell'argine del controllo istituzionale operata dai movimenti collettivi. Altrimenti ragionando, da un lato, si finirebbe col far gravare sul centrosinistra assai più delle responsabilità storiche e politiche che gli competono, ignorando del tutto quei pochi elementi positivi che, pure, l'hanno contraddistinto; dall'altro, si ridurrebbero notevolmente il significato originale, il portato di autonomia e di identità, la carica di grande trasformazione culturale e sociale di cui i movimenti collettivi sono stati depositari in tutti gli anni '60 e '70.

Fin dall'inizio, la crisi del sistema politico e l'insorgenza dei movimenti collettivi sono due dei nodi di scorrimento principali del-l'evoluzione del caso italiano. Siffatta assunzione ci fa uscire dagli schemi lineari delle teoriche del "blocco politico", della sociologia del mutamento e di molti filoni della sociologia dei movimenti, tanto divergenti nel "metodo" quanto convergenti nel "merito". Tali schemi, pur convincenti e utili sotto una molteplicità di aspetti, semplificano indebitamente una situazione che nella realtà sociale e nella trama teorico-politica è ben più complessa. Concepire i movimenti collettivi come mero effetto di risposta alla crisi del sistema politico o, all'opposto, come base causale della crisi del sistema politico e, ancora, come componente indotta delle logiche dello sviluppo (e del sottosviluppo) significa deprivare sia la dinamica dello sviluppo che il sistema politico e i movimenti collettivi del loro grado di relativa autonomia. Inoltre, così ragionando, si strappano imperiosamente a sistema politico e movimenti collettivi il ruolo e le funzioni di "attore" e di codeterminanti sistemiche dell'ordine e del disordine politico che, pure, essi hanno e che sempre esercitano, con fortuna, modalità e incisività che variano nel corso del tempo.

1.2. Movimenti, sviluppo, conflitto

Con l'inizio degli anni '60, l'azione collettiva dei movimenti emerge come nuovo soggetto sociale in tutta l'area capitalistica avanzata e nella stessa "area socialista" (vedi la "rivoluzione culturale" in Cina, le lotte studentesche e operaie a Varsavia e in Cecoslovacchia); nello stesso periodo, si segnala l'emergenza di intensi cicli conflittuali in tutta l'area dei paesi dipendenti . Negli anni '60, nel caso dei paesi capitalistici avanzati, sono falsificate le teorie dell'estinzione del conflitto sociale, incardinate sul postulato modernizzazione=integrazione; nel caso dei paesi dipendenti, le lotte di liberazione e i movimenti antimperialistici fanno saltare in aria la fede superstiziosa nel passaggio lineare e indolore dall'arretratezza alla modernità. L'irruzione sulla scena di grandi movimenti sociali ha prodotto come effetto assolutamente non secondario la crisi dei patterns culturali ed epistemici entro cui l'azione collettiva era stata classicamente contestualizzata, spiegata e qualche volta esorcizzata. La crisi non risparmia soprattutto:

a) la posizione marxiana;

b) la posizione funzionalista.

Vediamole separatamente.

Come è noto, secondo Marx, le ragioni della rivoluzione sono indissolubilmente intrecciate al movimento delle contraddizioni strutturali del capitalismo. La struttura della rivoluzione viene, così, strettamente causalizzata alla struttura del sistema: per così dire, oggettivata. L'oggettivazione della struttura della rivoluzione si trascina appresso una forma di "dissoluzione del soggetto", esemplarmente portata a compimento dallo strutturalismo francese; questo è, particolarmente, il caso del modello originario elaborato da Louis Althusser. Tale traiettoria di indagine offusca, laddove non colloca in secondo piano, i processi di formazione dell'azione collettiva e il peso politico della soggettività interna ai movimenti sociali. Come acutamente fa rilevare Melucci, il principio di offuscamento della soggettività interna costringe il modello marxiano (e, dopo, ancor più quello leniniano) ad attribuire al partito le funzioni supreme della soggettività rivoluzionaria.

Nell'approccio funzionalista, invece, i movimenti sono compor-tamentiscamente spiegati come una particolare forma reattiva delle "credenze collettive", laddove si delimita una disfunzione delle norme, dei princípi e dei valori condivisi. Le definizioni generali sono riconducibili ai due teorici sommi del funzionalismo: T. Parsons e R. K. Merton; ma, come si sa, la prima applicazione concreta della teoria ai comportamenti collettivi si deve a N.J. Smelser. L'accento viene posto sulle problematiche dell'equilibrio infranto, oppure in crisi; non già sull'autonomia di senso e sui sistemi di identità interni ai movimenti. La "funzione" che campeggia è quella della ristrutturazione dell'equilibrio integrazionale, per il tramite degli adattamenti apportati, suggeriti o dedotti dall'azione collettiva. In tal modo, i movimenti vengono spogliati totalmente di ogni eventuale carica conflittuale o antagonista e ridotti al ruolo di selettori integrazionali. Laddove rifiutano di recitare siffatto ruolo o, per un complesso di ragioni, non riescono a svolgerlo, cessano di costituire un oggetto di rilevanza nella ricerca teorica e non trovano diritto di cittadinanza nella scienza politica.

Giova, a questo punto, tenere in conto le differenze che sussistono tra azione collettiva e movimenti, riprendendo e sviluppando il discorso già avviato nel primo capitolo. Se, da un lato, i movimenti sociali sono una forma di azione collettiva, non tutte le forme dell'azione collettiva sono equiparabili ai movimenti sociali. Osserva A. Melucci: "Perché ci sia un movimento occorre che l'azione collettiva provochi una rottura dei limiti di compatibilità del sistema nel quale si situa, regole e procedure nel caso di un sistema organizzativo o di un sistema politico, forme di appropriazione e di investimento nel caso di un modo di produzione". Laddove sussite un conflitto intorno alle regole e alle procedure di funzionamento di un sistema, là esiste un movimento. In questo senso, un movimento è esattamente il titolare di una critica pratica che tende alla rottura del quadro dei vincoli, delle compatibilità e delle regole di un sistema dato. Cioè, tende alla ricostruzione del sistema intorno a nuove regole e procedure di funzionamento; oppure, in estrema ipotesi, alla costruzione ex novo di un altro sistema. L'azione collettiva, invece, per quanto possa essere conflittuale, non fuoriesce mai dal quadro delle regole e delle procedure del sistema entro il quale costruisce la sua azione ed esprime la propria identità. Ciò che differenzia qualitativamente un movimento dall'azione collettiva è, allora, la natura della posta in gioco. Per i movimenti, la posta in gioco del conflitto è il superamento delle regole condivise del sistema; per l'azione collettiva, la posta in gioco non prevede che le cerchie del conflitto superino le frontiere delle regole condivise del sistema. Ne consegue che un movimento sociale non è la risposta ad una crisi"; bensì l'espressione di un conflitto, tendente al valicamento dei limiti di compatibilità, dell'orizzonte assiologico e dell'equilibrio funzionale del sistema entro cui agisce e si esprime.

1.3. Movímenti e istituzioni

Sul nodo movimenti/istituzioni, come è noto, F. Alberoni ha prodotto una specifica teoria dei movimenti, nel corso di una ricerca che si distende per un venticinquennio.

Nella teoria elaborata da Alberoni si trova la seguente definizio-ne di movimento collettivo: "Noi definiamo movimento collettivo il processo che ha inizio con lo stato nascente e termina con la sua fine". 0, ancora meglio: "I grandi movimenti sorgono solo quando nel sistema sociale sono maturate condizioni economiche, sociali e culturali che provocano, ad un certo punto, il simultaneo attivarsi di molti processi di stato nascente". Il collegamento da Alberoni operato tra "fenomeno collettivo di gruppo" e "stato nascente" (categoria esplicitamente derivata dall'opera di Max Weber, "Economia e società"), impone che si chiarisca il significato che viene attribuito al concetto di stato nascente: "La comparsa dello stato nascente è... una mobilità specifica della trasformazione sociale. La comparsa dello stato nascente non esaurisce tutte le forme di trasformazione sociale... Ma vi è una modalità specifica di trasformazione sociale che richiede un passaggio di stato, e questo passaggio di stato è rappresentato dallo stato nascente... Lo stato nascente è un'esplorazione delle frontiere del possibile, dato quel certo tipo di sistema sociale, al fine di massimizzare ciò che di quella esperienza e di quella solidarietà è realizzabile per sé stessi e per gli altri in quel momento storico. Ogni volta il gruppo di uomini entro cui si costituisce uno stato nascente tenta di costruire una modalità di esistenza totalmente diversa da quella quotidiana e istituzionale: ma nel far questo, proprio per esplorare questa pos-sibilità, è costretto a scontrarsi con le forze concrete e storiche presenti e a diventare in tal modo esso stesso istituzione". Ancora: "A livello dell'individuo, lo stato nascente è un'esperienza straordinaria che interrompe la trama della vita quotidiana e le imprime un nuovo corso. È la scoperta della propria vocazione più profonda, del proprio destino. È una chiamata o una rivelazione. Ma può essere anche la nascita di un amore, una conversione religiosa, un'ispirazione artistica irresistibile, una decisione irrevo-cabile. Lo stato nascente è un'esperienza conoscitiva. È un conoscere, un vedere, uno svelarsi di ciò che era nascosto, un rivelarsi di ciò che già esisteva. Ma è anche una esperienza emozionale straordinaria, sconvolgente, entusiasmante ed appassionante" .

Sulla base di questi presupposti, possiamo individuare una differenza tra movimenti e stato nascente. Lo stato nascente, pur costituendo il loro atto di efflorescenza ed effervescenza sorgive, non si identifica con i movimenti. Il primo, a differenza dei secondi, non ancora richiama i temi e i problemi dell'organizzazione e dell'istituzione; anzi, si costituisce come disancoramento dai princípi organizzativi ed etico-politici delle istituzioni vigenti. Lo stesso Alberoni è ben consapevole della circostanza: "... teniamo presente che il movimento, rispetto allo stato nascente, è già parzialmente istituzionalizzato". Il ciclo storico di un movimento ha come suoi terminali: (i) lo stato nascente, all'inizio; (ii) l'istituzionalizzazione o la sconfitta, alla fine. Una istituzionalizzazione destrutturante rappresenta tanto una variante della sconfitta che una modalità particolare di istituzionalizzazione dei movimenti, come testimonia il caso italiano. Continuando a seguire la pista di ricerca di Alberoni, bisogna aggiungere che gli stessi personaggi/attori dello stato nascente e dei movimenti differiscono tra di loro: "... occorre tener presente che i soggetti storici del movimento non coincidono con quelli in cui si sono presentati gli episodi di stato nascente". Stante tutto quanto questo articolato analitico, possiamo concludere che la natura dei movimenti è quella di ricostituire il campo della solidarietà: ogni movimento "divide la società, crea fratture e contraposizioni, però al suo interno costituisce un campo di solidarietà e di uguaglianza dove avviene il processo opposto alla "mercificazione" prodotta dal mercato. Al suo interno produce valori, simboli, rifonda istituzioni".

Quello che, in definitiva, propone Alberoni è uno schema euristico tripolare che incardina su tre forze la struttura sociale delle democrazie pluraliste formatesi nell'occidente capitalistico, a partire dai secoli XVII-XVIII: (i) il mercato; (ii) i movimenti; (iii) lo Stato. Il "gioco democratico" si regge qui sull'equilibrio, la competizione e la connessione tra queste tre forze: dove una schiaccia o riduce l'altra, vengono meno il pluralismo, la democrazia, lo sviluppo economico e culturale. L'azione di ogni singola forza, per risultare costruttiva anziché demolitiva, deve essere capace di spingere in avanti e mutare in meglio l'altra. In altri termini:

a) il mercato deve fungere quale base dell'invenzione creativa;

b) i movimenti debbono allargare i campi della solidarietà, facendoli penetrare nel meccanismo istituzionale;

c) lo Stato deve operare quale polo di universalizzazione dell'identità nazionale, riassorbendo le condotte del conflitto nel campo della solidarietà.

L'anomalia vera del caso italiano, osserva Alberoni, sta nel carattere imperfetto dell'identità nazionale e nella mancata laicizza-zione dello Stato, in forza di cui le tensioni sociali non vengono mai riassorbite istituzionalmente, ma si accumulano e radicalizzano su scala crescente; tale è la questione cruciale: "...non rispondervi significa andare inconsciamente verso la guerra civile". Nel processo di costituzione dell'identità nazionale e nella formazione dello Stato repubblicano, fa rilevare Alberoni, è mancato "un processo di fusione in cui tutte le formazioni religiose, politiche, sociali precedenti e nuove vengono subordinate a un campo di solidarietà superiore. È grazie a questo processo che può essere riassorbita la tensione del progresso tecnico scientifico (la trasformazione non solidaristica), mentre la lotta di classe è costretta a svolgersi entro un sistema di regole del gioco superiore". In assenza di un processo di questo genere, non si dà né la nazionalizzazione dello Stato, né la nazionalizzazione dei movimenti: "La lotta di classe allora diventa minacciosa mentre i partiti sono delle vere e proprie società complete, delle specie di Stati in miniatura, autosufficienti e che colonizzano la loro parte di società... L'esistenza di un forte campo di solidarietà nazionale, l'esistenza di uno spazio specifico statuale neutrale – la res publica – come effetto quello di nazionalizzare i movimenti. I movimenti cioè assumono come campo di azione praticabile l'orizzonte nazionale e le sue istituzioni e, così facendo, diventano forze ricostruttive sul piano istituzionale... In un campo politico nazionale un movimento può proporsi dei fini istituzionalmente raggiungibili e, una volta raggiunti, finire. Quando invece, come avviene in Italia, le maggiori istituzioni politiche hanno subito un processo di nazionalizzazione imperfetta, il movimento ne esaspera la componente universalistica, le denazionalizza ancora di più. Ogni movimento infatti prende alla lettera le istituzioni, prende alla lettera i suoi valori e i suoi simboli più profondi". Parimenti, vi può essere un uso dei movimenti da parte delle istituzioni, in vista del rafforzamento e del consolidamento del loro potere, anziché del mutamento: "Le grandi istituzioni si nutrono di movimenti, li conoscono, ne conoscono le debolezze e sanno quando e come intervenire. Esse sanno per esperienza che in tutti i movimenti collettivi vi è una fase di "stato nascente" in cui prevale una dimensione utopica, poi un momento mobilitativo e di agitazione, e infine uno di istituzionalizzazione".

1.4. Movimenti, rappresentanza, cittadinanza

Spostata l'attenzione sulla società pluralista democratica, sale in primo piano la rappresentanza politica che, come ben si sa, è inestricabilmente collegata alla questione degli interessi. I movi-menti possono essere configurati come titolari di interessi esclusi dalla rappresentanza. Su questo piano di indagine si muove S. Veca: "Vi sono casi in cui, sulla scena politica e sociale, individui detentori di interessi esclusi, non rappresentati e non soddisfatti intraprendono un'azione collettiva mirante allo scopo condiviso della inclusione, della rappresentanza e della soddisfazione degli interessi. Essi, si può anche dire, prendono la parola e danno voce a interessi e bisogni o desideri sino a allora muti, opachi e ine-spressi. Nelle società pluralistiche questi casi sono quelli in cui, per lo più, si generano identità nuove e movimenti collettivi. Hanno luogo conflitti di notevole intensità. Si elaborano e apprestano culture di protesta e contestazione. Si innescano confronti a volte violenti con le istituzioni e i loro responsabili". Quale rappre-sentante di interessi specifici che ambiscono all'inclusione nel meccanismo della rappresentanza politica, un movimento non manca di premere verso e contro il sistema politico, "inteso come centro elaboratore di decisioni e allocatore di vantaggi e svantaggi". Se può investire il sistema politico, un movimento può, a maggior ragione, incidere sul nodo istituzionale: "Inoltre, se i movimenti riescono a superare la soglia della repressione sino a elevarne il costo per le istituzioni vigenti e i governanti e guadagnano in tal modo la dimensione della durata e della stabilità nel tempo, generano a loro volta "istituzioni", cioè organizzazioni durevoli nel tempo". Con l'inclusione degli interessi esclusi, un movimento giunge all'esaurimento del suo ciclo: "Al termine del ciclo di protesta e di contestazione, può accadere che i "nuovi" interessi siano inclusi; che si producano effetti di riforma e di rifondazione delle istituzioni e delle pratiche sociali; che risulti mutata la configurazione del sistema politico e la natura delle forme della rappresentanza; che la scena politica e sociale presenti i segni del cambiamento, a volte di intensità proporzionata al potenziale e alle risorse contestative e di minaccia accumulate, investite e consumate nel corso dell'azione collettiva".

Veca applica tale modello di lettura ai cicli di protesta del '68, avvalendosi delle indicazioni di A. Pizzorno. Per lui, i connotati precipui dell'insorgenza dei movimenti del '68 non stanno nelle loro strutture politiche; piuttosto, negli elementi etici, civili e religiosi che li impregnano. Più che rivendicare l'inclusione politica, i movimenti inoltrerebbero istanze alle istituzioni, affinché esse riconoscano la loro identità etico-simbolica. Dice Veca: "Ciò, nella lontananza e nell'estraneità rispetto alla politica. Essi vogliono ottenere "il riconoscimento – simbolico e materiale – di tali identità, non il potere per governare gli altri"". E ancora: "(...) la richiesta di riconoscimento non era rivolta alla "politica", alle istituzioni o alle forme del sistema della rappresentanza degli interessi. Essa rimaneva sostanzialmente estranea all'arena del potere, interpretando piuttosto un'esigenza civile di ridefinizione della mappa delle identità collettive (e quindi di una sorta di riclassificazione analitica degli interessi). (Ciò richiama l'attenzione sulla catena degli effetti non politici quanto piuttosto civili o sociali derivanti dal '68: e naturalmente, nei casi drammatici di sviluppo "militare" o terroristico della protesta, sulla natura "etica" o "religiosa" piuttosto che politica del suo radicalismo)".

Ora, tematizzando la relazione movimenti/rappresentanza politi-ca (prescindendo, per il momento, dall'interpretazione "impolitica" che del '68 fornisce Veca), occorre necessariamente prendere in considerazione che, in una società pluralista, il consenso dipende dalla capacità delle istituzioni pubbliche di dare soluzione alla domanda politica che si forma attorno alla mappa degli interessi. Il consenso è qui fattore di equilibrio politico, poiché "le concessioni fatte ai diversi interessi sono proporzionali alla forza con cui quegli stessi interessi si presentano, vale a dire al potere (politico) a disposizione dei diversi gruppi". In altri termini: "(...) i gruppi ottengono di più se sono in grado di far pesare minacce maggiori. Ciò che la società acquista da essi, in cambio di determinati benefici, è il "consenso"". L'interesse del gruppo sta nella sua legittimazione all'interno del sistema e nella legittimazione del sistema in funzione degli interessi dei gruppi: il gruppo concede consenso al sistema, a patto di ricavarne benefici e rafforzare il suo potere. Il sistema pluralista si regge su questo scambio di equivalenti, sul quale fonda il congegno della rappresentanza politica e i meccanismi del consenso. I gruppi di interesse si riconoscono vicendevolmente come facenti parte del sistema, in ragione diretta del loro monopolio sulle leve dell'inclusione/esclusione politica. Legittimano, cioè, il sistema, a condizione che spetti ad essi decidere chi siano gli "amici" e chi i "nemici". Le condotte dell'inclusione estrinsecano la decisione intorno all'"amico"; le condotte dell' esclusione, la decisione intorno al "nemico". Come osserva acutamente Pizzorno: "La legittimità, quindi, non è, pluralisticamente, una funzione della soddisfazione di interessi, ma piuttosto dell'identificazione di "nemici"".

La definizione della rappresentanza degli interessi conduce, come si vede, agli inputs e outputs del sistema politico. Rileva C. Carboni: "Le forme di aggregazione pluralistiche risultano settoriali e particolaristiche e tendono a convergere nel mercato politico". Il punto è che: "In una società con uno Stato e un sistema politico democratici, l'arena politica diviene il luogo di competizione tra un' ampia gamma di interessi economici e sociali per ricavare vantaggi e benefici". Lo scavalcamento del mercato economico, per questa via effettuato e agevolato dall'uso in questa direzione fatto delle istituzioni del Welfare (in particolare, dalla seconda metà degli anni '70 in avanti), pone quella che Carboni definisce la questione della cittadinanza sociale. Tanto più rimbalza la centralità della questione della cittadinanza, quanto più si approfondisce la relazione di crisi che fa da contesto al rapporto tra Stato e società. Secondo l'ermeneutica della cittadinanza sociale, si assiste a un fenomeno di questo tipo: "La lotta di classe è sempre più sostituita dai conflitti "collettivi", "sociali", "di cittadini" che si manifestano con vari obiettivi riguardanti la sanità, l'abitazione, la politica fiscale, l'aborto, l'ecologia, la pace, ecc.".

È noto che il concetto di "cittadinanza sociale" deve la sua elaborazione, sul finire degli anni '40, a T. H. Marshall. La ripresa del concetto, negli anni '70, da parte della sociologia italiana consente di risolvere antiche aporie proprie degli approcci marxisti e neomarxisti: (i) da un lato, si afferma l'esigenza di un superamento dell'indagine in chiave eminentemente economica della struttura sociale; (ii) dall'altro, prende forza la necessità di un'analisi delle cause e degli effetti dell'allargamento della rete della cittadinanza. Per quanto attiene al primo punto, si registra la presa d'atto dell'intreccio stretto tra mercato economico e mercato politico, riscritto e ulteriormente articolato dalle politiche e dalle agenzie del Welfare; per quanto concerne il secondo, si tematizza con maggiore compiutezza la transizione dalla cittadinanza industriale ("new entry" della classe operaia nel sistema della rappresentanza agli inizi del XX secolo) alla cittadinanza sociale (inclusione, attraverso il Welfare, di nuovi "soggetti sociali").

Diversamente da quanto potrebbe a tutta prima sembrare, la cittadinanza sociale non gioca semplicemente funzioni integrative e/o anti-conflitto (posizione di T. H. Marshall); essa circoscrive an-che un'arena conflittuale e un mutamento di status irreversibile. Le democrazie pluraliste contemporanee hanno tutte avuto come origine una situazione politica in cui il popolo non era che l'insieme dei sudditi: in quanto tali, soggetti al potere incondizionato e inconfutabile del sovrano; nel corso dell'evoluzione storica e politica, i sudditi sono divenuti cittadini titolari di diritti universali e indisponibili: dove tali diritti sono conculcati o non vengono riconosciuti, si apre un campo di conflitto intenso e talora violento. In sintesi, possiamo esprimere il passaggio nel modo che segue: il cittadino diviene soggetto di poteri e di diritti, cessando di essere soggetto al potere, alle sue volizioni e alle sue decisioni.

Nella misura in cui (i) i diritti di cittadinanza sono conflittuali nei confronti delle cerchie riduttive dei poteri costituiti e (ii) costitui-scono l'oggetto e il tema della mobilitazione di un movimento col-lettivo, (iii) le condotte della cittadinanza si riversano contro le selezioni della rappresentanza politica.

Ora, come si sa, a partire dall'elaborazione di Marshall, il circui-to della cittadinanza insiste su una scala tridimensionale: (i) la cittadinanza politica; (ii) la cittadinanza civile: (iii) la cittadinanza sociale. Per solito, si è assunto il carattere di universalità della cittadinanza, facendo criticamente risaltare la sua bassa soglia di recezione del differenziale interno ed esterno agli individui, ai gruppi e alle classi sociali. In un qualche modo, il rilievo critico è calzante; tuttavia, presenta non lievi elementi di unilateralità. Difatti, la teoria della cittadinanza, implicando l'area dei diritti (civili, politici e sociali), è tanto una teoria dell'universalità quanto una teoria delle particolarità e delle differenze. Considerata sia sul piano epistemologico che su quello empirico, la cittadinanza si designa come indissociabile connessione di universale e particolare. Fondamenta-le, sul punto, è la lezione di Norberto Bobbio, al quale dobbiamo una ripresa e una rigorosa riconcettualizzazione dei diritti universali, quale fattore di implicazione delle sfere indisponibili e particolari dei diritti del cittadino, intesi come diritti della persona e degli individui.

Gli stessi movimenti sociali vanno assunti come:

a) un soggetto collettivo, delimitante un universo globalizzante;

b) un correlato di differenze e stratificazioni di senso interne, delimitante il territorio di formazione ed espressione dell'identità;

c) una rete di prestazioni, volizioni, istanze, desideri e bisogni dislocante sia l'arena dei diritti soggettivi che il campo dei diritti sociali.

Non sempre le teorie dei movimenti hanno costruito questa relazione critico-simbiotica con le teorie della cittadinanza; né, d'altra parte, le teorie della cittadinanza hanno dialogato, su questo piano, con le teorie dei movimenti. Tra struttura universalizzante della cittadinanza e contenuto differenziale dei movimenti è stata riprodotta linearmente la frattura che si distende tra l'universalità dei diritti sociali e la particolarità dei diritti soggettivi, senza riflet-tere adeguatamente sull'indubbia circostanza che tra l'universalità degli uni e la particolarità degli altri sussiste anche una rilevante relazione comunicativa. È in virtù di questo legamento comunica-tivo che le strutture della cittadinanza sociale (il Welfare) hanno potuto convertire l'area dei bisogni in nuovi diritti sociali istituzionalmente riconosciuti e soddisfatti. È la crisi delle forme storiche e socio-istituzionali di questo legamento che ha segnato il tracollo del Welfare, mandando in cortocircuito la struttura bipolare (universalità/particolarità) dei diritti. Da qui ha preso origine l'onda lunga della preminenza degli interessi sui diritti. Da qui monta l'esi-genza di una riconiugazione del nesso cittadinanza/movimenti e della rielaborazione delle politiche del Welfare all'altezza del complicato nodo dei "diritti difficili" e in linea con l'emergenza dei "di-ritti diffusi". La "fine dell'epoca socialdemocratica" come non può "cancellare la socialdemocrazia", così (ri)apre con ancora più nettezza storica e politica l'"età dei diritti".

1.5.

Oltre la palude della sconfitta: dare soluzione alle domande del '68, uscendo dalle risposte del '68

Pervenuti, nella nostra ricognizione storico-teorica, alla "que-stione dei diritti", ci resta da sviluppare un tema ambivalente, da cui ricavare conseguenze etico-politiche stringenti. Nelle sue linee essenziali, il tema è in questo modo enunciabile: il sistema è una sfida per i movimenti, così come i movimenti sono una sfida per il sistema. L'arena dei diritti (la loro compressione o la loro estensione) è la posta in gioco della sfida tra movimenti e sistema.I movimenti sociali, pur originatisi entro un sistema dato di relazioni e comunicazioni, aprono nei suoi confronti un conflitto tendente a infrangerne "gioco" e "regole", introducendo nuovi diritti; il siste-ma, pur producendo i fattori nodali della costituzione dei movimen-ti sociali, si difende e chiude a confronto delle innnovazioni più rivoluzionarie e dei diritti più radicali di cui essi sono portatori, aggiustando e flessibilizzando le "regole auree" del suo "gioco strategico". Rottura delle "regole" e permanenza delle "regole" de-limitano il terreno specifico delle sfide e delle controsfide che reciprocamente sistema e movimenti si indirizzano. Sfidandosi e controsfidandosi, sistema e movimenti finiscono col condizionarsi più di quello che potrebbe a tutta prima sembrare. Le istituzioni del sistema, sotto l'incalzare della "sfida simbolica" dei movimenti, sono costrette a non indifferenti processi di mutazione; le condotte dei movimenti, sotto l'incalzare della controsfida del sistema, sono obbligate a confrontarsi, in un modo o nell'altro, con le istituzioni intorno allo specifico dell'arena politica delle controrivendicazioni conflittuali e dei diritti che proprio essi hanno immesso nel circuito della discussione pubblica. Il gioco conflittuale è vinto dall'attore che riesce a raccogliere la sfida o la controsfida dell'altro; perde l'attore che resta senza mosse o contromosse di fronte alla sfida o alla controsfida dell'altro.Il punto essenziale non è rappresentato da chi fa partire l'iniziativa; bensì da chi la assume o riassume nel corso dello sviluppo e della trasformazione del ciclo di protesta. L'attore che lancia la sfida si trova indubbiamente in una posizione di vantaggio, in quanto anticipa e costringe la controparte a giocare sul terreno da lui scelto e su cui, più degli altri, va definendo/ ridefinendo ed esprimendo la propria identità. Tuttavia, tale vantaggio non può essere giocato nei termini di una "rendita di posizione"; deve, piuttosto, esprimersi in un mutamento reale delle "regole del gioco" e in un arricchimento del "gioco", se vuole evitare i contraccolpi del riflusso, della smobilitazione e della destrutturazione che trovano il loro punto di applicazione nelle politiche istituzionali di svuotamento e smobilitazione dei diritti. Quanto meno sono incalzate e rinnovate sul piano politico-culturale e amministrativo-organizzativo, tanto più le istituzioni sono smobilitanti e svuotanti, tradendo l'intreccio posizionale sicurezza/libertà immanente nei loro codici.

Questo scenario teorico, in larga parte, descrive l'evoluzione dei cicli di protesta negli anni 60 e '70 in Italia, caratterizzati dalla originaria capacità di assunzione dell'iniziativa da parte dei movimenti sociali, i quali finiscono col subire, nella fase intermedia e in quella finale, la controiniziativa e le contromosse risolutive delle politiche istituzionali.

Le spinte innovative dei cicli di protesta trovano spiazzate le istituzioni politiche, economiche, culturali e sociali. All'origine, la modernità è dalla parte dei movimenti; l'arcaicità, dalla parte delle strutture istituzionali pubbliche e dei centri di potere privato. Il ‘68 riceve queste spinte e le esalta in maniera diffusiva e intensiva, prolungandone l'azione oltre la sua barriera temporale. Esso raccoglie matrici sedimentate negli anni '40 e '50 e produce culture e prassi inedite. Per entrambi questi motivi, rappresenta più di un anno circoscritto; ma apre e designa un'intera epoca nuova, destinata a caratterizzare e segnare in maniera duratura e profonda la storia della società italiana contemporanea.

Il '68 è:

a) punto di passaggio/trasformazione, nel senso che attiva nella situazione storico-politica e simbolico-culturale una transizione verso cambiamenti irreversibili;

b) lunga durata, nel triplice senso che: (i) i suoi elementi di incubazione vanno ricercati nei decenni precedenti; (ii) i suoi effetti si prolungano a tutto il "movimento del '77" che, pure, innesta non lievi linee di frattura nei confronti dei movimenti del '68; (iii) la sua eredità, per quanto offuscata e rimossa, costituisce ancora uno dei dilemmi non risolti della democrazia italiana.

Il '68, pur essendo stato sconfitto e pur avendo esaurito la sua "spinta propulsiva", come sfida/controsfida al sistema politico- istituzionale rimane ancora una figura presente. Con lui saremo obbligati a convivere, fino a che le sue domande di senso e i suoi interrogativi intorno ai diritti di democrazia e libertà resteranno ine-vasi. Nello sconfiggere il '68, il sistema politico-istituzionale ne ha eluso e vanificato le istanze; meglio: per sconfiggere il '68, il siste-ma politico-istituzionale ha contrastato, smorzato e destabilizzato le sue controrivendicazioni conflittuali e le sue domande di senso. Cosicché:

a) i movimenti del '68 sono stati smobilitati per linee interne e sconfitti con un duro scontro frontale;

b) le strutture istituzionali hanno tagliato sotto i piedi della società politica il potenziale di ricambio, di crescita, di emancipazione e liberazione che saliva dalla società civile.

Il dispotismo del dispositivo costituzionale bloccato si è ingigantito, alimentato anche da una pulsione paranoica di potere. La società civile in sofferenza, per parte sua, è stata gettata in pasto ad una massmediazione che ne ha progressivamente e inarre-stabilmente imbarbarito i costumi; sino agli inquietanti fenomeni di razzismo, di fanatismo etnico, di aggressività sociale e di incrudeli-mento delle relazioni intersoggettive che (non solo in Italia) hanno rappresentato uno dei più drammatici spaccati degli anni '80 e all'inizio di questi '90 sembrano trovare ulteriori fattori di alimentazione.

Dobbiamo trovare nuove risposte di senso alle domande del '68. Che esso sia stato sconfitto non vuole dire che, con lui, siano morte le sue domande. Con lui, è morta l'indigenza delle sue risposte; non la vitalità e il calore delle sue domande. Rendere onore al '68 vuole dire proprio questo:

a) trovare le risposte alle sue domande;

b) formulare nuove domande, uscendo dalla sue risposte;

c) ricercare altre domande ancora.

Il '68 è stato anche una sfida lanciata ai movimenti dall'interno dei movimenti; non esclusivamente una sfida indirizzata al sistema politico e istituzionale. Come non hanno saputo raccogliere la con-trosfida del sistema, i movimenti non hanno saputo metabolizzare e gestire fino in fondo la sfida del '68. Sino a che questa sfida non sarà raccolta e superata, saremo condannati a non essere abban-donati dal '68 e a non poterlo abbandonare. Anche per questo il '68 è una linea spezzata che va ricomposta, per una radicale presa di commiato che ci conduca altrove, in un altro tempo e in altri luoghi.

Oggi parlare propriamente di luoghi del '68 può solo significare introdurre una cesura materiale, simbolica e politica a confronto delle risposte fornite dal '68. Si tratta di trovare quei luoghi che il '68 non è stato capace di trovare. Sino a che questi luoghi non saranno rinvenuti, la storia del '68 resterà preda di una scissione schizoide: la sua morte corrisponderà alla sua incompiutezza e il venir meno della sua "spinta propulsiva" coabiterà con il suo "pro-filo dimezzato". Portare a compimento la vita e la morte del '68 vuole dire riportarne in luce le domande più vitali e, insieme, inquietanti, per dar loro finalmente risposta. La risposta della costruzione passionale e rigorosa di nuovi diritti di libertà e di democrazia; non della stroncatura interessata, del ripiegamento, dell'oblio, della superficialità o della furia.

Chi è sconfitto, non per questo ha necessariamente torto. Le sue ragioni possono essere state più deboli della forza dell'avversa-rio; lui stesso può essere stato più debole delle sue ragioni. Altrimenti opinando, i potenti sarebbero per definizione i giusti e le loro ragioni la verità; all'opposto, gli oppressi sarebbero gli ingiusti e le loro ragioni il falso. Giustizia e verità assumerebbero, allora, il significato falso di conquista e vittoria. Secondo questo orrendo e devastante metro di misura (riflesso nel giudizio etico-politico del calcolo della razionalità strumentale), il genocidio di intere razze e di interi popoli sarebbe il sigillo della più cristallina verità e della più indefettibile giustizia.

La cifra del '68 è più importante e preziosa della sua sconfitta. Del '68 rimane qualcosa che sopravvive alla sua sconfitta, di cui ora noi abbiamo smarrito il nome. Non può essere il nome che gli abbiamo attribuito ieri, caducato e falsificato dalle indigenti rispo-ste ieri fornite, prima ancora che sconfitto dall'avversario. Del '68 dobbiamo trovare i nomi nuovi. Cioè, riaprirlo, per coronare la sua storia e uscirne fuori definitivamente. Uscire fuori dalle risposte indigenti del '68 significa uscire fuori dalla sconfitta del '68.

Riflettere sulle ragioni, le cause, le responsabilità di una sconfit-ta non ha apprezzabili contenuti di senso, se rimane unicamente sguardo riversato sul passato, mancando di sventagliarsi sul presente e di proiettarsi verso il futuro. Ripensare la sconfitta vuole, prima di ogni altra cosa, dire rielaborarla in vista del cambiamento. A partire dal cambiamento della propria identità politica e personale. Ognuno ricomincia, andando avanti; ma guardando anche alle proprie spalle. Tutto questo è cosa diversa dalla freudiana "elabo-razione del lutto". Non si tratta solo di "lutto"; più al fondo, è questione di ritrovare nella sconfitta i motivi della vittoria e nella vittoria i motivi della sconfitta. Ciò per un doppio ordine di motivazioni:

a) non fare della propria e altrui sconfitta una prigione eterna;

b) non fare della vittoria altrui e propria un' autocombustione senza fine.

Bisogna partire da un pensiero della sconfitta che sappia darsi e farsi ragione di sé e che dalla condizione di "vinto" ripensi la storia, oltre la cortina gelatinosa delle celebrazioni dei "vincitori". E oltre quella perdita di identità che conduce all'afasia esistenziale e politica. Bisogna, altresì, elaborare un pensiero della vittoria che sappia ancorarsi nelle zone in cui i diritti di giustizia, di eguaglian-za, di democrazia e di libertà restano opere incompiute, in cui più necessario è alimentarli e farne proseguire il cammino, senza celebrazioni trionfalistiche e lo scatenamento della forza simbolica e materiale. Se è vero che le ragioni dei "vinti" fanno saltare il continuum della storia, altrettanto vero è che la storia, scritta come è dalla parte dei "vincitori", è sin troppo incline a offendere popoli, classi e soggetti deboli. Occorre che le ragioni dei "vinti" divengano esse stesse storia. Storia dalla parte dei "vinti", dei nove decimi dell'umanità che soffre. Storia che non ammetta più né vinti e né vincitori; ma unicamente differenti e differenze in dialogo e in conflitto.

Ricostruire le ragioni della sconfitta e della vittoria acquista il senso di scrivere, fare e sperimentare la storia del passato, del presente e del futuro. Nella genealogia del tempo dobbiamo ritrovare e inseguire la nostra genealogia. Ritrovare il proprio nome nel presente non può che significare partire dalla genealogia che lo ha segnato. Quella del nome è una questione cruciale: ne va della nostra identità, del nostro riconoscimento e della nostra apparte-nenza. In che misura apparteniamo alle nostre sconfitte e alle nostre vittorie? E in che altra alle sconfitte e alle vittorie degli altri?56.

Dai linguaggi che rielaborano la sconfitta, ma anche le conqui-ste, si cava fuori la possibilità di nomi nuovi. Più chiare ci diventano le ragioni degli sconfitti e più chiari i loro errori; soprattutto, quando nelle schiere degli sconfitti rientriamo noi stessi. Il loro nome possiamo salvarlo solo se troviamo un nome nuovo alle loro e alle nostre battaglie, agli ideali e ai princípi che li hanno e ci hanno guidato. È il nostro nome che dobbiamo salvare dal grigiore impastato della nebulosa che tutto vuole avvinghiare ed evirare.

Allora, con nuovi linguaggi dobbiamo interrogare il tempo. Nuovi debbono essere i linguaggi con cui tentiamo di fare da gestanti ai nomi nuovi. V'è l'esigenza di calarci in quelle fessure del tempo da cui le zone rinascenti dei linguaggi possano risospingerci verso le terre vergini di una parola e di un dialogo più intimi con quelle verità dell'esistenza che uniche possono fecondare la nostra vita, liberandola dai tormenti che la mutilano. E occorre scoprire da capo queste verità in nervature dell'esperienza umana essenziali: prima mai accostate, oppure solo lontanamente intraviste.

Il problema, in definitiva, è quello di ritrovare un nome proprio al nostro presente e al nostro passato e da qui avviarsi verso i nomi propri del futuro. E in questa ricerca che si può mettere la parola fine alla storia del '68 e aprire a una storia nuova. Fondare una storiografia di un passato (prossimo) vuole dire dischiudere verso un futuro di libertà la storia del presente. Non è soltanto questione di metodiche e di difficoltà epistemologiche. È che quello che più intensamente urge è una fondazione ontologica della libertà, diversamente orientata rispetto alla pluralità oppressiva che ci circonda.

Così direzionata, l'investigazione ci spinge verso i nodi di fondo della storia della società italiana in questo ultimo mezzo secolo. Il carattere incompiuto e non risolto del '68 è, per l'appunto, uno dei più grossi nodi della democrazia italiana. L'incapacità dei conflitti degli anni '60 e '70 di mutare in positivo la qualità della democra-zia italiana costituisce una delle cause fondamentali della sconfitta del '68. Dalla sconfitta di quel ciclo di lotte è derivato un restringi-mento del quadro democratico e un drastico scadimento della qualità della democrazia. Il reaganismo imperante in tutti gli anni '80 è stato l'equivalente del "Congresso di Vienna" del XIX secolo: la Restaurazione vestita a nuovo, diffusa al punto da divenire stile di vita; si pensi all'"edonismo reaganiano".

A chi è stato, in vario modo, attore di quei cicli conflittuali toccano l'onere e la responsabilità di riflettere sul senso di quella sconfitta. A chi, poi, ha operato la scelta delle armi toccano responsabilità e oneri più gravosi: la riflessione autocritica sulla lotta armata non può non saldarsi inestricabilmente con l'analisi del ruolo da essa giocato sia nell'inaridimento e nella deviazione del potenziale di conflitto che nell'ulteriore spostamento a destra del baricentro della situazione politica. A chi è venuto dopo e a chi ancora verrà è fatto obbligo di cimentarsi con le inconclusioni, i limiti, gli errori e le degenerazioni, ma anche con le speranze, le attese e gli obiettivi mancati di eguaglianza, libertà e democrazia di quei cicli di lotta. A ben guardare, è a questi cicli di lotta che occorre dare soluzione. Ora, dare soluzione ai cicli di lotta degli anni '60 e '70 significa:

a) superare il '68 e uscire dalla sconfitta;

b) uscire dai limiti della democrazia italiana, dal dispositivo della costituzione bloccata, dalla colonizzazione politica della società, dal congegno stritolante della sovranità dell'emergenza.

Occorre riaprire quei cicli, trovando risposte all'altezza delle domande e lontane dalle risposte del '68. Ricominciare da qui ha il senso di cercare un altrove per pensiero e prassi della politica, al di là delle linee di frontiera dei cicli di lotta degli anni '60 e '70.

Quei cicli non possono essere chiusi ora, al presente. Il passato li ha occlusi e il presente li ha sepolti e ibernati. Possono soltanto essere recuperati. E il recupero è possibile unicamente, se si riesce a rileggerli criticamente dal presente, nel presente riancorandoli; se, con riflessione critica, ci riconduciamo a loro e li riconduciamo alle onde dell'attualità e alle tendenze del suo sottosuolo, al patrimonio di senso che oggi la mobilitazione collettiva esprime tra det-to e non detto, tra eventi e allusione di eventi.

La soluzione dell'incompiutezza politica e culturale del '68 non chiude i cicli di lotta sociale degli anni '60 e '70; al contrario, li riapre. Questa riapertura, a sua volta, è parte costitutiva di una rielaborazione e di una risperimentazione della prassi della trasforma-zione, ancorando strettamente il tema della rivoluzione al tema della libertà, passando per la riconiugazione del "primato dei dirit-ti". Ripensare le culture e le prassi della trasformazione, della libertà e della rivoluzione vuole anche dire ripartire da quella storica sconfitta, metabolizzarla e assumerla come tradizione culturale a cui richiamarsi e da cui profondamente distaccarsi.

Le più fertili prese di distanza dal passato sono quelle che più profondamente e dolorosamente lo riaprono e squarciano. Che più densamente ne conservano memoria e impronta. Che più si consa-pevolizzano della sua angustia e della sua improponibilità. Ma, proprio per questo, lo conservano come un prezioso patrimonio ge-netico, poiché assieme ai limiti e agli errori ne memorizzano gli slanci, le speranze e le ansie di giustizia. L'apertura di questa fenditura strappa la soluzione delle domande del '68 alla residualità e la riconsegna palpitante all'attualità. Il disoccultamento e il supe-ramento del '68 non costituiscono la "questione delle questioni"; ma semplicemente uno dei tanti conflitti del presente che nel presente stentano a trovar voce, a trovar espressione, a trovar comunicazione. Uno dei tanti conflitti resi invisibili dai processi di rimozione e mimetizzazione su cui si disloca oggi la complessità e la capillarità dei poteri.

 

2. MODELLI DI CULTURA E MODELLI DI AGIRE:

MOVIMENTI E CRITICA DEI MOVIMENTI

 

2.1.

Dall’agire comunicativo all’agire emarginativo

 

Come è noto, l’indirizzo più propriamente antropologico, che ha in Tylor il suo precursore, fornisce della cultura una concettualizzazione universalizzante, in un duplice senso:

a) configurandola come totalità onnicomprensiva, ricca di sfaccettature e determinazioni interne;

b) categorizzandola come concetto/situazione avente una relazione non di alterità, ma di isomorfismo con la civiltà, della quale sarebbe un costrutto semantico intercambiabile; l’approccio filosofico, storicistico e sociologico, dall’inizio del XX secolo, si incaricherà di capovolgere tale assunto, incuneando un contrasto irredimibile tra cultura e civilizzazione.

Molto dell’impostazione antropologico-culturalista resiste e viene recuperato nel dibattito sociologico e informativo-comunicazionale che si è andato affermando negli ultimi decenni.

Negli anni ‘60 e ‘70, con propaggini che arrivano alla prima metà degli anni ‘80, si è sviluppata un’accesa e non univoca discussione intorno alla nozione di cultura, a lato delle trasformazioni sistemico-ambientali intervenute nelle società industriali avanzate. In Italia, questo dibattito viene prontamente recepito e dà luogo a indirizzi variamente motivati e in competizione tra di loro. Probabilmente, un discrimine di tale discussione è stata la riflessione, sul punto, proposta da E. Morin, dagli anni ‘50 alla prima metà degli ‘80.

Come si sa, per Morin, a partire dalla modernità, nelle società occidentali si sono insediati tre tipi di cultura:

a) la cultura umanistica;

b) la cultura scientifica;

c) la cultura di massa.

Non intendiamo qui discutere il paradigma tripolare di Morin. Ci interessa, invece, riflettere sulle considerazioni che, in particolare, egli formula sulle concatenazioni semantiche tra i diversi tipi di cultura e sui caratteri di senso della cultura di massa. Siamo indotti a ciò dalla registrazione di un’evidenza empirica: con l’avvento della cultura di massa e la planetarizzazione degli stili di vita e dei modelli di consumo da essa veicolati, i fenomeni di emarginazione sociale e culturale sono andati, da un lato, approfondendosi e, dall’altro, assumendo crude e impensate forme di espressione.

Prerogativa della cultura di massa, osserva Morin, al pari di quella scientifica, è l’elaborazione di una mole impressionante di informazioni. Ma, diversamente da quella scientifica, la cultura di massa non dà luogo a rappresentazioni logico-matematiche; bensì trascrive informazioni non strutturate sotto forma di rumore: "Nella cultura di massa una nuova nube di informazione scaccia via quella del giorno prima". Il rumore elevato dalla cultura di massa si erge come un muro di interdizione elevato di contro alla riflessione sistematica e globale, antico requisito della cultura umanistica. Al contrario, la cultura scientifica inibisce la riflessione, attraverso la proliferazione degli specialismi. La cultura nelle società contemporanee, conclude Morin, sia nelle forme umanistiche che in quelle scientifiche e di massa, si caratterizza per la sua sistematica a-riflessività:

In definitiva, il nodo della tragedia culturale moderna è la tragedia della riflessione. Mentre la conoscenza sembrava destinata a essere pensata, discussa, riflessa, per essere incorporata nell’esperienza della vita, la riflessione si degrada dappertutto, anche nella cultura umanistica, il cui mulino gira a vuoto, non potendo più afferrare i materiali della cultura scientifica per rifletterli. Anche tra filosofia e scienza le comunicazioni sono diventate molto rare. La difficoltà di acquisire il sapere scientifico specializzato rende impossibile alla cultura umanistica svolgere il suo ruolo di riflessione sulla conoscenza dell’uomo nel mondo.

Nella cultura scientifica, l’accumulazione delle conoscenze nelle anonime banche dati, il lavoro al computer fanno correre il rischio, anche in tal caso, che lo spirito umano venga espropriato del sapere; e fanno temere l’irruzione di un nuovo tipo di ignoranza per accumulazione di conoscenze.

La cultura di massa, infine, dà il colpo di pollice a questa degradazione della possibilità riflessiva. Del resto, questa degradazione corrisponde nella società a una promozione di tecnocrati, tecnocrati, esperti specializzati; e assistiamo al paradosso di una cultura come la nostra che ha aspetti molto ricchi nella sua pluralità, perché mantiene insieme tre tipi di cultura molto vivi; e la tempo stesso produce sviluppi di barbarie, oltre al gran vuoto culturale sul terreno del quotidiano e della vita sociopolitica. Qui c’è una terra di nessuno culturale. Alcuni commentatori radiotelevisivi, cercando di riflettere non solo sui fatti di ieri, ma anche su piccoli fatti della civiltà (droga, alcolismo, insicurezza, ecc.), riempiono un po’ questo vuoto, ma alla svelta. I pedagoghi e gli istitutori non sono capaci di riflettere questa cultura che appare loro concorrenziale, perché sanno che gli alunni preferiscono la televisione ai loro compiti. A parte il fatto che la vita politica rimane sotto il dominio dei miti, delle illusioni, degli errori, del rumore e del furore...

La reintroduzione di una comunicazione fra queste tre culture è la grande necessità culturale del nostro secolo. E questa comunicazione sarà reintrodotta soltanto se ci sarà un movimento critico autoriflessivo all’interno di ognuna di esse.

Ora, è proprio in questo vuoto culturale, in questa terra di nessuno culturale che germina e nidifica la polisemia del concetto di cultura, che ricontestualizza in un ambito multidimensionale i tre tipi di cultura isolati da Morin. Ambito che, di fatto, riamalgama in sé, differenziandole in subcodificazioni funzionali, tutte le concettualizzazioni "fondazionali":

a) l’approccio culturalista organico: cultura come sistema compiuto e dotato di senso specificamente umano, in contrapposizione agli habitat e ai codici della natura;

b) l’approccio culturalista residuale: cultura come condotta selettiva e differenziata che raccoglie tutto ciò che non rientra nelle scienze umane e sociali e che si concentra nell’ambito sensibile-psicologico;

c) l’approccio culturalista esistenzialista: cultura come modalità dell’esistere.

Puntualmente, Morin coglie il senso strutturante dei primi due approcci e il senso esistenziale del terzo. Ciò indurrebbe a considerare la "cultura come un sistema che mette in comunicazione, dialettizandole, un’esperienza esistenziale e un sapere costituito".

L’approccio di Morin, con tutta evidenza, sospende i paradigmi separatisti della tradizione sociologica, per i quali la cultura è un unicum di valori e princípi, in relazione contrappositiva ed escludente con la civiltà che stratificherebbe, invece, i suoi dati e i suoi attributi per accumulazione oggettiva e impersonale.

Inoltre, Morin, concependo la cultura come sistema metabolico, di fatto, indirizza una critica puntuale sia alla posizione marxista che a quella funzionalista: proprio in quanto circuito metabolico, la cultura ricongiunge l’infrastrutturale al sovrastrutturale, il reale all’immagi-nario, il mitico al pratico.

La conseguenza pratica dell’approccio è rilevante. Quanto più la cultura è metabolizzante, tanto più interconnette dimensioni di senso differenziate: vale a dire, tanto più il profilo dei contesti sociali e di senso tra/e dentro i quali avviene la metabolizzazione culturale si specifica per la sua policulturalità. A differenza delle società arcaiche, osserva, Morin, la società complessa è una società policulturale.

Possiamo, anzi, dire: il tratto specifico che differenzia e connota la complessità sociale è la policulturalità. Ciò non solo e non tanto nell’ accezione individuata da Morin: policulturalità come compresenza (in un unico pattern globale differenziato per intrecci e antagonismi interni) della cultura umanistica, delle culture nazionali, delle culture religiose, delle culture politiche e della cultura di massa; quanto nel senso che la situazione di policulturalità diviene veicolo di trasversalità culturale.

Nelle condizioni della differenziazione comunicativa e della complessità sociale, la compresenza ravvicinata e proliferante di matrici culturali diverse potenzia oltremodo i processi della trasversalità culturale. Non a caso, uno dei tratti distintivi del procedere delle investigazioni in tutti i tre "tipi fondamentali" di cultura è quello della narrazione metaforologica. Paradigmi e figure mitopoietiche vengono transiletterati da un campo culturale all’altro e sempre più gli stessi saperi specialistici fanno un uso progressivamente dirompente di costrutti fondazionali che si qualificano per aver rotto il cordone ombelicale con le logiche rigide della predicibilità razionale, assegnando un posto rilevantissimo al caso, all’imprevedibile, all’oscuro, al latente e/o al virtuale. La filosofia della scienza e l’epistemologia vanno scio-gliendo il loro statuto in avvolgenti codificazioni simboliche, defini-tivamente sottratte al modello cartesiano e post-cartesiano di razio-nalità scientifica, in tutte le sue possibili varianti e riattualizzazioni. Morin medesimo, con alcune sue opere fondamentali, è stato uno dei pionieri nell’apertura di questi nuovi orizzonti di ricerca.

Ora, policulturalità e trasversalità culturale, differentemente da quanto a tutta prima si è portati a ritenere, velocificando i flussi comunicazionali tra "generi", "tipi" e "contesti" culturali diversi, conducono ad un innalzamento dei tassi di conflittualità e interconflittualità disciplinare tra/e nei vari campi e soggetti culturali.

Si apre un fenomeno doppiamente connotato.

La fludificazione policulturale:

a) da un lato, migliora la comunicazione e comunicatività del messaggio di ogni singolo campo/soggetto, contaminandone e arricchendone l’identità con apporti provenienti da altri campi/soggetto;

b) dall’altro, accentua le pulsioni tendenti alla difesa ad oltranza della propria identità, minacciata proprio dall’urto del flusso della contaminazione culturale.

I due fenomeni non sono in alternativa l’uno all’altro; ma convivono permanentemente nello stesso campo/soggetto. Anzi, è proprio questa compresenza a determinare le condotte principali attraverso cui passano i processi di formazione e consolidamento dell’identità (singola e collettiva) nella società globale e planetaria attuale, caratterizzata come è da una situazione permanente di trasversalità culturale.

La policulturalità è, nello stesso tempo:

a) veicolo dialogico e, dunque, espressione di avvicinamento e di vicinanza;

b) fattore disseminatore di differenze e, dunque, elemento moltiplicatore di antagonismi.

I processi dissociativi che, dalla caduta del muro di Berlino, stanno proliferando a livello planetario e all’interno di ogni singola comunità nazionale e/o locale trovano in ciò una delle loro cause scatenanti. La fine del bipolarismo, ben lungi dal segnare "pace, ordine e sicurezza", ha dato luogo all’esplosione di violenti conflitti sul piano regionale ed ha aperto, nel contempo, una competizione simbolica irrudicibile tra rappresentazioni orientali e occidentali del mondo e della vita.

Nella società planetaria interamente occidentalizzata, diversamente da quanto alcuni avevano desiderato e altri pronosticato, non reggono più gli stili di vita, le culture e gli archetipi che la civiltà occidentale, dalla scoperta dell’America in avanti, è andata diffondendo in tutto il mondo e nelle coscienze dei singoli.

Quanto più la società complessa occidentale si è scoperta policulturale, tanto più ha rappresentato l’urgenza di una valorizzazione delle differenze che, a tutti i livelli, costituiscono l’elemento precipuo che ne definisce il profilo. Ma omettendo di riconoscere pienamente e fino alle estreme conseguenze l’autonomia e le sfere di libertà delle differenze, la società globale occidentale ha consentito che la loro difesa e la loro espressione potessero avvenire esclusivamente nelle forme del fondamentalismo culturale.

La policulturalità a cui è approdata la civiltà occidentale, non prolungandosi in pieno e totale riconoscimento dell’Altro, si è andata capovolgendo in una variante ultramodernizzata di fondamentalismo. L’atteggiamento di superiorità culturale, tipico della civiltà occidentale, ha, così, trovato modo di esprimersi in forme ancora più invasive e autoritarie.

Laddove la policulturalità non viene presa sul serio, i conflitti tra identità non trovano canalizzazione, esplodendo in maniera virulenta sotto forma di fondamentalismi. La policulturalità e il trasversalismo culturale, da occasione per il superamento dell’emarginazione dell’Al-tro, si trasformano in situazione di guerra e sottomissione dell’Altro. Gli antagonismi non si parlano, ma si scontrano violentemente; meglio: si parlano, attraverso lo scontro violento.

I mezzi della comunicazione (interculturale e policulturale) sono quelli che più degli altri palesano tale evidenza. Si pensi agli scenari di guerra, di sofferenza e di morte ("guerra del Golfo", guerre civili nell’ex Jugoslavia, in Somalia, in Ruanda e Burundi, morte per fame e denutrimento per milioni di esseri umani, crescita esponenziale della violenza omicida e anomica in tutti gli angoli del mondo, ecc.) che in questi ultimi anni, grazie all’uso massivo e capillare dei media, sono entrati dolorosamente nel campo di esperienza di tutti, tracciando un crudele, se non sadico, "spirito dei tempi".

Un flusso comunicativo-simbolico tragico a sequenza illimitata parte da questi avvenimenti e irrompe nelle nostre coscienze, accerchiandole. L’orrore che ad essi si accompagna, con il suo letale deposito simbolico, invade il nostro vissuto personale, a misura in cui noi facciamo esperienza del medium che li diffonde e mette nel circuito della informazione e comunicazione. Eppure, proprio per l’asetticità con cui il medium avvolge il messaggio, sono polarmente lontani e irraggiungibili dalla nostra responsabilità e dalla nostra esperienza diretta.

L’uso fondamentalista e, insieme, pervasivo del medium incute terrore nelle nostre coscienze, gratificandole con forti dosi di deresponsabilità. Siamo posti così vicini e, nel medesimo istante, talmente lontani dall’Altro da non ritenerci affatto responsabili del suo destino.

L’Altro qui vive per noi solo come una doppia minaccia:

a) ci inquieta, per la carica di alterità che connota la sua identità;

b) ci terrorizza, per la fine cruenta che il "destino" gli ha assegnato.

Siamo, perciò, indotti a sentirci talmente vicini a lui, da rifuggirlo imperiosamente. Soltanto mantenendolo lontano, potremo evitare di patire la sua stessa fine: cioè, potremo continuare a vivere. Non si tratta qui di staccarsi dall’Altro; al contrario, dopo averne sentito e visto l’agonia mortale, occorre decisamente e decisivamente evitare che lui ci raggiunga, ci "tocchi" con la sua sofferenza e con il carico dei suoi interrogativi. Ognuno si condanna e condanna l’Altro a rimanere nella posizione in cui già è collocato: qui il Sé e l’Altro sono uniti solamente dall’impossibilità ad agire il cambiamento, pena il dolore, l’infelicità o la morte addirittura.

Il dolore e la morte si elevano qui a medium comunicativo supremo. Col che la policulturalità, anziché un "agire comunicativo", mette in campo un agire emarginativo. A questo estremo limite spingono quei fondamentalismi che si nutrono materialmente e simbolicamente dell’emarginazione dell’Altro, vanificando tutte le occasioni di trasversalità e policulturalità pure rese possibili dal tempo storico. In ballo non sono unicamente i "fondamentalismi islamici", come i sistemi mediatici dei paesi avanzati amano accreditare. Le responsabilità della civiltà e delle culture occidentali sono, in proposito, rilevantissime.

L’agire emarginativo obbedisce alla razionalità del dominio e della discriminazione; anche nel senso che finalizza l’esercizio del potere e le sue condotte simboliche alla crescita delle diseguaglianze sociali. Le aree dell’emarginazione, così amplificate, vengono trattate con i codici culturali dello stigma e le strategie politiche della ghettizzazione sociale. Qui i fenomeni dell’esclusione sociale non solo vengono giustificati culturalmente e incoraggiati politicamente; ma divengono la base materiale dell’oppressione dei soggetti emarginati. Al punto che, nel circuito culturale ufficiale, opzioni discriminatorie ed escludenti sono metabolizzate come comportamenti normali. La risultanza più inquietante sta proprio nell’assunzione dell’agire emarginativo come agire normale. I paradigmi della democrazia multiculturale, al pari del "sogno americano" del melting pot e di tutti i modelli di democrazia politica che abbiamo finora conosciuto, si rivelano un puro orpello formale, assolutamente incapaci di fare i conti con i montanti fenomeni di razzismo e xenofobia che stanno invadendo il mondo. Le varie operazioni di "pulizia etnica" in opera nel pianeta non sono che la punta di iceberg di un più generale processo di accumulazione di forme ipermodernizzate di fascismo etnico che nell’etnocidio sembrano trovare uno dei loro principali canali di espressione nel rapporto con l’Altro. I casi recenti dell’ex Jugoslavia e del Ruanda non fanno che rendere palese un processo latente, dispiegatosi in profondità dagli anni ‘60 in avanti, con il proliferare di nuove forme di colonialismo, basate sul controllo politico-economico delle ex colonie da parte non solo delle "potenze madri", ma anche di organismi sovrana-zionali quali il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

La differenza, in quanto tale, viene condannata e isolata, prima ancora che socialmente e politicamente, sul piano culturale e simbolico. Una catena discriminante ed opprimente stringe tutti i diversi: il diverso fisico (handicappato, minorato, malati in genere); il diverso razziale (negro, ebreo, extracomunitario); il diverso sessuale (donne, omosessuali); il diverso mentale (psicopatico); il diverso generazionale (anziani, bambini); il diverso territoriale (meridionale, contadino, straniero); il diverso professionale (professioni umili e/o basse); il diverso espressivo (analfabeta, semianalfabeta, straniero).

La relazione comunicativa assume una modalità emarginante: il medium e il messaggio comunicano emarginazione ed esistono in quanto veicolo di emarginazione. L’agire emarginativo si va, così, ad incardinare sul codice binario amico/nemico, facendo propri gli assi portanti del pensiero decisionista e realista che, dal Cinquecento al Novecento, hanno largamente caratterizzato il modo d’essere della relazione politica, sul piano dell’ordine interno e degli equilibri internazionali.

Ciò che deborda il sistema delle codificazioni ufficiali viene metabolizzato come alterità culturale. L’altero culturale non è altro che una maschera del "nemico" e, perciò, è qui posto sotto il controllo coattivo delle strategie dell’emarginazione.

All’interno della formazione della soggettività critica, registriamo proprio a questo livello uno scardinante processo controintenzionale. Nella intersezione epocale in cui siamo collocati, i codici e i simboli della tecnologia elettronico-informatica si prolungano in maniera invasiva soprattutto nelle coscienze infelici di chi autorappresenta la propria identità come alterità assoluta del medium. E ciò in un duplice senso:

a) sia perché non è possibile sottrarsi alla signoria semantica, simbolica e comunicativa del medium;

b) sia perché la vittima sacrificale per eccellenza del medium, per ovvi motivi, è proprio il campo/soggetto altero al sistema metabolico culturale dominante.

È possibile lottare (o perlomeno resistere a) i poteri complessi e pervasivi dei media, unicamente assumendo la loro esistenza come radicale punto di svolta e di non ritorno della civiltà (occidentale). Occorre, in altre parole, fare i conti con i sistemi di comunicazione e i retrostanti circuiti metabolici culturali, attrezzandosi ad un livello mag-giore di complessità, senza riporre alcuna speranza in archeologie salvifiche e fondamentalismi etici, politici, etnici e religiosi. Il fondamentalismo, anzi, è una sottospecie rozza dell’agire emarginativo che si sprigiona dai media, nei cui selettori razionali finisce risucchiato e neutralizzato.

La risorsa estrema in mano al fondamentalismo è la guerra, in tutte le sue forme: da quelle simbolico-culturali a quelle coercitivo-militari. Ma è proprio tale estremo limite ad essere sussunto e rielaborato dai poteri informatici. In primo luogo, perché nella società globale planetaria chi è in grado di mettere in campo i poteri e i mezzi comunicativi più complessi si trova a godere, in qualunque tipo di guerra, di una posizione di inestimabile vantaggio. In secondo, perché il ricorso alle forme della guerra non fa che sovralimentare e cristallizzare co-me dato ontologico proprio le condotte dell’agire emarginativo. In terzo, perché tutte le contraddizioni, le diseguaglianze e le ingiustizie, dal piano culturale e simbolico a quello sociale e politico, vengono surrettiziamente spostate in un ordine di discorso in cui la soluzione emarginatoria e discriminatoria viene mistificata come ineluttabile. È a questo punto che l’agire emarginativo corona il suo disegno strategico manipolatorio: porsi quale modalità esclusiva della relazione con l’Altro e della relazione comunicativa tout court.

2.

Alfabetizzazione dell’ignoranza e agire identificativo

Le condotte dell’agire emarginativo hanno, dunque, processi retrostanti di formazione e alimentazione culturale. Ecco perché il pen-siero critico e tutte le forme di espressione dell’arte radicale hanno sferrato una critica acuminata alla cultura, ai suoi archetipi e ai suoi codici. Col che incrociamo un poco indagato paradosso: l’uso della cultura, per la contestazione della cultura.

La contestazione della cultura è stato un tema forte di alcuni filoni dell’Illuminismo, delle avanguardie artistiche nei primi decenni del ‘900, della "teoria critica" di matrice francofortese, del situazionismo e del post-situazionismo, della "macchina di sapere" messa a punto da Foucault e, per avvicinarci ad alcune delle tonalità politiche più caratteristiche del nostro recente passato, dei movimenti degli anni ‘60 e ‘70, con in testa il Maggio francese; tanto per fare solo qualche illuminante esempio.

Negli anni ‘60 e ‘70, la contestazione della cultura a mezzo di cultura diviene, ben presto, precondizione (culturale) della stessa rivoluzione politica. Ma qui la rivoluzione culturale non soltanto è un apriori ontologico ed epistemologico della rivoluzione politica; più esattamente, la eccede. Il campo di incidenza di questi "modelli culturali" si allarga a tutto il pianeta: poteva essere diversamente nel "villaggio globale"? I temi della rivoluzione culturale dall’ambito europeo e nordamericano si trasferiscono ai modelli della rivoluzione politica cinese, partorendo il modello della "rivoluzione culturale proletaria".

Non è nostra intenzione entrare nel merito della massa dei fenomeni che abbiamo stringatamente evocato che, tra l’altro, mantengono tra di loro non trascurabili differenze. Vogliamo esclusivamente sottolineare quanto nella società globale la circolazione dei discorsi e la messa in opera delle prassi avvenga in tempi iperveloci e su scale spaziali planetarie. Ciò, ovviamente, non cancella e omologa le differenze; bensì si nutre delle differenze, dirottandole verso aree di senso sussunte sotto poteri sapienzali assai complessi e smisuratamente freddi.

Dobbiamo prendere in considerazione una delle intenzionalità politiche più significative della contestazione della cultura (a mezzo della cultura) dei movimenti degli anni ‘60 e ‘70: trasmettere cultura, per reintegrare nell’uso della lingua e della parola chi ne è escluso ed emarginato. Entra in gioco un tema tanto cruciale quanto delicato: quello del linguaggio e dell’identità. I fenomeni dell’esclusione e dell’ emarginazione, prima ancora che essere causalizzati a dinamiche sociali e politiche, vengono ricondotti a motivazioni di ordine culturale. L’esclusione e l’emarginazione sono ritenute dislocate al livello primario dell’inibizione alla lingua e l’identità emarginata che consegue a tale interdizione si palesa come identità a cui, con la lingua, è sottratta la parola. La contestazione della cultura si pone l’obiettivo dichiarato di includere nella lingua, per restituire alla parola i soggetti emarginati. Da qui l’intenso, vario e non-conformista uso che i movimenti fanno, soprattutto per opera delle ali cosiddette "creative", di tutti gli strumenti culturali, artistici e comunicativi che la società globale mette a loro disposizione. Le "università critiche" e/o "alterna-tive", i "controcorsi" nelle loro varie forme di espressione (da Berkeley a Berlino, da Nanterre a Trento), procedono alla messa in forma di un vero e proprio processo di culturizzazione, avente espliciti obiettivi di contestazione sociale. Meglio: mettono al centro dei processi di culturizzazione i soggetti sociali culturalmente emarginati, non solo e non tanto per stimolarli o recuperarli all’azione, quanto per porli nelle condizioni di costruire in autonomia e in libertà la loro identità e la loro azione.

Così stando le cose, non si assiste ad un mero progetto di recupero e integrazione dell’emarginazione culturale e dell’esclusione sociale; bensì ad una rottura del totalizzante e soffocante ordine del discorso culturale dominante, scardinato per linee interne dall’irruzione di soggetti, tattiche, strategie e progetti in posizione di alterità rispetto alle codificazioni esistenti. Ecco perché i processi e i progetti della critica della multiversità e della presa di parola sono tra i fuochi interni più vitali dei movimenti del ‘68 in America e in Europa.

Da essi dobbiamo ripartire, rianalizzandone in breve le attribuzioni di senso più prossime al campo dei significati oggetto della nostra ricerca. In prima istanza, isoleremo i loro punti forti; successivamente, cercheremo di individuare i loro limiti.

Tattica e strategia della critica della multiversità partono da un convincimento base: l’alienazione (degli studenti) non trova il suo punto di ancoraggio in processi socio-economici, bensì ha come sua molla motivazionale centrale il processo educativo. Il fatto è che l’alienazione è una componente essenziale ed insostituibile di qualunque processo educativo che, attraverso la devitalizzazione delle coscienze, esiste in funzione della manipolazione dei fatti, per puri fini di dominio e controllo. Ciò è individuato con estrema chiarezza da S. Golin, giovane studente della Brandeis:

Fino al momento della laurea noi siamo edotti di una serie di fatti separati dal loro significato... Nessuna meraviglia quindi che i nostri corsi, salvo poche eccezioni, ci appaiano insignificanti per la nostra vita. Nessuna meraviglia che siano così noiosi. La noia è condizione necessaria per ogni tipo di educazione che miri alla manipolazione dei fatti, astraendoli dal loro significato".

Il processo educativo devia e, quindi, concentra una quantità crescente di attenzione, informazione e saperi su temi e problemi che nella realtà vanno costantemente perdendo di rilevanza, per cui finisce con l’incuneare delle profonde cesure tra i processi acquisitivi di conoscenza e la vita reale, tra il soggetto/oggetto del processo educativo e la realtà. Ora, quanto più tale modello di educazione/ formazione si massifica, tanto più le coscienze sono investite da un processo di depauperizzazione cognitiva e la manipolazione dei dati reali si va progressivamente approfondendo ed estendendo. Con l’avvento della cultura di massa e le ibridazioni triangolari da essa inverate con la cultura umanistica e la cultura scientifica, il fenomeno dell’alienazione culturale si stratifica in maniera diffusiva nell’ordito di tutte le relazioni sociali. Inoltre, quanto più si intensifica l’alienazione culturale, tanto più si dilata l’alienazione linguistica: il soggetto del processo educativo viene gettato in un campo relazionale e comunicativo, in cui stenta a procurarsi le parole attraverso le quali dire e rappresentare la propria mutilazione identificativa, smarrendo progressivamente se stesso.

Il senso delle biografie personali si va rivelando in tutta la sua indigenza, sotto l’imperio di codici di dispotismo culturale e sociale che trasformano i processi di educazione in industria del sapere, finalizzata, come ogni industria che si rispetti, all’accumulazione di potere e profitto per ristrette élites. In virtù di tali meccanismi, istanze di pianificazione economica, programmi di sviluppo tecno-scientifico, strategie di controllo politico si saldano in un congegno unitario, solcato da una rete di articolazioni funzionali: la multiversità. Alla multiversità sono riconducibili tutte le prestazioni imputate al "sistema universitario" che, dagli anni ‘50 e ‘60, vanno creando nuove professioni intellettuali: assistenti e tecnici di ricerca, consulenti industriali, impiegati per l’amministrazione, dirigenti per i progetti di ricerca, ecc. Per rendersi conto della rilevanza del fenomeno, basti pensare che, negli Usa, già nel 1959 ben il 20% del lavoro di "Ricerca & Sviluppo" avviene direttamente nelle università. Nessuna meraviglia, dunque, se, su questa base: "... la multiversità diventa l’avanguardia dello status quo, chiave per introdurre senza scosse un Nuovo Ordine alla 1984".

La multiversità del dispositivo di comando è saldamente intrecciata all’unidimensionalità del flusso comunicazionale e dei suoi imperativi culturali. Giustappunto, la compenetrazione tra la multiversità del contesto e l’unidimensionalità del messaggio costituisce, come per primo intuito da Herbert Marcuse, la sostanza letale delle tecnologie del controllo repressivo nelle società avanzate. Il contenuto unidimensionale dei processi educativi della multiversità è presto detto: alfabetizzare l’ignoranza. Prende lena da qui un immane processo di acculturazione dell’adattamento acritico allo status quo che, per questa via, intenderebbe risolvere alla radice il problema e la sussistenza stessa dell’ emarginazione e dell’esclusione sociale.

La critica della dimensione culturale dei processi di alienazione, attraverso i "controcorsi" e le "università alternative", riverbera tre importanti conseguenze:

a) la "fondazione culturale" della mobilitazione politica;

b) la connessione indissociabile tra attività di ricerca teorica e azione politica;

c) l’autorganizzazione delle risorse culturali e politiche, all’interno di un progetto/prassi di cambiamento radicale della società e della vita degli esseri umani.

Tutti e tre questi processi fanno intersezione tra di loro e danno luogo ad una vera e propria efflorescenza di iniziative culturali dal basso che, di volta in volta, anticipano, direzionano, seguono o sono influenzate dalla mobilitazione collettiva.

La ricomposizione del momento politico col momento culturale, della dimensione della teoria con quella della prassi costituisce:

a) la confutazione conseguente della multiversità strumentale del sistema universitario, quale perno dell’alfabetizzazione dell’ignoranza e della docilizzazione conformistica delle intelligenze;

b) la base di sviluppo di un fenomeno ancora più esplosivo: la presa di parola dei soggetti per l’innanzi esclusi ed emarginati dal circuito della comunicazione politica e dell’espressione culturale.

Intendiamo i processi di presa di parola, affermati dai movimenti degli anni ‘60, come una "componente di senso strategica" che attraversa tutte le modalità d’essere e di espressione della mobilitazione collettiva di quegli anni; non unicamente il campo circoscritto e limitato delle strategie, dei mezzi e delle attività di comunicazione in senso stretto. Con la presa di parola, non si passa semplicemente da una posizione storica di invisibilità ad una, invece, di visibilità; da una situazione di non-comunicazione e incomunicabilità ad un’altra di comunicazione e comunicatività, acquisendo padronanza e rielaborando le tecnologie della comunicazione sociale. Più esattamente, la presa di parola è indicativa della tensione ad afferrare i rivoli sparsi delle identità collettive e di quelle singole, riconoscendo l’Altro come identità differente e il Sé come identità propria; identità entrambe da verificare, ricostruire e rimettere in dialogo in permanenza. Riaccedere alla lingua e alla parola significa poter finalmente riscoprirsi liberi, costruire e riconoscere in autonomia la propria e l’altrui libertà. Pensarsi, sapersi e costruirsi in libertà sono i tre fuochi di una nuova modalità dell’agire: l’agire identificativo.

La presa di parola affranca dalla condizione di emarginazione culturale ed esclusione sociale e, nel contempo, situaziona nel vivo del flusso delle relazioni sociali, là dove esse erompono e ribollono. Non soltanto si dà il distanziamento critico dai selettori dell’agire emarginativo; ma trova anche puntuale demistificazione la razionalità dell’agire comunicativo che postula una riappropriazione/reinven-zione del linguaggio e della dialogica interumana, senza andare ad incidere criticamente nel cuore infetto di quei processi culturali di alienazione che incubano emarginazione ed esclusione, "limitandosi" alla critica della razionalità strumentale e della ragione sistemico-funzionale.

L’agire identificativo insedia tre vettori direzionali, i quali integrano un’area di senso così articolata:

a) il campo dell’autoidentificazione;

b) il campo dell’identificazione dell’Altro;

c) il campo dell’identificazione da parte dell’Altro.

L’area di senso così delimitata non disloca soltanto problemi comunicativi. Anzi:

a) nel loro atto sorgivo: i problemi della comunicazione si costituiscono come problemi di identificazione;

b) nel loro farsi e operare: i flussi comunicazionali si danno sempre tra identità in autocostruzione e in metamorfosi; nel duplice senso che si rimodella e va costantemente ripensato non solo il rapporto con l’Altro e l’altrui identità, ma anche e soprattutto con il Sé e l’iden-tità propria.

Il problema dell’identità, dunque, si pone come questione prioritaria. In questo senso, l’agire identificativo precede ed eccede l’agire comunicativo. O, per meglio dire: la comunicazione è relazione dell/ all’identità, nel triplice percorso del Sé verso stesso, del Sé verso l’Altro e dell’Altro verso il Sé. Forme e modi del comunicare rinviano sempre ad un che di precostituito, in via di costituzione e/o di ridefinizione costante: i processi di formazione e variazione dell’identità. L’occlusione e/o la repressione delle condotte di formazione ed espressione dell’identità ostruiscono i canali di espressione della comunicazione, sino a porli in uno stato di eterodirezione culturale, politica e sociale. Libertà del comunicare è prima di tutto libertà delle identità in comunicazione o che, più esattamente, si vanno cercando nel campo identificativo prima ancora che in quello comunicativo. Il controllo della comunicazione è ciò che registriamo a valle di un processo iniziato a monte, come controllo dell’identità. Ecco perché le ricerche decennali di Foucault sulle tecnologie di controllo e repressione della soggettività acquisiscono una particolare rilevanza. Non a caso, Foucault è tra i primi (e tra i pochi) a individuare che il problema dell’identità è la questione politica centrale sollevata dalle lotte studentesche degli anni ‘60.

3.

Dialogica della memoria e dell’identità

Dopo aver circoscritto sinteticamente il territorio di senso positivo delimitato dai movimenti del ‘68, dobbiamo procedere all’identifi-cazione dei limiti; beninteso, continuando a rimanere ancorati al cam-po investigativo che ci siamo riproposti di scandagliare.

La contestazione della cultura a mezzo della cultura, proprio nel suo insopprimibile tendere verso una permanente "rivoluzione culturale", dà luogo a neomodelli culturali, nella forma di "contromo-delli": le "università alternative" e i "controcorsi" non sono che al-cune delle forme perspicue, così, elaborate. Più in generale ancora, il neomodello culturale, instaurando una relazione di antagonismo nei confronti della cultura accademica, va cristallizzandosi in un movi-mento di controcultura che è, insieme, confutazione radicale della cultura ufficiale e suo ricambio potenziale in atto. Da questo lato, la "controcultura" è molto di più che un semplice troncone interno ai movimenti studenteschi.

Ma i neomodelli culturali rivoluzionari:

a) talora in maniera coerente e altre in modo controintenzionale, sono attraversati da tensioni universalizzanti e centralistiche, al pari dei modelli culturali vigenti;

b) sono fisiologicamente governati da una relazione schizofrenica di amore/odio verso la cultura;

c) oscillano nel situare la cultura ora in "funzione di servizio" del-la politica rivoluzionaria, ora nella posizione di determinante centrale della prassi rivoluzionaria;

d) pendono ora verso i modelli della "cultura alta" (il momento della "ricerca teorica"), ora verso quelli della "cultura popolare" (il momento della mobilitazione e della propaganda).

Le aporie interne appena segnalate discendono da alcuni vizi strutturali:

a) un modello statico di "rivoluzione culturale";

b) un’epistemologia ristretta di critica culturale;

c) una nozione monca dell’agire.

Vediamo meglio, con ordine.

Il modello di "rivoluzione culturale" configurato e messo in prassi si risolve in una rotazione semplice: nel senso che tende a rimpiazzare integralmente quello ufficiale, attraverso slittamenti critico-surroga-tori. La rotazione culturale descrive un movimento da "polo" a "po-lo", esaurendo in ciò le sue funzioni. Le culture per l’innanzi emarginate ambiscono, in tal modo, a stabilizzarsi, occupando il "centro" della scena comunicativa e del teatro culturale. La "rivoluzione culturale" qui si specifica, per l’appunto, come rotazione dal polo dell’ emarginazione al polo dell’ inclusione. Emerge, a quest’altezza, un doppio limite:

a) la "rivoluzione culturale" si traduce in una mera inversione di posizione e di segno tra polarità dell’emarginazione e polarità dell’ integrazione;

b) il movimento di "rivoluzione culturale", così, codificato si ipostatizza come termine finale della rivoluzione: o, meglio, come ultima rivoluzione necessaria e possibile.

In tutti e due i casi, in maniera tanto coerente quanto controintenzionale, la "rivoluzione culturale" si svela come un movimento finalistico-salvifico teso insopprimibilmente alla cancellazione della rivoluzione dall’ordine del giorno del calendario politico e dell’immaginario simbolico-culturale. Il corollario più in vista (e più esiziale) di un esito siffatto è, così, riassumibile: il potere rivoluzionario (della politica e della cultura rivoluzionarie) non abbisogna (più) di rivoluzione alcuna. Statica della rivoluzione e dinamica della storia e della vita degli esseri viventi finiscono letalmente col coincidere.

I punti di approdo di tale parabola rendono più espliciti un secondo e non meno rilevante limite di fondo: la dimensione della critica culturale è letteralmente espunta dall’orizzonte concettuale e dalle determinazioni dell’agire. Non solo il modello di rivoluzione qui messo in codice omette flagrantemente di ritornare su se stesso, smarrendo l’autoriflessività critica; ma delegittima e impossibilita la critica in quanto tale, espellendola dal campo del pensiero e della prassi. I due movimenti si intrecciano, congiurando verso inquietanti scenari, entro i quali la rivoluzione (culturale), proprio in quanto tale, è sempre dalla parte della ragione. Pertanto, in linea ontologica, non è assoggettabile alle categorie della critica.

Il campo della critica, come si vede, patisce una indebita restrizione epistemologica:

a) tutto è criticabile a partire dalla rivoluzione;

b) niente è criticabile discutendo la rivoluzione.

In realtà, il contenuto di senso più autentico di ogni rivoluzione (culturale) e la struttura epistemologica di ogni sapere critico-rivolu-zionario prevedono geneticamente la costante rimessa in questione delle idee e delle culture rivoluzionarie, sia attraverso l’attivazione dell’autoriflessione critica, sia per il tramite dell’irruzione della soggettività critica, nelle forme materiali e culturali che si vanno determinando storicamente. Il concetto di "rivoluzione permanente" (elabo-rato da Marx e ripreso da Trockij e dalla stessa "rivoluzione culturale proletaria" cinese) tiene, in un qualche modo, conto di questo campo problematico; anche se omette di svilupparsi coerentemente in "rivo-luzione nella e della rivoluzione". "Rivoluzionare la rivoluzione", sot-toporre costantemente ad interrogazione critica il "certo", il "dato", il "sensibile", le forme di sapere "presupposte" e le culture "meta-bolizzate", anche a rivoluzione avvenuta, costituisce la struttura epistemologica della cultura rivoluzionaria e della rivoluzione della cultura. In questo senso, "rivoluzione culturale", è anche (o soprattutto):

a) critica delle idee e delle culture della rivoluzione;

b) libertà dalla rivoluzione.

Solo in tal modo, può trovar modo di affermarsi la libertà della rivoluzione.

Proprio questo reticolo epistemologico, prima ancora che politico-esistenziale, ha reso sempre oltremodo difficile, se non ardua, la relazione tra rivoluzione e cultura, tra potere rivoluzionario e arte. Da qui l’esigenza avvertita dall’arte e dalla cultura, per sfuggire alla presa stritolante dei poteri normativi e totalizzanti della rivoluzione, di pensare e praticare la sovversione culturale degli archetipi e degli stilemi rivoluzionari: "Sade, il revolver surrealista, Artaud, conducono l’as-salto contemporaneamente ai rivoluzionari". Ma è il movimento dada a costituire il primo punto di solidificazione della sovversione dell’arte e della rivoluzione a mezzo dell’arte e del richiamo utopico alle correnti profonde e arcane della vita reale. Il detournement situazionista non fa che allocarsi intimamente in questi rivoli sotterranei e, non a caso, anticipa, accompagna e segue l’esplosione del Maggio del ‘68. Per non parlare della resistenza culturale e artistica avverso il "sistema del socialismo reale", a cominciare dalla tragica sconfitta del futurismo libertario ed inventivo di Majakovskij.

I movimenti del ‘68, da un lato, costituiscono gli eredi autentici di queste tendenze; dall’altro, ne arretrano gli assi culturali, cognitivi ed epistemologici, con il loro non venire a capo della relazione critica/ rivoluzione. L’arretramento è particolarmente significativo e gravido di conseguenze negative, poiché le condotte dell’agire identificativo, pur travalicanti l’agire comunicativo, rimangono spossessate, per linee interne, delle loro risorse poietiche migliori. L’impossibilità di trascendere l’orizzonte politico della rivoluzione; l’inibizione della messa in discussione e del superamento dell’identità della rivoluzione e del soggetto rivoluzionario; la cristallizzazione normativa ed esistenziale delle culture, delle idee e dei comportamenti rivoluzionari cancellano, dalla teoria e dalla prassi, il movimento ininterrotto, vario e assolutamente libero della creazione e della creatività. L’agire identificativo viene deprivato della sua dimensione poietica in senso stretto, dovendo costantemente arretrare rispetto ai codici della "rivo-luzione culturale". Se l’agire comunicativo si mostrava orfano dell’ agire identificativo, qui l’agire identificativo si rivela monco dell’agire poietico. La soppressione della relazione poietica introduce una situazione limite letale: la dialogica tra identità differenti corre il rischio tragico di congelare in linea contrappositiva soggettività altere, irriducibili a qualunque presa di contatto. Non vengono, così, smarrite unicamente le vie della comunicazione; piuttosto, è il Sé che perde le strade del proprio autoriconoscimento e, tanto più, si accanisce sull’ Altro ed è preso d’assalto dall’Altro. I conflitti di identità, in tal modo, operano una secessione dalle sfere della dialogica, allocandosi in quelle della competizione concorrenziale per il potere (interno o esterno che sia). Tutti i conflitti di identità non risolti, originatisi ed esplosi rovinosamente entro il seno delle varie componenti dei movimenti studenteschi e tra questi e gli altri movimenti e le istituzioni partono da qui.

Il depotenziamento della dimensione poietica è causa di un rapporto indigente tra reale ed immaginario, anche per la decisiva circostanza che è l’immaginario della rivoluzione fattasi realtà che infeuda sotto di sé l’immaginario individuale e collettivo tout court. Ora, la prevalenza titanica dell’immaginario rivoluzionario non è che la faccia speculare dei fenomeni di derealizzazione e culturalizzazione della società affermatisi su scala allargata, a partire dagli anni ‘50 e ‘60, con l’irrompere della crisi di tutti e tre i tipi fondamentali di cultura (cultura umanistica, cultura scientifica e cultura di massa) e delle ibridazioni a cui essi avevano dato luogo. Già Debord e i situazionisti, sulla base della geniale analisi marxiana del "carattere di feticcio della merce", avevano colto le tendenze alla spettacolarizzazione immanenti nei processi di cosificazione propri alle società superaccumulate: la società dello spettacolo, da questo lato, non è che l’incubazione esemplare dell’integrale mercificazione e derealizzazione dell’habitat della vita sociale e relazionale. Siffatti processi, in questo ultimo trentennio, a fronte della planetarizzazione degli stili di vita, dei costumi e dei consumi e della mondializzazione della produzione, dell’informazione e comunicazione, sono letteralmente esplosi, accentuando vertiginosamente i fenomeni di implosione delle coscienze e delle intelligenze. In tutto ciò un ruolo rilevante è giocato dalla pubblicità, soprattutto quella visiva, che si rivela un formidabile veicolo di raccolta di profitti e di consenso ideologico-culturale. La mercificazione globale con cui conviviamo e che subiamo è qualche cosa di più e di diverso dalla "società dello spettacolo" che pure l’ha partorita, a partire dall’etica cinico-amorale che secerne in ogni istante/luogo, coscienza/intelligenza aggrediti dalla sua invasività e pervasività.

L’immaginario della rivoluzione non fa che offrire un contesto di significati altrettanto derealizzati e derealizzanti. Se è vero che la cifra del ‘68, da questa angolazione di osservazione, si gioca prevalentemente sull’immaginario, è altrettanto rispondente al vero che l’immaginario del ‘68 ha un contrassegno altamente reificante: non tanto perché impoverisce e appiattisce le proprie virtualità più ricche di senso, ma soprattutto poiché rimane prigioniero, suo malgrado, dei contesti di derealizzazione e culturalizzazione sociale che, pure, intende fieramente combattere.

L’apparato delle strutture di senso del ‘68, giusto perché mutilato del dispiegamento del proprio potenziale poietico, nella generale derealizzazione della società tenta di conficcare l’immaginario della rivoluzione ridotta ad immagine. I moduli culturali della rivoluzione immaginata, in tal modo, ritengono di poter venire a capo della realtà alienata, prendendo su di essa il sopravvento. Qui, allo stesso modo con cui la poesia (da dada in avanti) si va pensando come praxis, la rivoluzione immaginata si pensa come realtà.

Entro l’ambito della "rivoluzione culturale", il rapporto di congruità tra politica e realtà salta dall’interno, poiché è la relazione cultura/ immaginario che si frange; fino a dimidiarsi, nella società del segno e del simbolo, dando luogo alla prevalenza dell’immaginario sulla cultura. Non diversamente, ma secondo genealogie e metamorfosi di senso speculari, accade all’interno del campo della cultura ufficiale e delle istituzioni cui essa è imputata. Con la prevalenza dell’immagine sulla cultura, viene positivamente messa in crisi la funzione rivoluzionaria dell’avanguardia (politica e culturale). Non essendo più imputata di alcuna funzione culturale, ma avendo da svolgere un mero ruolo di immagine, l’avanguardia, in quanto tale, vede franarsi sotto i piedi la sua base di esistenza.

Pertanto:

a) o si costringe alla dissolvenza nella prassi e/o nell’immediato;

b) oppure riproduce tutti gli arcaicismi politici e culturali delle proprie funzioni esterne di comando.

Così, la fine dell’epoca del dominio del reale sull’immaginario non diventa, come pure era largamente possibile, l’occasione per una messa a punto di una relazione poietica più stringente tra reale ed immaginario, tra teoria e prassi, tra cultura e politica, tra critica e rivoluzione. Resta senza soluzioni all’altezza un altro e ben più dirompente problema storico: il tramonto irreversibile del monopolio del ‘politico’ sul reale e sulla società. A fronte della sovversione storica del flusso relazionale tra reale e immaginario, tra politica e cultura e politica e società, la politica e la rivoluzione, le culture e le prassi della rivoluzione andavano non semplicemente pensate e immaginate su se stesse, ma ricostruite, partendo e ripartendo da altro e da altrove: il potenziale di senso di libertà e di liberazione di cui storia e soggetti sociali erano i contraddittori depositari e portatori.

Le domande di libertà e di liberazione inoltrate dal tempo storico, dalla situazione epocale, dalle identità singole e collettive, dai soggetti sociali non trovano una puntuale recezione. Una sorta di strabismo culturale ed epistemologico le accoglie, curvandole verso il passato e inchiodandole al presente, nel momento stesso in cui le si proietta verso un futuro derealizzato che, più che essere il frutto di un’ immagine viva e di un immaginario ardente, è la proiezione dei desideri e dei sogni del passato. Non che il presente e il futuro debbano rimanere orfani dei sogni e dei desideri del passato; al contrario. Ma desideri, sogni, pulsioni e tensioni utopiche del passato possono essere recuperati solo a partire dalla capacità di desiderare, sognare e costruire il presente verso il futuro. È sempre e solo un presente diverso e radicalmente trasformato che può recuperare il passato, rilanciarlo e vivificarlo sull’asse del futuro; è solo e sempre un presente aperto al suo futuro (cioè: radicalmente altro dal passato) che può "catturare" e rielaborare il suo passato.

La mutilazione dell’agire poietico, a quest’approdo, si rivela essere una cesura irrimediabile e fatale delle complesse relazioni di continuità/discontinuità dello spazio e del tempo, delle categorie della metamorfosi storica, della genealogia delle culture, della disseminazione della soggettività sociale. Il campo di ogni condotta umana, di ogni determinazione storica, di ogni istanza politica e di ogni attribuzione culturale è sempre insieme:

a) un continuo di discontinuità;

b) un discontinuo di continuità.

Le rotture più radicali sono quelle che sanno reinterrogare la storia e il passato; soprattutto, la loro storia e il loro passato. E fanno ciò per separarsene radicalmente, senza, tuttavia, azzerare o seppellire nell’ oblio il loro senso e il loro significato. La memoria e l’identità del presente e del futuro nascono da una dialogica ininterrotta con la memoria e l’identità del passato. La memoria del tempo e delle identità che lo solcano è sempre (anche) la riscoperta attualizzata dell’onda calda delle origini e, insieme, dei loro atroci limiti. Portiamo sempre con noi le stigmate delle nostre origini e sempre ad esse dobbiamo volgerci, patendone la miseria e traendo da esse lo slancio e il desiderio indomabile della svolta.

Laddove si interrompe o destabilizza la dialogica della memoria e dell’identità:

a) il "marginale", al termine di un processo di rotazione culturale, tende ad assolutizzarsi come "centrale";

b) l’emarginazione culturale si fa movimento unidimensionale, tendente ad assurgere quale orizzonte normativo "altro" dell’integra-zione culturale;

c) l’esclusione sociale pone in essere conflitti di identità irresolubili che hanno come loro risultante la soccombenza dei "soggetti deboli";

d) la soggettività critica viene riassorbita e destrutturata attraverso i selettori via via più larghi dell’inclusione culturale e le procedure di istituzionalizzazione del conflitto politico, in funzione di conservazione dello status quo.

L’agire identificativo, deprivato della dialogica della memoria e dell’identità, rimane orfano dell’agire dialogico. Ciò lo getta in pasto alle sue aporie interne; sino al punto di non riuscire nemmeno più a valere come critica coerente e dispiegata della razionalità illuministica dell’agire comunicativo. Le istanze di superamento degli specialismi e dell’unidimensionalità della multiversità; l’esigenza di assestare la proposta politica su un discorso culturale critico; la tensione a ricondurre ricerca teorica e azione politica entro un contesto unitario; l’autorganizzazione delle risorse culturali e politiche in funzione di un progetto/processo di cambiamento del reale restano sospese a mezz’ aria. Pur palesandosi come giuste intuizioni di rottura, non riescono a perforare, del tutto, il manto delle codificazioni culturali vigenti. La vanificazione dell’agire dialogico le mette in cortocircuito. Uniche loro vie d’uscita restano l’implosione o l’esplosione, a seconda del loro moto pendolare tra:

a) cultura come matrice di rivoluzione;

b) politica rivoluzionaria come matrice di cultura rivoluzionaria.

E tuttavia, i movimenti e le culture del ‘68, fermi rimanendo questi loro profondissimi limiti, hanno il merito considerevole di porsi le domande giuste, a cui assai sovente forniscono risposte impercorribili. Tra tutti, uno dei pregi che si lascia più apprezzare è quello di aver prefigurato concettualizzazioni e partizioni più pregnanti delle categorie dell’agire, attraverso le dislocazioni dell’agire comunicativo, dell’ agire identificativo e dell’agire dialogico. Tali dislocazioni, pur rimaste grandemente deficitarie sul piano teorico e largamente incompiute su quello pratico, vanno assunte come ineludibili strutture di riferimento critico, per una nuova semantica e una nuova esperienza della libertà e della liberazione.

2.4.

Surplus dell'agire difensivo e proiettivo; deficit dell'agire propositivo

Ma il ciclo della conflittualità sociale degli anni '70 è un importante banco di prova, per ulteriori e articolate "prove di scavo".

Sul finire del 1970, con la chiusura dell'autunno caldo, si apre un altro ciclo di lotte operaie che si compie tra il 1971 e la primavera del 1973. Il nuovo ciclo di lotte operaie segna: (i) il tracollo dell'ipotesi repressiva del governo neocentrista Andreotti-Malagodi; (ii) il tramonto definitivo dell'opeaio massa. Registriamo a questo tornante storico l'apice delle conquiste operaie. La dinamica salariale, per l'effetto combinato della contrattazione collettiva di categoria e di quella articolata aziendale, si impenna verso l'alto, portando a coerente coronamento le premesse e gli esiti del ciclo di lotte degli anni '60 e del biennio 1969-70. Aumenti egualitari e automatismi salariali sconvolgono definitivamente le cornici e l'assetto del sistema delle relazioni industriali edificato negli anni '50 e nei primi anni '60. Il controllo dell'ambiente di lavoro e la lotta alla nocività si saldano con importanti conquiste culturali (le "150 ore") e politico-sindacali (le assemblee retibuite durante l'orario di lavoro). Il modello di disciplina aziendale e le relative pocedure e scale gerarchiche precipitano in una crisi comatosa. Il monte delle ore di sciopero mantiene i picchi raggiunti durante l'autunno caldo. La concomitanza di tutti questi fattori intacca pesantemente i margini di produzione e riproduzione del profitto imprenditoriale. Dimostra, altresì, l'estrema precarietà della base su cui si è fondato il modello italiano di sviluppo capitalistico: (i) compressione intensiva del salario operaio; (ii) messa ai margini del conflitto operaio e sociale quale fattore entropico.

La già carente cultura industriale della classe politica e del ceto imprenditoriale, a fronte di queste risultanze critiche, è costretta a subire una sferzante rimessa in questione. Al punto che, da più parti, si è sostenuto che il conflitto operaio dei due cicli 1969-70 e 1971-73 abbia, di fatto, indotto/prodotto la maggiore "modernizzazione" del sistema industriale italiano e dei corrispettivi modelli organizzativi e gestionali.

In realtà, siffatto processo di modernizzazione/ristrutturazione pro-cede più per la strada del riaggiustamento/conferma che della trasformazione/disconferma del modello originario; anzi, la ristrutturazione e il decentramento produttivo degli anni '70 esaltano, in maniera estrema ed estremistica, i tratti fondanti (e, dunque, i vizi stutturali) del modello di sviluppo italiano, perseguendo il triplice obiettivo di:

a) gonfiare la dinamica produttivistica;

b) intensificare i tassi di sfruttamento del lavoro (operaio, marginale, precario e informale);

c) azzerare il conflitto operaio e sociale.

Il nuovo ciclo di lotte operaie e sociali che, dal 1974 al 1979, si apre è una conseguenza dei processi ristrutturativi in atto e, al tempo stesso, una risposta critica contro di essi indirizzata. Il che conferisce a tali lotte un carattere, per metà, difensivo e, per l'alta metà, proiettivo. Da qui un'ulteriore e non meno rilevante risultante: il mancato tra-scorrere della proiezione delle lotte in proposta politico-istituzionale. Il campo di senso delle lotte assume, così, un profilo interno strutturalmente irrisolto, quando non scisso. La mancanza di proiettività (nel caso dei "soggetti forti" tradizionali) e l'assenza di proposta (nel caso dei "soggetti emergenti") non solo determinano il rinculo e il rinserrarsi delle lotte in un ambito angusto, ma soprattutto fanno sì che esse rimangano avvolte e consunte in un deficitario livello di interscambio, comunicatività e comunicazione sociale. Si delineano i contorni di una situazione tipica, entro cui al surplus dell'agire difensivo e proiettivo fa eco il deficit dell'agire propositivo. Sono, per l'appunto, questi i contorni che delineano la sconfitta dei cicli di lotta operaia e sociale degli anni '70.

La proliferazione e l'allargamento del "fronte sociale" del conflitto non aprono un'adeguata socializzazione dei soggetti in causa, i quali spesso non comunicano e altre, addirittura, agitano tematiche e problematiche tra di loro confliggenti. Da un lato, i "nuovi movimenti sociali" (giovani, donne, disoccupati, pacifisti, ecologisti, contro il nu-celare, ecc.) premono verso nuovi orizzonti di senso della mobilitazione collettiva; dall'altro, i movimenti sociali storici (classe operaia, ecc.) sembrano pietrificare le opzioni, le strategie, i comportamenti e gli atteggiamenti del passato. Ora, diversamente da quanto a tutta pima si potrebbe arguire, ciò che manca non è tanto una saldatura quanto una dialogica tra "movimenti vecchi" e "nuovi movimenti"; una dialogica che sia interna ai singoli soggetti sociali, prima ancora che esterna, verso tutti gli altri soggetti della mobilitazione collettiva. La rappresentazione emblematica di questo deficit è data dalla sconfitta:

a) movimento difensivo della classe operaia, con il contratto del 1979 e i "35 giorni" alla Fiat;

b) dell'istanza isolazionista del "movimento (proiettivo) del '77".

I nuovi soggetti sociali occupano per intero la scena, caratterizzandola culturalmente e politicamente; ciononostante, non riescono a trasformare la loro proiezione in proposizione, per i limiti dialogici di cui si è detto e per una costituzionale carenza di organizzazione e realizzazione politico-istituzionale della rete di domande e "bisogni" di cui sono portatori; fenomeno che, a più riprese, abbiamo cercato di descrivere in questo e nei capitoli precedenti. Sicché, se il loro insorgere segna il tracollo definitivo della sinistra rivoluzionaria, il loro progressivo spegnersi e la loro sconfitta lasciano senza sbocchi costruttivi l'opposizione di sinistra, anche in virtù del progressivo avvicinarsi del Pci all'area di governo. Proprio il vuoto e il silenzio apertisi a sinistra, a partire dal 1974, penalizzano fortemente il "movimento del '77", ultimo ciclo di "lotta offensiva" che, di fatto, prodotto dal decennio. Per il suo isolazionismo interno e l'afasia della sinistra istituzionale e rivoluzionaria, tale movimento resterà drammaticamente senza interlocutori politici, sociali e culturali, fino ad essere trasformato in un "problema di ordine pubblico": affrontato con i blindati, anziché con flessibili e adeguate risposte politiche e culturali.

I processi ristrutturativi degli anni '70 sono stati una delle cerniere mobili di questa evoluzione della conflittualità operaia e sociale. Essi hanno inciso simultaneamente sull'area dell'integrazione e dell'esclusione: la prima è andata restringendosi e la seconda allargandosi. Inoltre, in parallelo alla dislocazione del decentramento produttivo, tra le due aree è stata disseminata una fitta serie di filtri e zone intercomunicanti, a diverso grado di integrazione/esclusione. Dal centro alla periferia del sistema tutti i processi, gli attori e i comportamenti sono subordinati e vincolati dalla gerarchia dei valori e delle priorità che l'interesse di impresa ridisegna. Cosicché sia la contrazione dei livelli occupativi nei "settori centrali" (e il conseguentemente intensificarsi dello sfruttamento del lavoro operaio) che il dirottamento pilotato di forza-lavoro verso i cicli precari, marginali e informali non solo obbediscono alla medesima logica, ma sono elementi interni at-tivi del sistema che li periferizza, il quale può cumulativamente nutrirsi tanto dei soggetti inclusi quanto di quelli esclusi. I processi, gli attori e i comportamenti dei cicli periferico-informali vengono fagocitati dalle logiche e dagli interessi produttivi e di controllo del "cuore centrale" del sistema sociale delle imprese proprio in ragione diretta del loro livello di precarizzazione e periferizzazione: quanto più sono precari e periferici, tanto più sono funzionali e produttivi, conformi alla razionalità sistemica della ristrutturazione e dal decentramento produttivo.

Impattiamo, dunque, contro un modello di esclusione fagocitante; esclusione che incardina i (crescenti) livelli di securizzazione del capitale sui (crescenti) livelli di insecurizzazione del lavoro e dei diritti sociali. Da questo lato, la patologia strutturale del modello di sviluppo originario viene condotta a coerente deflagrazione. Ciò, inevitabilmente, conferma ed esalta gli interessi forti della "grande impresa", in virtù del ruolo di guida da essa assunto dei processi ristrutturativi in corso. In determinazione ulteriore, ma non secondariamente, soffoca l'esercizio dei "diritti di cittadinanza" e del "pluralismo politico".

"Dentro" e "contro" i processi di fagocitazione appena descritti si muovono e agitano le lotte operaie e sociali nel ciclo 1974-1980. Esse sono, ad un tempo, in relazione di continuità con il modello di sviluppo e, nel contempo, ne squarciano le linee di continuità e determinatezza: ne mostrano impietosamente, per una parte, i limiti storici, politici e culturali; per l'altra, scavano profonde discontinuità proiettive, le quali rimangono sospese a mezz'aria, prive di implementazione storica, politica, istituzionale e culturale. Il grande merito storico, politico e culturale dell'operaismo teorico degli anni '60 e '70 è quello di aver incentrato l'analisi su tali discontinuità; ma da qui, nel contempo, si dipana il suo limite più rilevante: di esse viene, difatti, fornita una lettura enfatica e unidirezionale. Come l'operaismo teorico degli anni '60 colloca la lotta operaia tutta fuori del capitale, così l'operaismo teorico degli anni '70 situa la lotta sociale immediatamente fuori e contro (la crisi del)lo sviluppo capitalistico e (del)lo Stato che ne è il supporto. Sviluppo capitalistico e Stato, conseguentemente, risultano essere configurati e posizionati sempre all'inseguimento delle lotte, da queste ultime per intero determinati e modellati. Col che risultano essere semplificate non solo le relazioni e le contraddizioni tra le classi, ma anche e soprattutto (i) le forme economiche dello sviluppo e le (ii) forme politiche dello Stato e del sistema istituzionale, le quali vengono tutte e totalmente deprivate della loro autonomia relativa. Con un effetto controfattuale, tanto coerente quanto sorprendente, la dinamica dei cicli di lotta viene, così, letta senza dare adeguatamente conto del suo contraddittorio profilo, irrisoltamente sospeso tra elementi difensivi, proiettivi e apropositivi.

Il senso più profondamente destrutturante dei processi di esclusione fagocitante alimentati e territorializati dalla ristrutturazione e dal decentramento produttivo sta nella neutralizzazione e nel rovesciamento della "centralità delle lotte operaie" affermata dai cicli di lotta sociale precedenti: ora, sia al "centro" che "in perifieria", tutto è plasmato e funzionale alla razionalità dell'interesse di impresa. La costruzione dei processi di identificazione collettiva viene, così, destabilizzata per linee interne, generando un clima di frustrazione diffusa, sia nelle figure "centrali" dei cicli produttivi che in quelle "periferiche", "marginali" e "informali". Il senso di frustrazione si accompagna ad un'impotenza di natura sradicante. L'esempio tipico della terribile trama disegnata da queste fenomenologie è dato dal disadattamento acuto in cui precipitano le migliaia di operai collocati in Cassa integrazione che, in casi assai frequenti, arrivano all'atto estremo del suicidio. Con l'ottimizzazione maniacale della securizzazione del capitale, i processi di insecurizzazione del lavoro si prolungano in insecurizzazione crescente dell'identità e della vita stessa dei lavoratori, dei precari, dei marginali e dei disoccupati.

L'insecurizzazione dell'identità e della vita degli inclusi e degli esclusi dai cicli lavoratori rappresenta il punto estremo verso cui si spingono, in Italia, i processi di integrazione/esclusione sociale. I modelli attivi di esclusione fagocitante affermatisi negli anni '70 sono il terminale e, ad un tempo, il denudamento di alcune delle logiche spossessanti che, fin dall'inizio, accompagnano la genesi e l'evolu-zione del modello di sviluppo (economico-politico) italiano. In questo senso, sono anche l'anticamera logica e temporale degli orizzonti ancora più spoliatori e pauperizzanti messi in scena dagli anni '80 e '90.

2.5. Alcune considerazioni conclusive

L’esigenza di un ripensamento profondo delle categorie e dell’ esperienza della libertà e della liberazione pare particolarmente intensa in questo nostro tempo; più di ogni altro, tempo di transizione, di crisi e di guerre. È proprio in occasioni di questo tipo che con più forza emerge l'insostituibile posto e ruolo dei movimenti nella storia. Sia perché i movimenti possono essere "movimenti di rivolta" e "movimenti di liberazione"; sia perché possono essere "movimenti di restaurazione" e "movimenti di stagnazione". I movimenti — come il conflitto — hanno sempre parlato nella storia, anche quando paiono in preda ad un grande silenzio.

Ciò non semplicemente perché il silenzio stesso è una modalità di espressione e comunicazione; ma per il fatto che in periodi storici di restaurazione politica e culturale la manipolazione dell'opinione pubblica tende a trasformare la massa in maggioranza vociante: incarnazione invertebrata dell'evacuazione della critica e della rimozione del conflitto. Le pratiche e le discipline dell'evacuazione, le procedure e i codici della rimozione del conflitto tendono ad occludere il passaggio che conduce da massa a movimento di liberazione. Ostruito questo passaggio in avanti, se ne apre uno all'indietro: la regressione della massa a maggioranza silenziosa vociante.

La funzione delle maggioranze silenziose è quella della rilegittimazione dei poteri in crisi di legittimità: le prime delegano ai secondi decisioni incontrollate e incontrollabili; questi ultimi, alle prime lo spazio/tempo comunicativo dell'aggressione simbolica e fisica all'alterità. La "massa silente in rivolta" è agli antipodi della maggioranza silenziosa senza che, per questo, essa possa linearmente accedere alla situazione di movimento di liberazione.

Un complicato e articolato circuito di rapporti, di rimandi e di contrasti disegna una doppia sequenzialità. Ad un polo, la progressione: massa verso movimento di liberazione; al polo opposto: massa verso maggioranza silenziosa. Se la massa è assorbita dalla maggioranza silenziosa o da sue modalità di aggregato equipollenti, i processi di rimozione del conflitto si chiudono regressivamente. Se, all'inverso, la massa accede alla condizione di movimento, i processi di espressione e comunicazione del conflitto possono costituire un'occasione di libertà e liberazione.

Tra le due polarità, però, si distende una "zona grigia": quella della resistenza passiva e appartata che, spesso, segna i comportamenti individuali e collettivi. Le categorie del ‘politico’ non valgono a gettare luce su queste fenomenologie complesse. Anzi, qui va delimitandosi un territorio ad esse interdetto; così come avevamo già avuto modo di registrare nei riguardi della multiversità delle regioni del senso e dell’indicibile. Osserva pertinentemente Maffesoli: "Esiste una passività che non si lascia integrare in nessuna classificazione o azione politica, ma che non per questo è meno sovversiva rispetto alle imposizioni dei poteri". Immediata è l’associazione formulabile con le formidabili riflessioni di Canetti su "massa e potere" e di Levinas sulla "passività", anche se Maffesoli si muove, chiaramente, in un diverso universo di discorso. Per Maffesoli, è l’impoliticità sovversiva della passività a rappresentare il dato rilevante. Per lui, la resistenza ha un’incidenza immediata nella definizione della categoria e della situazione della socialità: "Ci sembra che questa resistenza passiva, questo ventre molle del sociale, sia un elemento importante della socialità". Sicché, per altre vie, ritorniamo ad un punto cruciale su cui abbiamo lateralmente insistito in questo e nei capitoli precedenti: il paradigma della socialità non è esclusivamente definibile attraverso le categorie aristoteliche dello zoon politikon; né quelle della socievolezza politica dei Sofisti, di Socrate e Platone (fatte salve, ovviamente, le debite distinzioni).

Del resto, il tentativo di concettualizzare la socialità per via non politica non costituisce novità. Ricordiamo che il più rilevante e, per molti versi, grandioso approccio alla nozione di socialità e alla socievolezza, transitando per categorie non politiche, ma mitico-simbo-liche, religiose-immaginative e antropologico-culturali è stato coniugato dal grande G. B. Vico. Nel Novecento, approcci del genere alla questione si sono succeduti numerosi, fino ad arrivare, in casa nostra, a recenti riformulazioni.

Il consistente telaio di problemi e di autori che siamo venuti approssimativamente evocando rende immediatamente percepibile la rilevanza della costellazione di senso entro cui si va muovendo la categoria della "resistenza passiva". Essa, ci ricorda Maffesoli, ha una funzione simbolica attiva che, indirettamente, si riversa anche nello spazio del legame politico. Per intanto, si ribella ai codici della politicizzazione integrale; inoltre, esprime lo stato sorgivo di alcune problematiche profonde della vita e del tempo. Sulla scorta dell’analisi di Durkheim, Maffesoli collega la cogenza della solidarietà che si esprime nella "resistenza passiva" con l’attributo di rigidità che impregna ogni forma (micro o macro che sia) del legame sociale. La "resistenza passiva", cioè, fa massa intorno alle ragioni e agli interessi di so-lidarietà dei gruppi sociali ed etnici che l’esprimono. In questo senso, appare come una forma di legame sociale e, insieme, una modalità di espressione critica dell’esistenza della massa.

La massa, dunque, si configura come legame sociale in rivolta silenziosa, ma efficace; non viene, pertanto alla luce soltanto nell’ espressione di "maggioranza silenziosa". Tra la massa silenziosa in tivolta e la "maggioranza silenziosa" si istituisce, dunque, un discrimine preciso; così non emerge dalla riflessione di Maffesoli. Assunta questa chiave di lettura, è possibile identificare le forme di razionalità e intenzionalità del far massa da parte della resistenza passiva. Nello sviluppo del discorso, ritorniamo a far uso delle categorie di analisi di Maffesoli: "si può parlare di un "saper fare incorporato", di una quasi intenzionalità, di una salute sociale che individua molto beni il cammino da seguire". Un "saper fare" che diventa un "cammino", non certamente preordinato, ma pure votato a perseguire, tra molti zig zag e difficoltà, i propri obiettivi di socialità e di salvezza.

Il cammino della resitenza parte da un nucleo atomico: "lo spirito di corpo", la "solidarietà organica"; nucleo che, per Maffesoli, "costi-tuisce strictu sensu, la massa". È importante osservare che rinveniamo tali forme e tali modelli di comportamento sin dalle società primitive. Secondo quest’interpretazione, la massa è un gioco di relazioni e intrecci tra forze al fondo solidali che, però, possono anche collidere. Il nesso relazionale solidale/collisivo rappresenta una delle più consistenti forme di di resistenza. La resistenza qui si dirige sempre verso l’esterno; ed è sempre in nome di questa difesa dall’esterno (o, che è lo stesso: difesa dell’interno) che viene sospeso il conflitto interno. Ci si fa massa, insomma, contro qualcosa che si sente come irriducibilmente altero. Il gioco degli antagonimsi interni solidifica quasi un’inviolabile rete di protezione dall’esterno, dall’Altro, costituendo un blocco imperforabile e, al tempo stesso, una terribile "mac-china di guerra".

L’esito politico più rilevante di questa superfetazione della socialità è quella circostanza che vede il potere costretto a relativizzarsi, non potendo venire titanicamente e universisticamente a capo della solidarietà organica che cementa e rende indistruttibile la "resistenza passiva". La socialità della resistenza fa massa e limita il potere, di fronte al quale si pone come velo gelatinoso e inestirpabile. Siffatta socialità non sottostà alle regole dispotiche del "totalitarismo pacificatore" dei poteri che, conseguentemente, risultano sempre più temperati e limitati. E dunque: "la socialità svolge il suo ruolo di regolatore quasi incosciente".

Sia sul piano politico che su quello sociale, le identità vanno regolandosi e modellandosi su princípi di frammentazione e contraddizione. Il principio di frammentazione culturale funge come regolatore del legame sociale e della resistenza che contro di essa si dispiega. Queste realtà mito-poietiche sprigionano la loro azione dalle società primitive fino alle società dell’informazione e della comunicazione. Il che è indicativo non solo della persistenza della loro modalità, ma anche della profondità di ancoraggio della loro struttura motivazionale.

L’etica dell’azione di massa, dalle "società selvagge" alle "società complesse", tra l’altro, ha il compito di raccogliere e difendere un patrimonio simbolico-espressivo altrimenti disperso, oppure stritolato dalla morsa dei poteri. Essa, pertanto, riconduce entro le pieghe del legame sociale il gioco delle diferenze e delle contraddizioni, per non farli implodere del tutto. Ora, i movimenti collettivi degli anni ‘60 e ‘70 trovano le loro motivazioni originarie non soltanto nella causalità del presente storico, ma anche e soprattutto in questa struttura metamotivazionale arcana. Essi sono anche espressione di un forte ancoraggio alle strutture profonde del tempo e della sua successione.

Al di là dei loro evidenti limiti, che abbiamo cercato di individuare in tutto il corso dell’opera, i movimenti degli anni ‘60 e ‘70 hanno posto la questione dell’identità propria e altrui e quella della trasformazione delle strutture motivazionali del legame sociale, facendo venire alla luce una più perspicua critica ai poteri reticolari e approssimando elementi culturali e materiali per nuovi paradigmi di socialità e socievolezza. Attraverso la loro voce, la risposta al potere non si è foderata semplicemente di silenzio. Nella "presa di parola" la resistenza passiva contro il potere è esplosa, volgendosi in azione ribelle e felice. Se il silenzio della resistenza è patrimonio prezioso, ancora più inestimabile è quell’azione critica e desiderante che mette capo a più pregnanti codici comunicativi e linguaggi espressivi. La parola e il silenzio, la voce e il linguaggio, l’espressione e la comunicazione fanno qui un felice incrocio, arricchendo quanto mai le modalità della socialità e della socievolezza.

Non che il silenzio non sia (anche) un discorso; anzi, il discorso del silenzio è una delle principali forme espressive e comunicative. Ma, sul piano politico-sociale e simbolico-culturale, il silenzio rivela anche un’angustia di fondo. Funziona sempre come contraltare regolativo del potere e mai perviene alla soglia della critica compiuta, della decisione sul progetto e del desiderio. Sul piano politico-sociale e simbolico-culturale, il silenzio non può essere il decisore: decisione della critica e decisione del cambiamento sono in lui sospese e a lui precluse. All’opposto, il silenzio è il decisore sovrano sul terreno etico, dove regnano l’inesprimibile e l’indicibile. Questi piani fondanti e non cumulativi non possono essere confusi, né consegnati all’ oblio. In caso contrario, trasferiamo al silenzio tutte le "astuzie della ragione" di hegeliana memoria.

Nondimeno, esiste un’astuzia del silenzio. Come dice Maffesoli: "Nel dominio del transpolitico gli strumenti tradizionali del politico sono privi di efficacia, ed è questo che rende gli atteggiamenti silenziosi assolutamente corrosivi ... Nei paesi dove esiste un regime totalitario perfettamente organizzato, si è presa l’abitudine di giocare di astuzia e di tacere. La dissidenza non è solo estroversa, essa può essere benissimo anonima e interiore". Resta, però, da precisare che l’astuzia (politica) del silenzio è un’arma, per così dire, difensiva. Notazione, questa, che non vale come delegittimazione e sottovalutazione del silenzio; tutt’altro. Si vuole soltanto cercare di definirne più congruamente il campo d’azione e l’ambito di espressione. In altri termini: è importante e urgente individuarne i confini, per non correre il rischio di costruire sull’"astuzia del silenzio" teoriche universalistiche, in funzione di surroga del mutamento radicale dell’esistente.

Notevoli e ampi sono i precedenti teorici che, in epoca moderna, hanno attribuito un "valore strategico" al silenzio e a sue modalità espressive equipollenti. Il riferimento teorico più corposo è al paradigma barocco della "dissimulazione" che ha dominato il panorama politico-espressivo del Seicento europeo. Ancora, va osservato che che la libertà del "foro interiore" è una propaggine agostiniana nel corpo stesso del Leviatano di Hobbes e, più in generale, della trama concettuale e motivazionale del giusnaturalismo. Non possiamo, infine, dimenticare che il policentrismo medioevale e lo stesso diritto canonico prevedevano espressamente la legittimità del "diritto di resistenza" e la "resistenza armata" contro il tiranno. Su quest’ultimo punto, dobbiamo registrare l’onda lunga dell’influenza di quel pensiero antico che ha sempre teorizzato la legittimità della soppressione del tiranno. Regredendo ancora, qui siamo risospinti al "parricidio originario" su cui l’orda selvaggia ha costituito le prime forme di Stato. Come si vede il gioco dei richiami e vastissimo e solo un pensatore geniale come Vico è stato capace di tenere aperti sguardo e ascolto su questo "magma vulcanico" della temporalità e dell’esi-stenza.

Se il silenzio ha elaborato strategie astute contro i poteri, altrettanto, se non di più, hanno fatto i poteri contro il silenzio. Soprattutto nelle "società complesse", le strategie di sovversione silenziosa della vita interiore urtano contro la colonizzazione dei mondi vitali inverata dai codici capillari e complessificati dei poteri. Il silenzio privato e interiore è, nella contemporaneità, destrutturato, normalizzato e recuperato dalle strategie metacomunicative dei poteri. Alla luce di questa palmare evidenza, ancora più urgente diviene richiamarsi alla mappa delle diffferenze tra "maggioranza silenziosa" e massa silente in rivolta che abbiamo tentato di schizzare nelle pagine precedenti.

La massa è un attore fondamentale: sia che si esprima nelle forme superiori e ascendenti del movimento; sia che si esprima nelle forme inferiori e discendenti di "maggioranza silenziosa". Ciò a riprova che senza le masse, in un modo o nell'altro, diventa problematico parlare di produzione e assunzione di storia, politica e cultura. Il ruolo che ha la massa nella storia, come soggetto attivo e/o soggetto agito, è della massima importanza. Dall'ispezione intorno ai comportamenti, alle opzioni, agli stereotipi e agli archetipi culturali della massa possiamo risalire a ritroso fino alla comprensione analitica delle caratteristiche della relazione di potere e della comunicazione simbolica; e viceversa.

Il ruolo ambiguo o, se si vuole, a più facce della massa è stato, per solito, assai poco indagato. Poche le eccezioni; e Canetti in testa a tutti. Da qui un processo di trascinamento che ha fatto letteralmen-te rimuovere il tema dei movimenti dalla discussione politica e dalla elaborazione teorica. Anche qui poche le eccezioni: dalla riflessione isolata di F. Alberoni alla "sociologia dei nuovi movimenti".

La riflessione di Alberoni si segnala per essere un tentativo strutturale di analisi del ruolo dei movimenti nella storia dell'Occidente; mentre, invece, la "sociologia dei nuovi movimenti" si propone lo specifico obiettivo della disamina dell'azione collettiva nella situazione del capitalismo maturo. Per Alberoni: "La storia dell'occidente è generata, in ampia parte, da movimenti. Movimenti religiosi, politici, culturali di ogni dimensione". Il tratto peculiare profondo dei movimenti, continua Alberoni, risiede in "qualcosa che avviene nella mente dell'individuo. Un'esperienza, un modo di vedere il mondo e di rapportarsi agli altri che ho chiamato stato nascente". Si rivela, pertanto, particolarmente fruttuoso esaminare i fenomeni dell'azione e della mobilitazione collettiva nelle società complesse, per cogliere quali "prospettive sulla realtà" essi aprano; impegno che abbiamo cercato di mantenere fermo nello svolgimento progressivo dell’opera..

Interi filoni di filosofia politica e di scienza politica, non sempre attestati sulle barricate della conservazione ma, anzi, spesso su po-sizioni liberal-democratiche e liberal-socialiste, hanno espunto il te-ma dei movimenti dalla discussione sulla democrazia e sulla sua crisi, temendone la carica corrosiva e denunciandone il carattere ar-caico ed entropico. Questo sia sul "fronte interno" che nell'"ordine internazionale". Per tali approcci:

a) sul "fronte interno": i movimenti sarebbero fattori di instabilità e ingovernabilità e, dunque, di dilatazione della crisi della democrazia;

b) nell'"ordine internazionale": sarebbero fattore di insicurezza e vettore di guerra, turbando lo "scenario di pace" delle relazioni inter-nazionali.

La crisi dei movimenti ha dato una mano al consolidamento di queste teoriche. Risalire alla crisi dei movimenti nelle società com-plesse e dare ragione delle nuove forme della mobilitazione col-lettiva è, perciò, un presupposto per far irrompere il tema dei movi-menti nella discussione pubblica sulla democrazia e sul 'politico'. Tale azione di recupero tematico permette di problematizzare con maggiore densità il discorso sulla democrazia, sul conflitto e sulla pace. Al tempo stesso, consente di affrontare il nodo duro su cui si incardinano e proliferano i fattori di guerra nel presente storico.